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Raccontare per socializzare, per superare le proprie paure e difficoltà, raccontare per restituire al passato la sua voce, oltrepassando il silenzio che impone lo scorrere del tempo

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Academic year: 2021

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Introduzione

La realizzazione di questo elaborato prende spunto da un ricordo liceale:

una ricerca assegnataci dalla cara prof.ssa Lucia La Candia; in gruppo bisognava realizzare un piccolo articolo che metteva in luce l'esistenza delle tante versioni della fiaba di Cenerentola.

Fu quella la prima volta che scoprii che in realtà la Cenerentola che io conoscevo, la versione Disney, non era l'unica, ma di Cenerentola ne esistevano tante, si potrebbe dire che ne esiste non solo una per ogni nazione, ma una per ogni città, per ogni paese. Incuriosita da quel ricordo ho deciso di approfondire questo argomento e renderlo parte integrante della mia tesi di laurea.

Prima di parlare delle diverse versioni della fiaba e di analizzarne i vari aspetti (Parte III e IV), ho deciso di dedicare una parte della ricerca, la seconda, all'evoluzione del genere fiabesco nel tempo e nello spazio; ad aspetti tecnici, riguardanti il mondo delle fiabe in generale, in cui un posto importante è occupato dagli studi di Vladimir Propp; al lavoro compiuto da Calvino in Italia.

Durante le mie ricerche, inoltre, mi sono resa conto che prima di tutto bisognava fare ancora un passo indietro e partire da quelle che potrebbero essere definite “origini” (Parte I), ossia dal bisogno esistenziale, insito nell'essere umano di raccontare, tramandare storie vere o inventate che siano.

Raccontare per socializzare, per superare le proprie paure e difficoltà, raccontare per restituire al passato la sua voce, oltrepassando il silenzio che impone lo scorrere del tempo. Raccontare per vincere la caducità della morte ed entrare a far parte dell'eternità anche solo attraverso la semplice conoscenza e trasmissione di una storia che ha viaggiato e viaggerà di bocca in bocca, di memoria in memoria, finché l'uomo ne sentirà il bisogno.

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PARTE I

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Capitolo 1: Narrazione e fiaba

1.1 La narrazione come fondazione di una dimensione comunitaria

Parlare di narrazione ci riporta immediatamente all'attività del raccontare e ad una figura, quella del narratore, il quale con abilità espone una storia in presenza di uno o più ascoltatori. Strumento fondamentale del narratore è senz'altro la parola; ma ancor prima della parola, del λόγος, come ci ricorda Corrado Bologna in Flatus Vocis, c'è la voce, la φωνή, che viene prima del linguaggio ed è la manifestazione della “spinta confusa al voler-dire, all'esprimere, cioè all'esistere”1

È proprio questa spinta, questa necessità, che porta a pensare al grande bisogno che l'uomo ha di raccontare, un bisogno inesauribile ed ancestrale che scaturisce probabilmente dal desiderio di comunicare, di entrare in relazione con l'altro. A tale proposito mi sembra interessante ricordare ciò che Rousseau nel Saggio sull'origine delle lingue scriveva in merito al linguaggio e cioè che questo si sarebbe originato dalle passioni degli uomini:

“Non sono state né la fame né la sete bensì l'amore, l'odio, la pietà, la collera a strappar loro i primi suoni [...] per commuovere un giovane cuore, per respingere un aggressore ingiusto la natura detta accenti, grida, gemiti - sono queste appunto le più antiche tra le parole inventate ed è per questo che le prime lingue furono cantanti e appassionate prima d'essere semplici e metodiche”2.

La voce si configura come pulsione interiore che precede la coscienza, comunicare significa mettere in relazione l'interiorità di chi parla con quella di chi ascolta, ci si rivolge all'altro con un linguaggio condiviso

1 CORRADO BOLOGNA, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 23.

2 JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Saggio sull'origine delle lingue, 1781, a cura di G. Gentile,

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che è alla base di una comunità.

Il narratore, in effetti, non è nient'altro che una voce dalla quale dovrebbero scaturire migliaia di suggestioni per chi ascolta, perché narrare significa in qualche modo evocare un mondo, immaginario, quotidiano, divino, ma pur sempre un mondo che si distacca dalla realtà, un altrove che però deve essere radicato nel presente per essere efficace, per risuonare pregno di senso nelle orecchie dell'ascoltatore.

L'udito, a differenza della vista, coglie innumerevoli eventi che non si possono vedere e provoca un senso di pienezza, ci sentiamo parte del suono che tutto ingloba e quindi ci sentiamo parte di un tutto, del mondo, delle cose, di chi è intorno a noi. È così che prende forma una comunità che è prima di tutto una comunità di ascoltatori che, proprio grazie all'ascolto, scopre di essere accomunata da una tradizione ben precisa e, una volta consapevole di questo, vuole che di continuo venga confermata questa identità attraverso le parole del narratore-esecutore che non è altro che il depositario di un segreto da svelare perché vuole essere ascoltato.

La narrazione orale è senz'altro la più antica forma di comunicazione e di trasmissione del sapere e va accompagnata sempre al gesto, che "scrive"

il racconto nello spazio donandogli nuova vita nel passaggio dalla memoria alla fruizione. Ed è ancora Rousseau a ricordarci che “ciò che di più vivo dicevano, gli antichi non lo esprimevano in parole ma in segni: non lo dicevano, lo mostravano [...] Ma il linguaggio più energico è quello in cui il segno ha detto tutto prima che si parli”3.

È questo in sostanza il ruolo del narratore, cioè quello di evocare un mondo invisibile e renderlo visibile a chi ascolta anche attraverso l'ausilio del gesto, che diventa supporto per la memoria, e la voce che, riempiendosi di significato, diventa parola narrata e trasmessa sotto forma di esperienza.

Per questo motivo la parola acquisisce un ruolo fondamentale nelle varie culture in quanto fonte di conoscenza, di saggezza, di mediazione con la

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divinità e quindi diventa elemento fondativo di una comunità; tant'è che gli spazi dell'oralità sono in genere spazi pubblici in cui si possa condividere ciò che viene narrato e sentirsi così accomunati da una

stessa identità culturale.

La parola è anche “desiderio di dire e di dirsi”4, cioè comunicare, ma anche costringere in qualche modo l'interlocutore a sapere ciò che vogliamo si sappia di noi. Raccontare è un'esigenza di affermazione di sé, la stessa esigenza che una comunità sente necessaria nel momento dell'ascolto. Livio Sbardella nell'ambito di uno studio dedicato all'oralità, cita un inno vedico dedicato a Vac, la Parola sacra, per dimostrare non solo il legame tra poesia orale e azione rituale, ma anche il potere che una tradizione orale attribuisce alla parola.

“Io (la Parola) sono la Regina che governa, colei che accumula tesori, / piena di saggezza, la prima di coloro che sono degni di adorazione. / In diversi luoghi le energie divine mi hanno posta. / Io entro in molte case e assumo numerose forme. / L'uomo che vede, che respira, che sente parole pronunciate, / ottiene il proprio nutrimento solo attraverso me. / Pur non riconoscendomi egli dimora in me. / Ascolta, tu che conosci!

Ciò che io dico è degno di fede. / Proprio io annuncio e pronuncio le notizie / che gli Dei e gli uomini amano ugualmente udire. / L'uomo che amo faccio crescere in forza. / Io ne faccio un sacerdote, un saggio oppure un colto veggente [...]/ Alla sommità del mondo io genero il Padre”5.

(Rg-veda X, 125)

In questo caso la Parola, venerata come una divinità, mette in collegamento il piano umano e quello divino dimostrando come originariamente la parola detta e ascoltata “non viene concepita come prodotto della mente umana, ma come forza universale esterna all'uomo dalla cui percezione immediata, momentanea e transeunte l'uomo si sente posto al centro di un cosmo, avverte la centralità della sua presenza nel mondo e, nello stesso tempo, instaura un potente e concreto contatto con tutto ciò che nel suo mondo è ed è stato”.6

4 PAUL ZUMTHOR, Prefazione a Corrado Bologna, Flatus Vocis, cit., p. VIII

5 LIVIO SBARDELLA, Oralità. Da Omero ai mass media, Roma Carocci, 2006, pp. 12-14.

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Nel rito, dunque, la parola, insieme al gesto, mette in comunicazione l'uomo e il dio, mentre nel mito e nel racconto riproduce le gesta degli eroi e fa rivivere gli antenati. Sbardella, citando Zumthor, scrive che la poesia orale sarebbe nata dai riti arcaici e in seguito sarebbe evasa da essi, come accaduto alle origini della civiltà greca. Quest'ultima, al contrario della civiltà vedica, si configurò come più laica e non produsse mai testi di cultura religiosa fondante per la propria identità comune, la quale era stabilita piuttosto da una poesia epica di argomento eroico, genealogico, cosmologico e teogonico. E non è un caso che l'idioma sanscrito vac e quello greco ἕπος derivino da una comune radice indoeuropea (wek, da cui anche il latino vox). E ancora più interessante è notare la vicinanza tra le due culture rispetto alla comunicazione orale pura nella definizione della poesia epica greca di argomento eroico: κλέα ανδρών, cioè "gesta (dette e ascoltate) dagli eroi". Κλέα è il plurale del sostantivo neutro κλέος, vuol dire "fama, gloria, fatto glorioso" e deriva dalla stessa radice del verbo κλύω, "ascoltare"; questo per dire che così come i testi vedici, anche la poesia greca è intimamente connessa all'esperienza dell'ascolto. Inoltre in entrambe le culture la parola, sia poetica che retorica, proviene all'uomo dall'esterno ed ha una forza comunicativa e aggregante. Essa è originata dalla Moῦσα, cioè "colei che è ricca di mente, di memoria", che è poi anche una facoltà psichica dell'uomo.

Sbardella conclude parafrasando l'antropologo statunitense Walter Ong:

Nelle culture orali la parola è un modo dell'azione, la parola fa essere: è tutt'uno con le cose che definisce attraverso nomi e nessi, e non è scindibile dall'idea che veicola o dall'evento che evoca attraverso la sua più ampia articolazione in discorso o racconto.

Per cui per i greci la parola, soprattutto la parola poetica, faceva esistere il mito, non lo narrava semplicemente; e questa non poteva essere sentita come una capacità umana7.

E a proposito di forza aggregante della parola, sempre Ong scrive:

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A differenza della vista, che seziona, l'udito è un senso che unifica [...]. In una cultura orale primaria, dove si ha parola soltanto sotto forma di suono, senza cioè alcun riferimento a testi visivamente percettibili e senza alcuna consapevolezza della loro esistenza, la fenomenologia del suono entra in profondità nel senso che l'individuo ha della vita. L'esperienza della parola è infatti sempre molto importante nella vita psichica, e l'azione centralizzante del suono (l'ambito del suono non è davanti a me, ma tutto intorno a me) influenza il senso che l'uomo ha del cosmo. Per le culture orali il cosmo è un fenomeno continuo, con al suo centro l'uomo che è l'umbilicus mundi, l'ombelico del mondo.8

L'autore si riferisce a quella che nei suoi saggi ha definito “oralità primaria”, cioè una forma di cultura che non è ancora entrata in contatto con la scrittura, che si avvale del suono della voce come forma privilegiata della comunicazione e si distingue per questo da una cultura chirografica e tipografica. Ed è chiaro che una fase di oralità primaria possa influenzare anche un'intera cultura, Sbardella, infatti, riporta l'esempio del pensiero teologico cristiano che deriva direttamente da quello ebraico veterotestamentario, il cui testo sacro, l'Antico Testamento, affonda le radici in una fase di tradizione orale di cui conserva tracce molto evidenti.

Ong individua alcune caratteristiche peculiari di questa cultura, prima tra tutte è la temporalità della parola. La parola scritta, infatti, è immobile, imprigionata nella pagina e sempre uguale a se stessa, invece la parola detta è effimera, è un suono che svanisce nel momento stesso in cui è stato emesso, per cui ha bisogno sempre della presenza fisica di un interlocutore. La parola, così facendo, acquista materialità al contrario di quanto si possa pensare. Questo permette di cogliere tutto il potere magico contenuto in quell'effimera e irriproducibile emissione, che nelle culture orali è parola-evento, la quale esiste solo in un preciso momento temporale, che non è mai casuale, ed è sempre legata ad un particolare

8 WALTER J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, 1982, trad. it. A. Calanchi,

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avvenimento significativo come il rito, la cerimonia, la celebrazione o l'incontro comunitario. Sono tutte situazioni di gruppo in cui la comunità s'incontra e condivide insieme agli altri la performance di chi si esibisce servendosi della voce. Una comunità che senza la presenza del narratore sarebbe solamente un insieme di uomini che condividono lo stesso spazio: colui che racconta definisce l'identità di chi ascolta e pretende, in qualche modo, di riconoscersi in quelle parole, di avere conferma delle proprie origini, della propria storia, della propria cultura, la quale si è formata proprio grazie alla tradizione orale.

Il pubblico esercita un grande controllo sull'esecutore in merito ai contenuti e alle forme del messaggio. Sulla base della tradizione esso sviluppa delle attese che desidera vedere soddisfatte, così il narratore, il cui testo non è mai preesistente, a seconda degli stimoli che riceve apporta delle varianti che, se riguardano il significato, possono essere involontarie, ma se riguardano il contenuto dipendono di certo dall'esigenza di adattarsi alle aspettative del pubblico in determinate occasioni. L'invenzione non è contemplata sia perché l'esecutore, a livello formale e contenutistico, ha bisogno di punti fermi, sia perché il pubblico, come si diceva, vuole che si risponda ai propri desideri. Come dicevamo, quindi, una comunità, grazie alla trasmissione orale, fonda la propria identità, ma vuole anche sentirla confermata, per questo non accetta invenzioni che si distacchino dalla tradizione. È la memoria, fattore fondante di ogni cultura orale, a regolare e garantire l'equilibrio tra esigenze della composizione e aspettative del pubblico.

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1.2 Fiabe: storie dell'umanità

Abbiamo parlato di narrazione nelle culture orali, ma quante forme di narrazione conosciamo? Jack Goody, antropologo britannico, in Dall'oralità alla scrittura ne esamina cinque: l'epica, il mito, la leggenda, la fiaba e le narrazioni biografiche, ma riconosce che solamente la fiaba sembra universalmente diffusa in tutte le culture orali, almeno del Vecchio Mondo. E questo non può che ricordarci l'affermazione del filosofo e critico letterario tedesco Walter Benjamin secondo il quale “il primo e vero narratore è e rimane quello delle fiabe”9.

Egli inoltre definisce la favola come prima consigliera dei bambini perché come insegnò un tempo all'umanità ad affrontare le potenze del mondo mitico con astuzia e impertinenza liberandola dall'incubo del mito, così oggi lo fa con i bambini diventando per loro metafora di crescita. Questo è senz'altro uno dei motivi principali per cui raccontare fiabe ai bambini, aldilà della piacevole fruizione che è sempre alla base di ogni racconto e che non chiede affatto di essere subordinata ad una morale o ad un insegnamento, pena la perdita dell'incanto che è la molla che fa scattare una più profonda, intima e inconscia comprensione di una storia.

La fiaba è un insieme di stratificazioni narrative che provengono da diverse culture e tradizioni, che nel tempo hanno subito modifiche soprattutto perché, con il mutare delle condizioni storiche, cambia anche la percezione, ragion per cui alcuni elementi hanno perso di senso. Le fiabe infatti, come tutti i racconti orali, sono radicate nella storia di una società. L'antropologo russo Vladimir Propp a tal proposito, ne Le radici storiche dei racconti di fate, ricorda lo stretto legame del racconto con la realtà storica. Da tale legame dipenderebbe il fatto che all'interno dei racconti di fate, nei temi e negli intrecci, si trovano spesso riti e usanze

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del passato.

Il legame con la storia è fondamentale perché l'ascoltatore si riconosce nel racconto e può utilizzarlo come strumento di comprensione di se stesso e del mondo che lo circonda.

Gli studiosi della fiaba sottolineano l'importanza del racconto come possibilità di crescita attraverso la presa di coscienza dei propri problemi, ma anche della possibilità di poterli risolvere proprio come gli eroi di una fiaba attraverso la costanza e il coraggio.

È interessante capire in che modo dei racconti fantastici, collocati in luoghi lontani e indefiniti, abitati da personaggi incantati e riferiti ad un passato non ben identificato, possano essere così in relazione con il presente (altrimenti sarebbero assolutamente inefficaci!) e soprattutto utili, ieri come oggi, alla costruzione dell'identità di una comunità (nel caso delle culture orali ) e alla crescita interiore.

Ne La logica della fiaba10 Michele Rak ritiene che nel racconto fiabesco

― inteso come opera letteraria della modernità che ha come modello narrativo l'opera seicentesca di Giambattista Basile Lo cunto de li cunti

― la scelta di non far riferimento a eventi, persone e luoghi noti agli ascoltatori e in cui essi possano riconoscersi, dipenda non solo dalla differenza funzionale che passa tra un racconto fiabesco e l'attendibilità di una notizia o la realtà di una novella o ancora la finzione di un romanzo, ma soprattutto dal fatto che, in questo modo, il narratore può raccontare la storia facendola propria e concentrandosi sui particolari che più gli stanno a cuore. Il racconto fiabesco insomma “consente il massimo di partecipazione e il massimo del distacco”11 perché ciò che conta non è la storia in sé, ma ciò che in essa sentiamo importante per noi in quanto narratori o ascoltatori, il messaggio che inconsciamente captiamo e smuove qualcosa dentro di noi. È anche in questo senso che i racconti fiabeschi vengono definiti "racconti dell'orco", cioè, appunto,

10 MICHELE RAK, La logica della fiaba. Fate, orchi, gioco, corte, fortuna, viaggio, capriccio, metamorfosi, corpo. Mondadori, Milano, 2005.

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storie dell'altro mondo.

La partecipazione del narratore è fondamentale, egli dovrebbe farsi coinvolgere emotivamente per comunicare al meglio messaggi e significati e reagire alle reazioni dell'ascoltatore. È per questo che può arricchire la fiaba con altri elementi. Non è da sottovalutare il suo ruolo, che non è affatto quello di un contenitore di storie ripetute grazie al supporto mnemonico. Si evidenzia, piuttosto, la possibilità di tramandare storie lasciando intatti il fatto e la struttura narrativa; non c'è una memoria letterale, le parole variano sempre. Il narratore, solo se racconta in modo sentito, può aspettarsi che il suo interlocutore arrivi ad una comprensione profonda, sebbene in maniera inconscia, della storia e cioè, del fatto che la vita è fatta di dure prove, ma anche di bellissime avventure e che, il bene e il male sono le due facce di una stessa medaglia e bisogna solamente trovare il modo di affrontare la vita con gli strumenti giusti.

L'ascoltatore può riconoscersi e mutare dall'interno insieme all'eroe del racconto. Il cambiamento è reso possibile attraverso tre pratiche: il viaggio che porta ad un mutamento dello status sociale, la metamorfosi del corpo e la magia grazie ai suoi eventi ed utensili.

Possiamo dire che la fiaba è una sorta di percorso di formazione che stimola fortemente l'immaginazione e, in genere, la sua struttura ricalca il processo evolutivo dell'individuo. Basta pensare al fatto che in genere essa prende avvio da una precisa condizione: l'allontanamento dalla casa paterna. Un allontanamento che scaturisce perlopiù da una curiosità verso il mondo esterno, dal desiderio di distaccarsi per potersi emancipare, ma anche dal semplice gusto di disobbedire ad un ordine ricevuto.

Come detto in precedenza fiabe e storie popolari contengono l'intera esperienza di una società e hanno bisogno, per questo, di essere trasmesse di generazione in generazione, con le necessarie modifiche dettate dal mutare dei tempi. La forma della fiaba risulta più accessibile al pubblico, non solo in quanto semplice e diretta, infatti, mentre il mito ci presenta un

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eroe sovrumano, al quale accadono situazioni che per nessun' altra persona e in nessun altro ambiente si sarebbero potute verificare, un eroe nel quale pur sforzandoci non riusciamo mai davvero ad identificarci sentendoci sempre inferiori, nella fiaba i conflitti interiori che vengono simbolicamente espressi possono essere risolti senza particolari modi di agire. L'ascoltatore non si sente incapace di far fronte a determinate situazioni perché queste, pur inserite in un contesto fantastico, sono sempre presentate come ordinarie, come se potessero accadere da un momento all'altro a chiunque. Non è certo da sottovalutare il fatto che nella fiaba ci troviamo di fronte a personaggi che dovranno morire come tutti noi, a differenza dell'eroe mitico, e che i problemi vengono risolti senza ricompense ultraterrene, ma basandosi sulle proprie forze. I personaggi, poi, sono assolutamente comuni, e non eroi particolari come Teseo o Ercole tanto per citarne alcuni. Ciò è dimostrato dal fatto che, se compaiono nomi, non sono nomi propri, ma generici o descrittivi di una caratteristica di chi li porta (per esempio Cenerentola o Cappuccetto rosso) e poi, a parte i personaggi principali, nessun altro ha un nome:

sono padri, madri, matrigne, re, regine, poveri pescatori e così via.

La fiaba, a differenza del pessimismo che caratterizza il mito, promette un lieto fine. Essa rappresenta in qualche modo una speranza per il futuro, ha una funzione consolatoria, tanto che Lewis Carroll la chiamò

“dono d'amore”.

E' possibile mettere in evidenza la capacità di questa forma narrativa di rappresentare l'umanità a livello universale, in modo che ognuno, con la propria indole, la propria vocazione, possa riscoprirsi personaggio di una fiaba e, identificatosi in essa, trovare soluzione ai problemi o costruire la propria identità in base ai modelli che gli vengono presentati. Da qui la coesistenza al suo interno― senza giudizi di valore se non quelli che scaturiscono dall'esito stesso della storia ― del bene e del male. E a tal proposito, scrive Bruno Bettelheim, la fiaba “lascia a noi ogni decisione, e ci permette anche di non prenderne nessuna. Sta a noi applicare la fiaba alla nostra vita o

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semplicemente godere delle cose fantastiche che ci racconta. Il nostro diletto è ciò che ci induce a cogliere a tempo debito i significati nascosti, che possono riferirsi alla nostra esperienza di vita e al nostro presente stadio di sviluppo personale.”12

La fiaba ha svolto nelle culture orali e ancora svolge attualmente con i bambini un ruolo fondamentale per la crescita interiore, fornendo gli strumenti simbolici per la risoluzione dei problemi che più stanno a cuore all'individuo. Tutti gli uomini, di qualsiasi età e in tutte le culture, sono, in modo più o meno conscio, assillati da una domanda: qual è il significato profondo della mia vita? La fiaba, in quanto rappresentazione simbolica degli stadi evolutivi dell'interiorità dell'uomo, prova a rispondere, da sempre, a questo quesito, cercando di costruire l'identità di chi con essa si confronta. Direi che è questo il motivo per cui in genere ci troviamo, come scrive Italo Calvino nell'Introduzione al suo studio Sulla fiaba, di fronte a “schemi narrativi spesso identici in paesi molto lontani tra loro”.13

12 BRUNO BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe,1977, trad. it. A. D'Anna, Milano,Feltrinelli, 1988, p. 45.

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PARTE II

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Capitolo 2: Sulle tracce della fiaba

Quando e dove sono nate le fiabe? Il folklorista statunitense Stith Thompson afferma:

“Non sapremo mai quali storie si raccontassero attorno ai fuochi di bivacco gli assedianti di Troia o tra i marinai che portavano la regina di Saba alla corte di Salomone. Gli schiavi che costruiscono le piramidi sottrassero certamente un po' di tempo alla loro fatica per ascoltare racconti, e non vi è dubbio che i preti e i sapienti dell'epoca intrattenessero i nobili e i re con la narrazione di avventure reali o immaginarie [… ] Ma quasi tutta la testimonianza diretta su questa attività è svanita nel corso dei secoli”14

Nonostante questa certezza, si cercherà di tracciare un percorso che segnali le testimonianze di questo genere nel corso dello spazio e del tempo.

2.1 Il punto di vista geografico...

Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento il pensiero positivista domina la scena culturale europea. Studi comparativi, sociologia, e evoluzionismo vengono applicati in svariati campi dell'esistenza. Le fiabe non sfuggono a questa tendenza. Come gli animali e le società, anche i racconti popolari hanno risentito di una loro evoluzione, che li ha portati a essere presenti in svariate parti del pianeta e a differenziarsi a seconda delle società in cui via via attecchivano. In base a quanto detto, dovrebbe essere possibile liberare le diverse versioni di un racconto e ricondursi alla versione originale. Risultato di questa tesi è l'opera del finlandese Antti Aarne, pubblicata nel 1910, riedita e ampliata da Stith Thompson

14 STITH THOMPSON, The Folktale, New York, Dryden Press, 1946; trad. it. Q. Maffi La fiaba

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con il titolo The types of the Folktale. Si trattava di un enorme indice delle fiabe classificate secondo parametri quali la tipologia, il numero, la funzione dei personaggi, i doni magici, i luoghi, etc... Fu il primo tentativo di categorizzazione di generi per le fiabe: fiabe di magia, fiabe con animali, novelle, leggende. Si cercò anche di fornire un quadro geografico della distribuzione dei vari tipi alla ricerca delle zone originarie di ognuno di loro.

Ne La fiaba nella tradizione popolare, Thompson traccia il quadro delle fiabe popolari nella loro ubiquità e nella loro evoluzione, individuando i lineamenti principali degli studi folkloristici. Egli cerca di dare una definizione al termine stesso di “fiaba popolare” e indica il termine tedesco Märchen come il più adatto, in quanto include “una fiaba di una certa lunghezza, con una successione di motivi o di episodi, che si muove in un mondo irreale, senza una precisa definizione di luoghi o di personaggi, ed è piena di cose meravigliose”15. Gli altri termini sono, secondo il critico, incompleti e insufficienti: l'inglese fairy tale implica la presenza delle fate, che non sempre c'è; il conte populaire francese potrebbe riferirsi a qualsiasi tipo di racconto, l'italiano novella, implica un'azione svolta nel mondo reale.

Sotto il profilo geografico Thompson individua una zona compresa fra l'India e l'Irlanda, suddivisa in dodici regioni in cui compaiono fiabe dello stesso tipo. “In genere” afferma l'autore “le storie caratteristiche di quest'area europea e asiatico-occidentale scompaiono nella Siberia centrale e non son più reperibili a oriente dell'India. Quelle che si possono trovare nella Cina, nel Giappone o anche nei paesi della Malesia sono quasi sempre di evidente importazione dall'India”.

Le dodici regioni individuate dallo studioso americano sono:

India : regione immensa con alle spalle una tradizione letteraria e religiosa quasi immutata da millenni; molti, affascinati dalla presenza di essa nella tradizione novelliera, l'hanno indicata come la “culla delle fiabe” , anche se non ci sono prove che lo dimostrano. Indubbiamente,

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però, dall'India sono passati, si sono codificati, si sono affermati i principali tipi fiabeschi del mondo occidentale. Attraverso le peregrinazioni buddhiste, i contatti con Ebrei e Musulmani, le fiabe indiane si sono diffuse in tutto il mondo.

Paesi musulmani : in questi luoghi grande importanza riveste il

“favoleggiatore di mestiere” ; testimonianza letteraria principale è il capolavoro de Le mille e una notte.

Ebrei : svolsero un ruolo importante nella trasmissione delle fiabe tra l'Asia e l'Europa.

Paesi slavi: si registrano numerose somiglianze con i tipi dell'area occidentale, un sottoinsieme a sé stante è formato dalle fiabe russe con caratteristiche proprie.

Regioni baltiche: evidente in questi luoghi è l'interesse per il genere fiabesco, a testimonianze di ciò esistono numerose e accurate raccolte popolari, in particolare in Finlandia.

Scandinavia: Svedesi, Norvegesi e Danesi, accomunati da lingua, sfondo religioso pagano, credenze e costumi, hanno portato i loro racconti fino in Islanda.

Germania: l'opera dei Grimm ha fatto pensare erroneamente alla zona tedesca come la terra originaria dei racconti fiabeschi. La regione, anche per la sua posizione geografica, è indubbiamente un nodo di scambio tra le diverse aree, un luogo in cui i racconti hanno subito modificazioni, rielaborazioni e sono stati trasportati nell'ambito letterario.

Francia: in questo territorio i racconti provenienti da altri luoghi sono stati rielaborati e adattati alla propria cultura; i racconti francesi si sono diffusi anche nel Nord America, in particolar modo nella zona del Missuri e della Louisiana.

Penisola iberica: i racconti spagnoli e portoghesi provengono dai contatti di queste terre con il mondo arabo, rielaborati a causa della forte influenza cattolica che li ha trasformati e rivestiti della sua impronta e in questa forma, rimaneggiata, sono stati esportati in America Latina.

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Italia: qui apparvero le prime raccolte di fiabe popolari europee grazie alle opere di Straparola e Basile, che fornirono le prime testimonianze letterarie dei più famosi e diffusi racconti.

Inghilterra: il territorio inglese non ha una grande tradizione di fiabe popolari, perché genere preferito è stata la ballata. Gli inglesi però hanno il merito di aver esportato i racconti in Nord America, favorendo il contatto e la contaminazione dei testi con le tradizioni dei nativi americani.

Scozia e Irlanda celtiche: ai margini dell'area geografica identificata da Thompson c'è il ricco sostrato della cultura celtica, che annovera migliaia di racconti.

Tra le dodici aree evidenziate ci sono stati, nel corso del tempo, continui scambi di racconti che sono stati via via modificati, ampliati e rielaborati in modo da creare un'unità sostanziale che giustifica la presenza di una stessa storia in varie parti del mondo, apparentemente mai venute in contatto fra di loro.

2.2… il punto di vista storico

Gli Egiziani

Tra i primi esempi di fiaba ci sono alcuni racconti provenienti dall'antico Egitto come quello de “Il principe predestinato” compreso nel papiro Harris n 500 del Brithish Museum, risalente alla XX dinastia (sec. XII a.C.). Un re ha finalmente un figlio maschio, ma le sette Hathor ( le divinità del destino) ne predicono la morte violenta per il morso di un serpente o di un coccodrillo o di un cane; il bambino viene fatto crescere in isolamento per evitare che si avveri la profezia, ma malgrado tutte le precauzioni il giovane verrà in contato con gli animali che devono essere causa dalle sua morte.

Il racconto richiama il tipo ATU 41016 “ La bella addormentata”: anche

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qui si assiste alla fissazione dei destini della neonata principessa, con la maledizione di una delle fate la quale annuncia che la fanciulla morirà pungendosi con uno spillo o un fuso; simile è il vano tentativo di sfuggire al destino facendo crescere la bambina in modo che non possa entrare in contatto con l'oggetto pericoloso.

Altri racconti di origine egiziana ci sono pervenuti attraverso testi di autori dell'antichità classica: la storia di Rampsinito, la storia di Rodopi, quella di Eucrate.

I Greci e i Romani

Erodoto (V secolo a.C.) nel secondo libro delle Storie, narra la storia del faraone Rampsinito. Il racconto, come detto, è di origine egiziana, e il faraone immaginario ha un nome che nella prima potrebbe rinviare a Ramses, nome di vari sovrani egiziani.

Il faraone, ricchissimo, si fa costruire una stanza adiacente al palazzo reale come deposito per il suo tesoro, ma l'architetto colloca abilmente una pietra del muro esterno in modo che si possa agevolmente spostarla per entrare. I due figli dell'architetto rubano ripetutamente, finché il faraone fa collocare delle trappole e uno dei due viene catturato; a questo punto egli stesso suggerisce al fratello di tagliargli la testa, in modo da non poter essere identificato, e il fratello possa così evitare di essere riconosciuto come complice.

Per far luce sul mistero il re fa esporre il cadavere decapitato, ordinando alle guardie di arrestare chiunque venga visto piangere; fallito questo tentativo, mette la figlia in un postribolo perché, ricevendo gli uomini, si faccia raccontare le loro azioni, le più astute e le più empie, e riuscire così a individuare il colpevole. Anche questa volta il ladro sfugge al tranello, alla fine il faraone, ammirando la sua intelligenza, non solo non

Fu il primo tentativo di categorizzazione di generi per le fiabe: fiabe di magia, fiabe con animali, novelle, leggende. Pubblicato per la prima volta nel 1910. Ampliato in seguito da Thompson, fu pubblicata una versione estesa nel 1961; ulteriori arricchimenti si devono a Hans-Jorg Uther che

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lo punisce, ma gli dà in moglie la figlia.

A distanza di sei secoli ritroviamo lo stesso racconto, narrato, in parte, da Pausania ( II secolo d. C.), con la differenza che questa volta i protagonisti sono i mitici architetti Trofonio e Agamede, ma gli ingredienti sono gli stessi: il tesoro, la pietra che si può spostare, il furto, il taglio della testa.

Si tratta del tipo ATU 950, «Rampsinito», che ha avuto larghissima diffusione e una lunga vita sia nella tradizione letteraria, sia in quella orale. E' possibile ricordare le avventure dei due ladri Crich e Croch narrate in una fiaba raccolta nel 1869 da Giuseppe Ferraro e pubblicata da Domenico Comparetti. Anche nel caso della fiaba piemontese i due ladri compiono un furto impossibile , eludendo la stretta sorveglianza delle guardie. Il re prepara una trappola (una caldaia di olio bollente) , uno dei ladri ci cade dentro e l'altro gli taglia la testa. Per scoprire l'identità del ladro si porta il cadavere in città, nella speranza che qualcuno pianga e così facendo si tradisca; inutile anche il tentativo messo in opera facendo agire la figlia del re. Alla fine il re non solo perdona il ladro, ma gli dà in sposa la figlia.

Strabone (fine I secolo a. C.) tramanda la storia della cortigiana Rodopi:

mentre sta facendo il bagno, un'aquila le sottrae un sandalo che trasporta a Menfi e lascia cadere sulle ginocchia del faraone; questi decide che sposerà la proprietaria di quell'oggetto. Viene effettuata la ricerca e Rodopi diventerà moglie del faraone.

E' la prima testimonianza del motivo tipico della fiaba di Cenerentola, ATU 510A.

In un dialogo di Luciano di Samosata (II secolo d.C.), Philopseudes, (« Il bugiardo», o « L'amante della menzogna») appare per la prima volta la storia dell'apprendista stregone che, tentando di imitare il maestro, si caccia nei guai perché è in grado sì di dare via all'operazione magica, ma non sa poi come arrestarla. Il racconto appartiene al tipo ATU 325*, « L'apprendista stregone ».

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Tichiade e Filocle discutono sul fatto che esistono persone che amano dire e ascoltare cose manifestatamente false. Tichiade fa il nome di Eucrate, come ad esempio di uno che, malgrado la sua barba da sessantenne, incredibilmente crede e racconta assurdità, e riferisce quanto ha sentito dire in casa di costui: alcune persone riunite parlavano di spiriti, di statue che si muovono e di fronte allo scetticismo di Tichiade, Eucrate aveva raccontato una sua personale esperienza giovanile, a riprova che tutto ciò di cui stavano parlando era vero.

Eucrate aveva raccontato di quando aveva voluto imitare il grande mago egiziano Pancrate, animando un pestello e ordinandogli di andare a prendere l'acqua. Solo che quando aveva voluto farlo smettere si era reso conto di non conoscere la formula adatta; aveva tentato di distruggerlo, con il risultato che ogni frammento si era messo a sua volta ad attingere acqua, finché non era arrivato il maestro, che aveva riportato tutto alla normalità.

Nelle Metamorfosi di Apuleio (II sec. d. C.), tra il quarto e il sesto libro si racconta la storia di Amore e Psiche.

Lucio è stato trasformato in asino per errore ed è già stato rubato dai briganti, che lo hanno portato nel loro covo; qui c'è una fanciulla che i briganti hanno rapito, proprio nel giorno in cui dovevano celebrarsi le sue nozze. La ragazza è disperata, allora la vecchia che la custodisce, per distrarla, le narra una storia, una di quelle storie che conoscono le vecchiette e che costituisce la prima versione del tipo ATU 425 «La bella e la bestia ». La fiaba tradizionale narra del matrimonio di una donna con un animale (serpente, rospo, maiale...), che in realtà è un principe che di notte ha il suo normale aspetto di giovane bellissimo; tutto procede bene finchè la donna viola un divieto (non rivelare ad alcuno il segreto), allora egli si allontana e la sposa deve cercarlo con lunga e penosa peregrinazione, la vicenda si conclude con il ritrovamento dei protagonisti.

E' possibile evidenziare come, negli esempi citati, appartenenti al mondo

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antico, in genere più che di intere fiabe si tratta di singoli motivi o gruppi di motivi in essi presenti. Anche Graham Anderson17 si rende conto che un problema ricorrente è costituito dal fatto che tanto materiale della fiaba antica sembra sommerso sotto l'etichetta polivalente di mito o letteratura. Per questo motivo egli ha ricercato i temi della fiaba non solo in racconti che si presentano come tali , come la fiaba di «Amore e Psiche », ma anche in miti, leggende e narrazioni varie dell'antichità classica.

Il Medioevo

Nei testi medievali si ritrova una situazione simile a quella dell'antichità, non ci sono racconti o serie di racconti presentati esplicitamente come fiabe, si incontrano testi riconoscibili come tali all'interno di opere che hanno finalità di scrittura diverse, si tratta infatti di manuali di predicazione, vite di santi, cronache, all'interno dei quali circolano temi di fiaba.

Nella Historia Francorum Gregorio di Tours (VI secolo) narra delle continue liti tra Fredegunde, moglie del re Chilperico e la figlia Rigunde;

un giorno la regina porta la figlia nella stanza del tesoro , apre una cassa piena di gioielli e poi, fingendosi stanca, la invita a immergere la mano in quelle ricchezze e prendere quello che vuole. Rigunde tende il braccio, ma mentre sta per ritirare dei gioielli la madre lascia cadere con violenza il coperchio della cassa sul suo collo e si mette a premere con forza; la figlia sta per morire, ma viene salvata dalle grida di una domestica che chiede aiuto attirando l'attenzione di era nei paraggi.

Troviamo in questo testo la testimonianza di un motivo ben noto, che ricorre in vari racconti, da alcune versioni di Cenerentola in cui la matrigna è uccisa in questo modo dalla figliastra, istigata dalla donna che progetta di sposare il vedovo a « L'albero di ginepro » ATU 720, in cui si

17 GRAHAM ANDERSON, Fairytale in the Ancient World, London & New York, Routledge,

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narra l'assassinio di un bambino da parte della matrigna con queste stesse modalità.

Nel 1023 Egberto di Liegi, maestro delle arti del trivio (grammatica, retorica, filosofia) presso la scuola cattedrale di quella città, compone una raccolta di massime e di storie, Fecunda ratis, con l'intenzione di usarla come materiale didattico.

Uno di questi racconti De puella a lupellis servata narra di una bimba di cinque anni che una mattina, vestita di un abito rosso che le è stato dato come dono per il suo battesimo, cammina tranquilla e senza alcun timore, quando, ad un tratto, viene aggredita da un lupo che la afferra e la porta nella foresta come cibo per i suoi figli. Questi si precipitano sulla bambina, ma invece di sbranarla le leccano placidamente la testa, mentre lei ordina loro di non lacerarle la veste, che è appunto un dono di battesimo. L'ultimo verso afferma che Dio placa anche gli spiriti selvatici.

Al di là dell'evidente carattere edificante del testo, che esalta la potenza salvifica di Dio e del battesimo, ci si è chiesti se la bambina vestita di rosso che incontra il lupo nella foresta abbia qualche relazione con Cappuccetto Rosso, ATU 333.

I motivi di fiaba si insinuano anche nella letteratura agiografica e non è raro che le Vite dei santi narrino vicende in cui il santo è protagonista di avventure tipiche dell'eroe fiabesco.

Uno dei casi più noti è costituito dalla vita di San Giorgio inclusa nei Legenda aurea del domenicano Jacopo da Varazze (XIII secolo). In questo testo compare per la prima volta l'episodio della lotta con il drago, come l'eroe del tipo ATU 300 « L'ammazzadraghi ». Giorgio incontra la fanciulla che aspetta di essere divorata e, malgrado lei stessa lo esorti ad allontanarsi, affronta il mostro e le salva la vita. Lo sviluppo ulteriore diverge dalla fiaba: l'episodio è all'interno di un testo agiografico e quindi non può essere seguito dal matrimonio con la fanciulla. Il santo, che si riferisce alla ragazza indicandola come filia è in posizione “paterna” nei

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suoi confronti, non per età, ma in virtù della sua santità.

Un altro esempio famoso di tema di fiaba inserito in un testo di diverso carattere, questa volta è una cronaca, è la storia di Berta, che fa parte del ciclo leggendario che ruota attorno alla figura di Carlo Magno.

Nella realtà storica Berta è figlia del conte di Laon, andata in sposa a Pipino re dei Franchi, quindi madre di Carlo. Nella leggenda, che risale al XII-XIII secolo, Berta è una principessa ungherese chiesta in sposa da Pipino; viene in Francia, ma la sera delle nozze la nutrice la obbliga con l'inganno e la violenza a lasciare il letto coniugale, il suo posto viene preso dalla figlia della stessa nutrice. Due servi ricevono l'ordine di uccidere Berta, ma non hanno il coraggio di farlo, la abbandonano nella foresta, dove riceve ospitalità da un vaccaro e da sua moglie, che la tiene per quattro anni come cameriera.

Nel frattempo il re ha due figli dalla falsa Berta, che è di una cattiveria tale che tutti ne parlano; la madre di Berta arriva in Francia meravigliata di queste voci e scopre l'inganno. La vecchia nutrice è arsa viva, la falsa regina scacciata. Dopo quattro anni, un giorno, Pipino andando a caccia si ritrova solo, lontano dai suoi cavalieri e chiede ospitalità al vaccaro.

Qui nota la bella fanciulla e la chiede in prestito per la notte;

interrogandola scopre la sua identità e la sua storia. Dopo aver promesso una ricompensa ai coniugi che avevano ospitato la regina in casa loro per tutto quel tempo, i due, finalmente insieme, tornano a palazzo. Il racconto ricorda il tipo ATU 403 « La sposa sostituita ».

L' Età moderna e contemporanea Italia

Nel Cinquecento in Italia viene realizzata la prima raccolta di fiabe ad opera di Giovan Francesco Straparola intitolata Le piacevoli notti.

Dell'autore non si sa nulla: l'unico dato certo è la provenienza da Caravaggio; per quanto riguarda il nome è da ritenersi un cognome o un soprannome di famiglia. La prima edizione de Le piacevoli notti risale al

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1550 con venticinque racconti, l'edizione definitiva è del 1553 e conta settantatrè testi.

La struttura delle Notti si ispira al Decameron: i racconti sono inseriti all'interno di una cornice costituita da un racconto che contiene tutti gli altri. Lucrezia, figlia di Ottaviano Maria Sforza, rifugiatasi a Venezia con il padre, un tempo pretendente al ducato di Milano, ha riunito dieci fanciulle nel suo palazzo sull'isola di Murano, qui riceve regolarmente anche una compagnia di gentiluomini, tra i quali Pietro Bembo. In occasione del carnevale organizza dei balli e per prolungare piacevolmente le serate decide che ogni sera dopo il ballo cinque fanciulle, estratte a sorte, racconteranno ognuna una storia; al termine del racconto la narratrice viene invitata a proporre un enigma da risolvere. Il divertimento va avanti per tredici sere, l'ultima sera vengono raccontate tredici storie per un totale di settantatrè racconti.

L'opera ebbe grande successo, come testimonia il fatto che in pochi decenni ci furono ventitrè edizioni; nel 1605 fu messa all'indice per oscenità, fu ristampata nel 1613 poi cadde in oblio.

Una ventina di queste storie sono delle vere e proprie fiabe, seguono ad esempio lo schema ATU 510 B « Pelle d'asino » o ATU 545B « Il gatto con gli stivali ».

Quasi un secolo dopo, tra il 1634 e il 1636, a Napoli Giambattista Basile pubblica, in cinque volumi, un'opera molto importante per il genere fiabesco, si tratta del Cunto de li cunti, che a partire dal 1674 acquisirà anche il titolo di Pentamerone.

L'autore è nato tra il 1566 e il 1575, nei primi anni del Seicento si arruola nell'esercito della repubblica di Venezia e presta servizio a Creta, tra il 1608 e il 1613 gira fra Napoli e Mantova . Nel 1619 è nominato governatore di Avellino, poi di Lagolibero, Aversa e Giugliano. Muore nel 1632, il Cunto viene pubblicato postumo.

L'opera si caratterizza per essere il primo testo letterario europeo costituito interamente da racconti fiabeschi; alcuni dei tipi di fiaba più

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noti hanno in quest'opera la loro prima testimonianza. Un esempio è « Cenerentola » di cui nel Cunto (I, 6) troviamo il primo testo completo della tradizione europea. Esistono testimonianze precedenti in cui sono presenti alcuni dei motivi tipici di questo racconto come ad esempio emerge ne Le piacevoli Notti (I, 4) dalla storia di Tebaldo principe di Salerno che vuole sposare la figlia Doralice perché al dito di lei si adatta perfettamente l'anello della defunta moglie, per questo la ragazza è costretta a fuggire di casa. La prima testimonianza in assoluto è invece in un testo cinese del IX secolo.

La struttura di nuovo richiama il Boccaccio come modello: dieci donne narrano ognuna un racconto per cinque giorni; il testo contiene quindi cinquanta racconti, uno dei quali costituisce la cornice di tutti gli altri.

Zoza figlia del principe di Valle Pelosa, non ride mai; ride infine del gesto di una vecchia che alza le sottane, adirata contro un paggio che con un sasso ha mandato in frantumi la sua oliera. La vecchia allora maledice la principessa: potrà sposarsi solo con il principe di Camporotondo, il quale, per la maledizione di una fata, giace in un sepolcro, fino a quando una donna riuscirà in tre giorni a riempire di lacrime una brocca appesa vicino al sepolcro stesso: solo così lo farà resuscitare e potrà sposarlo.

Zoza parte alla ricerca del principe, dopo che tre fate le hanno dato tre doni, una noce, una castagna e una nocciola, avvertendola che dovrà aprirle solo in momenti di grande necessità. Dopo aver vagato per sette anni, giunge alla tomba del principe Tadeo, prende la brocca e comincia a piangere, ma dopo due giorni, quando mancano solo due dita perché le lacrime arrivino all'orlo, vinta dalla stanchezza si addormenta. Una schiava le sottrae la brocca e la riempie con le poche lacrime mancanti: il principe, svegliatosi, la prende in moglie.

Zoza rompe prima la noce, poi la castagna e infine la nocciola; ne vengono fuori un pupazzetto che canta, una chioccia con dodici pulcini d'oro e una bambola che fila oro. La schiava vuole assolutamente avere quegli oggetti e Zoza glieli consegna uno dopo l'altro, ma alla bambola

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raccomanda di suscitare nella schiava il desiderio di sentire racconti.

Tadeo allora convoca tutte le donne del paese e fra di loro sceglie le dieci che dovranno intrattenere la moglie. Viene costituito il gruppo delle narratrici, che è una versione parodica della brigata dei giovani del Boccaccio: sono dieci vecchie laide, piene di difetti fisici (una gobba, una tignosa...).

Ogni giorno vengono narrate dieci storie ( «Cenerentola » I giornata, racconto 6 ) , il quinto giorno, siccome una delle narratrici sta male, viene sostituita proprio da Zoza che narra le sue disavventure, Tadeo capisce di essere stato ingannato , Zoza diviene la sua legittima sposa e l'usurpatrice viene condannata a morte.

La lingua dell'opera di Basile è il dialetto napoletano rielaborato secondo i canoni della letteratura barocca: è ricca di aggettivi, metafore, enumerazioni esuberanti.

Il Cunto fu molto apprezzato dai Grimm che ne tradussero in tedesco alcuni racconti. Nel Settecento fu tradotto in bolognese, poi in toscano e in inglese.

Francia

Il secolo si chiude con la pubblicazione nel 1697 delle Histoires ou contes du temps passè avec des moralitès di Charles Perrault.

L'autore, nato nel 1628, ebbe un certo peso nella vita culturale e politica della Francia di Luigi XIV. Nel 1694 pubblica i Contes en verses tre racconti introdotti da una « Préface », l'anno successivo fa circolare il manoscrittto dei Contes de ma mère l'Oye (cinque racconti) e due anni dopo vengono pubblicate le Histoires, formate dagli otto racconti precedenti a cui ne vengono aggiunti altri tre, seguiti, ognuno, da una morale in versi. Undici racconti in totale, nove dei quali hanno origine dalla tradizione orale ( I desideri ridicoli, Pelle d'asino, La bella addormentata nel bosco, Cappuccetto Rosso, Barbablù, Il gatto con gli stivali, Le fate, Cenerentola, Pollicino). Il libro ebbe un inaspettato e

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travolgente successo, sebbene molte storie siano trascrizioni di storie della cultura popolare, lo scrittore non si limitò a trascrivere questi racconti, ma li arricchì anche con proprie invenzioni creative. Così ritroviamo nelle sue fiabe luoghi della Francia dell' epoca, come il castello di Ussè che si dice rappresentato ne La bella addormentata e Il gatto con gli stivali o riferimenti alla moda francese del XVII secolo. Sua è l'idea della scarpetta di cristallo che nella sua versione della fiaba di « Cenerentola » fa la sua prima apparizione.

L'affermazione che troviamo nella prefazione ai Contes en verses del 1694, ovvero che si tratta di racconti narrati ai bambini da governanti, nonne, padri, madri, se da un lato rinvia alla loro origine nell'oralità, dall'altro indica la destinazione infantile dei racconti orali poi confluiti nei Contes e nelle Histoires. La destinazione infantile viene ribadita dal frontespizio del volume del '97, che mostra una contadina che fila presso il focolare con dei bambini ben vestiti che ascoltano i suoi racconti;

proprio il frontespizio ci aiuta a capire: esso ci dà l'immagine del modo in cui Perrault deve essere venuto in contatto con la tradizione delle fiabe, ascoltando cioè da bambino, o osservando i suoi figli mentre ascoltavano i racconti delle nutrici venute dalla campagna.

Germania

Alla fine del XVIII secolo la Germania non esisteva ancora in quanto tale; esistevano invece diversi piccoli Stati appartenenti al Sacro Romano Impero.

Questa costellazione di stati passò sotto la sfera d'influenza francese nel 1806; tale situazione di assoggettamento è la ragione storica che spinse molti scrittori e poeti alla ricerca di un legame con il passato.

Espressione di una probabile reazione al dispotismo francese fu lo sviluppo del movimento culturale romantico, caratterizzato da un interesse per il sublime, il fantastico, il fiabesco e da una stretta

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collaborazione tra gli artisti, uniti da una particolare attenzione per l'aspetto filologico volto ad analizzare, decostruire e ricomporre i testi della tradizione.

La stessa strada seguirono i fratelli Grimm che fecero il possibile per risvegliare l’interesse per la letteratura popolare e conferire nuova vita alla tradizione culturale: questi aspetti culmineranno nella stesura di raccolte come Il corno magico del fanciullo (1806 – 08, Arnim – Brentano), i Kinder- und Hausmärchen18 e le Saghe tedesche (1816-18).

Tenendo in considerazione il tentativo della Germania di liberarsi dal giogo francese, appare comprensibile che il recupero di canzoni, fiabe e racconti popolari siano funzionalizzati alla costruzione di una identità nazionale.

I fratelli Grimm

Jacob (1785 – 1863) e Wilhelm Grimm (1786 – 1859) nacquero a Hanau in Assia e, di fatto, non videro mai la realizzazione di uno Stato unitario tedesco. Ciò non sminuisce l’importanza del lavoro linguistico e filologico cui si dedicarono per tutta la vita. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1796, vennero affidati alle cure della zia presso Kassel. Si iscrissero alla facoltà di Legge dove fecero la conoscenza di Friedrich Carl von Savigny, un docente che divenne loro mèntore, quasi una seconda figura paterna. Fondatore della scuola storica del diritto, Savigny riteneva che per comprendere lo spirito delle leggi fosse necessario entrare nella mentalità e nel linguaggio del popolo di cui esso è espressione. Non esiste, dunque, un diritto che valga universalmente per ogni popolo o epoca; il momento storico contingente è, dunque, imprescindibile. Questo interesse per il momento contingente venne ripreso dai fratelli Grimm nel tentativo di comprendere un popolo sulla base del suo modo d'espressione, dedicando un’attenzione particolare al

18 “Fiabe del focolare” nella traduzione italiana; d’ora in avanti verrà adottato l’acronimo tedesco

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linguaggio.

Nel 1812 venne pubblicato il primo volume dei KHM (già preceduto da una un manoscritto, nel 1810), cui fece seguito, nel 1815, il secondo volume.

A partire dal 1806 inizia la trascrizione dei racconti che vengono narrati dagli amici che si riuniscono in casa Grimm, in una specie di circolo letterario che prende il nome di « Società delle fiabe»: i partecipanti narrano le fiabe che essi stessi avevano sentito da bambini. Alcuni racconti provengono da amici, parenti, compagni di scuola, da villaggi vicini, altri ancora estratti da fonti a stampa o manoscritte.

I due filologi vedevano quest’opera come una prosecuzione ideale de Il corno magico del fanciullo di Brentano e Arnim, raccolta di canti popolari volta a fornire un supporto per la costruzione di un’identità comune per la nascente Germania. Il loro lavoro si poneva un obiettivo analogo: non solo donare al futuro popolo tedesco un patrimonio culturale comune, ma anche preservare quello stesso patrimonio, quella tradizione della narrativa orale che veniva sempre più minacciata dalla crescente urbanizzazione e industrializzazione; un tentativo, dunque, di conservare l’anima incorrotta, primigenia, di quei racconti popolari.

L'interesse dei due fratelli per le varie forme di creazione poetica della tradizione germanica va visto nel quadro della cultura e della sensibilità romantiche. I Grimm si occuperanno delle tradizioni germaniche in molte direzioni: non solo le fiabe saranno oggetto dei loro studi, ma anche le leggende, i miti e la lingua.

Nel 1819 venne redatta una seconda edizione dei KHM seguita da altre versioni che si susseguirono nel corso degli anni, per un totale complessivo di sette edizioni. I racconti non subirono modifiche soltanto sul piano numerico, ma anche a livello stilistico e nella trama.

Se la prima edizione del 1812, benché non escludesse esplicitamente dalla cerchia di lettori i più giovani, era rivolta perlopiù a un pubblico di

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adulti dato il suo taglio “scientifico”19, a partire dall’edizione del 1819, i fratelli Grimm (in particolar modo Wilhelm) iniziarono quel lavoro di

“limatura” che avrebbe reso i loro racconti sempre più adatti ai bambini della borghesia20, nella speranza e convinzione che la raccolta potesse servire come un manuale di buone maniere. In questo processo di rielaborazione i racconti sembravano assumere sempre più un carattere

“artificiale”; in realtà, anche l’aspetto primigenio venne mantenuto e il risultato complessivo appare un ibrido tra natura e artificio.

In effetti, i fratelli Grimm puntavano a mantenere, comunque, il più alto grado possibile di fedeltà al corpus testuale di partenza; nonostante le integrazioni o i cambiamenti apportati, la purezza originaria venne preservata grazie anche al linguaggio popolare, al dialetto, ai modi di dire, ai giochi di parole e così via.

Può chiarire la contraddizione tra la dichiarata fedeltà al testo e l'evidente manipolazione cui le fiabe sono sottoposte il fatto che in verità ciò che i Grimm respingono è la libertà di usare materiali tradizionali come punto di partenza per creazioni poetiche personali, ma ritengono legittimi interventi di altro genere, che non alterino l'essenza dei racconti. Un testo può essere confezionato in modo più gradevole e soprattutto adattato alle caratteristiche del suo primo destinatario, cioè i bambini, modifiche ammesse purché non tocchino il nucleo centrale del racconto.

I racconti non erano dunque frutto della fantasia dei due autori, né è ormai più accettabile la tesi per cui queste narrazioni sarebbero state riferite da persone appartenenti ai ceti più umili come contadini o servitori. Essi venivano tramandati perlopiù dalla piccola borghesia o da persone più colte riconducibili al ceto medio, tra i nomi più noti si possono ascrivere i Wild, gli Hassenpflug, gli Haxthausen, senza dimenticare Dorothea Viehmann e il soldato J. F. Krause. E' evidente come una certa “contaminazione borghese” della versione originale era

19 JACOB E WILlHELM GRIMM, Fiabe, a cura di Giuseppe Cocchiara e Clara Bovero, Einaudi editore, Torino, 2011, p. X

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già avvenuta, a conferma del fatto che è praticamente impossibile risalire alla forma originale di un dato racconto: una tradizione puramente tedesca (o francese) è un’utopia. Facendo riferimento alla tesi dello studioso statunitense Jack Zipes, si comprende come i Grimm

“contribuirono alla 'borghesizzazione' letteraria dei racconti orali che erano appartenuti ai contadini e alle classi inferiori, che in essi avevano trasposto i loro interessi e aspirazioni”21.

Questo non significa, naturalmente, che i Grimm tentassero di alterare il significato profondo del patrimonio in lingua tedesca. Infatti “essi volevano che la ricca tradizione culturale popolare fosse usata e accettata dalle classi medie. È per questo motivo che trascorsero la loro vita a condurre ricerche sui miti, i costumi, e la lingua del popolo tedesco. Volevano promuovere lo sviluppo di una forte borghesia nazionale rendendo espliciti i legami con le tradizioni e i riti sociali germanici e attingendo dal correlato folclore della Francia e dell’Europa del Nord. Ovunque fosse possibile, cercarono di collegare le credenze e il comportamento dei personaggi dei racconti popolari ai canoni estetici borghesi”22.

I KHM giocano un ruolo significativo anche nel processo di

“borghesizzazione” nella società del XIX secolo; leggendo (o facendosi leggere) le fiabe, i bambini tendevano a immedesimarsi nei protagonisti e a far propri quei valori che venivano tacitamente espressi nei racconti, così da rendere accetto quel tipo di società ai giovani ragazzi che si accingevano a farne parte

“Persino in storie […] in cui il protagonista svantaggiato ha la meglio sull’oppressore, […] i membri dei ceti inferiori diventano parte dell’élite dominante […] perché le classi dominanti hanno bisogno di quei valori che erano coltivati dalla borghesia: la parsimonia, l’industriosità, la pazienza, l’obbedienza e così via. Fondamentalmente, le strutture narrative implicano che abilità e qualità debbano essere sviluppate e usate così che si possa competere per un posto elevato nella gerarchia basata sulla proprietà privata, la ricchezza e il potere.”23

Prosecuzione ideale dei KHM possono essere considerate le Deutsche Sagen, pubblicate dai due fratelli tra il 1816 e il 1818, rievocano il pur

21 JACK ZIPES, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, trad. it. G.

Grilli, Mondadori Editore, Milano, 2006. p. 99 22 Ibidem p. 99

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frammentario repertorio della leggenda eroica germanica.

Se la raccolta di fiabe e saghe esprime il tentativo dei Grimm di fornire un corpus letterario in cui il popolo tedesco potesse rispecchiarsi, non va sottovalutata l’importanza dei contributi dal punto di vista linguistico – grammaticale. Nel 1819 fu stampata la prima edizione della Deutsche Grammatik, prima grammatica comparata delle lingue germaniche; di grande rilievo anche la Storia della lingua tedesca, pubblicata nel 1846 sotto forma di appendice alla Grammatica comparata della lingua tedesca.

Inoltre essi si interessarono anche al problema della natura e delle origini delle fiabe. Nella prefazione alla prima edizione definirono le fiabe come racconti germanici, ma già nella seconda edizione questa definizione è abbandonata: si resero conto che in molte altre parti d'Europa e non solo, esistevano racconti che assomigliavano in modo impressionante a quelli che avevano raccolto. Gli studi che in quegli anni iniziano sulle lingue indo-europee e la loro parentela, forniscono il quadro entro cui comprendere quella somiglianza: da questo momento si parlerà di comune eredità indo-europea.

Quanto all'origine, i due studiosi, pensarono che si trattava dei resti di antichi miti. Miti il cui significato si è perso da tempo, ma di cui si sente ancora l'eco nelle fiabe, essi sono la fonte del senso del meraviglioso che le permea.

Il rapporto con Edgar Taylor

Edgar Taylor, noto per aver fornito la prima traduzione dei KHM in Inghilterra, nacque nel 1793 a Banham nel Norfolk. Quinto figlio di Samuel Taylor, ebbe modo di apprendere non solo le lingue italiana e spagnola, ma anche quella tedesca.

Nel 1823 venne pubblicata la prima edizione inglese delle Fiabe dei Grimm: Taylor fece riferimento all’edizione tedesca del 1819 (se si eccettua la fiaba The Frog – Prince, che venne tradotta sulla base

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dell’edizione del ’12) e ne trasse 57 fiabe più un racconto, The nose, estrapolato dalle note del volume del 1822; benché molti racconti siano riconducibili a singole fiabe edite dai fratelli Grimm, alcuni di essi sono il risultato di fusioni di fiabe più brevi in un racconto più lungo.

Impreziosita dalle illustrazioni di George Cruikshank, l’edizione inglese conobbe un immediato successo che condusse alla pubblicazione di un secondo volume nel 1826: quest’ultimo si caratterizza per la presenza di quattro racconti tratti non dalle Fiabe del focolare, bensì adattati da altre raccolte o fiabe in voga all’epoca.

Taylor, in ogni caso, non limitò il suo campo di indagine alla letteratura per bambini: di notevole interesse il suo tentativo di familiarizzare il pubblico inglese con la poesia lirica medievale in lingua tedesca, un obiettivo che trovò il suo compimento nella pubblicazione dei Lays of the Minne-singers nel 1825. Taylor, che scomparve nel 1839, pur tentando di restare fedele al testo di partenza, ove possibile adattò le fiabe perché non rimanessero (o, comunque, ne restassero il meno possibile) elementi cruenti, personaggi spaventosi o comunque in contrasto con la Bibbia.

Le alterazioni compiute, dunque, vanno lette da un lato nel tentativo di evitare di entrare in contrasto con la morale dei lettori inglesi del XIX secolo, dall’altro come una sorta di “filtro” per rendere le storie più adatte ad un pubblico di giovani lettori.

Nonostante ciò, Taylor rese noto ogni cambiamento apportato nel suo apparato di note.

Tra le categorie che rivestono un ruolo importante nel processo di traduzione vale la pena citare quella delle cosiddette authorities, di cui fino alla fine del 1600 facevano parte i nobili o comunque i committenti, dopodiché a essi si affiancò la figura dell’editore(publisher); non meno importante il ruolo degli experts i quali, reclutati direttamente dalle authorities, definiscono come e cosa tradurre, sulla base del grado di accettabilità e fruibilità del testo per la “cultura di arrivo”, ovvero la società particolare cui la traduzione è destinata.

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L’interferenza tra due letterature è una relazione per cui una letteratura di partenza si trova a fornire o prestare elementi a una letteratura di arrivo.

Ciò significa che, nel momento di tradurre i KHM, Taylor “si appropria”

di alcuni elementi che sono tipici della letteratura tedesca dell’epoca.

L' operazione di traduzione e adattamento dei KHM incontrò subito il consenso dei fratelli Grimm.

Nell’inviare la prima edizione del suo volume in Germania, il traduttore inglese non nascose di esser stato costretto ad apportare alcune modifiche, discostandosi in più punti da una traduzione fedele. Questo, per poter rendere il libro compatibile con le aspettative e i sentimenti del suo pubblico. E' con gratitudine e umiltà che dona il suo volumetto ai Grimm come segno di riconoscenza e di riconoscimento del loro valore nel campo letterario.

Essi si mostrano riconoscenti nei suoi confronti e lo rassicurano riguardo ai suoi scrupoli per aver apportato qualche modifica qua e là: è vero, dicono i due fratelli, qualche modifica c’è stata, ma si tratta di piccolezze e perciò assolutamente comprensibili e prive di conseguenze, visto che il materiale originario è già stato messo al sicuro.

A tre anni di distanza, Taylor invia ai Grimm il secondo volume della sua versione delle Fiabe, esprimendo, al contempo, l’intenzione di dare alle stampe uno o due volumi relativi a storie di epoca medievale, opportunamente tradotte e riadattate.

Il secondo volume conferma il successo già avuto con il primo: i Grimm ne sono riconoscenti, definiscono lo stile come genuino e appropriato e anche le incisioni incontrano il loro pieno apprezzamento.

Anche Walter Scott loda il lavoro di Taylor, lo pone addirittura a un livello superiore a quello della tradizione inglese dei racconti per ragazzi, la cui morale sembra non poggiare su solide basi, dal momento che essa si riferisce sempre ad una giusta condotta: le Fiabe di Taylor sono destinate, nella visione di Scott, ad avere la meglio in quest’epoca razionale.

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