• Non ci sono risultati.

, basata sulla distinzione di

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ", basata sulla distinzione di "

Copied!
98
0
0

Testo completo

(1)

Introduzione

La melancolia rappresenta uno dei grandi temi della cultura rinascimentale, anche grazie alle molteplici prospettive dalle quali si presta ad essere osservata. Nozione maturata in seno alla letteratura medica, a partire dal XV secolo essa diviene fonte di ispirazione per filosofi, artisti, poeti e drammaturghi: da Michelangelo a Dürer, da Montaigne a Shakespeare, la bile nera si afferma in quanto crisma della genialità.

Il temperamento melancolico, infatti, è capace di attingere ad energie eccezionali, traendo dal fondo della tristezza e della solitudine la vis quasi divina necessaria alla creazione artistica e alla contemplazione delle più alte verità.

Questa concezione dell’umor nero, benché presenti alcuni precedenti nelle fonti antiche, si afferma in maniera irreversibile solo a partire dall’elaborazione di Marsilio Ficino (1433-1499). Questi si inserisce nel solco della tradizione medica umorale

1

, basata sulla distinzione di

1 La prima opera in cui è attestata la teoria dei quattro umori è il trattato Della natura dell’uomo (400 a. C. ca.), attribuita a Ippocrate o a Polibo; in questo scritto gli umori sono fluidi compresenti nel corpo umano, e dal loro squilibrio o combinazione armonica dipendevano gli stati patologici o di salute. Solo gradualmente la prevalenza di un particolare umore passa a indicare una generale disposizione dell’individuo, e non solo dei sintomi di malattia. È solo tra il II e il III secolo d. C. che si delinea lo schema dei quattro temperamenti associati agli umori, cui aveva contribuito Galeno. Sulla storia della teoria umorale cfr N. ARIKHA, Passions and tempers: a history of the Humours, Harper Collins, New York, 2007; R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY, F. SAXL, Saturno e la malinconia, Einaudi, Torino, 1964; J. STAROBINSKI, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino, 2014.

(2)

quattro elementi corporei fondamentali (sangue, flemma, bile gialla e bile nera, detti appunto umori), la cui combinazione determina il carattere psicosomatico di un individuo, ovvero il temperamento o complessione, nonché la condizione fisiologica o patologica dell’organismo. A ciascuna complessione era attribuita una serie di caratteristiche fisiche e psichiche, e l’umor nero era tradizionalmente considerato responsabile degli attributi peggiori: un aspetto sgradevole, intelletto tardo (oscillante tra l’ottusità e la follia), inclinazione agli stati depressivi e alla solitudine. Tuttavia Ficino, saturnino e melancolico egli stesso, dà fondo alle proprie vaste acquisizioni naturalistiche e filosofiche per mettere in atto una vera e propria operazione di riscatto del temperamento atrabiliare. Per far ciò, gli occorre il sostegno degli auctores, trovandolo in Platone

2

e nello pseudo-Aristotele dei Problemata (XXX.I). Secondo quest’ultimo scritto in particolare, tale temperamento accomunerebbe tutti gli uomini di genio, ovvero «tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nelle arti»

3

. Partendo da qui, Ficino lavora a una trattazione sistematica dei tipi di bile nera e dei relativi

Sull’Umanesimo medico cfr N. SIRAISI, A. CARLINO, Il Rinascimento. La medicina, in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it).

2 Platone, Teeteto, 144 a-b.

3 [Aristotele], Problemi, XXX.I, Bompiani, Milano, 2002, p. 441.

(3)

rimedi, che affida alla sua maggiore opera medica, il De vita (I). Nella destinazione stessa dello scritto, rivolgendosi espressamente ai letterati – in quanto categoria maggiormente esposta ai disturbi melancolici – viene rafforzato il nesso tra melancolia e attività intellettuale

4

.

La trattazione ficiniana, dunque, ha avuto il merito di riscattare l’umor nero da secoli di interpretazioni detrattive, creando il mito della melancolia ispirata e insieme stimolando altre trattazioni mediche sull’argomento. Eppure, accanto a questa immagine nobilitata, si costituisce un altro filone ben più controverso. Si tratta, infatti, di rappresentazioni in cui la melancolia si configura come principio di divisione, di disarmonia, come oscillazione tra estremi mai conciliati.

Proprio questo tipo di rappresentazione è l’oggetto d’indagine del presente lavoro di tesi. Costruendo un percorso che raccoglie i contributi di Leon Battista Alberti, dello stesso Ficino, di Timothie Bright e infine di due drammaturghi elisabettiani, William Shakespeare e John Marston, ho cercato di restituire la vena eversiva latente nell’umor nero e l’atteggiamento critico che esso determina.

4 Proprio l’intensa attività intellettuale è una delle tre cause indicate da Ficino per spiegare l’inclinazione agli stati melancolici, accanto agli influssi di Saturno e alla predisposizione del temperamento stesso. Cfr. M. FICINO, Sulla vita, I.iv, Rusconi, Milano, 1994, pp. 102- 104.

(4)

Sono caratteri riconducibili in ultima istanza alla struttura intimamente dicotomica del temperamento melancolico, che attraverso le figure del dissenso politico e religioso rivela la propria capacità di dare espressione a inquietudini ed tensioni di un’epoca di crisi.

Ad un livello più generale, ciò che rende il melancolico atto ad assolvere questa funzione è la conflittualità che ne segna l’esistenza, nonché l’irriducibile solitudine in cui è confinato: essa è metafora della distanza che egli produce fra sé e il mondo, del suo ritrarsi dal comune flusso della vita. In effetti, sono proprio l’isolamento e il costante sentimento di tedio che consentono al melancolico di maturare una visione disincantata, nella misura in cui essi alimentano un’accentuata sensibilità verso il disordine e la follia di cui è intessuto il mondo.

Le proprietà corrosive dell’umor nero, inoltre, si traducono nella causticità con cui l’atrabiliare esprime una simile insofferenza, in preda ad un furore che travolge il sistema di valori acquisiti e straccia il velo di finzioni che avvolge la realtà umana.

Questi ed altri elementi ricorrono nelle rappresentazioni della

melancolia che qui ho preso in esame: in primo luogo, se ne trova

riscontro nella duplice lettura della aegritudo proposta da Leon

(5)

Battista Alberti (1404-1472). Certamente, la produzione albertiana è anteriore a quella di Ficino, ma attraverso il confronto con gli autori classici egli è in grado di anticipare alcune delle tendenze maturate più tardi. Come si vedrà nel primo capitolo, Alberti è legato a doppio filo con la tradizione della melancolia disincantata: da un lato, attraverso il mito di Prometeo (Profugiorum ab aerumna, III) questi istituisce un interessante nesso tra la aegritudo e il dissenso politico. Il titano ribelle, infatti, incarna il dolore e lo sdegno impotente provocato dalla soggezione al potere tirannico, che tuttavia non si risolvono nella resa e nella sottomissione, ma al contrario nutrono la protesta indocile contro l’ingiustizia. In tal modo, attorno alla figura di Prometeo si addensa la polemica antimedicea che tra le righe percorre i Profugia, così come la relazione tra malattia dell’animo e malattia del corpo politico.

In secondo luogo, se Prometeo costituisce la risposta tragica al malaise

del tempo, Alberti appronta anche una soluzione comica, affidata al

riso mordace di Democrito. Muovendo dall’Epistola a Damageto

pseudo-ippocratica, l’eclettico pensatore recupera l’idea del riso

dissacrante, che sotto le insegne della follia mette a nudo quanto di

ridicolo c’è negli uomini, nelle loro ambizioni e passioni, nella loro

costitutiva pazzia.

(6)

L’irriverenza di Prometeo e Democrito cede il posto, nel secondo capitolo, alla hybris del melancolico ateo. L’atteggiamento antagonistico dell’atrabiliare, infatti, non resta affatto privo di implicazioni religiose: come emerge dagli scritti di Ficino e Timothie Bright, l’inclinazione al dubbio prodotta dall’umor nero può dispiegarsi fino a mettere in discussione le verità di fede, così come la stessa genialità melancolica si presta a degenerare in vana curiositas.

Quest’ultimo, in particolare, rappresenta una portato particolarmente insidioso dell’interpretazione intellettualistica della melancolia ficiniana: l’impulso inappagabile alla ricerca, la ragione che si sa forte dei propri mezzi, finiscono col suscitare l’insofferenza per i limiti imposti alla conoscenza umana, spingendosi a vagliare ogni cosa secondo un metro puramente razionale.

Da queste iniziale panoramica sulle declinazioni corrosive della

melancolia occorre trarre una prima considerazione: l’umor nero

viene definendosi quale forza capace di operare la pars destruens che

prelude alla renovatio, poiché sono le sue caratteristiche specifiche a

consentirgli di scardinare le fondamenta della consuetudine e

dell’ordine stabilito. Un simile potenziale, inoltre, trova terreno fertile

in un momento storico di grandi crisi e rivoluzioni, che esplodono su

tutti i fronti, dal piano religioso a quello scientifico e politico.

(7)

L’inquietudine del melancolico, pertanto, sembra raccogliere lo spirito di un’epoca che vive il declino e aspira al rinnovamento, che scopre il disincanto e guarda all’utopia.

Tale capacità di dare rappresentazione al sentimento di crisi risulta

particolarmente efficace nel contributo dato dal teatro elisabettiano e

giacomiano, in seno al quale si codifica la figura del melancolico

malcontento. Il malcontent, infatti, affonda le proprie radici nella

temperie storica e culturale dell’Inghilterra di fine Cinquecento,

attraversata dalle ansietà legate alla minaccia della sedizione e

dell’ateismo. Più in particolare, si è rivelato determinante il fenomeno

dei viaggi di formazione, vale a dire l’uso di far trascorrere ai giovani

sudditi un periodo all’estero per fini educativi. Attorno a questa

pratica si è sviluppato l’immaginario relativo al viaggiatore (il

malcontent traveller), percepito come veicolo di corruzione e di teorie

eversive importate dalle terre oltremanica; non a caso, tale

immaginario ha funzionato da specchio deformante nella ricezione

elisabettiana del machiavellismo, laddove proprio le opere di

Machiavelli sembravano costituire il simbolo per eccellenza dell’Italia

degli intrighi politici, della licenziosità e dell’ateismo. Tali fattori sono

presi in esame nella seconda parte della tesi, assieme alla

rielaborazione teatrale del malcontent reperibile nei drammi di

(8)

William Shakespeare (Come vi piace) e John Marston (Il malcontento).

Grazie a queste riscritture, il melancolico malcontento ha potuto proiettarsi al di là dello spettro dell’eversione che i fenomeni appena visti evocavano, dando voce piuttosto a una profonda esigenza di critica. Nei personaggi di Jaques e Malevole, infatti, l’intima disarmonia e l’irriverenza prodotte dall’umor nero assumono valenza satirica, mentre il furore degli accessi atrabiliari si traduce nella rivendicazione della libertà di parola quale medicina per guarire il mondo dalla sua pazzia.

Pertanto, con il malcontento giunge a maturazione il filone più

controverso e disincantato della melancolia, che in tal modo può

dispiegare il proprio potenziale critico, distruttivo e liberatorio

insieme.

(9)

Parte I

Dissidenza e ateismo melancolici

1. Tra il riso di Democrito e il pianto d’Eraclito: Leon Battista Alberti e la cura della maninconia

Leon Battista Alberti ha offerto un interessante contributo alla declinazione disincantata della melanconia, condensato attorno a due figure chiave: il Prometeo del libro III dei Profugiorum ab aerumna e Democrito, rappresentato nel libro III del Momo. Prometeo e Democrito sono indicativi dei due particolari aspetti del motivo dell’aerumna, quello più serio e quasi tragico da un lato, che vede scontrarsi la volontà e il sentire individuale con la Necessità (nel caso specifico, lo status quo politico), dall’altro il riso acre e dissacrante, liberatorio e insieme impietoso.

I presente capitolo è dedicato a una breve analisi delle due terapie

approntate da Alberti contro la maniconia, a partire da alcuni testi

afferenti al genere consolatorio e a quello ludico. Tuttavia,

occorreranno dei chiarimenti preliminari sulla questione controversa

della “melancholia albertiana”, al fine di individuare i termini entro i

(10)

quali è possibile individuare una simile tradizione nel pensiero di Alberti senza incorrere in forzature anacronistiche.

1.1 Melancholia, aegritudo, maninconia

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, Rinaldo Rinaldi aveva rintracciato nell’amor hereos uno dei fili che collega l’opera albertiana (in particolare, gli scritti amatori) alla tradizione atrabiliare e saturnina

5

- all’interno di una più ampia cornice di affinità con la tradizione platonica, anticipatrice della posteriore ispirazione ficiniana.

In polemica con questa lettura, Luca Boschetto ha cercato di dimostrare la sostanziale ininfluenza dell’umor nero nella produzione dell’Alberti (a dispetto di un vivo interesse dell’autore per le tematiche mediche), cercando di neutralizzare proprio quella fonte che più avrebbe sollecitato una ricerca in direzione melanconica:

l’Epistola a Damageto pseudo-ippocratica

6

.

Tuttavia, il superamento della controversia esige un diverso quadro di riferimento rispetto a quello adottato da Rinaldi e Boschetto,

5 R. RINALDI, Melancholia albertiana: dalla «Deifira» al «Naufragus», in Lettere italiane, n 37, 1985, pp. 41-82.

6 L. BOSCHETTO, Democrito e la fisiologia della follia, in Rinascimento, vol. 35, 1995, pp. 3-29;

sull’epistola come fonte, Id., Ricerche sul Theogenius e sul Momus di Leon Battista Alberti, in Rinascimento, vol. 33, 1993, pp. 3-52

(11)

racchiuso entro il perimetro dell’approccio fisiologico. La storia della melanconia, infatti, non è circoscritta esclusivamente dalle due coordinate dell’umor nero e dell’ascendenza saturnina. Essa piuttosto si articola attorno a un nucleo di significato costante ma dinamico nella sua configurazione, passibile di assumere forme diverse e connotati, in certa misura, variabili.

Pertanto, è necessario individuare il momento specifico di questo sviluppo di lungo corso entro il quale collocare Alberti.

La particolare tradizione che questi recupera, infatti, è quella della aegritudo («infermità, stato di malessere, di inquietudine, di angoscia»

7

) di derivazione ciceroniana e senechiana, già rivisitata da Francesco Petrarca nel Secretum. La ripresa umanistica di tale filone segna un passaggio importante, in cui la concezione medievale del peccato d’accidia lascia il posto a una riflessione laica e secolarizzata sull’afflizione dell’anima. In effetti, benché l’Agostino del dialogo petrarchesco ponga i due concetti di accidia e aegritudo come equivalenti

8

, la tristitia che colpisce Francesco non si configura come una sorta di amor lento verso Dio, né riguarda specificamente il

7 CICERONE, Tuscolane, III.x, BUR, Milano, 2007, p. 287.

8 «Si è impadronito di te un morbo funesto dell’anima, che i moderni chiamano accidia, gli antichi aegritudo», F. PETRARCA, La Melancolia, Nino Aragno Editore, Torino, 2013, corsivi miei.

(12)

rapporto col divino. Essa è piuttosto provocata dagli assalti della fortuna, dal ricordo delle sventure passate e dal timore di quelle future, così come dalla considerazione dell’infelice condizione umana

9

.

Simili motivi, insieme all’ispirazione autobiografica e alle fonti latine, sono aspetti che accomunano la seconda giornata del Secretum ai Profugia albertiani, mentre senz’altro diverso è il ruolo giocato dall’ambiente urbano e dalla dimensione sociale e civile

10

.

Ciò che qui più interessa, tuttavia, è il fondamento che viene attribuito a questo morbo dell’animo, legato non già a squilibri umorali ma a cause eminentemente psicologiche e morali.

Stando a Cicerone

11

, l’aegritudo è una delle quattro passioni fondamentali, che nasce dall’opinione circa un male presente ed è

«tale da far credere a chi ne soffre che la sua sofferenza sia indispensabile»

12

. L’elemento del dolore rende l’afflizione assimilabile per analogia alla malattia del corpo (aegrotatio), e insieme

9 Sul significato dell’accidia in Petrarca, S. WENZEL, Petrarch’s Accidia, in Studies in the Renaissance, vol. 8, 1961, pp. 36-48.

10 Cfr. infra, I.1.2.

11 CICERONE, Tuscolane, op. cit., pp. 285-87. L’aegritudo è una delle quattro passioni fondamentali, insieme alla paura, la bramosia e la lascivia; esse hanno una comune origine nell’opinione (intesa come rappresentazione inesatta della realtà), che ha per oggetto il bene o il male.

12 Ibidem, p. 289.

(13)

costituisce il nesso che lega la aegritudo al furor, la pazzia furiosa, in quanto sua causa.

Proprio in ragione della possibilità di ricondurre il furor a un accesso di dolore (così come di timore o collera) Cicerone può affermare l’insufficienza espressiva del termine greco μελαγχολία, il quale, etimologicamente, lascia supporre che la pazzia furiosa sia determinata esclusivamente dalla bile nera

13

.

Nell’attingere al materiale ciceroniano, Alberti potrebbe aver fatto propria l’idea della inadeguatezza del lemma μελαγχολία, il che peraltro giustificherebbe la totale assenza, ricordata da Boschetto

14

, del termine melancholia negli scritti latini, perfetta traslitterazione del greco. Cionondimeno, questo non implica un disinteresse tout-court per la teoria umorale (e, in particolare, atrabiliare), quanto piuttosto la scelta di una prospettiva più ampia e fertile dal punto di vista della trattazione moralistica.

13 Ibidem, p. 273. Su questo punto concorda anche Boschetto, il quale tuttavia rifiuta di riconoscere il nesso tra maninconia e furor, ascrivendo quest’ultimo esclusivamente al domino della collera. Cfr L. BOSCHETTO, Democrito e la fisiologia della follia, art. cit., p. 14 sgg.

14 Ibidem, p. 16.

(14)

1.2 La trattazione dell’aegritudo nei Profugia e il furore di Prometeo D’altro canto, l’influenza di Cicerone su Alberti è determinante, e incide profondamente nella stesura dei Profugiorum ab aerumna, specialmente del libro III. Per richiamare solo un esempio, in questa sezione troviamo la traduzione quasi letterale di un passo delle Tusculanae in cui si riconosce all’aegritudo la massima pericolosità;

Cicerone:

«Se è vero infatti che ogni passione è infelicità, l‘afflizione è una vera tortura. La bramosia ti fa avvampare, la gioia esultante ti rende incostante, la paura ti avvilisce, ma ben maggiori sono i mali dell’afflizione: deperimento, tormento, prostrazione, aspetto orribile;

essa lacera, divora l’anima, e la distrugge completamente

15

.

Ora Alberti:

la libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d’animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggiori e insiti mali.

16

In effetti, l’obiettivo di questa sezione dei Profugia è appunto quello di curare l’anima affetta da aegritudo, ovvero «espurgare ogni insita e obdurata grave maninconia»

17

.

15 «Nam cum omnis perturbatio miseria est, tum carnificina est aegritudo. Habet ardorem libido, leuitatem letittia gestiens, humilitatem metus, sed aegritudo maiora quaedam, tabem, cruciatum, adflictationem, foeditatem; lacerat, exest animum planeque conficit», CICERONE, Tuscolane, op. cit., p. 292, corsivi miei.

16 L. B ALBERTI, Profugiorum ab aerumna, Tilgher-Genova, Genova, 1988, p. 89. Passo non segnalato dal curatore, che peraltro chiarisce il termine egritudine semplicemente come latinismo per malattia.

17Termine utilizzato da Alberti anche in altre opere, ma con significato più generico di

«tristezza»; qui invece la sua specificità è ricostruibile attraverso il ricorso, all’interno del testo, del campo semantico melancolico: tristizia, egritudine, merore. Da segnalare, infine,

(15)

A differenza dei primi due libri, qui non si tratta di approntare misure preventive contro i turbamenti che segnano fatalmente l’esistenza umana. Il problema discusso in questa sede da Agnolo Pandolfini e Niccola de’ Medici riguarda piuttosto il persistere patologico della tristitia, divenuta quasi un habitus distruttivo. La relazione con le cause del dolore è fortemente mediata non solo dall’opinione

18

, ma soprattutto dal ricordo, ovvero da un labirinto di pensieri in cui il malessere si amplifica e avviluppa il maninconico (un «involgerti e sospingerti col pensiere in questa ortica di tue triste e ingrate memorie»

19

), dunque con il prevalere del fattore endogeno. Proprio questo indugiare nell’afflizione paralizzante è condannato da Agnolo, il quale sembra intuire la perversa complicità dell’afflitto con il suo male – quella complicità che Francesco Petrarca aveva sottilmente riconosciuto come una sorta di amara voluttà

20

.

Alberti presenta anche una accurata disamina degli atteggiamenti dell’afflitto e delle conseguenze del suo morbo, che ricordano da vicino la sintomatologia dell’umor nero:

l’inusuale frequenza con cui il termine maninconia ricorre nel libro III, mentre nei primi due è del tutto (l. I) o quasi (l. II) assente.

18 Cfr. nota 11, p. 12.

19 L. B. ALBERTI, Profugiorum ab aberumna, op. cit., p. 89.

20 «Et – qui supremus miseriarum cumulus dici poteste – sic lacrimis et doloribus pascor, atra quadam cum voluptate, ut invitus avellar», F. PETRARCA, La melanconia, op. cit., p. 2.

(16)

Né però tanto mi fastidia questa levità femminile del piangere e scalfirsi le guance e pelarsi el capo, quanto mi pare da odiare e fuggire quella insania di molti, quali per loro concette maninconie sviano el sonno, interlassano el cibo, perdono se stessi, fuggono el vedere ed esser veduti dagli altri uomini, e in sua solitudine e umbra stanno stupidi e quasi stolidi, dolgonsi e predicano essere sé sopra tutti i mortali miseri e infelicissimi; né però restano aggiungere a se stessi continua infelicità e miseria, mentre che così si crucciano e tormentano con sue triste memorie e conceputi dispetti e dispiaceri

21

.

L’alienazione prodotta dalla maninconia induce alla perdita di sé, che è anche una decadenza dalla stessa condizione di uomo, un degenerare in «arrabbiata bestia e insensato sasso»

22

. Di qui l’appello di Agnolo a riconoscersi uomini: la humanitas significa tener vivo l’ignicolo

23

della ragione e della virtù, della volontà che è potere di dominarsi e con ciò stesso dominare la fortuna; significa anche riconoscere la propria esposizione alle sventure, consustanziali all’esistenza umana. E allo stesso tempo ciò vuol dire riconoscere la piena legittimità dei sentimenti negativi e del dolore, delle debolezze, contro l’eccessivo rigore dei «severi supercili stoici»

24

che

21 L. B. ALBERTI, Profugiorum ab aerumna, op. cit., p. 97, corsivi miei.

22 Ibidem, pp. 90-91; il periodo per intero recita: «Furioso uomo e arrabbiata bestia e insensato sasso», ma sul dolore come causa del furor si è già detto sopra; definizioni che si riferiscono, rispettivamente, alle figure di Oreste, Ecuba e Niobe. Sul declino dell’egritudine, cfr. p. 89: «E tu così vedi e cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne’ loro intimi cruciati, e simili a un trave annoso e corroso da’ tarli putrirsi e insordidirsi».

23 Ibidem, p. 24. Con ignicolo Alberti intende la scintilla dell’anima, dono di Prometeo.

24 Ibidem, p. 16.

(17)

pretenderebbero un’insensibilità degna degli dei, o appunto da «non uomini»

25

.

Eppure, contro il processo autoalimentantesi dello smarrimento maninconico, si impone l’esortazione alla patientia, al vincere soffrendo

26

. La sopportazione, tuttavia, è qualcosa di più della remissività stoica e cristiana. Essa, infatti, non riguarda solo l’attesa dell’esaurirsi delle forze avverse (nella sua correlazione con il valore del tempo

27

), ma è anche un temporeggiare sornione in vista della vendetta

28

, nonché precetto maturato in seno al pragmatismo disilluso che richiede l’adeguamento ai tempi, alle circostanze concrete.

Precisamente in questo quadro si inserisce l’evocazione del supplizio di Prometeo:

Gli dii venuti a consolare Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: “O Prometeo, non curare e tuoi mali e non gli sentire”; ma diceano: “Quello che a te è imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi”. E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: “Io pur feci che i mortali mai più

25 Ibidem, p. 19.

26 Ibidem, p. 40.

27 La funzione del tempo nella risposta alle avversità è un motivo che percorre l’intera opera, e ricorre in diversi altri scritti dell’Alberti; basti ricordare l’intercenale Patientia, in cui i «canti di Crono» sono menzionati tra i rimedi che l’allegoria della Sopportazione dispensa agli uomini. Su questa intercenale, vedi infra, p. 16.

28 La sopportazione in relazione alla vendetta è analizzata nel libro II dei Profugia attraverso la figura di Ulisse. Agnolo ne loda la saldezza di fronte alle ingiurie e la capacità di dissimulare lo sdegno, grazie alle quali riesce a vincere sui Proci e a recuperare il trono;

ibidem, pp. 68-70.

(18)

morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore”. E qui Oceano, massimo degli dii, li rispondea: “Tu o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elezione antiqua.

Usurpa testé nuovi costumi, quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al tutto modera a questa tua lingua e procacità. L’ira di chi può tanto in te quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che con l’alterezza. […] Della Necessità sono ministri e Fati triformi e le mai dimentiche Erinni

29

.

Così Alberti ritrae l’afflizione e il furore del titano, il sentimento di ingiustizia, e l’inclinazione non placata alla ribellione a un potere tirannico. Oceano, come Pandolfini, invita alla sopportazione e alla summissione, alla rinuncia alla protesta ostinata e, soprattutto, palese:

dietro questa esortazione, infatti, si intravede in velina il motivo della dissimulazione, ricorrente nella produzione albertiana

30

. Di fronte al potere e all’arbitrio del tiranno, lo sdegno esibito deve cedere il passo a maniere e parole remissive, a prescindere da ciò che intimamente, e legittimamente, si sente. Peraltro, simili temi trovano una suggestiva rappresentazione allegorica nell’intercenale Patientia, dove la Necessità, madre – si noti – della Sopportazione, suggerisce alla figlia di curare gli uomini con le bacche dell’adulazione, segnalando al

29 Ibidem, pp. 91-2, corsivi miei. Si veda ancora L.BOSCHETTO, Ricerche sul Theogenius e sul Momus dell’Alberti, art. cit., p. 34 sgg.

30 O. CATANORCHI, Tra politica e passione. Simulazione e dissimulazione in Leon Battista Alberti, in Rinascimento, vol. 45, 2005, pp.137-77

(19)

contrario i pericoli di mostrare apertamente «il fiero cipiglio e l’ispido sopracciglio»

31

.

Da questi elementi comincia ad emergere il risvolto politico delle pagine dei Profugia, complementare alla piega introspettiva che abbiamo visto prevalere nel libro III.

In effetti, lo stesso Agnolo riflette sulla perfetta adeguatezza del tema dell’aegritudo alla congiuntura politica fiorentina: «Ma di che possiamo noi ragionare più accomodato a questi tempi, e a questa nostra publica fortuna che solo di questa cosa per quale ne rendiamo liberi e vacui d’ogni estuazione e turbidamento d’animo?»

32

. Tale constatazione segue il chiarimento delle ragioni per le quali aveva rifiutato di partecipare all’assemblea pubblica cui era stato convocato, lasciando trapelare un certo spirito antimediceo. Pandolfini, infatti, lamenta l’impossibilità di esprimersi liberamente, lasciando intuire quanto le istituzioni repubblicane avessero perduto la loro stessa ragion d’essere:

Questi mi chieggono e instanno ch’io salisca su in Palagio a consigliare cogli altri padri la patria e curare el ben pubblico. Sia della mia volontà e de’ miei studii cognitore e testificatore Dio immortale e gli altri abitatori e moderatori del cielo, come cosa niuna tanto mi sta ad animo né tanto mi siede in mente quanto di conservare l’autorità, dignità e

31 L. B. ALBERTI, Intercenales, I, a cura di F. Bacchelli e L. D’Ascia, Pendragon, Bologna, 2003, pp. 60-9.

32 L. B. ALBERTI, Profugiorum ab aerumna, op. cit., p. 50. Sul significato della critica di Agnolo allo svolgimento delle assemblee, cfr. p. 48, n. 7.

(20)

maiestà della patria mia insieme colla utilità e pregio di ciascuno buono privato cittadino. Ma che perversità sarà la nostra, se, noi chiamati a consigliare, ci converrà dire non quello che forse a noi parerà utile, onesto e necessario a’ tempi, alle condizioni del vivere e della fortuna nostra, ma converracci dire quel che stimeremo grato a chi ne richiese? […] Iersera mi tennero sino a molta notte, e ora mi rivogliono; né fie tempo d’essere al bisogno di qui a più ore. E s’io giovassi, non aspetterei esservi richiesto. Adunque adopereremo questo tempo in altro, e forse a chi che sia gioveremo; dove dicendo lassù quel ch’io sento, non gioverei a me, e dicendo quel ch’io non sento, non piacerei ad altri.

33

In tal modo emerge un primo intreccio tra aegritudo albertiana e dissenso politico, tra coscienza del cattivo ordine delle cose e malattia dell’animo. In tal senso, un elemento interessante è dato dalla ripresa della nozione di parrhesia, che, come è stato rilevato

34

, informa il discorso polemico di Pandolfini.

Con parrhesia si intende la piena libertà di parola, finanche irriguardosa o maldicente; essa dapprima ha rappresentato il simbolo della democrazia ateniese, divenendo poi (dopo la sua censura politica) la cifra della commedia attica nonché concetto centrale della scuola cinica

35

.

33 L. B ALBERTI, Profugiorum ab aerumna, op. cit., p. 48. Le assemblee sono oggetto di satira da parte di Alberti anche nel Momo, ispirandosi probabilmente al Concilium deorum di Luciano. Cfr. L. B. ALBERTI, Momo, o del Principe, Costa e Nolan, Genova, 1986, in particolare l’Introduzione di A. DI GRADO, L’ombra del camaleonte, pp. 1-18.

34 D. FEDELE, Il parresiasta punito, ossia Momus di Leon Battista Alberti, in Politica e Religione, 2012/2013, pp. 89-110. Fedele analizza la relazione tra la nozione di parrhesia e la figura di Momo, prendendo in considerazione anche il discorso di Pandolfini.

35 G. SCARPAT, Parrhesia greca, parrhesia cristiana, Paideia, Brescia, 2001. Questo elemento si inserisce nella più ampia sensibilità di Alberti per il potenziale del linguaggio, strumento di fascinazione e dono divino nel Theogenius (dove è anche indicato come elemento destabilizzante per la collettività, se usato iniquamente), e ancora parte integrante nel comporre le maschere con l’arte della simulazione e dissimulazione.

(21)

Alberti sembra cogliere la prolificità della nozione di parrhesia, probabilmente ripresa dai testi lucianei, e diversamente declinata nel modellare i suoi personaggi: non solo, dunque, essa è segno della virtù civile di Pandolfini, ma impronta anche l’atteggiamento del Cinico della omonima intercenale

36

- il quale, in ragione della propria irriverenza convince Mercurio e Febo a delegargli il compito di passare al vaglio le frotte di anime di defunti in attesa di reincarnarsi, di fatto dando luogo a una dura condanna dei vizi delle categorie sociali più prestigiose

37

; rientra inoltre tra i privilegi del vagabondo, concorrendo a farne una condizione migliore di quella dei sovrani e degli stessi dei

38

.

Inoltre, è possibile individuare proprio nella parrhesia, secondo la sua forma più irriverente, il filo rosso che lega Prometeo (con la sua lingua sbrigliata e parole immoderate) a quello che in certa misura è il suo opposto speculare

39

, Momo, contraddistinto da una lingua

36 L. B. ALBERTI, Intercenales, IV, op. cit., pp. 261-85; ancora una volta è forte l’influenza di Luciano, il quale aveva fatto della parrhesia un tratto caratteristico del filosofo cinico.

37 Per ciascuna, il filosofo stabilisce una forma di reincarnazione modellata sui vizi specifici:

i vescovi rinasceranno asini, i governanti avvoltoi, gli storici topi, i poeti farfalle, i retori api, e infine, i mercanti scarafaggi. Da notare, inoltre, che l’animale in cui il cinico è destinato a reincarnarsi è un moscone dorato, animale che simboleggia lo sprone critico:

forse proprio per questo motivo, il dono che Momo decide di fare agli uomini sono animaletti (Momus, l. I); si ricordi, infine, l’elogio parodico della mosca composto sempre da Alberti (Musca).

38 L. B. ALBERTI, Momo, l. II, op. cit., pp. 121- 129.

39 Si tratta in ogni caso di una opposizione complessa e ambigua, poiché la misantropia di Momo presenta numerose sfaccettature. Su questo punto cfr. ancora Boschetto, Studi su Theogenius e Momus, art. cit., pp. 34-49.

(22)

«insolente», «proterva e intemperante»

40

. Residua e disperata ribellione nell’uno, nel secondo è un tratto costitutivo vanamente sacrificato nel gioco del cortigiano

41

, sfumato nel sogno di libertà del vagabondo.

1.3 La lezione di Democrito

Una seconda traccia affluente nel filone della melancolia è legata alla figura di Democrito, recepita da Alberti attraverso due letture fondamentali: da un lato, l’Epistola a Damageto pseudo-ippocratica, dall’altro il topos (probabilmente attinto a Luciano

42

) che vede contrapposto il riso di Democrito al pianto di Eraclito.

Nel Momo è rintracciabile una interessante riscrittura sincretistica delle due fonti, precisamente nel passo del libro III in cui si racconta dell’incontro avvenuto tra Apollo, inviato a consultare i filosofi per conto di Giove, e l’Abderita

43

. Il dio era stato informato dei pareri contrastanti sul filosofo, che lo volevano folle o straordinariamente saggio. L’atteggiamento bizzarro di Democrito, tutto immerso in

40 D. FEDELE, Il parresiasta punito, art. cit., p. 102 sgg.

41 Rinuncia obliquamente compensata dall’astuto impiego dell’eloquenza, grazie alla quale Momo spera comunque di conservare la propria libertà; cfr. L. B. ALBERTI, Momo, l. I, op.

cit., p. 56 sgg.

42 Sulla ripresa dell’epistola, cfr. L. BOSCHETTO, Studi sul Theogenius e sul Momus di Leon Battista Alberti, art. cit., p. 15 sgg.

43 L. B. ALBERTI, Momo, l. III, op. cit., pp. 209-213.

(23)

solitaria riflessione, concentrato sulla dissezione di vari animaletti, sembrerebbe avallare la prima ipotesi. Apollo, tuttavia, riesce a trovare l’espediente adatto a rompere l’ostinato mutismo in cui l’Abderita era chiuso, con una sorta di strana pantomima:

Mi è venuta un’idea: ho preso una cipolla dal campo vicino, l’ho divisa in due e mi son piazzato di fronte a lui, poi mi son messo a imitare tutti i gesti e tutti i movimenti che faceva: […] l’unica differenza era che Democrito aveva gli occhi asciutti, io invece li avevo pieni di lacrime per il fastidio che mi dava l’odore pungente della cipolla. Per non farla lunga, con quella trovata da buffone ho ottenuto lo scopo che non avevo potuto raggiungere facendo la persona seria, cioè riuscire a parlare con lui. In fatti mi osservò da capo a piedi ridacchiando, poi disse: “Ehi tu, cosa fai lì che piangi?”. Allora io, replicai, squadrandolo a mia volta, “Tu piuttosto che fai, che hai da ridere?”

44

Prende così avvio la conversazione tra i due, in virtù della quale l’emissario di Giove riesce non solo ad appurare la verità, per cui Democrito non sarebbe affatto pazzo, ma anche ad ottenere la sua opinione sulle conseguenze della distruzione del cosmo da parte degli dei

45

.

Sono diversi gli aspetti che giustificano l’interesse albertiano per questa rappresentazione del naturalista di Abdera. In primo luogo, il filosofo che, alla maniera di un Sileno socratico, dimostra una profonda sapienza sotto la parvenza della follia, si inserisce

44 Ibidem, p. 209.

45 Ibidem, p. 213. Sulla comicità albertiana e il riso democriteo cfr. R. CARDINI, Alberti o della nascita dell’umorismo moderno, in Schede umanistiche, vol.1, 1993, pp. 31-85.

(24)

perfettamente all’interno della cornice tematica dell’opera, in cui il contrasto tra apparenza e realtà, insieme al motivo della maschera, sono centrali. La logica del rovesciamento carnascialesco

46

, infatti, è l’unico vero (e insieme paradossale) ordine sotteso alle vicende umane e divine dispiegate nei quattro libri che compongono il Momo.

Inoltre, l’impegno del melancolico Democrito nell’indagine sulle cause della follia

47

, va incontro a quella idea del valore terapeutico della filosofia e della scrittura, che avrà largo seguito negli autori melancolici posteriori: Ficino scrive il De vita sana

48

; Montagine dà l’avvio alla stesura degli Essais in seguito alla perdita dell’amico La Boetie, causa principale della sua melancolia; Robert Burton, sotto lo pseudonimo di Democritus Junior, compone l’Anatomia della melancolia presentando se stesso come affetto da eccesso di bile nera

49

.

46 Cfr. Momo (episodio del sul per burla nel libro IV; o ancora, nel libro II gioca sul paradosso che vede contrapporsi la schiavitù del monarca alla libertà del vagabondo); un capovolgimento simile anche nell’intercenale Somnium, dove il pedante Libripeta, preso per pazzo da Lepido, sostiene di essere stato spinto in una fogna dalla sua «grande saggezza». Sull’ordine paradossale cfr A. Di Grado, L’ombra del camaleonte, op. cit.;

Catanorchi osserva come, in effetti, il disordine provocato da Momo non sia sanato dal ripristino dell’ordine, ma da un caos di ordine maggiore: O. CATANORCHI, art. cit., p.

152.

47 Così nel testo pseudo-ippocratico; sebbene Ippocrate certifichi che gli abderiti sbagliavano a ritenerlo folle, pure Democrito includeva se stesso nella universale follia che accomuna gli uomini. Di qui la possibilità di vedere nella scrittura democritea una funzione auto-terapeutica.

48 Primo dei tre libri che compongono il De vita triplici, e dedicato specificamente alla melancolica cui sono soggetti gli studiosi; cfr. supra, Introduzione, p. 2; egli stesso si definisce un melancolico nato sotto Saturno.

49 R.BURTON, Satyrical Preface, in The Anatomy of Melancholy; sul tema cfr. J.

STAROBINSKI, L’inchiostro della malinconia, op. cit., pp. 125-167.

(25)

In più luoghi Alberti sembra aderire a questa visione, probabilmente prendendo spunto anche da Cicerone

50

, adottando più specificamente il valore del riso democriteo, curativo, dissacrante e liberatorio – il che sembrerebbe coerente con il tono spesso amaro della comicità albertiana, nonché con l’inclinazione al sarcasmo e all’ironia.

Significativo in tal senso è il Proemio al libro I delle Intercenali, dedicato a Paolo Toscanelli:

Tu, come gli altri medici, mio carissimo Paolo, dai agli ammalati medicine amare che inducono il disgusto. Io, invece, con questi miei scritti propongo una terapia dei disagi psicologici [morbus animi] che si fonda sull’umorismo e sulla comicità [risus atque hilaritate]

51

.

Ancor più interessante, da questo punto di vista, è la Vita di Leon Battista Alberti, di pugno dello stesso Battista

52

. Infatti, se il nostro si dilettava nel comporre elogi altisonanti di animali umili (come il Canis e la Musca), riserva il medesimo atteggiamento ironico nell’intessere le proprie lodi: dal racconto della fanciullezza prodigiosa, alle

50 Della centralità di Cicerone e delle sue Tuscolane si è già detto sopra. Per quanto riguarda la scrittura curativa, si ricordi anche la dedica del Theogenius a Lionello d’Este, in cui Alberti dichiara di aver composto il trattatello morale a scopo autoconsolatorio.

51 L. B. ALBERTI, Intercenales, op. cit., p. 3. Similmente, Alberti racconta di aver scritto la Musca, una lode parodica della mosca, durante un periodo di infermità, in tal modo superato; ancora, nell’autobiografia dichiara di aver composto la commedia Philodoxeus Fabula nella fase di degenza legata alla malattia che gli studi troppo intensi avevano provocato.

52 M. PAOLI, Leon Battista Alberti, Bollati-Boringhieri, Torino, 2007.

(26)

inverosimili prodezze atletiche

53

, ritroviamo del pari elementi esagerati con intenzione comica.

Soprattutto, sembrerebbe farsi beffe della sua stessa inclinazione alla mestizia, provocata dagli studi intensi e speculazioni. Dapprima, descrive alcuni dei suoi accessi di tristizia:

Mai il suo animo si asteneva dalla riflessione e dalla meditazione;

raramente faceva ritorno a casa, dopo essere stato fra altre persone, senza qualcosa su cui meditare, anzi meditava anche durante le cene.

Accadeva allora che diventasse molto taciturno e solitario e cupo ma mai scontroso nei modi, anzi, fra gli amici, si mostrava sempre allegro e, senza perdere il senso del decoro, scherzoso

54

.

Più avanti, dopo aver passato in rassegna la lunga serie di discipline cui si era dedicato, e le numerose imprese intellettuali, sembra appunto caricaturare l’afflizione dello studioso in continua sollecitudine e desiderio di produrre, ritraendosi mentre si scioglie in lacrime in preda a un’iperbolica commozione suscitata dalla semplice vista del paesaggio:

Quando, in primavera, vedeva i campi e i colli in fiore, e si accorgeva che gli arbusti e le piante offrivano tutti la massima speranza di trarre da loro frutti, l’animo si rattristava fortemente e si rimproverava con queste parole: “Ora occorre che anche tu, Battista, prometta al genere umano [sic!] un qualche frutto dei tuoi studi”. Quando poi vedeva i campi carichi di messi e gli alberi in autunno piegarsi sotto il peso dei frutti, a tal punto veniva dalla tristezza che vi sono alcuni che lo videro talvolta piangere per il dolore dell’animo e l’udirono mormorare queste parole: “Ecco Leone, come da ogni parte ci circondano testimoni e

53 L. B. ALBERTI, Autobiografia, BUR, Milano, 2012, pp. 65-7.

54 Ibidem, p. 83, corsivi miei.

(27)

accusatori della nostra inerzia. E che cosa mai c’è in qualunque posto che, in un intero anno, non abbia prodotto molta utilità di sé agli uomini? Ma tu cosa hai mai da poter offrire di compiuto da te rispetto al tuo compito?

55

Alberti mostra così a un tempo il volto allegro e quello penseroso, che improntano i due diversi approcci alla cura del morbus animi, la scrittura consolatoria da un lato, e quella ludica dall’altro, o ancora la voce di Lepido o di Genipatro. È questo anche il senso del topos riguardante Eraclito e Democrito, ovvero la rappresentazione di due visioni del mondo e due risposte di segno opposto ad una medesima realtà; ne è esempio il racconto di Momo dei suoi dibattiti con i filosofi durante il soggiorno in Etruria: uno stesso episodio può essere sia storiella faceta per il Momo-buffone, sia drammatico j’accuse del Momo-censore

56

.

Eppure, comico e tragico non sono semplicemente contrapposti, ma rivelano una specularità e intima affinità. D’altronde, assicura Alberti, Riso e Pianto sono in realtà quasi indistinguibili:

Erano infra a que’ divi el Pianto e ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un sol parto, figliuoli nati della dea Mollizie e di quello Fauno quale e’ chiamano Stolidasperum. Pirteo […] quando e’ divenne a questi due

55 Ibidem, p. 97, corsivi miei. La smania del letterato è attribuita anche a Libripeta, nell’intercenale Somnium, il quale può mettere fine alla sua sterilità letteraria e ambire al nome di filosofo dopo essere stato nelle regioni del sogno. Qui Battista, forse ancora con intento ironico, si rimprovera la propria inconcludenza appellandosi col suo secondo nome da letterato, Leone. Il riso, inoltre, è una delle armi di cui Alberti racconta di servirsi per rispondere agli attacchi dei detrattori e per controllare l’ira cui per natura era incline. Cfr.

L. B. ALBERTI, Autobiografia, op. cit., p. 79.

56 L. B. ALBERTI, Momo, l. II, op. cit., pp. 107-112, pp. 141-151.

(28)

fratelli, e’ si fermò, ché non potea non maravigliarsi mirando quanto e’ fussero in ogni loro effigie e lineamenti troppo simili…

57

Per questo serietà e comicità possono intrecciarsi e ibridarsi, come accade ad esempio nel Momo, nello sforzo di proporre con “comica piacevolezza” materie della “massima gravità”

58

.

Ma l’amarezza del riso squisitamente democriteo si riconosce soprattutto nell’alone grottesco che avvolge le meschinità dei celesti, la vanità e vuota presunzione dei filosofi, nonché le mille follie degli uomini – d’altronde, «uno scherzo della natura è la vita umana»

59

.

57 L. B. ALBERTI, Profugiorum ab aerumna, op. cit., p. 93. In questo passo prevale la lettura negativa del pianto e del riso; similmente, nel Momo, I, pianto e riso (insieme alla finzione) sono i doni che la dea Frode elargisce alle donne.

58 L. B. ALBERTI, Momo, op. cit., Proemio, p. 27.

59 Ibidem, p. 143.

(29)

2. Melancolia religiosa

2.1 Ficino e l’empietà melancolica: tra contrarietà e follia dei curiosi

Il rapporto tra irreligiosità e melancolia è divenuto oggetto di trattazione sistematica piuttosto tardivamente, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento; a questo periodo, infatti, sono ascrivibili due testi esemplari in tal senso, quali On Melancholy di Timotie Bright e la terza sezione de The anatomy of melancholy di Robert Burton. Recentemente, James Hankins

60

ha individuato la trattazione più antica del tema in Marsilio Ficino, dunque proprio in quell’autore che era stato fautore del riscatto del temperamento melancolico. In effetti, Ficino sembra essere stato ben consapevole di una possibile correlazione tra umor nero ed empietà, e di conseguenza del rischio che la propria interpretazione “nobilitante”

comportava: il potenziamento di tale empietà attraverso la sua legittimazione intellettualistica.

Se infatti il temperamento melancolico era il temperamento degli uomini di genio, protagonisti di un accesso eccezionale alle verità più

60 J. HANKINS, «Malinconia mostruosa»: Ficino e le cause fisiologiche dell’ateismo, in Rinascimento, n. 47, 2007, pp. 3-23.

(30)

profonde

61

; se la melancolia è una delle condizioni della libertà dell’anima, nella misura in cui favorisce quel movimento della mente dalla periferia della corporeità, delle sensazioni, delle passioni, al centro puro della riflessione – ovvero, la concentrazione

62

; pure, gli esiti di questa sapienza profonda devono essere recisamente distinti da quelli derivanti dall’inclinazione tipicamente atrabiliare al sospetto e al dubbio – i quali, portati all’estremo, abbracciano fatalmente le verità di fede. Questa distinzione, pertanto, deve valere a scongiurare l’equazione tra genio e ateismo.

Ficino sviluppa questa problematica confrontandosi polemicamente con un pensatore controverso come Lucrezio

63

, del quale aveva frequentato gli scritti sin dalla giovinezza. Benché in un primo momento Marsilio avesse salutato l’autore del De rerum natura come il «nobilissimo» epicureo che aveva liberato l’anima dalle sue paure,

61 M. FICINO, Sulla vita, I, op. cit., p. 108 sgg.

62 M. FICINO, Teologia Platonica, XII.2, Bompiani, Milano, 2005, p. 1215 sgg; così anche nel suo Sulla vita, op. cit., pp. 103, 108.

63 Il De rerum natura lucreziano era entrato nella biblioteca umanistica grazie al ritrovamento di Poggio Bracciolini, nel 1417; l’anno prima, le Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio erano state portate da Costantinopoli (la cui traduzione latina viene portata a termine circa un decennio più tardi da Ambrogio Traversari), la cui sezione sull’epicureismo costituisce l’altra fonte decisiva per questa scuola filosofica e per la ricezione dello stesso Lucrezio. Il de rerum natura viene infine proibito dal sinodo fiorentino del 1516 in quanto opera empia che sostiene a mortalità dell’anima. Cfr S.

GENTILE, Il ritorno delle culture classiche, in Le filosofie del Rinascimento, AA.VV., a cura di C. Vasoli, Mondadori, Milano, 2002, pp. 70-91; J. HANKINS, The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, B. COPENHAVER, C. B. SCHMITT, Renaissance philosophy, in particolare cap. 4, Stoics, Sceptics, Epicureans and other innovators, Oxford University Press, New York, 1992, pp. 196-268; A. PALMER, Reading Lucretius in the Renaissance, in Journal of the History of Ideas, 73 (2012), pp. 395-416.

(31)

in seguito alla crisi religiosa attraversata intorno ai trent’anni la sua posizione nei confronti di Lucrezio muta radicalmente

64

. Il tentativo di preservare il valore edificante della voluptas epicurea e lucreziana aveva ceduto, senza possibilità di compromesso, di fronte all’inconciliabilità delle posizioni materialistiche e antireligiose di Lucrezio con l’ortodossia cristiana. Passaggio significativo di questo nuovo atteggiamento è la confutazione puntuale, nella Teologia Platonica

65

, di alcune tesi lucreziane riguardanti lo statuto della religione, secondo le quali essa dipenderebbe dalla corruzione della complessione, da una convenzione sociale, o da influssi celesti.

È nell’affrontare il primo dei tre argomenti che Ficino tenta di recidere i nodi che legano insieme melancolia, genio e irreligiosità.

In primo luogo, sostiene Ficino, affermare che la religiosità sia determinata da uno stato patologico è affatto assurdo, in quanto essa

64 Ficino, insieme a Bartolomeo Scala, erano stati i primi due umanisti a manifestare apertamente il loro apprezzamento per Lucrezio. Dalle lettere, in cui più volte cita direttamente dal poema, emerge una grande familiarità con quell’opera, e l’intento di enfatizzare la filosofia lucreziana quale guida per la serenità ed emancipazione dalla paura.

Emblematico l’episodio della distruzione dei Commentariola. Cfr. A. BROWN, Machiavelli e Lucrezio, Carocci, Roma, 2013, in particolare, cap. 1, La rinascita dell’epicureismo a Firenze e in Italia, pp. 21-32, cap. 2 Firenze medicea: Marsilio Ficino e Bartolomeo Scala, pp. 33-54; J. G.

SNYDER, Marsilio Ficino’s critique of the Lucretian Alternative, in Journal of the History of Ideas, n 2, vol. 72, 2011, pp. 165-81. J. HANKINS, Ficino’s critique to Lucretius, in The Rebirth of Platonic Theology, Leo S. Olschki, Firenze, 2013, pp. 137-154.

65 M. FICINO, Teologia Platonica, op. cit., p. 1359. LUCREZIO, De rerum natura, V, vv. 1161- 1240.

(32)

è, al contrario, predicato essenziale della natura umana

66

. Proprio per questo tutti gli uomini, in tutti i tempi, hanno mostrato un’inclinazione al culto, e persino quella minoranza che sembra rifiutare la religione, o si limita a simulare la pietà, di fatto non può esserne del tutto priva. Pertanto, sono quei casi sporadici di incredulità ad essere confinabili nella sfera della deviazione e dell’aberrazione, e non la maggioranza devota. La posizione di un paradigma normativo antropologico è punto di partenza, per Ficino, per minare alla base la validità delle tesi antireligiose:

misconoscendone ogni valore teoretico, esse vengono ridotte semplicemente a sintomo di malessere psicologico (ribaltando, con ciò stesso, anche un’altra asserzione lucreziana, per cui la devozione riguarderebbe solo gli uomini incolti).

Tuttavia, la scelta di ricorrere alla teoria galenica per affrontare Lucrezio sul suo stesso terreno, quello naturalistico, espone l’argomentazione ficiniana ad esiti materialistici

67

, laddove, al contempo, restano sottaciute questioni di ordine più strettamente

66 J. HANKINS, «Malinconia mostruosa», art. cit., p. 16; anche nel De christiana religione Ficino pone la religiosità come un attributo antropologico. Ancora, sempre nella Teologia platonica leggiamo: «D’altra parte, ciò che si riscontra in un maggior numero di individui e inoltre più perfetti, viene ritenuto naturale. Ciò che si riscontra in pochissimi e per giunta ammalati, è considerato mostruoso. Ora però ciò che è naturale suole essere di certo veridico, mentre ciò che è mostruoso fallace», M. FICINO, Teologia Platonica, op. cit., p. 1367.

67 Ancora Hankins ha messo in evidenza questa possibilità, conseguente all’assunzione del modello medico galenico: cfr. J. HANKINS, «Malinconia mostruosa», art. cit., p. 12 sgg.

(33)

teologico - ad esempio, il ruolo della volontà, e dunque della responsabilità morale, nell’empietà melancolica.

Ad ogni modo, Ficino ritorna su alcuni fenomeni legati all’umor nero già individuati nel primo libro del De Vita - mantenendo la distinzione tra temperamento melancolico («causa naturale») e insorgere della melancolia legato all’intensa attività di studio («causa umana») - ma portandone in luce i risvolti religiosi.

«A ciò va aggiunto che molti uomini, quale che sia l’arte in cui eccellono, o sono melancolici, come furono Eraclito, Aristotele, o lo diventano, come è accaduto a Democrito

68

, Zenone di Cizio, l’arabo Avempace, Averroè. Questo umore è freddo, secco e nero, che sono tre qualità contrarie a vigore vitale, vale a dire il calore e l’umore e spirito luminescente. Pertanto, l’umore melancolico, al modo di ciò che è contrario alla vita, toglie la speranza vitale, suscitando nell’animo un sospetto avverso alla vita. Per cui sovente essi dubitano e diffidano dell’immortalità dell’animo. Come Avampace scrive essergli accaduto. La loro sfiducia non deriva dal fatto che essi posseggono un’intelligenza e una dottrina superiore, ma dal sospetto e dal timore che suscita l’umor terreo. Anche gli omuncoli incolti ed

68 Si noti la presenza di Eraclito e Democrito all’interno dell’elenco di melancolici sapienti.

Come Alberti, anche Ficino aveva fatto proprio il topos del Democrito che ride e del pianto d’Eraclito. Riso e pianto, ancora una volta, accomunati da un medesimo oggetto, le miserie e le contraddizioni umane. Da quanto emerge dal suo epistolario, Ficino aveva fatto dipingere nel suo gymnasium «la sfera del mondo, e da una banda Democrito, da l’altra Heraclito; uno de’ quali ride, l’altro piange», M. FICINO, Le divine lettere del gran Marsilio Ficino; trad. di F. Figliucci. http: www.bivio.sns.it .

(34)

ottusi sovente sono disperati, qualora siano oppressi dal quel medesimo umore»

69

In primo luogo, Ficino rielabora il motivo della disperazione, ampiamente trattato dalla teologia medievale

70

, in chiave puramente fisiologica. Svincolata dal sentimento della inesorabilità del giudizio divino, essa è piuttosto determinata dal dubbio e da una sospettosità ossessiva, a loro volta ricondotti a uno stato di profonda alienazione e avversione alla vita stessa. L’idea che il melancolico incarni la negazione dei principi vitali, costituisce un punto centrale: in tal modo, infatti, emerge in maniera plastica il significato della contrarietà che caratterizza la condizione esistenziale del melancolico, responsabile della sua irriducibile tendenza a dubitare di ogni cosa, a mettere in discussione l’intero sistema di valori stabilito

71

. Il rapporto disarmonico dell’atrabiliare era stato messo a fuoco già in altri scritti ficiniani, ma solo qui esso viene portato fino alle sue estreme conseguenze e mostrato nella sua forma più distruttiva, esprimendosi

69 M. FICINO, Teologia Platonica, op. cit., p. 1365; nel capitolo seguente Ficino passa al vaglio anche la componente astrologica.

70 S. SNYDER, The Left Hand of God: despair in Medieval and Renaissance tradition, in Studies in Renaissance, 12 (1965), pp. 18-59.

71 In Ficino la disarmonia del melancolico può assumere varie declinazioni, come nel caso della discronia rispetto ai ritmi naturali indicata nel libro I del De vita, op. cit., pp. 111-113.

Sul tema dell’armonia torno più diffusamente più avanti, vedi infra I.2.1 e II.2.1.

(35)

nel sospetto corrosivo che arriva a scardinare i fondamenti dogmatici della concezione della realtà.

D’altra parte, proprio la posizione armonica o disarmonica dell’animo dell’atrabiliare rispetto al resto dell’essere segna il crinale tra la melancolia benefica e quella nociva. Infatti, come accennato sopra

72

, se l’umor nero può produrre il moto della mente verso il suo centro e verso il centro delle cose, consentendo di coglierne l’essenza, e facendo sì che la mente stessa sia «in armonia con il centro del mondo»

73

, allo stesso tempo esso (laddove la bile non sia temperata e purificata) può realizzare l’effetto diametralmente opposto, decadendo in disperazione mortifera e delirio

74

.

Il secondo fattore analizzato da Ficino passa riguarda la «causa umana», ossia l’eccessiva dedizione agli studi; in questo caso, l’aspetto fisiologico e quello morale si intrecciano in maniera più complessa, attraverso un velato richiamo alla concezione medievale della curiositas:

E non soltanto una complessione nociva contratta o a causa dei genitori o per via di una influenza astrale allontana il genere umano dalla religione, ma una qualità indotta dall’uso, come abbiamo

72 Vedi infra, p. 62.

73 M. FICINO, Sulla vita, op. cit., p. 108.

74 Proprio il caso di Lucrezio è emblematico, il quale, secondo Ficino, avrebbe perduto l’anima e il corpo (col suicidio) a causa della follia melancolica; cfr. M. FICINO, Teologia Platonica, XIV.10, op. cit., p. 1367.

(36)

indicato all’inizio. Infatti, gli uomini eccessivamente ansiosi di sapere [curiosi] in una qualsiasi disciplina, a causa dell’eccessiva agitazione cerebrale e del disseccamento che l’accompagna, solitamente in certo modo perdono il senno. […] Pertanto non è sorprendente che uomini ansiosi di conoscere [curiosi] le arti a volte farnetichino palesemente sia nel campo della religione sia in altri campi, la loro insania si rivela chiaramente sia nei costumi estremamente leggeri, sia nelle opinioni troppo ridicole e incoerenti su molti argomenti.

75

Accanto al processo materiale di essiccamento del cervello

76

prodotto dall’intensa attività mentale, in effetti, sembrerebbe esservi un’allusione alla vana curiositas agostiniana.

Già gli autori medievali avevano istituito un nesso tra il peccato d’accidia, sotto molti aspetti affine alla condizione melancolica, e la curiosità; tuttavia, nell’elaborazione ficiniana essa, come vedremo, assume un diverso significato

77

. Nel caso dell’accidioso, la curiositas si configura principalmente come un divagare della mente che rispecchia esattamente la sua irrequietezza materiale, ovvero all’incapacità di trovar pace in alcun luogo e il conseguente vagare

75 Ibidem, p. 1369.

76 Cfr. M. FICINO, Sulla vita, I, op. cit., p. 103: «Poiché la frequente attività della mente essicca il cervello, per questo, consumatosi in gran parte l’umore, che è il nutrimento del calore naturale, di solito si estingue anche il calore, e così la natura del cervello diventa fredda e secca, e questa invero è una qualità terrestre e malinconica. Inoltre per il continuo movimento della ricerca, anche gli spiriti, mossi senza tregua, si dissolvono».

77 S. W. JACKSON, Acedia the sin and its relation to sorrow and melancholia in Medieval times, in Bullettin of the history of medicine, vol. 55, n. 2, 1981; C. CASAGRANDE, I sette vizi capitali, Einaudi, Torino, 2000, pp. 78-123.

Riferimenti

Documenti correlati

Infatti, quanto più gli atomi sono piccoli tanto più la fila si allunga, quindi la lunghezza della fila ottenuta sarebbe indicativa della loro reale dimensione.. In particolare,

Dal punto di vista pratico, essendo consapevoli dei tempi lunghi che sono necessari per realizzare qual- siasi cambiamento in ambito uni- versitario, proponiamo che si co- minci

106 cp,c, (esemplare la contestazione della c.d.. PROTO PISANI, Per un nuovo codice di procedura civile , cit., vi è,dai punti 2.16 ai punti 2.21 , la previsione -

Se pur temporanei tali sbilanci, specialmente se isolati in periodi di incertezza, devono pesare sul cambio ed essere pericolosi se, attraverso un prolungato

Nei miei venti minuti, vorrei sottolineare questo punto: oltre alla teoria della trasformazione della materia in generale ed oltre al parallelismo delle immagini alchemiche con

Un primo gruppo di indagini riguarda quelle mensili sulla produzione, il fatturato e gli ordinativi dell'industria (vedi Bollettino mensile di statistica); un secondo

Paolo Nepa; inoltre un ringraziamento speciale va a tutti i componenti del Gruppo di Ricerca in Elettromagnetismo Applicato, in particolar modo all’Ing.. Alice

Risorse liberate da scadenze brevettuali e utilizzate per i farmaci innovativi (milioni di euro, somma anni 2010-2011, spesa farmaceutica territoriale). Risorse effettivamente