Voci dalla crisi umanitaria nell’area siriano-irachena
Il Kurdistan iracheno senza soluzioni in vista
La realtà degli sfollati nel Kurdistan iracheno
In seguito alla presa di Mosul da parte dell’ISIS nell’estate del 2014, migliaia di persone di diverse minoranze (Cristiani, Yazidi, Arabi, Turcomanni) sono state costrette a fuggire dalle proprie case. L’esodo dei cristiani dalle città della piana di Ninive è stato avviato in seguito a una comunicazione alla popolazione, in cui si riferiva che le forze armate che avevano fino ad allora difeso la città si stavano ritirando a causa della loro inferiorità militare in confronto alle milizie dell’ISIS, che stavano avanzando con materiali bellici americani moderni, trovati nella città di Mosul nel mese di giugno, al momento della sua occupazione.
Un modo così repentino di evacuazione dalle proprie case e totalmente privo di una politica di protezione o di mitigazione dei rischi per la popolazione, ha significato il crollo della credibilità nei confronti di qualsiasi struttura ufficiale, già incrinata precedentemente, e ancor più criticata una volta che, arrivati ad Erbil o in Kurdistan in genere, gli sfollati hanno dovuto accettare ogni sorta di condizioni di vita: accampati in tende, nelle chiese o nelle scuole per i primi mesi, si son dovuti ben presto abituare ad una situazione di emergenza protratta. Infatti, l’iniziale impressione di una crisi temporanea si è ben presto trasformata nella consapevolezza di una situazione di insicurezza più duratura: dopo alcuni mesi si è verificato lo spostamento delle famiglie dalle tende, chiese, scuole, in strutture costruite con pannelli che offrivano un ambiente per ogni famiglia, con ancora convivenze forzate e servizi comuni, ma molto scarsi. Nel 2015 si è verificato un ulteriore spostamento dei nuclei familiari in containers o in altre situazioni consolidate nel tempo e dall’uso.
In parallelo, la situazione della regione ospitante andava modificandosi: la popolazione curda, a partire dall’inizio del 2014, subiva una pesantissima crisi economica dovuta al taglio del sostegno finanziario da parte dell’allora presidente dell’Iraq, Al Maliki. Questi finanziamenti provenivano dalla vendita del petrolio, e avevano fatto sperare nell’evoluzione di Erbil in una città del futuro, in concorrenza con Dubai.
Improvvisamente, però, le centinaia di grandi opere pubbliche e private avviate negli anni recenti si sono chiuse. Grandi contratti edilizi non sono stati portati a termine e non hanno mai fruttato, svariate aziende produttive hanno dovuto terminare la propria attività e pesanti fallimenti hanno lasciato grandi cantieri non finiti: in Kurdistan si è caduti nella più pesante crisi socio-economica. La regione ha allora avviato la commercializzazione del petrolio in proprio, ma il prezzo del barile, da oltre 100 dollari al barile, è crollato a meno di 30 e ancora oggi resta su livelli di poco superiori.
Il governo del Kurdistan, prima della crisi, aveva avviato un sistema di sostegno sociale molto efficace esteso a tutta la popolazione curda, con buoni livelli di salario. Tuttavia, dalla metà del 2015, ha dovuto
tagliare pesantemente i salari per 1.5 milione di dipendenti su una popolazione di 5 milioni. Inoltre, sempre nel 2015, ben 4 mensilità di salario non sono state pagate, e nel 2016 gli stipendi sono stati tagliati ufficialmente dal 75 al 50 percento per tutti i dipendenti governativi. Attualmente i salari sono costantemente pagati con ritardi di due o tre mesi.
La crisi economica ha reso molto difficoltoso per gli sfollati cercare lavori di ogni genere per la propria sussistenza, mentre molti membri della popolazione locale tentano di mantenere un livello soddisfacente di reddito facendo un secondo mestiere oltre all’impiego governativo, quando possibile. Di conseguenza, si è creata una crisi sociale per la ricerca di lavoro tra rifugiati siriani, sfollati iracheni e autoctoni curdi. Tutte le compagnie produttive, incluse quelle petrolifere straniere, che garantivano una continuità nell’estrazione del petrolio, hanno chiuso, provocando un alto numero di disoccupati, anche di ottimo livello professionale, ora in cerca di lavoro. Contemporaneamente i prezzi dei beni di uso quotidiano sono aumentati, inclusa la frutta e la verdura, quasi totalmente importati da Turchia o Iran.
La presenza di oltre 250.000 rifugiati Siriani in Kurdistan data ormai di oltre 4 anni e si tratta in genere di persone di etnia curda. L’ospitalità a quel tempo da parte del Kurdistan è stata esemplare anche perché le condizioni economiche della regione erano fiorenti. Il loro inserimento nella società locale è stato meno difficile di quello degli sfollati del 2014, per la stessa appartenenza sunnita. L’adattamento da parte dei rifugiati Siriani si è verificato con l’assorbimento dei lavoratori nei settori dei servizi commerciali e di ristorazione. Anche gli sfollati trovano queste soluzioni, benché meno facilmente negli ultimi tempi. Il mercato del lavoro è in crisi.
La popolazione cristiana, sfollata in genere dalla piana di Ninive, vive ora in ambienti che sono considerati meno insalubri dei precedenti: in container attrezzati o in case di cui la Chiesa paga le quote d’affitto per un anno a partire da giugno 2016. Oltre in Ainkawa i Cristiani sono alloggiati in località dentro e intorno ad Erbil, e nelle città di Dohuk, Shaklawa e Sulaymania, in abitazioni o in container attrezzati, condizioni relativamente migliori dello standard generale per gli altri sfollati o rifugiati dalla Siria.
Prospettive di ritorno e/o integrazione per i rifugiati e gli sfollati
Le condizioni di vita degli sfollati con i quali FOCSIV lavora da 2 anni a Erbil rispecchiano una situazione che rende in molti modi difficile organizzare momenti di dialogo tra le diverse comunità che vengono assistite (Cristiani, Yazidi, Arabi, Curdi). Le comunità degli sfollati e quella locale curda non hanno avviato reali consultazioni.
Per i rifugiati Siriani non esiste ancora un piano strutturato di rientro in Siria nelle località di provenienza. I campi di questi rifugiati sono collocati soprattutto al Nord, a Dohuk e Zacho, o in località fuori dalle città, gestiti in modo separato rispetto alle sistemazioni degli sfollati iracheni. Gli sfollati di appartenenza islamica o di altra appartenenza sono considerati cittadini iracheni, gestiti con la presenza delle autorità locali e con la sorveglianza del personale delle ONG internazionali sostenute dall’UNHCR. I Cristiani sono
subito stati e sono assistiti in modo molto attivo dalla Chiesa Caldea in tutto il Kurdistan, guidata dall’Arcivescovo Mons. Baktiar Warda, che opera nel Distretto Cristiano di Ainkawa a Erbil. Per il sostegno dei Cristiani la Chiesa Cattolica si avvale anche dell’importante sostegno della Caritas Internazionale e delle diverse istituzioni religiose. Gli Yazidi sono accampati e suddivisi per grandi gruppi familiari in località che man mano sono state consolidate anche per la loro adattabilità.
I rientri degli sfollati nelle città cosiddette “liberate” recentemente sono solo nominali, in quanto le città sono state pesantemente distrutte. Sinjar in modo quasi completo, Falluja e Ramadi con migliaia di case crollate o minate, si dice non solo dall’ISIS, ma anche dalla vendetta delle milizie sciite entrate nelle città sunnite.
Ogni inchiesta sulla disponibilità delle singole famiglie al rientro raccoglie le seguenti risposte ordinate per preferenza: 1. il vero rientro nelle abitazioni sarà possibile solo con una garanzia di sicurezza oltre la ricostruzione e la riabilitazione delle case; oppure 2. si dovrà trovare l’opportunità di uscire dal Kurdistan e dall’Iraq verso parenti e Paesi che accettino l’asilo politico con mezzi adeguati; oppure 3. restare in Kurdistan se si riuscisse a trovare mezzi di sostentamento a lungo termine per la famiglia, eventualmente anche restando inseriti nelle liste degli aiuti internazionali. Le risposte rispettano in un certo senso il ceto sociale goduto precedentemente: dalle persone con precedenti redditi o mezzi di sussistenza autonomi, fino a chi non ha risorse da far valere al rientro.
Per ora il Kurdistan non permette ai nuovi sfollati l’entrata nei confini della regione per problemi di sicurezza, soprattutto per evitare infiltrazioni ISIS che potrebbero causare seri problemi. Tuttavia una dichiarazione recentissima ha modificato la posizione assicurando la possibilità di ospitare in campi
“leggeri” un certo numero di persone al momento dell’attacco finale alla città di Mosul, ma solo per periodi molto brevi, presupponendo il loro rientro entro poco tempo. Ciononostante, tutte queste situazioni possono cambiare repentinamente, per diversi motivi e provenienti da ogni parte, quindi è difficile prevedere l’avvio di dibattiti politico-istituzionali orientati verso la definizione di soluzioni durature per i rifugiati e sfollati. Il disagio tra le comunità pertanto resta vivo in quanto è complicato trovare posizioni comuni da sostenere.
La guerra in Iraq e le divisioni all’interno del Kurdistan iracheno
Nella guerra in Iraq, i peshmerga combattono a difesa del territorio e la polizia interna gestisce i controlli per evitare infiltrazioni di elementi ISIS nella regione autonoma del Kurdistan. Dal settembre 2014 tre autobombe sono state fatte esplodere nella città di Erbil in località strategiche, una vicino ad un posto di polizia, una vicino al governatorato e una vicino al consolato americano, provocando alcune vittime.
Oltre ai bombardamenti della coalizione internazionale che opera ormai quotidianamente con incursioni aeree sopra e intorno a Mosul, operano diverse composizioni militari non coordinate tra loro e in conflitto di interessi:
- Milizie sciite sostenute dall’Iran, accettate dal presidente dell’Iraq ma non dalla popolazione sunnita della città di Mosul,
- Milizie turche che hanno il benestare del governatorato di Erbil ma non da quello di Sulaymania, - Militari dell’esercito dell’Iraq composto da soldati sunniti,
- Compagnie di peshmerga curdi a cui è stata negata, dal presidente dell’Iraq, l’entrata in Mosul al momento della liberazione,
- Milizie dei capi tribù nei villaggi rurali disseminati nel territorio intorno alla città di Mosul che si affrontano tra loro.
Il momento attuale è un periodo di pesanti aspettative che lasciano tutti con il fiato sospeso su quanto accadrà entro la fine dell’anno, periodo entro il quale si vuole liberare Mosul dall’ISIS, ma senza che esistano piani strutturati per la gestione del futuro della città. Ancora meno si menziona la necessità di approntare un programma per la tutela delle minoranze. Le divisioni esistenti fanno purtroppo presagire un possibile scontro civile dopo aver cacciato le milizie ISIS da Mosul.
La composizione dei militari che attaccheranno la città di Mosul per la sua liberazione dall’ISIS deriva, rispecchia ed è motivo di forti divisioni sul piano politico e sociale all’interno del Kurdistan iracheno.
Infatti vi è un’aspra conflittualità tra il governatorato di Erbil e quello di Sulaymania, che procura problemi politici e sociali, in quanto la popolazione curda si divide in ben tre posizioni diverse che riflettono i tre partiti maggiori, in conflitto tra di loro: il governatorato di Erbil (PDK), il governatorato di Sulaymania (PUK), e il terzo partito (Gorran) sorto dai dissidenti dei due partiti maggiori che non accettano di condividere il potere, come detta la costituzione approvata dopo l’uscita della presenza americana dalla politica irachena.
Una ulteriore questione di conflitto è il referendum che il governatore di Erbil continua a dichiarare di voler effettuare entro l’anno per il processo di autonomia del Kurdistan dall’Iraq. La questione sta creando molte tensioni sul piano politico con possibili ulteriori ripercussioni sulla sicurezza. L’operazione è contestata dal presidente dell’Iraq, non è pienamente accettata dagli USA e avversata dalla Turchia che bombarda le aree nel Kurdistan del Nord, dove è sostenuto il partito PKK, con il benestare del governatore di Erbil.
Per ora vi è solo la dichiarazione del referendum senza altri dettagli. Il referendum farebbe avviare le consultazioni entro fine anno, senza che esistano previsioni di alcun genere per la tutela delle minoranze, che restano ognuna nella propria posizione attuale nei campi e nelle aree abitate ormai consolidate. Stanno emergendo delle richieste dalle varie minoranze, ma ancora non ci sono indicazioni comuni, ognuna assume proprie posizioni rispetto anche alle condizioni del passato.
Gli interventi umanitari e il ruolo di FOCSIV
Nei piani degli interventi umanitari, in previsione dell’attacco a Mosul, esistono opzioni diverse ma non ancora identificate in modo realistico o definitivo; si procede dunque per supposizioni.
Le strutture umanitarie delle Nazioni Unite brancolano nel grigio della scarsità dei fondi per gli aiuti umanitari. Si prospetta che il numero di nuovi sfollati dovuti alla presa di Mosul potrà variare da 500.000 a 1.200.00 persone. Intanto nel villaggio di Dibaga, alle soglie del confine del Kurdistan, sono ospitate 36.000 persone recentemente arrivate dopo gli attacchi che sono partiti da Makhmur, e continuano ad arrivare nuovigruppi familiari.
Le attività di sostegno umanitario dell’UE hanno da sempre un andamento parallelo a quello delle agenzie delle Nazioni Unite. La scelta dell’ufficio ECHO dell’UE è stata di finanziare operazioni di grande portata da realizzare in territori generalmente sotto pesanti rischi di attacchi dall’ISIS.
Per le attività umanitarie sul campo le carenze restano pesanti e aumenteranno nel prossimo futuro. Molti contratti UNHCR e UNICEF sono stati chiusi o stanno chiudendo e, per ora, si stanno allestendo aree di magazzini in cui predisporre materiali da distribuire in caso di necessità. Non si riescono ad avviare attività concrete di protezione per ora proposte solo a livello teorico. In questo periodo però cresce la necessità di verificare le lacune che si stanno verificando con gli arrivi di nuovi sfollati provenienti dalle zone di attacco militare, da Makhmur verso Mosul, con persone sfollate dirette a Dibaga o a Kirkuk.
Per quanto riguarda i bambini, il Cluster Protection1 gestito dall’UNICEF opera con il Sub Cluster Child Protection. Per effetto della carenza finanziaria, le attività di Child Protection sono ridotte al minimo. A Kirkuk FOCSIV distribuisce pacchi viveri mensilmente a centinai di famiglie, secondo necessità e secondo il livello di vulnerabilità, allestendo anche corsi di formazione per professionisti locali. In Kurdistan FOCSIV mantiene un servizio costante in Child Protection con le attività per i bambini nel Centro Speranza dentro il campo Ainkawa2, e in diversi ambienti che ospitano famiglie di Yazidi, assicurando la distribuzione di articoli per neonati e per le donne. oltre a gestire un asilo di 120 bambini, e ricreazioni pomeridiane per centinaia di bambine, un campo per l’allenamento di taekwondo per 40 ragazzi, sette squadre di calcio di diverse età. Corsi di lingua (curdo e inglese) e di informatica di base si svolgono a favore delle persone che abitano il campo Aikawa2. Un corso per sarte, con lezioni di misura, taglio e cucito è molto apprezzato dalle donne. Si svolgono interventi di sostegno a casi di gravi necessità mediche e si forniscono i medicinali mancanti in seguito a delle visite mirate.
Il più importante lavoro da svolgere resta mantenere per quanto possibile la speranza delle comunità servite, una visione aperta e positiva del futuro, mantenendo forte la resilienza delle persone, senza alcuna discriminazione, costruendo con loro la fiducia di poter procedere senza angosce fino al raggiungimento della liberazione delle loro abitazioni, lasciate con profondi dolori oltre due anni fa. Come ci indica Papa Francesco: casa,terra e lavoro per la dignità umana.
Terry Dutto – FOCSIV - Erbil, 10 Settembre 2016
1 Gruppo che si occupa di coordinare il lavoro delle varie agenzie ONU intorno a una tematica comune. L’agenzia leader per la protezione in generale è l’UNHCR, mentre per la protezione infantile è l’UNICEF.
Libano: le ferite del settarismo ravvivate dal conflitto
Le ferite della guerra civile
Teatro di una dolorosa guerra civile protrattasi dal 1975 al 1989, il Libano ha visto la sua popolazione cristiana confrontarsi con il gran numero di palestinesi musulmani arrivati sul suo territorio e appoggiati da libanesi sciiti e sunniti. Nonostante il faticoso processo di riconciliazione, importanti fratture rimangono vive all’interno della società libanese e lo scoppio del conflitto siriano ha riacceso posizioni opposte. Infatti, a seconda dell’appartenenza religiosa o politica, alcuni sostengono il regime siriano e i partiti che combattono al fianco dell’esercito nazionale, mentre altri vi si oppongono, sostenendo le posizioni dei ribelli. Il risultato è una situazione di grande instabilità e precarietà politica.
Allo stesso modo, l’ospitalità e l’atteggiamento generale dei libanesi nei confronti dell’accoglienza dei profughi siriani si differenzia fortemente, ed è difficile dare una risposta univoca sul tema del rapporto tra rifugiati e comunità locali. L’afflusso improvviso e senza precedenti, di più di 1 milione e mezzo di profughi siriani (che equivalgono a più di un terzo della popolazione totale del Libano, la più alta concentrazione di profughi pro capite nel mondo) ha costituito di per sé una fonte di conflitto tra le diverse fazioni politiche e sociali libanesi.
Queste tensioni sono esacerbate dal fatto che molte organizzazioni si sono concentrate nell’aiuto ai siriani, trascurando i bisogni delle comunità locali e dei palestinesi che vivono nei campi rifugiati dal decine d’anni.
Alcune iniziative della società civile vengono percepite come monopolio da parte di persone di una determinata nazionalità, fattore che alimenta le fazioni tra i vari gruppi. Per esempio, si è creata una difficoltà nel far partecipare le donne palestinesi alle attività di progetto della Caritas in Libano, poiché il centro Caritas viene considerato solo per i siriani, dinamica che ha causato dei contrasti che hanno portato all’isolamento dei siriani. Questo tipo di problema ricorre con una certa frequenza. L’unico modo per poter risolvere questi conflitti è creare progetti inclusivi, in cui coinvolgere la popolazione locale (anche palestinesi) e i siriani. Questo è fondamentale per qualsiasi tipo di progetto, sia esso di creazione di lavoro o educazione, o di semplice distribuzione di cibo e aiuti umanitari.
Un contesto legale manchevole per i rifugiati
Il Libano, come molti paesi del Medio Oriente, non ha ratificato la Convenzione del 1951 sui rifugiati (né il Protocollo del 1967) e dunque non riconosce questo status. Per ragioni storiche, tuttavia, i siriani godevano di un accordo con il governo libanese in cui si permetteva ai libanesi e siriani di viaggiare da un paese all’altro solamente con la carta d’identità. Per tal motivo, i siriani sono sempre stati considerati degli
“ospiti”. Questa politica è però cambiata con l’afflusso di grandi numeri di rifugiati, che hanno messo a dura prova le risorse del paese.
Fino a maggio 2015 l’UNHCR registrava tutti i siriani che entravano nel paese nel loro database, trattandoli appunto da rifugiati e garantendo dei servizi. Il governo libanese, però, ha poi ufficialmente richiesto all’UNHCR di interrompere le registrazioni, ed è stato pertanto creato un database a parte dove vengono identificati diversamente, dove vengono considerati più come un numero, e non gli vengono più garantiti i servizi scolastici e i voucher per il cibo.
Una situazione economica e sociale disastrata
Negli ultimi cinque anni la situazione si è costantemente aggravata. L’economia libanese sta subendo un progressivo declino e i siriani sono diventati il capro espiatorio della frustrazione per buona parte della popolazione locale. Le tensioni e i conflitti sono in aumento e i siriani, così come i rifugiati di altre nazionalità, stanno subendo il peso dei molti problemi che si trova ad affrontare il paese. Un esempio è la crisi nella gestione dei rifiuti con forti impatti sulla salute e la salubrità dell’ambiente, che colpisce maggiormente le fasce più povere della popolazione siriana e libanese.
I risparmi dei siriani si sono esauriti e i libanesi sono di fronte a una crisi occupazionale in rapido aumento.
La disoccupazione è raddoppiata a causa dell’aumento della forza lavoro, molta della quale disposta a lavorare a qualsiasi condizione, e della diminuzione delle opportunità di impiego. Il tasso di disoccupazione era del 6,4% nel 2009 (vedi Le commerce, 2010), ed è salito nel 2014 al 21% (L’orient Le Jour, 2014).
I libanesi e i siriani vivono, in ampie fasce di popolazione, nelle stesse condizioni di emarginazione. Si stima infatti che 1 milione e mezzo di cittadini libanesi vivano attualmente sotto la soglia di povertà.
Nonostante gli enormi sforzi umanitari da parte della comunità internazionale, le generose offerte di aiuto non riescono a tenere il passo con il ritmo di peggioramento economico e sociale che tutte le persone nel paese si trovano ad affrontare (in aggiunta alla paralisi politica e al declino nelle infrastrutture).
Le scuole sono sovraffollate e sempre più bambini si ritrovano per strada esposti al rischio di delinquenza.
Le carceri sono strapiene e la criminalità è in aumento, con una crescita dei reati del 60% rispetto al 2011. I servizi sanitari sono limitati e la domanda di cure adeguate per i più bisognosi sta diventando sempre più urgente di giorno in giorno.
Guardando al futuro: fragilità strutturali
Le tensioni devono essere risolte affrontandole da fronti differenti. L’attuale infrastruttura del paese non è in grado di sostenere il peso che è costretta a sopportare e non riesce a far fronte ai rischi che pone l’instabilità della regione, la paralisi del governo e l’inefficienza dei servizi. Sono necessarie in primo luogo misure di sostegno all'economia e alle infrastrutture libanesi, che ridurrebbero alcune delle principali cause di tensione tra i libanesi e la comunità dei rifugiati siriani.
Nelle condizioni attuali, un’integrazione sostenibile è utopistica. In Libano la situazione sta peggiorando: il settarismo è in aumento nonostante tutti gli sforzi di contrastarlo da parte di gruppi della società civile,
attivisti e iniziative non governative. Ci sono regolarmente denunce di razzismo e discriminazione tra tutti i gruppi. Un approccio olistico basato sulla giustizia, la compassione e il rispetto dell’identità culturale di ciascun individuo è un fattore importante nel rispondere ai bisogni dei rifugiati e della comunità ospitante.
I libanesi e i profughi vorrebbero ovviamente la fine della guerra e il ritorno di tutti i rifugiati a casa, dove potranno riappropriarsi della propria dignità, della propria cultura e delle proprie tradizioni.
Considerate le circostanze attuali, queste però non sono soluzioni attuabili. Serve urgentemente
un processo di pace supportato dalla comunità internazionale, non solo per i siriani ma anche per gli iracheni, i libanesi e i palestinesi. Tutte queste persone hanno il diritto di viveredignitosamente, nella propria terra, secondo le rispettive culture.
Sprazzi di speranza per il conflitto siriano
I principali ostacoli alla pace sono sempre stati una mancanza di compassione e tolleranza verso gli altri.
Come libanesi si è consapevoli più di altri di quanto sia difficile superare il risentimento, la paura e le frustrazioni che seguono ogni guerra brutale. Tuttavia, nonostante le difficoltà tuttora causate dal settarismo, si è visto come in questi anni la popolazione libanese sia riuscita a gettarsi alle spalle il passato di violenza e guardare avanti verso un futuro di pace, affrontando le sfide della riconciliazione, con un atteggiamento proattivo e trovando un consenso generale sul fatto che la guerra non è una risposta e non è un'alternativa. Pertanto, ci si augura che anche i siriani possano incamminarsi presto nel loro cammino verso la pace. L’elaborazione di un programma di costruzione della pace, che comprenda tutte le parti a livello statale e sociale, nonché le comunità locali, regionali e internazionali, è quanto di più auspicabile ci sia per la costruzione di un futuro di armonia stabile e duratura.
Fondazione Internazionale Buon Pastore e CELIM