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A RCHAIOLOGIA , O : IL DISCORSO SUI MAESTRI

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Academic year: 2021

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A RCHAIOLOGIA , O : IL DISCORSO SUI MAESTRI

Questo capitolo ‘zero’ nasce da una domanda sorta quasi spontanea durante le ricerche del primo anno: da dove trae origine l’interesse di Pasolini per il mondo classico? Un interesse che andavo scoprendo sempre più vario; esteso dagli autori canonici a testi iperspecialistici, e dai più noti capolavori dell’arte classica alle arti minori, ai manufatti ordinari. Il più delle risposte è emerso dalla verifica negli archivi del Liceo Galvani di Bologna e della locale università (l’Archivio Storico dell’Università di Bologna

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): le due principali istituzioni della formazione pasoliniana, classica e complessiva; lì, fra le carte care alla disciplina storica, ho trovato le risposte che si potevano congetturare anche per vie traverse, cioè limitandosi ai campi della biografia e dell’intervista, o che invece valutazioni a tavolino avrebbero potuto addirittura escludere perché alla luce dell’epistolario, così polemico verso certo studio e certi professori universitari, o di scritti tardi come Che cosa è un maestro?, così dissacrante e rivelatore, o finanche del silenzio sulle personali esperienze di alunno, anch’esso ‘eloquente’, e, più a monte, in considerazione della storia italiana degli anni

’30 e ’40, segnata tanto da catastrofi fattuali come l’occupazione nazista di Bologna quanto da travisamenti culturali come la romanizzazione degli studi classici, in considerazione di tutto ciò sarebbe parso inverosimile il magistero di un Coppola o dei tanti, a dire del nostro, professori «travet»

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. L’obiettivo di questo capitolo non è ribaltare la verità dell’autore, ossia porre al di sopra o all’esatto fianco di Roberto Longhi i nomi di altri insegnanti incontrati fra il liceo e l’università; bensì completarla:

renderla più complessa (e più vera) recuperando e dando il ‘giusto’ spazio a quei dettagli che invece il nostro preferì tacere. Giusto nella convinzione che siamo chi incontriamo e tanto più Pasolini, il quale non solo rimase sedotto dalla testimonianza dei maestri ma si fece carico della loro eredità insegnando lettere nella campagna friulana, sia pure con il proprio stile e già con volontà di innovazione rispetto alla norma; e se è vero che il magistero di Pasolini non durò a lungo fra le mura del casale di Versuta (o delle aule scolastiche di Valvasone e Ciampino), è indubbia la vocazione pedagogica di tanti suoi scritti: segno di una continuità oltre che di una trasformazione.

E giusto anche nella consapevolezza che il giovane poeta sentì presto l’urgenza di oltrepassare i limiti della cultura classica di allora, così ancorata al mero dato storico- letterario da trascurare due aspetti ai quali lui più di qualunque altro letterato novecentesco diede al contrario netto risalto (l’iconico e l’antropologico): non solo gli scritti e i film della maturità ci sollecitano a non attribuire un peso soverchio al contributo degli studi classici giovanili, ma pure alcune predilezioni degli stessi anni in  

1 D’ora in poi ASUB.

2 PASOLINI 1999a, p. 2594.

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cui si formò, sopra tutte lo studio da ‘autodidatta’ (!) dell’archeologia e dell’arte classiche. Ho deciso di chiamarlo capitolo zero perché – lo dimostrerà il capitolo uno – le vie del classicismo pasoliniano partono quasi subito dall’infrazione del patrimonio tradizionale, dal superamento dell’eredità dei maestri; la storia della sua formazione andava posta a un livello anteriore, quello di una tabula rasa sulla quale scrivere una personale versione dell’antico o, meglio, erigere un monumento... per ridere

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. Ma se fu in grado di proporre con forza e personalità un’idea dissacrante del classico (meno in principio, sempre più dagli anni ’60, del tutto in Petrolio/Vas), lo dobbiamo proprio all’incontro con dei professori eccezionali che posero le basi da radere al suolo: un incontro su cui non tutti i letterati italiani del Novecento ebbero la fortuna di poter contare, sia, intendo, chi ricevette una formazione classica (e.g. Edoardo Sanguineti, Guido Ceronetti o Vincenzo Consolo) sia chi fu costretto a costruirsela da sé (Salvatore Quasimodo e Cesare Pavese, solo per citare i nomi più illustri). Poiché sono il primo a scrivere la storia della formazione classica di Pasolini ho scelto di esporla ben oltre l’eredità dei maestri: questa, beninteso, rimane al centro dell’attenzione, tuttavia ho dato conto di dettagli evenemenziali e incluso alcuni insegnanti che non ebbero l’aura di Carlo Gallavotti e Goffredo Coppola, perché risultasse meno evanescente un quadro che andrà in ogni caso precisato da chi mi seguirà, magari non solo in riferimento al latino e al greco. Infine, poiché la testimonianza non è mai resa solo da persone in carne e ossa, ho contato fra i “maestri” persino dei libri. I testi scolastici che sono riuscito a ricavare dai suddetti archivi sono tutti elencati nella bibliografia finale e in parte discussi in questo capitolo: essi hanno anzitutto un valore storico-filologico, ossia vanno letti come fonti di alcune opere giovanili oltre che espressione della cultura accademica nella quale Pasolini si formò; ma esistono tre “libri” non strettamente scolastici che hanno valicato tale significato diventando delle auctoritates da tenere quasi sempre in mano (o in mente), alla stregua dell’universale einaudiano dei Canti popolari greci antologizzati da Tommaseo: fra questi spicca il manuale di arte classica di Pericle Ducati.

0.0. Liceo Manin, 1933-1935: i disegni, lo scudo e le carte di Omero

Del manuale di Ducati parlerò in seguito, qui basta anticipare che è una modesta opera di compilazione ma di grande pregio per l’apparato iconografico: fotografie e disegni che colpirono l’immaginario di Pasolini al punto da fungere da «guida erotica»

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. Però la fascinazione per l’immagine classica non riguarda solo lo studente universitario, accese già il ginnasiale al primo incontro con Omero e di questa seduzione rimane  

3 Alludo al passo allegorico che chiude l’Appunto 74 di Petrolio/Vas, glossato dallo stesso Pasolini con l’Appunto 74a; all’ultima delle Visioni di Carla di Tetis: cioè la versione ingigantita della statua gastrocefala di Baubo da Priene che l’autore pone quale sintesi emblematica del proprio monumentum testuale, summa a sua volta di tutta l’esperienza artistico-letteraria precedente Petrolio/Vas. Vd. PASOLINI 1998c, pp. 1636-1639 e cfr., per una buona esegesi, DE

LAUDE 2015, pp. 43-49 (nonché infra, par. 6.1).

4 SITI 2004, p. 167.

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traccia in un progetto narrativo concepito (e naufragato) nei primi anni romani, il Romanzo del Mare (1951); il relitto consta di due frammenti, editi per la prima volta come parte di un unico laboratorio da Walter Siti e Silvia De Laude (1998) e ancora, dopo un ventennio, pressoché sconosciuti (messi in ombra dalla ribalta di Petrolio/Vas):

Coleo di Samo e Operetta marina

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. Del primo, che è un testo erudito-sperimentale sul vago esempio del primo abbozzo di Amado mio (di pochi anni anteriore), discuterò nel dettaglio alla fine del capitolo successivo: Coleo di Samo può infatti essere considerato una vera e propria opera-cerniera fra il primo tempo del classicismo pasoliniano, innovativo solo a sprazzi, e quello più spigliato della maturità, che dalla satira e da una tragedia letta con lenti insieme filologiche, psicanalitiche e antropologiche alla fine lo avrebbe portato all’opzione per il paradigma cinico e per la stessa mistica pagana:

classicismo dunque ridotto all’osso nei suoi schemi testuali-letterari e rivitalizzato addirittura come filosofia di vita. Operetta marina è invece una prosa di minore sperimentazione e minor impegno: un frammento dominato dal modello proustiano e di cui forse alcune pagine risalgono già al lungo soggiorno casarsese (postbellico); se l’intero Romanzo del Mare avrebbe dovuto far convergere la storia dell’infanzia di Pasolini con quella marina, dalla cosmogonia alle esplorazioni più e meno note, e Coleo di Samo va parzialmente in siffatta (ambiziosa) direzione, Operetta marina – in quanto testo assai più autobiografistico del primo – rivela qui anzitutto un valore documentale, cioè quello di fonte utile a ricordare la prima tappa della formazione classica del poeta:

il Liceo Manin di Cremona, presso il quale studiò per quattro anni scolastici; per alcuni mesi frequentò anche i ginnasi di Conegliano (ossia la prima metà della prima ginnasio, a. s. 1932-1933) e di Reggio Emilia (la seconda metà della quarta, a. s. 1935-1936, e la prima metà della quinta, a. s. 1936-1937), ma dal 1933 a tutto il 1935 trovò l’agognata continuità nella scuola lombarda

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. Beninteso, Operetta marina non è un puntuale diario di bordo: non consente di ricavare quanto ho dedotto degli archivi bolognesi; però contiene dei particolari non trascurabili – li vedremo fra poco. Quello che giudico l’elemento più originale e in comune con il Coleo di Samo, a parte l’idea complessiva di legare mito e biografia (ripresa con maggiore unità e maturità, nonché in altre direzioni, nel film Edipo re), è lo spazio concesso al dato iconico, che si tratti dei fotogrammi di Mutiny on the Bounty di Frank Lloyd, delle illustrazioni ‘fotografiche’ della battaglia navale di Port Arthur scorte in una raccolta di Domeniche del Corriere, dei disegni dei romanzi illustrati di Salgari, delle edizioni scolastiche di Omero, del dizionario Melzi o di imprecisati volumi per i «piccoli» che catalogavano, raffiguravano e raccontavano la storia di velieri e navi famose. È vero che nel caso di entrambi i frammenti siamo ancora ben lungi dall’idea di forzare il testo ‘scritto’ non solo con alfabeti incomprensibili (ai più e alle più), ossia di mero impatto visuale per chi non era parte  

5 Operetta marina fu pubblicato per la prima volta da Nico Naldini in coda a un altro testo narrativo giovanile mai licenziato, Romans (Guanda, 1994). I Frammenti per un Romanzo del Mare ora si leggono in PASOLINI 1998b, pp. 339-365 (Coleo di Samo), 367-420 (Operetta marina).

6 I dati cronologici sono ricavati dai due principali biografi di Pasolini: NALDINI 1998, pp. cli-clii e SICILIANO

2015, pp. 54-55.

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della ristretta cerchia dei mystai, ma soprattutto con fotografie – i celebri scatti di Dino Pedriali – allusive sia alla nudità cinica sia alla stessa immagine-summa di Baubo, al gesto dell’anasyrma e ai culti eleusini così spesso evocati nel corso di Petrolio/Vas:

tutti ordigni che avrebbero dovuto frantumare una tradizione logocentrica che già dai primi anni ’60 Pasolini sentì sempre più stretta

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; ed è vero che in Operetta marina lo spazio concesso all’immagine riflette anzitutto un aspetto ludico-infantile universale: la possibilità di dare corso alla fantasia di fronte a una carta geografica o a un’immagine (fissa), l’accensione della conoscenza e dell’avventura nel bambino che legge un testo figurato; è, questo, un aspetto che emerge chiarissimo dalla lettura dei tre capitoli del frammento e che resterà lampante fino a che tablet e smartphone non soppianteranno il libro illustrato per bimbi e bimbe. Tuttavia esistono molte righe in cui la reminiscenza proustiana cede il passo a considerazioni che celano ben altre prospettive, riprese e sviluppate anche dal Coleo di Samo; meritano di essere trascritte per intero:

La solitudine in cui, con mia madre al fianco sull’erba della Livenza, o sulla sedia di vimini nei dopocena alitati dal filo d’aria tiepida che ingolfava la tenda del pergolo, mi facevo pura trasparenza, mi scarnavo di troppa tenerezza – aveva, o quasi, un equivalente.

Intendo le letture: di cui nessuna in tutti gli anni seguenti sarebbe stata così abbandonata, così violenta nell’assorbire l’impegno dei sensi in un calore fantastico stupendo di ricchezza visiva, così interamente applicata su tutta la mia coscienza, né Leopardi, né i Canti del Popolo Greco, né Machado; era come se la materia su cui si incideva la mia vita sacilese, con tutte le sue polveri e i suoi soli [...] avesse potuto incrinarsi, e, aprendosi, mostrarmi in uno spazio non vero, eppure perfettamente reale, inchiodato su pagine che essendo un mezzo invisibile erano in effetti reali, sconfinati paesi. Dentro quella dimensione interna, in cui mi facevano sprofondare le letture di Salgari, io, appunto come nei pomeriggi con mia madre perduti nella pura visività del paesaggio arrossato dal sole, inacidito di umori di primule, tra le ripercussioni che dalle erbe secche, dalle gemme immature svaporavano contro le nubi, perdevo la mia persona divenendo spazio. Non era più possibile definire il limite, nella mediazione assolutamente immediata del leggere, dove io cessavo di estendermi e si estendevano, struggenti perché in pura funzione di realtà, i Sahara o le Indie. L’interesse era così acuto, la dedizione così pura che la parola scritta non esisteva, i fatti e gli sfondi apparivano immediati alla vista e separati dal tatto solo da una differenza di clima e di luce. Non lettore, così, ma diretto testimone [...]

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.

Seguono alcune pagine di avventurosa ‘vita’ nella realtà salgariana: nonostante l’opsis sia subentrata all’akoe, cioè la testimonianza all’affabulazione, il corpo alla mente, sono pagine ancora decifrabili come il riflesso di una comune evasione infantile, di una sognante proiezione verso l’infinito. La confusione tra il corpo del bimbo e il paesaggio che lo circonda (o quello materializzato dal libro) deriva senza dubbio da letture proustiane ed è un modo erudito-allusivo per raccontare le gioie della propria  

7 Su questi temi vd. infra, cap. 6.

8 PASOLINI 1998b, pp. 411-412 (corsivi miei, eccetto quello del titolo tommaseiano).

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infanzia

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, eppure solo poche pagine più innanzi, sempre in relazione alle letture sacilesi di Salgari, si svela la perentorietà di termini quali «violenta» lettura, l’‘incidersi’ della vita su un materiale friabile che frana e apre un baratro su mari «inchiodati» alle pagine dei romanzi: quelle letture non sono soltanto il sinonimo di evasione, avventura, gioco, ma anche di ferita e rifugio, di un desiderio infranto: lo scacco di non poter vivere pienamente. In una mattina in cui Pasolini mancò il treno che l’avrebbe portato al ginnasio di Conegliano e rincasò anzitempo, pieno di sensi di colpa, riprese le letture liete della sera precedente, sperimentando però una sensazione opposta:

Come una lama, mi penetrò – e vi si immerse, stagnando, ingolfandomi della sua elementare leggerezza – dentro le membra che mi bruciavano, non so se irritate o addolcite per il sonno sparso nel gelo del mattino, il mare; il mare fisso, emblematico, vivente senza che io l’avessi mai visto di un incanto violentissimo; della Baia di Hudson, forse, nel cui retroterra, le nevi resinose, le radure delle foreste, perduto contro un orizzonte accecato nel buio bianco. [...] Nel mare io mi rifugiavo, come in una non vita, un mio segreto benessere; mi lasciavo assorbire dal suo colore inanimato, che nasceva e moriva con me, come in una estensione esterna creata «dentro», un esilio sconfinato, azzurro, ai cui margini come rifiuti restavano i rimorsi [...]. Non avevo visto ancora, coi miei occhi, il mare, a Sacile, e non lo avrei neanche visto per tutto il periodo cremonese, ma ne avevo una immagine sfolgorante; la cui luce aveva preso un significato che, alle lievi scosse dello scorrere della mia storia infantile, mi si andava ammassando sempre più in dentro, sempre più incomunicabile

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.

Persiste l’esperienza dello sconfinamento, ma questa volta l’infinito del mare salgariano sfonda la realtà e si insinua nell’intimo del lettore, arrivando a ferirlo, diventando «desiderio di morte», annichilimento: allo slancio liberatorio può seguire l’‘assorbimento’ nel caos, l’‘abbandono’ fatale. Da questi due excerpta le illustrazioni dei volumi salgariani non parrebbero giocare un ruolo determinante, ma così non è: alla luce sia di un passo che accosta le letture romanzesche a quelle epiche – sul quale tornerò in seguito – sia, soprattutto, di una pagina in cui il «mare cremonese» si confonde con quello disegnato in un’edizione scolastica di Omero:

Isolato come ero, a Cremona, alloglotta, trepido quanto al Mare e a tutte le altre estensioni dove si svolgesse la storia, mi trovavo ancora in un clima salato, violento, dipinto di un azzurro e di un sole così intensi da interrompere il battito del cuore. I colori delle onde, degli scogli, delle lingue di sabbia o dei lontani e diffusi promontori, che si disegnavano, appena abbozzati con un segno, dietro le figurette degli Dei marini, dietro Teti o Poseidone o le Nereidi (Teti si reggeva sul basso ventre il peplo pieghettato, coi due seni tondi come piccoli scudi, Poseidone guidava dal cocchio una pariglia di cavalli equorei con finimenti dai nomi ovidiani) disegnati con una penna dalla punta sottilissima,  

9 Cfr. SITI 1996, pp. 520-522 e PAULUS 2007, pp. 406-408. Nella biblioteca casarsese era presente, in francese, Sodoma e Gomorra: cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, p. 22.

10 PASOLINI 1998b, pp. 417-418 (corsivi miei).

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a piccoli tratti abili ma leggermente puerili, sul biancore della piccola edizione dell’Odissea, nell’Appendice o Dizionarietto mitologico, si riflettevano immoti e abbaglianti da una prospettiva che toglieva il respiro, da un puro vuoto greco... Tutto ciò che di morto, di strettamente statuario e figurativo c’era in quell’Egeo, aveva però nella mia coesione assunto una vita gonfia, assoluta, carnale; i giovani e i fanciulli nudi che vi vivevano, sempre tanto più perfettamente quanto meno la mia violenza estetica era conscia, contro paesaggi itacensi o jonici dove il mare era appunto quel vuoto cartaceo, di promontori o litorali segnati con una pura, sottilissima linea di contorno, davano una vita vera, benché non storica ma insanamente gratuita, alla mia nostalgia invasata nel credere possibile riavere in gioco un sublime mondo non esistito che in essa. Non, si capisce, che a dodici anni io pensassi di rimpiangere in qualche minimo modo una civiltà (che per me era solo un tempo in cui l’uomo era affatto diverso dal presente, incomunicante) una cosa che allora, come adesso, ma a meno buon diritto, non provocava in me nessun interesse;

ma captare, di quel mondo, la sua rifrazione poetica in cui si faceva pura giocosità, materia di avventura in sé, in cui, ad esempio, Ulisse, fosse un dodicenne mascherato da Ulisse, causando così una sproporzione meravigliosa tra il protagonista dell’avventura, e l’esterno di questa; allora sì che il mare sarebbe divenuto il puro campo di avvenimenti mitici, gli Dei avrebbero avuto apparizioni esaltanti di prefissato ma non per questo meno raggiante stupore; i dolori, le preoccupazioni dell’eroe riducendosi a puri, sottesi, meramente nobilitanti flatus vocis, sarebbe di lui rimasta la semplice, assoluta azione, senza congiunzioni logiche, senza principio e fine. Adulti puramente figurativi, gli antagonisti, Circe, i Cimmeri, Antinoo ecc., avrebbero avuto a che fare con un bambino, e mettersi con lui così in un rapporto di gioco, morire come compagni colpiti da una spada di sambuco

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.

Come i libri di Salgari anche i poemi omerici sfondano la realtà, emergono dalle pagine scritte (e illustrate) dando sostanza viva, «carnale», alla fantasia del bimbo. Le ultime righe del brano, unitamente al racconto dei giochi iliadici nei parchi di Cremona e sulle rive del Po (un poco Simoenta e un poco mar Egeo)

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, inquadrano le letture omeriche nella cornice della fantasia ludica infantile; e ricordano che il mito resta nominale, astratto, senza radici nella realtà che quegli stessi poemi sanno nonostante ciò materializzare: Ulisse, Circe, Antinoo, Teti, Poseidon sono degli eidola, delle

‘maschere’, ma «dietro» la loro inconsistenza si staglia il mare, con gli scogli, con i promontori, con l’arenile e, soprattutto (!), con i medesimi «nudi» efebici visti sulle rive del Tagliamento da adolescente e, da giovane, sui litorali tirrenici, i primi evocati in Edipo all’alba (il fratellino di cui si innamora Ismene

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) e narrati in Amado mio  

11 PASOLINI 1998b, pp. 387-388.

12 Vd. PASOLINI 1998b, pp. 370-381 e, in aggiunta, PASOLINI 2003b, p. 715 (cioè la poesia L’urlo di Ettore a Eleno, con il relativo commento di SITI 2004, pp. 169-171).

13 «Fu un meriggio di primavera. Io ricordo con chiarezza quel giorno. I fanciulli affluivano sulle sponde del fiume. Io ero dolce e convinta ai raggi sereni di quella luce, e mi allontanavo dalle mie voglie, a cercar solitudini ben disposte ai miei canti: correvo lieve pei prati, e godevo della mia gioia, come di una gioia altrui, quasi l’anima serena e la nuova stagione mi avessero a me stessa rapita. Ero lieta, Tebani, ero simile a voi. Quand’ecco, coi suoi compagni, scorsi il fratellino. Feci per chiamarlo, ma tacqui, avendolo visto tutto perso in una dolce occupazione.

Fratellino? Che dico? Allora mi avvidi ch’era già aitante, e sulle scarse labbra sorrideva inquietamente un’ombra di lanugine [...]» (PASOLINI 2001b, p. 24).

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(Benito/Iasis su tutti

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), i secondi nelle prime prose e nei primi versi romani, più e meno coevi a Operetta marina

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. In stretto rapporto all’invenzione di questi nudi, ovviamente assenti nelle caste pubblicazioni scolastiche dell’epoca, ricompare l’idea del vuoto, del baratro che inghiotte il lettore e lo assorbe amplificandone i sensi fino allo stordimento;

le illustrazioni «puerili», che sanno di morta astrazione, di icona senza vita, prendono vita solo negli spazi vuoti: solo nella carta bianca, ossia là dove l’immaginazione è in grado di ‘fingere’ quelle realtà che mancano ai disegni ma non ai versi di Omero. In altre parole, dei due poemi lo scrittore sembra apprezzare più i personaggi ‘anonimi’ e i paesaggi che gli eroi: figure umane e naturali erotizzate forse già dal dodicenne, di sicuro dal giovane appena sceso nei gangli della Roma malandrina

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. È certo che sulle letture ginnasiali di Omero il poeta proietta il proprio amore mostruoso, la propria

«brama sensa sen»

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, quella che di lì a poco avrebbe definito ‘infinita fame di corpi senza anima’

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: e senza dubbio si tratta di una corrente fondamentale di quel fiume carsico che Siti ha rintracciato studiando le reminiscenze omeriche di Pasolini

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; eppure non c’è solo questo, esiste in quelle righe una particolare attenzione per l’immagine concreta, reale (per quanto in stretta connessione con il suo opposto). Il «vuoto cartaceo» non deve passare inosservato; né la puntuale ekphrasis delle illustrazioni omeriche: nell’esilità del tratto è emblematizzata l’evanescenza degli dèi e degli eroi, nel bianco della pagina il pieno della fantasia creatrice e del pari, più esplicito, il vuoto dell’ossessione, la presenza fantasmatica della morte. Mutatis mutandis – e dalla sola prospettiva d’indagine sul classicismo pasoliniano – la descrizione di tali disegni può  

14 Vd. e.g. PASOLINI 1982, pp. 155-156: «E quando la mano di Desiderio scese lungo il suo corpo giocando col povero spillo che ne proteggeva il mistero, fu il fanciullo stesso [scil. Iasis] che se lo tolse, esclamando poi con innocente complicità che egli era ancora bagnato e che sarebbe stato meglio, prima, scaldarsi un poco al sole. [...] Ma il matrimonio bianco di Desiderio funestò l’estate, proprio mentre la spiaggia raggiungeva i giorni del massimo splendore: più di un centinaio di giovani vi si radunavano; il trampolino dei tuffi costruito con due massi di cemento e un po’ d’argilla battuta, brulicava continuamente di ragazzi che si gettavano in acqua, uno dietro l’altro, gridando, ridendo. La poca sabbia era anch’essa zeppa di ragazzi che, distesi al sole come bisce, chiacchieravano di ‹quelle cose›».

15 Vd. e.g. alcune righe della continuazione romana di Amado mio: «Dopo Pasqua cominciarono ad andare al mare, in certe spiaggette a sud di Ostia, tra pinete dove pareva ancora di sentire le voci della pubertà latina»

(PASOLINI 1998b, p. 294; cfr. infra, par. 1.4); o i vv. 34-73 della quinta sezione de Le ceneri di Gramsci: «Shelley...

Come capisco il vortice / dei sentimenti, il capriccio (greco / nel cuore del patrizio, nordico // villeggiante) che lo inghiottì nel cieco / celeste del Tirreno; la carnale / gioia dell’avventura, estetica // e puerile: mentre prostrata l’Italia / come dentro il ventre di un’enorme / cicala, spalanca bianchi litorali, // sparsi nel Lazio di velate torme / di pini, barocchi, di giallognole / radure di ruchetta, dove dorme // col membro gonfio tra gli stracci un sogno / goethiano, il giovincello ciociaro... / Nella Maremma, scuri, di stupende fogne // d’erbasaetta in cui si stampa chiaro / il nocciòlo, pei viottoli che il buttero / della sua gioventù ricolma ignaro. // Ciecamente fragranti nelle asciutte / curve della Versilia, che sul mare / aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi, // le tarsie lievi della sua pasquale / campagna interamente umana / espone, incupita sul Cinquale, // dipanata sotto le torride Apuane, / i blu vitrei sul rosa... Di scogli, / frane, sconvolti, come per un panico // di fragranza, nella Riviera, molle, / erta, dove il sole lotta con la brezza / a dar suprema soavità agli olii // del mare... E intorno ronza di lietezza / lo sterminato strumento a percussione / del sesso e della luce: così avvezza / ne è l’Italia che non ne trema, come / morta nella sua vita: gridano caldi / da centinaia di porti il nome // del compagno i giovinetti madidi / nel bruno della faccia, tra la gente / rivierasca, presso orti di cardi, // in luride spiaggette... (PASOLINI 2003a, pp. 822-823).

16 Cfr. infra, cap. 2.

17 «Jo i soj neri di amòur / nè frut nè rosignòul / dut intèir coma un flòur / i brami sensa sen» (PASOLINI 2003a, p.

66 = Dansa di Narcìs [I], vv. 1-4).

18 «E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima» (PASOLINI 2003a, p. 1102 = Supplica a mia madre, vv. 9-10).

19 Cfr. SITI 2004, pp. 167-175.

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essere accostata a quella di Baubo da Priene nell’Appunto 74 di Petrolio/Vas, cioè la statuetta gastrocefala posta sulla copertina di Antropologia religiosa di Alfonso Maria Di Nola (recensito nel 1974 sul settimanale Tempo)

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: c’è lo stesso interesse per un mondo classico spogliato dei suoi miti, dei suoi nomi celebri e persino delle sue letterature, ricondotto sia ad alterità storica (qui «tempo [...] incomunicante», più tardi

«Passato», «Preistoria») sia alle inquietudini del sogno (e dell’eros); l’antico è presenza misteriosa e inquietante come Quadro, la città sommersa nei fondali del Circeo, grande come Roma, che Pasolini inventa nel coevo racconto Terracina – coevo, sia chiaro, rispetto a Operetta marina

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. L’autore precisa che il mondo greco non gli cale, ma, come si vedrà tra breve, non è vero; né bisogna credergli quando aggiunge: «come adesso»: non solo in considerazione delle opere che saranno discusse nel seguito della tesi ma anche alla luce dello stesso frammento parallelo, che il mondo classico lo evoca fin dal titolo

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. Nell’ultimo paragrafo del terzo capitolo di Coleo di Samo ritorna proprio la figura del bambino che si misura con l’atto demiurgico del disegnare: da altre pagine di Operetta marina appare abbastanza evidente che l’Odissea cremonese è un libro illustrato

23

, eppure devo ammettere che nel lungo brano appena trascritto non si capisce se le figure descritte così dettagliatamente siano opera di un illustratore terzo o di Pasolini stesso, che da altri testi narrativi sappiamo particolarmente impegnato pure nell’arte del disegno

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; è certo invece che il prototipo del Coleo bambino con in mano il kalamos con il quale avrebbe tracciato la prima rappresentazione cartografica del mare (e dell’infinito) si trova in un racconto del 1947, Douce, già discusso da Siti nel convegno udinese-casarsese del 2002: un passo che scaturiva dall’ekphrasis omerica dello scudo di Achille (Il. 18, vv. 478-607) e che è bene riconsiderare brevemente anche qui, per chiarire il nesso fra Operetta marina e Coleo di Samo:

Io immagino che Angelo, come quando io avevo tredici anni, fosse spinto a disegnare soprattutto dalla voluttà di impadronirsi delle cose e di farne una specie di mito. Un  

20 Cfr. infra, par. 6.1.

21 «Tra lui e Vittorio remarono per quasi due ore. Ormai pareva che la terra fosse lontanissima: c’era solo il mare intorno così aperto che dava quasi un senso di paura. Invece, non erano molto distanti da terra: se, a quell’ora, ci fosse stata la luna, Lucià avrebbe visto sopra il suo capo alzarsi come un’enorme muraglia nera, più nera del cielo, il Circeo con le sue rupi e le sue foreste. Fu così quasi ai piedi del Circeo che la barca si fermò e Vittorio si chinò a scandagliare l’acqua. [...] ‹Qui sotto› disse zio Zocculitte, mentre Vittorio lavorava ‹c’è Quadro›. ‹Che d’è?› disse Lucià. ‹È una città sepolta sotto le acque, negli antichi tempi›. ‹Sta qui sotto la barca?› chiese Lucià. ‹E come no, con tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Era una città grande come Roma› disse lo zio Zocculitte» (PASOLINI 1998b, p.

787). Non è un caso che il protagonista Luciano, attratto dal mistero del mare, finirà per morirvi: in una escursione condotta ben oltre i limiti raccomandati dallo zio. Vd. PASOLINI 1998b, pp. 795-797.

22 Se prestiamo fede ai pochi indizi ricavabili da Operetta marina e da altri testi giovanili dedicati al periodo cremonese (come alcuni versi di Via degli Amori) risulta chiaro che il piccolo Pier Paolo si disinteressava della cultura classica ‘scolastica’, non del latino e del greco tout court; lo tediava la riduzione della civiltà greco-romana a mero sapere nozionistico, a materie comunicate senza viscerale passione. Di converso era già ‘assorbito’ dalla

«rifrazione poetica» delle prime letture classiche, facilitata dallo straordinario milieu domestico di cui poteva fruire:

ossia dalla madre Susanna, archetipo di tutti i Maestri di cui discuterò nel capitolo zero. Sul magistero poetico- educativo di Susanna Colussi cfr. SICILIANO 2015, pp. 37, 39-44, 47-48.

23 Vd. e.g. PASOLINI 1998b, p. 380: «Il mare non lo avevo mai visto se non nei versi e le figure dell’Odissea».

24 Ma, come vedremo più tardi (par. 1.2), l’adolescente continuò a praticarla e a perfezionarla, producendo delle opere trascurate nelle storie dell’arte eppure di grande importanza per chi voglia studiare l’opera pasoliniana in tutte le sue diramazioni.

(10)

ragazzo, vivendo fuori da qualsiasi forma di possesso, è il più puro nullatenente che si possa immaginare [...]. È per questo che io (e ora forse anche Angelo) non mi accontentavo di fare un disegno, ma ogni mio disegno doveva venire a far parte di un ciclo compreso nell’intero album. I pericolanti segni del lapis venivano così a captare alcune forme del mondo (e forse non le più invidiabili) fissandole in una leggendaria collezione la cui infecondità, ahimè, non riusciva a sfuggirmi. Ricordo l’ossessione di quelle forme di oggetti, e quella specie di infermità, di disagio, quasi di svenimento, che mi dava la resistenza delle cose a farsi impadronire da me pur nel compromesso della finzione. [...] Del resto il disegno non era per allora che un aspetto del gioco, cioè del mio complicatissimo sforzo per realizzare un mondo fantastico della cui esistenza reale però non dubitavo, malgrado le sue infinite, irrimediabili defezioni. Le mie ricadute nell’assurda speranza di essere Yanez o Ulisse dovevano certo alla recente conformazione del mio congegno sentimentale la loro inesausta freschezza. Ma entrato nella pubertà il disegno acquistò un altro senso (Angelo è ora alle soglie del mutamento):

le aspirazioni false ispirate dall’educazione famigliare e dai maestri, mescolandosi a quelle ardentemente fantastiche provenienti dalla lettura di Omero o di Verne, mi fornivano tutto un mondo, un altro mondo, che io trepidante cercavo di tradurre negli ormai odiosi fogli del mio album. È a questo punto che il discorso dovrebbe cadere sullo scudo di Achille: quanto mi abbia fatto soffrire quel tremendo scudo sarebbe troppo lungo e difficile dire. Fu allora che provai la prima angoscia davanti al rapporto delle due durate così diverse tra loro quali sono la realtà e la sua rappresentazione. Ed ero davvero malcapitato in quel canto dell’Iliade, in cui il reale e la sua indicazione devono a quella che si dice ingenuità epica una fusione che par fatta apposta per condurre alla disperazione quel ragazzo troppo pauroso di non capire che io ero. I prestiti reciproci tra i buoi i giudici le fanciulle veri e i buoi i giudici e le fanciulle finti, erano qualcosa come un ondeggiamento che rendeva ossessiva la mia perplessità. Ricordo che un giorno suddivisi un foglio in dieci spicchi, e vi figurai la creazione del mondo: avevo appena tredici anni, e abitavo a Cremona. La cucina era il teatro delle mie avventurose manovre mentali, e mi vedeva chino su quel foglio, da null’altro assillato che dal puro problema del rapporto tra il reale e il finto.

25

Il tavolo della cucina cremonese dove Pasolini si interroga su come essere Dio è lo stesso presso il quale sfoglia i libri di navi e velieri, legge Salgari, Verne e l’epica greca;

e lì il diciottesimo libro dell’Iliade gli presenta il thauma della sequenza continua, che

rompe la logica della pura razionalità alternando realtà e rappresentazione,

amalgamando l’atto creativo di Efesto e la presa diretta di suoni, canti, azioni, parole,

pensieri: nelle facoltà divine del fabbro l’enfant prodige desideroso ma incapace di

possedere la realtà trova lo scandalo di una creazione in cui pulsa la vita e la vita

dell’artista non subisce scacco. Dunque è Pasolini stesso a dirci che a un certo punto

leggere e disegnare Omero non equivale più soltanto a «essere Ulisse» bensì a essere

addirittura Omero: cioè a creare i medesimi microcosmi dello scudo di Achille. L’antico

diviene così un modello utopico; quindi altro che fonte di poco interesse! È vero che la

 

25 PASOLINI 1998b, pp. 182-183 (corsivi di Pasolini).

(11)

scoperta del diciottesimo libro lo confonde e lo angoscia all’inizio, ma se teniamo a mente la dichiarata predilezione di Omero rispetto al modello familiare-paterno e scolastico, nonché le memorie di letture, giochi, disegni iliadici e odissiaci disseminate in Operetta marina, risulta innegabile che l’Auctoritas continui a esercitare la sua influenza anche su Pasolini: e Iliade e Odissea non offrono esclusivamente evasione, avventura ludica, incarnano pure il sogno della creazione dilettosa, senza nevrosi, con piena partecipazione alle cose. L’excerptum che abbiamo appena letto riflette dei problemi sui quali il nostro continuò a interrogarsi fino alla morte: se infatti Omero fu presto relegato a utopia infantile e gli succedettero altri paradigmi (per lo più slegati dalla tradizione classica), è però importante che ancora nel 1951, nel Coleo di Samo, continui a profilarsi l’ombra del Poeta; nelle righe finali del frammento ritroviamo la stessa situazione di Douce, benché trasfigurata in una narrazione mitico-erudita: ossia con un fantasioso Coleo bambino al posto dell’Efesto iliadico, con la prima rappresentazione cartografica del Mediterraneo in luogo dello scudo di Achille e l’autore nei panni del seguace di Omero. Né va dimenticato che Coleo non è solo controfigura del Pasolini infante sul tavolo cremonese, ma è al contempo un idolo erotico assimilabile a quei fanciulli che l’enfant prodige sognò nel 1934 leggendo, disegnando e mutando in gioco l’Odissea – oltre che uno dei prototipi del Riccetto

26

. Conviene ancora una volta citare alcune righe di Pasolini, abbozzo di un capitolo che si sarebbe dovuto intitolare Sguardo di Coleo a Gibilterra:

E questa inquadratura, lunghissima, succede necessariamente per una logica del ritmo, alle accavallate, isteriche sequenze del piccolo cabotaggio per l’Egeo, del gran salto giù verso l’Africa, la comparsa del deserto sirtico, l’interminabile riviera libica a sinistra, la rotta incerta e accanita verso Occidente. I diversi piani di quello sguardo, i valori diversi a seconda della richiesta dell’immaginazione, concentrati in una semplice e pudibonda intensità. La grafia, cui in silenzio Coleo cercava la copertura di quell’angolo di mare, era quella goffa, sproporzionata e pura di un bambino: con un deposito feticistico per cui aerarsi e irrigidirsi di sacro conformismo, come per qualsiasi cosa grafica accade in un selvaggio o in un analfabeta. Vasto il bacino dell’Egeo, dilatato, eccessivo; la costa dell’Illiria dritta e secca verso l’Oceano, l’Italia piccola e insaccata con sotto un’enorme Sicilia, un’enorme Calabria; un litorale affricano allungato fino all’ignoto dalle sospese notti di navigazione. Il massimo della semplicità nel pinax lucido e puerile presupposto dallo sguardo di Coleo, andrebbe applicato sulla complicazione anormale, febbricitante, da cui lo spazio stesso pareva soverchiato, nauseato, violentato, del mare lì intorno.

Gibilterra commossa nella sua durezza dalle nubi. L’acqua incupita dall’ombra della Spagna che vi sporgeva. Gli stridi dei gabbiani centuplicati dalla sonorità dello stretto.

Era un pezzo di realtà che facendo saltare con la spaventosa gonfiezza dovuta alla sua

stupenda verginità, le linee della prospettiva in cui per uno sguardo umano era contenuta,

pareva venire a premere contro il petto e schiacciarlo con la sua mole di rocce acqua e

 

26 Vd. e.g. PASOLINI 1998b, pp. 364-365: «‹Cominciava a non piacere più agli uomini e a fare arrossire le prime fanciulle›, o meglio, diremmo, a assalire in frotta coi compagni le peripatetiche del porto della nativa Samo».

(12)

cielo. E questo fu indubbiamente per Coleo il segno di una personalità del luogo: prese le forme di un nume

27

.

Il cerchio si chiude. L’intero Romanzo del Mare doveva costituire una sorta di poema omerico in prosa: tentativo di saldare vita e arte, di ‘figurare’ la creazione del mondo (e di sé); ma anche il solo relitto del Coleo di Samo, sia letto in tutti e tre i suoi capitoli sia isolato nel frustulo che ho citato, rende bene l’idea. L’«ingenuità epica» che aveva reso possibile la fusione tra il piano della realtà e quello della finzione è qui divenuta lo stupore sacro di un navigatore bambino che registra e ricrea il mondo appena scoperto: e così la telecamera dello scrittore sovrappone le inquadrature del viaggio ai segni tracciati sul pinax, tanto più esili quanto più veloce il cabotaggio (e tanto più lunga – la ripresa delle Colonne d’Ercole – quanto più meravigliato lo sguardo verso l’Infinito); il suo microfono registra i suoni del mare, che paiono scaturire dallo stesso periplo: il cozzo fra le nubi e il promontorio, i versi dei gabbiani. Ma a parte la criptica allusione letteraria lo sconfinamento nell’ignoto stordisce ancora una volta i sensi e sfonda il piano della ‘finzione’: il poeta parla esplicitamente di «pezzo di realtà» che schiaccia il reinventato naukleros samio (cioè Pasolini medesimo). Nonostante i panni omerici, l’autore del Coleo di Samo si riscopre al punto di partenza: incapace di vivere appieno e appieno creare; però questa volta è sacro il pezzo di vita che lo anima: se il bimbo a Cremona restava chino sul tavolo, incallito, ossessionato dal problema

28

, ora invece, più esperto nel gestire il fallimento, Pasolini-Coleo ‘si aera’ e intravede il divino. In conclusione: qui c’è una prima vaga infarinatura cinematografica che mancava negli altri passi, eppure ritornano le stesse questioni inerenti all’atto creativo, che di scrittura o disegno si tratti: la possibilità di possedere la realtà, di creare senza morire. Tale ricerca, mai sopita, lo portò negli anni successivi a esiti senza dubbio più convincenti di questo, ma per la presenza dell’immagine cartografica Coleo di Samo rimane un’opera degna di nota: vedremo nel prossimo capitolo come il periplo di Coleo sia solo la più importante di una lunga serie di pinakes, tabulae, carte geografiche, che non si trova in nessun’altra pagina di un corpus pur così esteso, variegato, enciclopedico; ed è proprio il paradigma omerico che deve aver condotto il nostro a siffatta suggestiva variante dello scudo: una variante emblematica sia della creatività sia dell’eclettismo di Pasolini, ma in ogni caso un unicum – questa carta-microcosmo – perché, dopo essere entrato nel mondo di Cinecittà, il poeta smise l’habitus più tradizionale, quello del letterato che reinventa i classici (antichi e moderni) per pochi eletti, dell’umanista che si sforza di rinnovare l’eterna erudizione; dalla fine degli anni ’50 provò ad attingere la realtà in altri modi, nelle intenzioni meno eruditi – quello che lui chiamava il «cinema di poesia»

–, in verità diversamente eruditi – cioè il «cinema d’élite» indicato dalla critica. Alla  

27 PASOLINI 1998b, pp. 363-364.

28 Vd. anche la poesia Il profumo dei pastelli, vv. 12-22 (dal laboratorio della raccolta del 1946 Via degli Amori, plaquette mai licenziata): «...lo scudo di Achille / con le sue Zone! / Invasato, sulla pagina / ne tento scialbe immagini, / e l’intenzione / è attentata da mille / vaghe incertezze, stille / che rodono nel cuore il desiderio. / Eppure serio / col mio pallido lapis / disegno greggi, colli, schiavi, capi...» (PASOLINI 2003b, pp. 731-732).

(13)

fine la vitalità dell’arte passò da una carta-microcosmo all’universo onirico dei fotogrammi, alle ‘chartae sporche’ dei versi, alla forma-progetto di tante opere, su tutte Petrolio/Vas.

A parte le prospettive filosofico-letterarie dei due frammenti del Romanzo del Mare, si è detto che Operetta marina ci informa sulle letture ginnasiali; e non senza dettagli.

Prima di discuterli una precisazione va rimarcata: stando ai passi sopra citati (e ad altri ancora), accomunati dall’accostamento fra Omero e Salgari, appare chiaro che la gioia di leggere l’epica greca è svincolata dallo studio nelle aule del Liceo Manin; anzi, dai pochi cenni all’esperienza scolastica è possibile ricavare un’aria tetra. Rivelatore già il contrasto fra l’inconsistenza ipocrita dell’educazione paterna/scolastica e la pienezza fantastica dell’epica; ma alle due righe di Douce se ne possono aggiungere altre due, tratte da Operetta marina: «In quei giorni (in cui più duri erano i riassunti dell’Iliade [...]) in quei giorni il mare perdeva i suoi intensi colori omerici»

29

, cioè quegli stessi colori che assieme al bianco della pagina accendevano la fantasia e retrocedevano dal primo al secondo piano le già esili figure eroiche e divine; e in più tre versi di una poesia della raccoltina diaristica Via degli Amori: «Andromaca e Diomede / restano dietro nere copertine / di quaderni sgomenti» (I voti, vv. 5-7)

30

. Se l’antica pratica del riassunto sbiadiva l’immaginazione del bimbo, si potrebbe tralasciare l’aspetto più strettamente evenemenziale, ossia evitare di chiedersi quale fosse l’edizione scolastica dell’Odissea menzionata a p. 387, eppure ho voluto indagare a fondo perché quell’edizione cremonese ha un elemento in comune con i libri di scuola usati al Galvani. In verità, già nelle pieghe del testo pasoliniano si può cogliere un’equivalenza:

ogni tempo e ogni luogo pare avere la sua dilettosa lettura (Sacile Salgari, Cremona Omero, Reggio Emilia e Bologna Virgilio); e persino due città prive (o quasi) di paesaggio acquatico come Reggio Emilia e Bologna risultano bagnate dal «mare» della fantasia pasoliniana

31

. In comune tra i testi del Manin e quelli del Galvani c’è proprio l’illustrazione marina, che ormai sappiamo aver contribuito alle «manovre mentali» del preadolescente: le antologie, gli eserciziari, le grammatiche del Liceo Galvani (tutto ciò che verosimilmente tarpò le ali del sogno a Bologna così come a Cremona), erano sprovviste di qualsiasi figura; invece le letture epiche sia in lingua sia in traduzione – l’Eneide figurava sia nel programma di italiano sia in quello di latino – erano illustrate.

Come vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo, i verbali dei collegi didattici del liceo felsineo hanno conservato l’indicazione dei libri di testo adottati nelle varie sezioni, perciò è stato possibile risalire con precisione ai testi scolastici usati da Pasolini fra il 1937 e il 1939: si tratta, e per l’italiano e per il latino, delle edizioni fiorentine Sansoni: la storica versione di Annibal Caro, commentata da Vittorio Turri, e il  

29 PASOLINI 1998b, pp. 382-383.

30 PASOLINI 2003b, p. 723.

31 «Tutto questo da Sacile, il mare salgariano del 1930, a Cremona col suo mare omerico, dal ’30 al ’33 restava fedele a una vocazione logorata dal suo continuo esprimersi nei giochi e più ancora nelle fantasie del dormiveglia; e alla stessa vocazione e alla stessa espressione restò coerente negli anni successivi (il mare virgiliano di Scandiano e Reggio, e poi di Bologna)» (PASOLINI 1998b, p. 392).

(14)

dodicesimo libro curato da Carlo Giorni. In entrambe le edizioni dell’Eneide l’apparato iconografico spaziava dalle riproduzioni di bassorilievi, statue, monete, gemme, armi, etc., a veri e propri quadri, disegni e persino qualche fotografia: una ricchezza invidiabile a confronto della «piccola edizione dell’Odissea» adottata a Cremona, e seconda solo a quella de L’arte classica di Ducati; l’unica assenza nei due libri bolognesi era proprio l’immagine cartografica, posta al contrario all’inizio dell’antologia odissiaca cremonese: le Letture dell’Odissea di Omero tradotta da Ippolito Pindemonte, curate da Giuseppe Parisi per i tipi milanesi di Luigi Trevisini.

Tuttavia devo precisare che quest’ultima è una congettura, ricavata da una disamina del verbo pasoliniano unita al sondaggio bibliografico delle antologie di epica degli anni

’30: ho mancato di interrogare direttamente l’archivio del Liceo Manin – ammesso che esso custodisca documenti analoghi a quelli del Galvani –; né ci viene incontro la biblioteca privata di Pasolini, che non conserva più nemmeno uno dei libri scolastici – neppure quelli usati al Galvani. A maggior ragione bisogna quindi ritenere a mente la complessità del testo da cui ho tratto l’ipotetica identificazione: un brano che confonde, alla stregua di Omero, realtà (i colori del «mare» cremonese: il Po) e immagine (le

«figurette» divine disegnate «sul biancore della piccola edizione»); e dove non si capisce se i disegni siano stampati o li abbia vergati lo scolaro in persona. A ciò si aggiunga che di frequente la memoria del nostro falla e distorce i dettagli, come ricorda bene Siti nel saggio conclusivo all’edizione dei dieci Meridiani

32

: in Operetta marina lo scrittore si riferisce alla sola Odissea, ma potrebbe avere usato un’edizione doppia (i due poemi omerici) o persino tripla (Iliade di Monti, Odissea di Pindemonte e Eneide di Caro), anch’esse presenti nel piano editoriale dello stesso Trevisini e di altre case.

Deporrebbe a favore della mia congettura il fatto che Parisi aveva predisposto pure un

«Dizionarietto di mitologia e di antichità classiche», però non bisogna nemmeno dimenticare che malgrado Pasolini si richiami all’Odissea la figura di Teti rimanda all’altro poema omerico, né che i cavalli marini di Poseidon sembrano contaminati con quelli dei Niobidi di O

V

. Met. 6. 221-223 (altro autore tipicamente ginnasiale)

33

. Infine è bene segnalare che il poeta medesimo insegnò epica dal 1947 al 1949 e perciò potrebbe aver proiettato sul periodo cremonese particolari di anni più recenti: ammesso che si tratti di un’edizione scolastica Trevisini l’Odissea illustrata evocata dal testo, potrebbe essere quella che adottò lui come insegnante – fu riedita a lungo, fino agli anni

’60. Perché, allora, arrovellarsi tanto su un’edizione incerta? Oltre che per le lunghe ragioni che ho cercato di spiegare nel cuore di questo paragrafo, perché i successivi mostreranno che anche in altri casi uno specifico libro di scuola contribuì all’immaginario delle opere più precoci: l’Antigone di Sofocle curata da Dario Arfelli e il manuale di Ducati; dunque non solo le antologie di epica. Se venisse confermato che il Pasolini ginnasiale in quel di Cremona cominciò a leggere Omero avendo dinanzi a sé  

32 Cfr. SITI 2003b, pp. 1899-1900.

33 «Una pariglia di cavalli equorei con finimenti dai nomi ovidiani» (PASOLINI 1998b, p. 387) ≈ Pars ibi de septem de genitis Amphione fortes / conscendunt in equos Tyrioque rubentia suco / terga premunt auroque graves moderantur habenas.

(15)

la carta del mar Egeo

34

, questo primo caso di studio, già consolidato dalle ricerche d’archivio al Galvani, avrebbe la sua ciliegina.

0.1. Liceo Galvani, 1937-1939

Adesso entriamo per davvero nelle aule di scuola: quelle della V D (a. s. 1936-1937), I C (a. s. 1937-1938) e II C (a. s. 1938-1939) del Galvani

35

; conclusa la quarta ginnasio e iniziata la quinta al Liceo Spallanzani di Reggio Emilia, Pasolini tornò nella natia Bologna e ne frequentò la scuola superiore più illustre, che già contava nella sua storia insegnanti di prim’ordine: per restare nell’ambito degli studi classici, Giosuè Carducci, Luigi Alessandro Michelangeli e Giuseppe Albini. Anche negli anni ’30 il liceo fu animato da grandi professori quali Galvano della Volpe, Enrico Maria Fusco, Gallo Galli e Vittorio Lugli; e lo stesso Pasolini poté giovarsi di due ‘maestri’ eccezionali:

Carlo Gallavotti, che lavorò nel liceo bolognese nel medesimo arco di tempo in cui lo frequentò il nostro e che a questi insegnò latino e greco in prima e in seconda liceo; e Alberto Mocchino, latinista, ma in I e in II C professore di lettere italiane. La scuola era allora governata da un preside autoritario che passò alla storia anche per esserne stato il reggente più longevo (preside dall’a. s. 1929-1930 fino al 1951-1952): Ezio Chiorboli (1882-1956), letterato lui medesimo e cultore di Carducci non solo quale gloria del liceo; proprio il suo carduccianesimo e il ferreo rispetto delle direttive ministeriali – volte tanto ad applicare la riforma Gentile nei suoi mille aggiornamenti e rettifiche quanto a mutare l’istruzione pubblica in ‘educazione nazionale’ – sono il segno più evidente dei limiti entro cui si formò il poeta. Beninteso: il processo di fascistizzazione del sistema educativo era generalizzato; interessava ogni ordine e grado: dalla scuola elementare fino all’università, dalle attività formative a quelle ricreative; e dunque, ancorché imperfetto rispetto alla “perfezione” delle politiche naziste, riuscì a inquadrare l’intera generazione di Pasolini, non il solo poeta-cineasta

36

. Nonostante ogni scuola abbia avuto una storia specifica che andrebbe approfondita singolarmente per verificare gli eventuali margini di erranza rispetto alla norma

37

, dalla ricchissima pubblicazione celebrativa del centenario galvaniano emerge con chiarezza il rigidissimo controllo di insegnanti e studenti diretto da Chiorboli, che lasciò ben pochi spiragli di critica e dissenso; quindi il liceo felsineo non costituiva affatto un’eccezione e credo sia necessario ricordare cursoriamente ciò che lì si discute in dettaglio circa il fascismo al Galvani per due importanti ragioni: sia per comprendere il silenzio di Pasolini sul liceo

38

– lo stesso che colpì l’università, in primis Goffredo Coppola – sia per capire una  

34 Vd. PARISI 1934, p. 22; mentre per l’illustrazione di Poseidon sul carro equoreo vd. p. 43.

35 Visti i buoni risultati nella pagella di seconda liceo Pasolini decise di anticipare l’esame di maturità all’autunno del 1939 e saltò così il terzo anno: cfr. NALDINI 1993, p. 22; i voti di seconda liceo possono essere consultati in ANONIMO 2006-2007, p. 49.

36 Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 294-417.

37 Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 416-417.

38 Con l’eccezione di PASOLINI 1999b, p. 1287.

(16)

causa importante della reazione pedagogica pasoliniana, culminata nella famosa proposta di abolizione della scuola. Se questi preferì tacere i dettagli della propria formazione e, da insegnante, già dal 1943 si sforzò di combattere strenuamente l’autoritarismo e la retorica scolastica con un metodo di insegnamento ludico, inclusivo e non punitivo, lo dobbiamo all’aria da caserma che respirò nel liceo bolognese; è anche contro il ricordo dei professori (maschi) in divisa, dei saluti romani, delle conferenze di propaganda, delle adunate, delle punizioni annotate sul registro di scuola per chi avesse marinato le attività extra-scolastiche dell’Opera Nazionale Balilla e, dopo il 1937, della Gioventù Italiana del Littorio, che sono dirette l’aposiopesi e la ribellione pedagogica esercitata a scuola e, dagli anni ’60, per iscritto. La stessa carriera liceale di Pasolini contiene i segni della futura insubordinazione. Come ha ricordato un compagno di classe

39

e da ultima anche la mostra Officina Pasolini

40

, Pasolini era bravo, ma non bravissimo; e del resto il poeta medesimo, in una lunga intervista condotta da Enzo Biagi, dichiarò di aver preso in greco alcune volte otto altre volte «un misero sei»

41

. Addentrarsi nei voti scolastici permette proprio l’individuazione di una muta insofferenza

42

: il sette in cultura militare nella pagella con cui ottenne la licenza liceale e l’oscillazione in condotta fra otto e nove ne sono un’ulteriore prova

43

. Ritengo eloquente persino la fotografia della V D, conservata nell’archivio del Galvani ed esposta nella prima sezione di Officina Pasolini

44

: in una scuola in cui all’entrata mattutina il preside in persona vigilava che le alunne e le insegnanti non si presentassero imbellettate e senza grembiule, i professori senza il distintivo gerarchico e gli alunni insufficientemente «decorosi», cioè «senza giubba o in altro modo troppo confidenziale o domestico»

45

, il quindicenne Pasolini ci appare vestito con la doverosa

«giubba», ma sprovvisto di camicia e cravatta, quelle che invece dodici dei tredici compagni maschi indossano; sotto la giacca porta una semplice maglia di cotone giro collo. Restiamo ancora un momento sul tema e proviamo a fare zoom out:

l’insegnamento di cultura militare non fu istituito dal fascismo per fare dei giovani italiani dei meri soldati; oltre a nozioni tecniche, quasi da accademia militare, la nuova materia introdotta nel 1935 rendeva edotti in storia militare dell’antichità – in primis romana – con intenti in realtà più propagandistici che illustrativi

46

. Insomma, è bene  

39 Cfr. LODI-RIGHI 2008-2009, p. 103.

40 Officina Pasolini si è tenuta al Museo d’arte moderna di Bologna dal 18 dicembre 2015 al 28 marzo 2016 a coronamento di una ricca serie di celebrazioni cittadine per il quarantennale dalla morte riunite sotto il titolo Più moderno di ogni moderno. Pasolini a Bologna; hanno curato la mostra Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli. La formazione bolognese di Pasolini è stata oggetto della prima sezione/sala.

41 Mi riferisco alla puntata dedicata a Pasolini del programma Terza B facciamo l’appello (una produzione Rai del 1971), messa in onda per la prima volta sul programma nazionale la notte seguente l’assassinio; assieme al poeta- cineasta furono intervistati il professor Gallavotti e gli ex compagni di classe Odoardo Bertani, Agostino Bignardi, Carlo Manzoni, Nino Pitani e Sergio Telmon.

42 Chiunque li può leggere in ANONIMO 2006-2007, pp. 48-49.

43 Segnalo che anche all’università Pasolini non brillò in cultura militare: il voto di 24/30 è il più basso di tutto il libretto; vd. PASOLINI 1993, pp. 240-241.

44 La si può vedere anche in PASOLINI 2015, p. 249.

45 ANONIMO 1961, p. 297.

46 Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 412-415.

(17)

ricordare che il nostro si era formato in un’Italia che per la tradizione romano-latina aveva una vera e propria idolatria (beninteso funzionale al potere, non gratuita

47

); ma non bisogna dimenticare nemmeno l’aura poetico-patriottica incarnata da Carducci, gloria locale e nazionale cui il preside Chiorboli e il liceo intero dedicarono diversi omaggi

48

: il classicismo reazionario italiano e quello galvaniano paiono dunque convergenti e spiegano perché, eccettuata la lunga intervista rilasciata a Biagi e quella di Jon Halliday, l’unico ricordo esplicito del Galvani da parte di Pasolini sia inserito in una pagina in cui è programmaticamente dichiarato il desiderio di «distruggere»

l’immagine ammuffita e roboante dell’antico, e proposto di converso un approccio moderno, non omiletico. Si tratta delle righe iniziali del Coleo di Samo, delle quali parlerò in dettaglio soltanto nel prossimo capitolo

49

. Qui basta preannunciare che fra i propositi dell’autore c’è quello di «dimenticare di aver patito sopra la carta patinata in cui il Liceo Galvani proiettava i muti odori dei gabinetti»: oblio confacente alla ricerca dell’origine del Mare; proposito solidale con la predilezione per una Venere pre-iconica, liquida: mischiata con il seme di Urano. La frase appena citata è inserita in un periodo anacolutico nel quale la memoria del Galvani pare confondersi con quella delle letture universitarie de L’arte classica di Ducati

50

: le cui pagine lucide, levigate, di notevole ampiezza e grammatura erano veramente ricche di quelle illustrazioni più e meno sensuali che avevano colpito subito l’immaginazione di un ragazzo ancora digiuno dei corpi in carne e ossa e dei nudi statuari, ossia poco pratico pure di musei archeologici

51

; fra i libri in uso nelle classi di Pasolini soltanto uno era realizzato in carta patinata, Storia della letteratura latina di Augusto Rostagni, ma non poteva competere con il libro d’arte né in fattura né in quantità (appena cinquantaquattro illustrazioni – di cui un solo nudo – contro quasi un migliaio)

52

. Lo stesso verbo scelto da Pasolini sembra più consono al Ducati che al manuale di latino adottato in I e II C: perché, malgrado il poeta possa aver optato per ‘patire’ indotto da motivazioni eufoniche (patito-patinata), a me pare utilizzato anzitutto con valore ossimorico, cioè per significare una gioia tanto smisurata da scadere nel suo opposto; un piacere-dispiacere carnale che meglio si concilia con le figure erotizzate dell’arte greco-romana, molto di meno con i busti di poeti e personaggi storici: in ogni caso ‘tutte’ immagini da dimenticare a partire dagli anni ’50 perché solo a Roma giunse a piena maturazione quella visione critica nei confronti della formazione galvaniana e accademica che lo avrebbe protetto dal girare film tanto retorici quanto le pellicole viste al Cineguf di Bologna (come Olympia di Leni Riefenstahl). Nel luogo per eccellenza più eversivo di una scuola il nostro sembra  

47 Cfr. CANFORA 1980, pp. 77-78, 90-92.

48 Ne resta traccia nel primo annuario pubblicato dal liceo (1930): cfr. ANONIMO 1961, p. 331.

49 Cfr. infra, par. 1.5.

50 «Bisognerà dimenticare di aver patito sopra la carta patinata in cui il Liceo Galvani proiettava i muti odori dei gabinetti, e Via Castiglioni [sic: lungo via Castiglione è sito il Galvani] il buio dei portici dove il compagno di scuola diventava uno straniero confuso di sesso e di indirizzo – del granuloso volume verde dove il nome Pericle Ducati traluceva in un filamentoso maiuscolo d’oro, e che, sfogliato, bruciava sotto le dita, sfregava i nervi, le viscere»

(PASOLINI 1998b, pp. 341-342).

51 È a Roma che farà esperienza di entrambi: vd. infra, par. 2.1.

52 Tra breve preciserò la fonte da cui ho ricavato le adozioni dei libri scolastici.

(18)

quindi aver rintracciato il simbolo della sua ribellione contro ogni potere autoritario e contro la retorica della classicità; una ribellione che si comprenderà meglio alla luce del paragrafo successivo (e del secondo capitolo

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), ma che si può già intuire se si tiene a mente che durante la presidenza di Chiorboli i gabinetti del liceo furono sostanzialmente interdetti agli studenti: chiusi durante l’unico intervallo per evitare qualsiasi affollamento, erano accessibili solo dalla terza ora in poi previa autorizzazione dell’insegnante; poiché il regolamento del preside causò nei primi anni fastidiose interruzioni delle lezioni e viavai di pupilli nei corridoi, alcuni docenti proposero di aprirli durante l’intervallo, però Chiorboli vi si oppose e ordinò che i professori fossero meno indulgenti con gli alunni dando l’assenso all’uscita esclusivamente in casi eccezionali

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. Insomma: luoghi non soltanto dell’eversione ma persino del proibito; il proibito degli odori puberali di cui non a caso si impregnavano non i libri adottati dal collegio scolastico, bensì – nell’immaginazione di cui è prodigo l’autore del Coleo di Samo – un volume fuori programma, che Pasolini sfogliò e studiò da puro autodidatta poco tempo dopo l’iscrizione all’università.

0.1.1. Mario Borgatti e Alberto Mocchino

In principio la ribellione rimase dunque inespressa: ‘muta’ come gli odori del sesso;

perché nonostante le oscillazioni in condotta il Pasolini allievo del Galvani non fu un bullo: lo ricordò con ironia lo stesso Mario Borgatti, intervistato in una sala del Galvani per il sullodato programma di Enzo Biagi

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; né fu uno studente senza buoni risultati.

Borgatti (1895-1985) insegnò latino e greco alla V D; nella fotografia che ho già evocato appare proprio alla destra di Pasolini, in un elegante completo fornito di mostrina gerarchica e accompagnato da due accessori che rendono ancora più netto il contrasto ‘estetico’ fra insegnante e allievo (il borsalino e i guanti). L’archivio del Galvani, che pure permette di cogliere siffatti dettagli iconici, normativi e numerici, non consente invece di ricostruire ciò che più sarebbe interessante per una storia della formazione classica del poeta: il contributo dei professori, il loro lavoro in classe;

naturalmente i contenuti delle lezioni si possono ricavare dalle indicazioni dei programmi ministeriali, eppure non sono il vero oggetto di queste pagine, che mirano  

53 Cfr. infra, le prime pagine del cap. 2 e il par. 2.1.

54 Cfr. ANONIMO 1961, p. 299.

55 «[M. B.] Certamente la disciplina, allora, era mantenuta... con un preside, allora, il quale era piuttosto rigido. E infatti le potrei leggere una piccola, diciamo, una noticina dell’annuario [sic] che è stato pubblicato durante la celebrazione del centenario. Dice così. [Anonimo inviato di Biagi presso il Galvani] Di questo... di questa scuola?

[M. B.] Di questa stessa scuola... nella quale, noti, ha insegnato Giosuè Carducci! ‹Dal verbale in data del marzo 1938 apprendiamo che il Consiglio dei professori del Liceo punisce, sempre su proposta del Preside, gli alunni di II e III A e III C del Liceo con la sottrazione di tre o quattro punti nella condotta del secondo trimestre, perché si sono astenuti da scuola nell’ultimo giorno di carnevale› [= ANONIMO 1961, p. 305]. Noti che il Pasolini e gli altri in quell’anno frequentavano la II C del liceo, tanto perché si distingua e che non si pensi che si... fossero tra i rei».

Preciso che ho trascritto questa piccola parte dell’intervista a Borgatti da una mia registrazione della puntata di Restauro trasmessa su RaiStoria il 5 marzo 2012 a cura di Giuseppe Gianotti: puntata assai utile perché ha ritrasmesso ‘per intero’ la messa in onda di Terza B facciamo l’appello del 3 novembre 1975, della quale in rete sono invece accessibili solo degli spezzoni.

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