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L’ANALISI LCA APPLICATA AL SENEGAL. UNA NUOVA PROSPETTIVA PER LO SVILUPPO

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in

Scienze Politiche

L’ANALISI LCA APPLICATA AL

SENEGAL

.

UNA NUOVA PROSPETTIVA PER LO

SVILUPPO

Tesi di Laurea di:

Relatore:

Federici Luca

Prof. Volpi Alessandro

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(3)

Abstract

Questa tesi è il risultato della collaborazione tra la facoltà di “Scienze Politiche” dell’Università di Pisa e il Centro Ricerche ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) “Ezio Clementel” di Bologna. Nell’ambito di uno stage formativo, svolto sotto la supervisione dell’ing. Paolo Neri in un quadro di spin-off tra l’ENEA e la società LCA-lab, si è utilizzata l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment) per analizzare gli impatti ambientali del sistema-paese Senegal.

Obiettivo della tesi è presentare il metodo LCA come strumento in grado di analizzare il sistema produttivo di uno Stato, nello specifico il Senegal, valutandone l’impatto ambientale e il benessere prodotto. Attraverso il confronto con un modello ipotizzato, si cerca di evidenziare quali aspetti del sistema siano inadatti ad uno sviluppo sostenibile perché ecologicamente nocivi e socialmente inefficaci; allo stesso tempo, si propongono dei miglioramenti che, rispettando i criteri dell’eco-sostenibilità, permettano il conseguimento di un benessere diffuso. La tesi propone dunque un confronto tra due concezioni diverse dello sviluppo: quella del modello attuale che persegue la crescita economica e quella del modello proposto che ipotizza un cambiamento, in un arco temporale di venticinque anni, verso pratiche che mirano a trovare una sintesi ottimale tra tutela ambientale e benessere sociale. L’analisi è stata svolta attraverso l’uso della metodologia Life Cycle Assessment (LCA), che ci ha permesso di quantificare gli effetti ambientali – riferiti all’intero ciclo di vita (produzione, utilizzo e smaltimento) – delle produzioni e di confrontarli con la diffusione del benessere all’interno della società.

Il lavoro si apre con l’illustrazione della problematica ecologica generata dal modello di sviluppo volto alla crescita economica, attualmente egemonico a livello globale. In seguito si analizza il principale rimedio a cui si fa riferimento per limitare gli impatti ambientali delle produzioni, ovvero la monetarizzazione dell’ambiente. Di questa metodologia se ne spiega il funzionamento e se ne rilevano i difetti ed i vizi sostanziali, dovuti all’insostenibilità essenziale del modello di sviluppo attuale. Al fine di fornire una soluzione definitiva alla problematica ambientale, si propone un’alternativa di sviluppo basata sull’uso del metodo LCA come strumento di analisi e di pianificazione del sistema produttivo.

(4)

Si mostra quindi, in via esemplificativa, un caso pratico di utilizzo della metodologia analizzando la situazione attuale del Senegal a confronto con un’ipotesi di sviluppo pianificata attraverso l’analisi LCA.

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Indice

PREMESSA 8

1 L’UMANITÀ, UN PERICOLO PER L’AMBIENTE 11

1.1 La questione ambientale 11

1.2 Un problema complesso e multidimensionale 15

1.3 La necessità di trovare una soluzione 20

2 LA MONETARIZZAZIONE DELL’AMBIENTE 22

2.1 L’Analisi Costi-Benefici come strumento di tutela ambientale 22

2.2 La valutazione delle esternalità 29

2.2.1 I Beni Pubblici 29

2.2.2 Le Esternalità 32

2.2.2.1 Da danno ambientale a danno economico 35

2.2.3 L’Internalizzazione 43

2.3 La monetarizzazione degli impatti per una nuova concezione

dell’economia 49

2.4 Le problematiche connesse alla monetarizzazione dell’ambiente 55

3 L’USO DELL’ANALISI LCA PER UNA PIANIFICAZIONE

SOSTENIBILE 76

3.1 L’insostenibile crescita infinita 76

3.1.1 Un caso esemplare: il “malsviluppo” della produzione alimentare 88 3.2 L’analisi LCA come strumento della sostenibilità forte 106 3.2.1 L’unica sostenibilità: la sostenibilità forte 106

3.2.1.1 Un esempio di economia della “permanenza”: la sovranità alimentare 120

3.2.2 L’uso dell’analisi LCA per il conseguimento di un “benessere

sostenibile” 127

3.2.2.1 Il metodo d’analisi LCA 127

3.2.2.2 Una programmazione democratica dello sfruttamento ambientale 132

(6)

3.2.3.1 L’ISU 137

3.2.3.2 L’ISU nell’analisi LCA 140

4 IL PAESE STUDIATO: IL SENEGAL 150

4.1 Come l’Africa può sviluppare l’occidente 152

4.2 Il Senegal 154

5 ANALISI COMPARATA DEL CICLO DI VITA DEL SISTEMA

SENEGAL 167

5.1 Definizione degli obiettivi e del campo di applicazione 167

5.1.1 Obiettivo dello studio 167

5.1.2 Campo di applicazione 168

5.1.2.1 Le funzioni del sistema 168

5.1.2.2 L’unità funzionale 168

5.1.2.3 Il sistema studiato 168

5.1.2.4 I confini del sistema 168

5.1.2.5 La qualità dei dati 170

5.2 Inventario 170

5.3 Analisi del ciclo di vita 274

5.3.1 Confronto tra i processi con ECO-INDICATOR 99 modificato 274

5.3.1.1 CONSUMO ACQUA POTABILE 274

5.3.1.2 AGRICOLTURA 276

5.3.1.3 INDUSTRIA da settore primario 279

5.3.1.4 Industria 282

5.3.1.5 EDILIZIA 284

5.3.1.6 TRASPORTO 287

5.3.1.7 GESTIONE RIFIUTI 289

5.3.2 Confronto tra i modelli di sviluppo 293

5.3.2.1 Analisi con il metodo ECO-INDICATOR 99 modificato 293

5.3.2.2 Analisi con il metodo EPS 2000 modificato 296

5.3.2.3 Analisi con il metodo IMPACT 2002+ modificato 300

5.3.2.4 Analisi con il metodo EDIP 97 modificato 305

5.3.3 Conclusioni sul confronto tra i due modelli di sviluppo 309 5.3.4 Analisi del MODELLO DI SVILUPPO-Senegal ipotesi di sviluppo 322

5.3.4.1 Analisi del modello proposto con ECO– INDICATOR 99 322

(7)

5.3.4.3 Analisi del modello proposto con IMPACT 2002+ modificato 343

5.3.4.4 Analisi del modello proposto con EDIP 97 modificato 356

5.3.5 Conclusioni sull’analisi del modello di sviluppo proposto per

il Senegal 368

5.3.6 Analisi costi esterni 385

CONCLUSIONE 387

GLOSSARIO 390

ABBREVIAZIONI 398

BIBLIOGRAFIA 400

APPENDICE: LA METODOLOGIA LCA I

(8)

Premessa

Le evidenze scientifiche che descrivono il degrado ambientale del pianeta come un problema urgente e serio sono ormai generalmente riconosciute. La crescita della popolazione mondiale e il rapido incremento delle attività economiche hanno causato stress ambientali a tutti i sistemi socio-economici: cambiamenti climatici, desertificazione, inquinamento, perdita della biodiversità, sono solo alcuni aspetti di una problematica complessa che richiede interventi a breve termine affinché si possa rallentare ed invertire la tendenza degenerativa, prima che diventi irreversibile.

Negli ultimi 50 anni l'uomo ha trasformato gli ecosistemi come mai era successo in periodi precedenti della storia umana. Dal secondo dopoguerra, sulla base dell'idea che progresso e crescita economica potessero di per sè eliminare le disuguaglianze sociali, si è fatta largo la convinzione che esista una equivalenza tra sviluppo economico e giustizia sociale1. Analogamente la globalizzazione, intesa come l’uniformazione delle reti di produzione, avrebbe permesso un benessere diffuso2 su scala mondiale. In realtà tutto questo ha creato una

1 L'idea che la qualità di una società si possa giudicare dal livello della sua produzione economica

interiorizza una concezione materialistica sposata anche da Truman già nel 1949. In occasione del discorso inaugurale al Congresso il presidente americano utilizza, per la prima volta, l’aggettivo “sottosviluppate” per indicare le regioni economicamente arretrate. Questa affermazione introietta una concezione materialista della società, ovvero l'idea che la qualità del corpo sociale si possa giudicare dal livello della produzione economica, tanto che si stabilisce un'equivalenza tra il livello economico e il grado di civiltà. Non a casa da allora l’indicatore maggiormente utilizzato per misurare il benessere di una nazione è il tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo. Allo stesso tempo si deve poi considerare che in termini socioeconomici non si può parlare di sottosviluppo senza implicare l'idea di una società sviluppata, che in questo caso è quella occidentale. Truman sostenne che tutte le nazioni del mondo corressero sulla stessa strada, per cui il sottosviluppo non è l’inverso dello sviluppo ma solo la sua forma incompiuta, e che spettasse ai paesi più progrediti aiutare gli altri ad avanzare su questa strada. In questo senso non c'è sviluppo senza la contestuale attribuzione di una egemonia culturale alle società occidentali, per cui l’unico sviluppo conseguibile è quello messo in essere dalle società già “sviluppate” attraverso la produzione continua di beni (G. Battiston, I limiti della natura allo sviluppo dei desideri, intervista a Wolfgang Sachs in “Il Manifesto” 03 giugno 2008 e G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza

occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 74 - 78). 2

Il pensiero “sviluppista” ritiene che una crescita economica continua e costante possa fornire anche le soluzioni necessarie alla problematica ambientale: sia grazie allo sviluppo tecnologico, che sembra essere in grado di mettere in atto, sia grazie all’emancipazione dalla povertà dei paesi che non hanno ancora raggiunto un livello di produzione soddisfacente. L’attenzione rivolta dagli ambientalisti verso quei paesi dove le diffuse condizioni di povertà obbligano la maggior parte della popolazione ad utilizzare in maniera indiscriminata l’ambiente, ha spinto a ricercare le soluzioni al problema ambientale nello sviluppo di questi paesi. In realtà per i paesi poveri la corsa verso lo sviluppo ha significato, in linea di massima, l'esportazione di risorse naturali e merci ottenute attraverso un sovra-sfruttamento dei loro ecosistemi. Una crescita orientata verso l'esterno, che, se da un lato ha permesso ad una ristretta fascia della popolazione di avere accesso

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situazione di non ritorno: ormai la velocità e l'intensità con cui l’uomo mette mano alle risorse supera la capacità del pianeta di rinnovarle. Chiaramente ogni società umana produce un impatto sull’ecosistema da cui trae le risorse necessarie al suo sostentamento e subisce gli effetti dovuti alla degenerazione della qualità ambientale, ma se in epoche passate la pericolosità dell’impatto era localizzata esclusivamente nelle zone più densamente popolate, oggi in un mondo altamente interdipendente che mette a sistema fenomeni di urbanizzazione ed industrializzazione, la produzione di merci, che senza dubbio ha contribuito ad un aumento del “benessere” (perlomeno dal punto di vista “umano”), avviene mettendo a rischio l’intero ecosistema e polarizzando il mondo tra chi dagli impatti trae un beneficio e chi ne viene solamente danneggiato3. Occorre dunque individuare dei correttivi in grado di agire sull’intero sistema di produzione, poiché l’insostenibile sfruttamento delle risorse, per il carattere transnazionale delle minacce ecologiche e per le sperequazioni nelle condizioni di vita della popolazione mondiale che si sono venute a creare4, pongono problemi stringenti che richiedono soluzioni globali.

ad un livello di consumi simile a quello presente nei paesi ricchi, dall’altro ha ulteriormente aggravato la problematica ambientale. Si deve poi aggiungere un’ultima considerazione: senza dubbio la crisi ambientale è il risultato dell’attività umana in generale e molto probabilmente la produzione di 1 MJ di energia termica in una paese in via di sviluppo comporta un impatto maggiore rispetto alla medesima produzione effettuata in un paese industrializzato, dove è presente una filiera energetica razionalizzata; tuttavia sarebbe un grave errore concentrarsi su questi impatti e perdere di vista il livello dei consumi dell’uomo “industriale”, si rischierebbe, infatti, di stravolgere il ruolo che la costruzione dell’opulenza, per la classe media globale nel Nord come nel Sud del mondo, ricopre nell’attuale crisi ambientale (G. Rist, Lo sviluppo. cit. p. 174 – 198 e p. 290).

3

Il “Millennium Ecosystem Assessment” è una valutazione dell’ecosistema mondiale redatta per conto delle Nazioni Unite. Il lavoro, a cui hanno partecipato di più di mille esperti e scienziati di quasi tutto il mondo, rileva come, a causa della crescente necessità di risorse, l’attività umana ponga una tale pressione sulle funzioni naturali della terra che la capacità degli ecosistemi del pianeta di sostenere le generazioni future non può più essere data per scontata, e come in assenza di correttivi il processo di degradazione degli ecosistemi, e la conseguente diminuita capacità di fornire servizi, potrebbe crescere significativamente durante i prossimi 50 anni. Oltre agli elevati costi ambientali dell’attuale sistema di produzione, il rapporto sottolinea come negli ultimi anni si sia assistito all’aumento del livello di povertà di alcuni settori della popolazione mondiale (http://it.wikipedia.org/wiki/Millennium_Ecosystem_Assessment).

4 Dei sei miliardi di persone che popolano il nostro pianeta, un miliardo possiede l’80 per cento

della ricchezza globale, mentre un miliardo e 200 milioni fatica a sopravvivere con meno di un euro al giorno (http://www.lavoce.info/articoli/-internazionali/pagina1807.html).

(10)

Prima parte:

presentazione della problematica;

strumenti ed ipotesi risolutive

Tutto ciò che noi consumiamo lo produce la natura. Tutto ciò che noi produciamo, consuma la natura. (Hans Immler)

(11)

Capitolo 1

L’umanità

,

un pericolo per l’ambiente

1.1

La questione ambientale

La comunità internazionale iniziò a denunciare l’esistenza di una problematica ambientale nel 1972, l’anno in cui venne organizzata a Stoccolma la conferenza delle Nazioni Unita sull’ambiente umano. Per la prima volta, si prese coscienza che la risoluzione delle questioni ambientali richiedeva lo sforzo congiunto di tutti i paesi e che non era disgiunta dalle problematiche di natura sociale ed economica. Il meeting si concluse con l’adozione della Dichiarazione di Stoccolma, che affermò l’importanza della tutela e della valorizzazione dell'ambiente come condizione imprescindibile per lo sviluppo delle nazioni5. Questo concetto venne ulteriormente approfondito nel 1987 con la pubblicazione del rapporto della commissione Brundtland. Il rapporto rilevò che tutte le società umane (ricche o povere) producevano un impatto sull’ambiente e quindi un deterioramento delle condizioni ecologiche. Al fine di smussare questi impatti la commissione introdusse il concetto dello “sviluppo sostenibile”, con cui prescriveva, in conformità ad una solidarietà intergenerazionale, di lasciare alle generazioni future “un'eredità di ricchezza”, intesa come insieme di conoscenze scientifico-tecnologiche, di capitale prodotto dall'uomo e di beni ambientali non inferiore a quella esistente. Da quel momento lo “sviluppo sostenibile” divenne il punto di partenza per ogni strategia credibile di contrasto all'inquinamento globale e al sottosviluppo; infatti, in linea con una concezione di sviluppo multidimensionale e polivalente, la sostenibilità si pose tre obiettivi principali: l'integrità

5 La conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano (UNCHE, United Nations Conference

on Human Environment), tenutasi a Stoccolma nel giugno 1972, fu il primo incontro internazionale in cui si focalizzò l’attenzione sulla protezione dell’ambiente naturale come condizione imprescindibile per lo sviluppo delle popolazioni umane attuali e delle generazioni future. La Conferenza, che portò all’istituzione Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), si concluse con la stesura di un documento noto come Dichiarazione di Stoccolma che può essere considerata una pietra miliare nella definizione del concetto di sviluppo sostenibile e dei provvedimenti internazionali che regolamentano le attività antropiche in relazione all’impatto sull’ambiente (http://it.encarta.msn.com/encnet/refpages/RefArticle.aspx?refid=1041537517).

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dell'ecosistema; l’efficienza economica; l’equità sociale6. In sintesi, il concetto di sviluppo sostenibile si sostanzia in un modello etico e politico, che implica una compatibilità tra le dinamiche economiche e sociali delle moderne economie e il miglioramento delle condizioni di vita e delle capacità ambientali di riprodursi in maniera indefinita. Il rapporto indicò, quindi, nel superamento del sottosviluppo la via per vincere la fame e la povertà e per garantire il risanamento ambientale; sia perché sono i Paesi poveri a pagare i prezzi umani e sociali più alti per il degrado ambientale, sia perché, solo grazie alle innovazioni rese possibili da una crescita economica mondiale costante è possibile mantenere in equilibrio l’ecosistema7. La successiva tappa nella costruzione del concetto di sviluppo sostenibile fu l’“Earth Summit”, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, durante il quale l'emergenza ambientale acquistò una visibilità globale, vennero gettate le basi per dare avvio ai programmi di risanamento ambientale del pianeta, enunciati i principi su cui impostare le politiche nazionali ed internazionali e posti in evidenza i problemi globali che coinvolgono responsabilità ed azioni di tutti gli Stati. Nel quadro della conferenza scaturirono diversi documenti, tra i quali la Dichiarazione di Rio, l’Agenda XXI e la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il primo documento precisò che il miglior modo di considerare le questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti i cittadini a diversi livelli interessati, per raggiungere tale obiettivo auspica che ciascun cittadino possa godere di un adeguato accesso alle informazioni relative all’ambiente. L’Agenda XXI costituisce un breviario dello “sviluppo sostenibile”. Le sue raccomandazioni non sono però obbligatorie: ciascun governo s’impegna unilateralmente a metterne in opera un certo numero. La convenzione, in fine, punta alla riduzione delle emissioni dei gas serra, sulla base dell'ipotesi del riscaldamento globale. È un trattato ambientale che non pone limiti obbligatori per le emissioni di gas serra alle nazioni individuali ed è quindi legalmente non vincolante; include però previsioni di aggiornamenti (denominati “protocolli”) con il compito di fissare limiti obbligatori alle emissioni.

Il Summit di Johannesburg svoltosi, nel 2002, mise in evidenza come sia particolarmente difficile e lento il cammino verso un vero sviluppo sostenibile: lo

6 G. Munda, Economia ambientale, economia ecologica e il concetto di sviluppo sostenibile,

Università Autonoma di Barcellona, Dipartimento di Economia e Storia Economica, http://www.dse.ec.unipi.it/persone/docenti/luzzati/italiano/didattica/MUNDA%20COMPLETO.pdf

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dimostra il fatto che gli impegni che i vari paesi presero nel 1992 nel Vertice di Rio, tralasciando qualche isolato progresso a livello nazionale o regionale, non sono stati mantenuti. In particolare, nel Summit di Johannesburg venne sottolineata la necessità di passare dalla individuazione dei problemi, dei metodi e delle strategie, all’effettiva realizzazione di interventi sul campo non solo in termini ambientali in senso stretto, ma in termini di concertazione, partecipazione e condivisione.

Si è così diffusa una maggiore consapevolezza sia della fragilità delle risorse naturali, sia (conseguentemente) della necessità di una più incisiva difesa di esse. Nel frattempo, grazie ai frequenti report prodotti dall’IPCC8 l’attenzione si è concentrata sul riscaldamento climatico e si è iniziato a cercare soluzioni che combinino la riduzione delle emissioni con la crescita economica. Nel 1998 venne firmato il protocollo di Kyoto9; il trattato prevede l'obbligo in capo ai paesi industrializzati di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti (biossido di carbonio ed altri cinque gas serra, ovvero metano, ossido di diazoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo) in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, considerato come anno base, nel periodo 2008-2012. Per raggiungere tale obiettivo il protocollo prevede il ricorso a meccanismi di mercato, i cosiddetti “Meccanismi Flessibili”; al fine di ridurre le emissioni al minor costo possibile10. Questi meccanismi permettono di approntare forme di mitigazione della problematica ecologica ovunque nel

8

L'Intergovernmental Panel on Climate Change (foro intergovernativo sul mutamento climatico, IPCC) è il foro scientifico formato nel 1988, la cui attività principale consiste nella preparazione, a intervalli regolari, di valutazioni esaustive e aggiornate delle informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche rilevanti per la comprensione dei mutamenti climatici indotti dall'uomo, degli impatti potenziali dei mutamenti climatici e delle alternative di mitigazione e adattamento disponibili per le politiche pubbliche (http://it.wikipedia.org/wiki/Intergovernmental_Panel_on_ Climate_Change).

9 Il protocollo di Kyoto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il

riscaldamento globale sottoscritto, a Kyoto l'11 dicembre 1997, da più di 160 paesi in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (http://it.wikipedia.org/wiki/Protocollo_di_Ky%C5%8Dto).

10 Il protocollo prevede tre tipi di meccanismi flessibili: 1) Clean Development Mechanism

(CDM): consente ai paesi industrializzati e ad economia in transizione di realizzare progetti nei paesi in via di sviluppo, che producano benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni di gas-serra e di sviluppo economico e sociale dei Paesi ospiti e nello stesso tempo generino crediti di emissione (CER) per i Paesi che promuovono gli interventi. 2) Joint Implementation (JI): consente ai paesi industrializzati e ad economia in transizione di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas-serra in un altro paese dello stesso gruppo e di utilizzare i crediti derivanti, congiuntamente con il paese ospite. 3) Emissions Trading (ET): consente lo scambio di crediti di emissione tra paesi industrializzati e ad economia in transizione; un paese che abbia conseguito una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore al proprio obiettivo può così cedere (ricorrendo all’ET) tali "crediti" a un paese che, al contrario, non sia stato in grado di

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mondo, indipendentemente dal luogo dove sono state effettuate le emissioni. Solo negli ultimi anni, in realtà, in particolare con il rapporto Stern del 2006, si comprese appieno l’importanza di una reale e concreta politica di tutela e salvaguardia dell’ambiente. Si deve considerare che l’establishment dei Paesi più industrializzati ha sempre manifestato un notevole scetticismo verso le politiche ambientali, considerandole un limite per la crescita economica; questo a discapito delle dichiarazioni rilasciate e degli impegni presi durante i vari summit internazionali sul tema. Infatti, parallelamente alle teorie ambientaliste si sono sviluppati nel tempo think thank, riconducibili a centri di potere economico facilmente riconoscibili, che, mettendo in discussione gli studi scientifici ambientali riguardanti il collegamento tra la degradazione ambientale e l’inquinamento antropico, hanno fatto passare l’idea della sostanziale inutilità e della diseconomicità degli interventi11. Queste posizioni appaiono superate e marginali, sia perché non poggiano su basi scientifiche concrete, considerato che molte delle pubblicazioni sull’argomento non sono state sottoposte al processo di “peer review”, sia perché è ormai noto come molti autori eco-scettici non siano indipendenti, ma siano, invece, legati ad alcuni ambienti economici ed industriali, sia perché le tematiche ambientali stanno sempre più condizionando le scelte politiche dei governi. Possiamo ricollegare il cambio di rotta proprio alla pubblicazione del “rapporto Stern”12, perché questa ricerca, nel tentativo di

rispettare i propri impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra (Ibidem).

11 Lo scarso impegno mostrato dagli Stati uniti nella tutela ambientale è da attribuire al successo

delle teorie eco-scettiche. In realtà queste teorie rappresentano una tattica del movimento conservatore statunitense per combattere l’ecologismo e legittimare la sua politica anti-ambientalista. È il caso di sottolineare come la maggior parte delle pubblicazioni che mettono in dubbio l’esistenza di un problema ambientale sono riconducibili a think tank conservatori e sono finanziate da multinazionali che gestiscono le attività più inquinanti come società petrolifere, cartelli cerealicoli, industrie chimiche e farmaceutiche, etc.; tutte imprese in grado di mettere in atto un lobbying spietato, contro i tentativi di adottare regolamenti in grado di inquadrare le loro attività (AA.VV, Atlante per l’ambiente 2008, di “Le Monde Diplomatique” p. 14).

12

Nicolas Stern è un economista ex dirigente della Banca Mondiale, nel 2006 presenta un rapporto, commissionato da Tony Blair, nel quale delinea le conseguenze economiche che l’effetto serra potrebbe avere sul pianeta. Questo documento risulta particolarmente importante perché curato un ex dirigente della Banca Mondiale da sempre giudicato una fonte autorevole dal main-stream dell’economia. Il rapporto asserisce che se non verrà fatto nulla per arginare le attuali emissioni di CO2 i danni per l’economia globale equivarranno a una perdita complessiva del 20% del Pil mondiale. L’unico modo per fare fronte all’emergenza è sostenere costi equivalenti all’1% del Pil mondiale entro il 2050. Il rapporto calcola che per raggiungere un certo livello di efficacia si dovranno ridurre, da qui al 2050, di tre quarti le emissioni potenziali che si accumulerebbero al ritmo di crescita attuale. Un esborso oneroso, ma tutto sommato modestissimo rispetto ai danni stimati poiché in caso d’inazione il cambiamento climatico avrà effetti sugli elementi basilari delle vita delle persone: accesso all’acqua, produzione di cibo, salute e ambiente (M. Rovai, Scenari di

riferimento dell’economia ambientale, 2007,

(15)

calcolare le conseguenze economiche dei cambiamenti climatici ha evidenziato come l’inazione comporti costi economici ben maggiori rispetto agli investimenti necessari ad una riduzione delle emissioni; tale mutamento di prospettiva è ulteriormente avvalorato dalla recente svolta ambientalista del governo statunitense, da sempre una delle amministrazioni più scettiche in riferimento alle tematiche ambientali13.

1.2

Un problema complesso e multidimensionale

L’importanza assunta dalla questione ambientale in ogni ambito del contesto socio-economico mondiale è quindi dovuta alla progressiva presa di coscienza della problematica da parte della comunità internazionale. Una consapevolezza, derivante da un generalizzato consenso scientifico, che considera ormai incontrovertibile come il deterioramento ambientale abbia cause determinabili collegate all’azione umana ed effetti dannosi che possono raggiungere chiunque nel mondo e che richiedono, soluzioni globali in tempi brevi per evitare il collasso degli ecosistemi.

Attualmente il principale motivo di preoccupazione sembra essere costituito dai cambiamenti climatici, ed infatti il dibattito politico pone tra le sue priorità il contenimento delle emissioni dei gas serra: in particolare la CO2, considerata la causa principale del riscaldamento globale14. Ciò si è verificato in virtù del successo riscosso dal Rapporto Stern, oltreche dalla notevole diffusione dei risultati degli studi effettuati dall’IPCC. In particolare l’IPCC, la fonte scientifica più autorevole in tema di cambiamenti climatici, contribuisce con i suoi rapporti a mantenere alta l’attenzione sui notevoli costi, ambientali ed economici, derivanti dall’assenza di meccanismi di contenimento delle emissioni climaalteranti. L’importanza di tali studi è evidente: valutando la capacità di assorbimento dell’ambiente riescono ad individuare limiti specifici entro i quali contingentare

13 Nell’Aprile 2009, con una decisione che ribalta otto anni di politiche anti-ambientaliste

dell’amministrazione Bush, il ministero dell’ambiente americano, Environmental Protection Agency (Epa), ha emesso uno storico documento il “Clean Air Act” che da il via al governo federale per regolare i gas inquinanti responsabili del surriscaldamento del pianeta (V. Gualerzi,

La CO2 inquina, svolta verde negli USA, in “La Repubblica” 18 aprile 2009, p. 14).

14 Vari gas ad effetto serra sono implicati nell’attuale crisi climatica. Ma l’anidride carbonica

(CO2) e il metano (CH4) sono da soli responsabili dei tre quarti del problema (AA.VV, Atlante

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l’azione umana per limitarne l’effetto sull’ambiente15. Tuttavia, sebbene siano riusciti ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione ambientale, l’eccessiva mediatizzazione di cui sono oggetto rischia di mettere in ombra gli altri temi ecologici e di focalizzare gli interventi di tutela su di un singolo aspetto della problematica, il riscaldamento climatico e, in special modo, sulla componente considerata più pericolosa, la CO2; quando invece tale fenomeno rappresenta solo uno dei fattori di rischio ambientale. Le risorse in esaurimento e gli impatti non considerati sono molteplici e tutti altrettanto importanti; problemi come l’assottigliamento dello strato d’ozono, le piogge acide, la perdita di biodiversità, gli inquinanti tossici e l’effetto che questi hanno sulla salute umana16, l’esaurimento delle fonti rinnovabili e non rinnovabili sono chiari segni dell’insostenibilità ambientale di un sistema di produzione nella sua totalità. La necessità di protezione dell'ambiente esula dalla semplice difesa di singole sue componenti e mette in discussione lo stesso modello di sviluppo delle odierne società industrializzate: l’insostenibilità non è una semplice eccezione, ma una dinamica insita nell'organizzazione socio - economica contemporanea che, oltre ad una questione prettamente ambientale, pone in essere anche un problema di difesa dei diritti fondamentali della persona umana. Infatti, sebbene il dibattito

15 Il riscaldamento del pianeta per mano dell’uomo è inequivocabile e se non si arrestano le

emissioni che lo provocano potrebbe divenire irreversibile con tutto ciò che ne deriverebbe: scioglimento di poli e ghiacciai, l’espansione degli oceani, il rischio di estinzione per il 30% delle specie viventi. L’IPCC rileva come la concentrazione nell'atmosfera di anidride carbonica (CO2), il più abbondante gas serra, sia oscillata fino alla rivoluzione industriale entro un range di 265-280 ppm per poi crescere (nel 2006 la concentrazione è stata calcolata attorno alle 380 ppm) a causa dell’azione antropica, in particolare per l’intenso uso dei combustibili fossili. L’aumento continuo dei livelli di gas serra in atmosfera comporterà, stando agli esperti dell'Ipcc con una probabilità compresa tra il 90 e il 95%, l’innalzamento della temperatura media della Terra: entro la fine del secolo la temperatura superficiale crescerà da 1,8 a 4 gradi centigradi ma, per quano improbabile, non si può però neppure escludere la possibilità di un aumento fino a 6,4°. Secondo l’IPCC, per lasciare alle generazioni future una vita accettabile in un pianeta ancora accogliente, si deve riuscire a tenere la crescita della temperatura al di sotto dei 2° centigradi e questo sarà possbile stabilizzando da qui al 2050 le emissioni di CO2 equivalente entro le 450 ppm (Quarto rapporto di valutazione del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici, 2007, http://www.ipcc.ch/pdf/reports-nonUN-translations/italian/ar4-wg1-spm.pdf, M. Magrini,

Abbiamo solo due anni, in “Il Sole 24 ore” 18 novembre 2007 p.5). 16

Da notare come il fattore salute venga spesso trascurato, perché l’inquinamento quasi mai agisce direttamente ma spesso logora il corpo dall’interno, rendendo difficile la comprensione delle cause delle patologie. La rivista medica “The Lancet” ha pubblicato una serie di studi in cui si evidenzia l’impatto negativo dell’emissioni inquinanti sulla salute umana. Ogni anno si contano 2,4 milioni di vittime per colpa delle emissioni nocive. Nei paesi industrializzati la principale causa di morte e malattie è l’inquinamento dell’aria esterna: si stima che l’inquinamento urbano sia direttamente responsabile di circa 800000 decessi all’anno. Nei PVS invece l’inquinamento è all’interno delle abitazioni: a causa dei combustibili “poveri” usati per riscaldare e cucinare in ambienti con scarsa ventilazione il bilancio è di 1,6 milioni di morti all’anno (N. Degli Innocenti, Ogni anno 2,4

(17)

globale continui ad ignorare questo legame cruciale17, appare palese come esista una stretta interrelazione tra ambiente e diritti umani e come dalla degradazione degli ecosistemi derivino disuguaglianze sociali e conflitti. La tematica dei diritti umani infatti, è protagonista di una lunga e articolata evoluzione che ha un unico obiettivo: la protezione della persona. Tali diritti rivelano innanzitutto i valori la cui tutela lo Stato deve assumere come obiettivo della propria azione e come limite della sua sovranità, al fine di garantire la protezione della persona nel concreto del suo esistere. Oggi si delineano orizzonti nuovi e nuove "aggressioni" che la persona umana deve fronteggiare: tra queste inevitabilmente rientra la questione ambientale; la qualità dell'ambiente non può non condizionare la qualità della vita e consequenzialmente le aggressioni all'ambiente si riverberano in maniera diretta sul godimento effettivo di alcuni essenziali diritti della persona18. Le responsabilità, ecologiche e politiche, di fronte alla degenerazione ambientale19 impegnano gli Stati a correggere sia le ingiustizie insite nel modello economico20 predominante, sia gli effetti che questo produce sull’ambiente. Così

17 Questa concezione che vede i diritti ambientali come parte integrante dei diritti umani è stata

messa in discussione anche nel recente “Forum mondiale sull’acqua”, tenutosi a Istanbul nel Marzo 2009. In occasione di questo incontro è stato ulteriormente ribadito come l’accesso all’acqua potabile e alla bonifica è una "necessità umana fondamentale", ma non un "diritto". Il punto di contesa sta nella definizione di acqua come bene, portata avanti dalle multinazionali, o invece dell'acqua come vero e proprio diritto e quindi bene inalienabile, portata avanti da numerose organizzazioni non governative e da diversi Paesi. (Delusione al vertice: l'acqua resta

una “necessità” e non diventa un “diritto”, 22 marzo 2009, http://www.corriere.it/esteri/09_marzo_22/vertice_acqua_istanbul_4d0f649c-1701-11de-a7e8-00144f486b a6.shtml). A questa impostazione fa da contro altare la nuova costituzione dell'Ecuador. La carta stabilisce che lo Stato promuove l’uso di tecnologie ambientalmente pulite e di energie alternative, riconosce il diritto della popolazione a vivere in un ambiente sano e dichiara di interesse pubblico la preservazione dell’ambiente e la prevenzione del danno ambientale. Non solo, per la prima volta un paese rivede il concetto di natura nella propria costituzione e le conferisce lo stato di entità giuridica affrancandola dalla condizione di mera proprietà. Assegna inoltre ai governi locali il compito di difenderla dalle attività che possono portare all’alterazione degli ecosistemi. Le nuove leggi impediscono infatti al diritto di proprietà sulla terra di interferire con l’esistenza delle comunità umane e delle specie animali e vegetali che lo popolano (http://www.lanuovaecologia.it/view.php?id = 9871&contenuto =Notizia).

18

F. Vollero, Diritti umani e diritti fondamentali fra tutela costituzionale e tutela sopranazionale:

il diritto ad un ambiente salubre,

http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041205175248

19 La violazione del diritto al cibo o alla salute spesso non sono collegabili immediatamente

all'azione di un chiaramente identificabile portatore di doveri, allo stesso modo gli effetti del clima non possono essere attribuiti a colpevoli con nomi e cognomi. In ogni caso, l'assenza di colpevoli non annulla i diritti. Una concezione strettamente giuridica, che ritenesse che non vi siano diritti se non sono giudicabili, perderebbe di vista la natura universalistica dei diritti umani (W. Sachs,

Diritto al clima, in “Il Manifesto” 02 dicembre 2008).

20 L'Accordo Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali stabilisce che «gli Stati

firmatari del presente accordo riconoscono il diritto di ognuno ad un adeguato standard di vita per sé e per la sua famiglia, incluso cibo, vestiario e abitazione» (art.11) e «il diritto ad elevati standard di salute fisica e mentale» (art.12). Per diritto di nascita, le persone sono considerare depositarie di diritti che proteggono la loro dignità, a prescindere dalla loro nazionalità o

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come, in tema di diritti umani, i governi sono obbligati, anche riguardo ad aspetti che non ricadono direttamente sotto la loro responsabilità, ad adempiere a differenti compiti in merito alla tutela, al rispetto e alla realizzazione di alcuni diritti; allo stesso modo dovrebbero seguire l'applicazione della stessa gerarchia di obblighi ai diritti ambientali21.

Se si considera che gli esseri umani sono ovviamente parte dell’ecosistema e ne dipendono, i diritti ambientali non possono che integrare i diritti umani, basti pensare alle già accennate conseguenze prodotte sulla salute dalle emissioni nocive e agli effetti che i cambiamenti ambientali inducono nella vita delle popolazioni più povere. Larghi strati della popolazione mondiale dipendono direttamente dalle risorse naturali per cibo, riparo e lavoro. La loro ricchezza, sia nel breve che nel lungo periodo, è inestricabilmente legata alla produttività dei sistemi naturali; se questa viene meno inevitabilmente si verificherà un peggioramento nelle condizioni di vita dei più poveri, ovvero si assisterà ad un aumento della povertà globale e ad un approfondimento delle differenze sociali. Inoltre gli effetti socio-economici dovuti alla degradazione ambientale (ad es. la significativa riduzione nella produzione di molte foreste, delle terre agricole e dei vivai ittici, la desertificazione, la questione idrica) rischiano, nel lungo periodo, di degenerare in disordini e conflitti. In tutto il mondo lo stress ambientale funziona come un moltiplicatore dei rischi, intensificando e militarizzando la lotta globale per il controllo di risorse sempre più scarse22. Questa competizione, determinando

appartenenza culturale (Ibidem).

21 Il “Rapporto Speciale della Commissione sui Diritti Umani per il Diritto al Cibo” del 2005

stabilisce che i governi devono riconoscere i loro obblighi extraterritoriali nei riguardi del diritto al cibo. Questa responsabilità è in primo luogo di tipo negativo, ovvero richiede di evitare azioni negative piuttosto che interventi per garantire condizioni per una vita integra. Gli Stati dovrebbero dunque astenersi dall'implementare politiche o programmi che possono avere effetti negativi sul diritto al cibo di popolazioni che vivono fuori dal loro territorio di competenza. Allo stesso modo, i cambiamenti ambientali reclamano una responsabilità extra-territoriale degli Stati, non solo perché tali cambiamenti mettono in discussione il diritto al cibo, ma anche perché da essi dipendono le stesse condizioni di vita (Ibidem).

22 Le cause ambientali di molte crisi internazionali sono sempre più spesso al centro delle

discussioni presso le sedi istituzionali della comunità internazionale. Finora nel mondo si è combattuto per l'etnia, la religione, il petrolio. Nei prossimi anni, secondo la l'Onu e molti governi, altre guerre scoppieranno per le risorse naturali scarse, come l'acqua ed i terreni fertili. La logica competitiva, rafforzata dalla generalizzazione del mercato promossa dal pensiero “sviluppista”, rende difficile ogni approccio concertato e ravviva la concorrenza (economico - militare) tra le economie nazionali. Si pensi al caso del Darfur del quale se ne parla in termini militari e politici, come di un conflitto etnico che contrappone le milizie arabe ai ribelli neri e ai contadini. Se si guardano le cause scatenanti del conflitto emerge una dinamica molto più complessa. Negli ultimi vent’anni il Sudan ha registrato un calo nelle precipitazioni, dovuto in parte al riscaldamento globale causato dalle attività umane. Gli agricoltori stanziali e i pastori nomadi che abitano il Darfur hanno convissuto pacificamente fino a quando siccità e mancanza di cibo hanno portato

(19)

in maniera ricorrente interventi militari, è destinata ad influenzare la vita di quasi tutti gli abitanti del pianeta, costretti a finanziare o a partecipare a guerre per la conquista di risorse considerate vitali23.

Inevitabilmente, dunque, la questione ecologica non comporta solamente implicazioni ambientali, ma anche sociali, culturali, politiche ed economiche. Si tratta quindi, sia nelle cause che negli effetti, di una problematica multidimensionale, pertanto non riconducibile a singoli aspetti, e complessa, in quanto tutti i fattori ambientali e sociali interagiscono e s’influenzano; concentrarsi solamente su alcuni elementi, sebbene importanti, distoglie l’attenzione dalla complessità della problematica e porta ad attuare soluzioni parziali che potrebbero avere effetti altrettanto negativi sull’ambiente24. L’unico

all’emergere delle differenze etniche ed allo scoppio del conflitto (http://cca.analisidifesa.it/it/magazine_8034243544/numero89/article_58433381353383301566382 6657457_2683573816_0.jsp).

23 Spesso la gestione strategica delle risorse porta a scenari militari inediti che non vengono

riconosciuti come tali dall’opinione pubblica internazionale ma che di fatto riconducono il diritto internazionale alla vecchia politica di potenza. Conflitti a bassa intensità dove attraverso accordi con autorità locali compiacenti, la creazione o sostituzione di regimi satellite, la corruzione e la repressione sistematiche, le entità che hanno la forza per farlo controllano i flussi delle risorse e conducono all’impoverimento la stragrande maggioranza delle popolazioni che vivono nella regione. In tali contesti il “fronte militare” inteso in senso tradizionale è scomparso, sostituito da qualcosa di strutturalmente differente. Si è passati ormai da una "geopolitica degli spazi" ad una "geopolitica dei flussi". In generale il territorio ha perduto quello che era il valore originario del suo profilo strategico. Le forze militari vengono impiegate non più tanto per conquistare territori ma per garantire stabilità a quei flussi economici, energetici, informativi, che costituiscono le vere risorse, incluse le risorse naturali (M. Klare, Potere nero, in “Internazionale” n. 679, 9 Febbraio 2009, p. 22 – 27 e C. Daclon, Geopolitica dell'ambiente. Sostenibilità, conflitti e cambiamenti

globali, Milano, Franco Angeli 2008, citato da http://it.wikinews.org/wiki/La_sostenibilit%C3%A0_ambientale_chiave_per_la_prevenzione_dei_ conflitti).

24 Per fornire un esempio di come, a volte, soluzioni parziali si rivelino dannose, si prenda il caso

dell’azienda elettrica tedesca Rwe. La Rwe produce energia elettrica in centrali prevalentemente a carbone ed è una delle più grandi produttrici di emissioni di anidride carbonica in Europa. Anziché trovare una soluzione concreta alle sue emissioni ha deciso di approfittare dei meccanismi previsti dal protocollo di Kyoto: nello specifico utilizzerà il “clean development mechanism” che le permette di finanziare progetti di “sviluppo pulito”, in un paese catalogato come in via di sviluppo, e utilizzare a proprio credito le emissioni “risparmiate”. Per compensare l'eccesso di scarichi di anidride carbonica dei suoi impianti, la Rwe progetta, quindi, di acquistare crediti per 442mila tonnellate di CO2 all'anno dalla centrale idroelettrica presso la diga di Xiaoxi in Cina. La soluzione proposta però, nonostante comporti una riduzione delle emissioni di CO2, non rappresenta un miglioramento della situazione ambientale. Senza approfondire un discorso più generale in cui si dovrebbero rilevare i vantaggi (produzione di energia) e gli svantaggi (elevati impatti ambientali, tra i quali la consistente riduzione della fauna ittica) correlati alla costruzione di una diga, ci si limita, nello specifico, a rilevare come la diga di Xiaoxi non rispetti gli standard dettati dalla “Commissione mondiale sulle dighe”, l'organismo indipendente facente riferimento alla Banca mondiale che indica i criteri da rispettare in merito all'impatto ambientale e sociale delle grandi opere. In effetti le leggi sia tedesche, sia comunitarie impongono di verificare che qualsivoglia diga si attenga a questi standard prima di comprargli “crediti di carbonio”, ma alla Rwe è bastato richiedere ad un'agenzia di consulenti (la Tüv Süd) di certificare l'idoneità della diga cinese per aggirare queste normative (M. Forti, L'affare sporco di Rwe, in “Il Manifesto” 13 dicembre 2008, p. 2).

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modo per preservare il delicato equilibrio ecosistemico consiste nell’affrontare in modo organico questi temi attraverso soluzioni d’insieme, in grado di individuare limiti ambientali entro i quali contingentare gli impatti presenti in ogni ambito dell’azione umana. Gli Stati potranno risolvere i nuovi e spinosi problemi25 che si troveranno affrontare a causa dell’emergenza ambientale solo considerando la problematica ecologica come una vera e propria minaccia alla sicurezza globale ed accettando, nella ricerca delle soluzioni, ognuno le proprie responsabilità.

1.3

La necessità di trovare una soluzione

In passato è già avvenuto che alcune società abbiano compromesso a tal punto l’ecosistema da impedirne poi la vivibilità. L’esempio dell’isola di Pasqua26 è sintomatico di come una comunità, per seguire ossessivamente alcuni miti, perda contatto con i limiti fisici del suo mondo finendo per autodistruggersi. E’ possibile individuare dei punti di contatto tra questa esperienza e ciò che sta succedendo nella nostra società, dove la mania produttivistica attira tutte le attenzioni sui volumi di produzione, nella convinzione che grazie alla crescita economica si riusciranno a superare tutte le difficoltà, e nasconde i limiti dell’ambiente da cui si traggono le risorse necessarie a queste produzioni. La differenza è che oggi ad essere in pericolo non è solo un ecosistema circoscritto ma l’intero pianeta; è

25

Tra i quali il più grave è, senz’altro, costituito della progressiva invivibilità di molte zone del pianeta. Secondo le Nazioni Unite circa la metà della popolazione mondiale, si trova in aree esposte ad almeno un rischio ambientale di significativo impatto tra siccità, inondazioni, frane, cicloni, eruzioni vulcaniche, terremoti. Le regioni aride e semi-aride del pianeta rappresentano quasi il 40% della superficie terrestre e ospitano circa 2 miliardi di persone. Tutto questo indurrà nei prossimi decenni centinaia di milioni di persone a divenire profughi ambientali (http://www.legambientepadova.it/dossier_desertificazione).

26 L’isola di Pasqua è stata oggetto di un vero e proprio disastro ecologico causato dalle tribù

indigene. In tempi remoti l’isola era coperta da una fitta vegetazione (per la maggior parte palme) che ha favorito l’insediamento umano. A partire dall’anno 1000 d.c. l'isola è andata incontro ad una deforestazione, durante la quale, secondo alcune stime, oltre 10 milioni di palme sarebbero state abbattute esponendo il terreno al vento e alle intemperie e favorendo sia l'erosione dello strato fertile del terreno, che la desertificazione di ampie zone. Il disboscamento dell’isola era imposto dalla necessità, per la popolazione locale, di costruire i moai il cui sistema di trasporto richiedeva notevoli quantità di legname. I moai, le famose statue monolitiche che ancora oggi si possono osservare sull’isola, nelle intenzioni degli indigeni avrebbero dovuto attrarre la protezione degli dèi e di conseguenza favorire eventi propizi. Ed invece la riduzione della risorsa forestale comportò un peggioramento delle condizioni di vita e un inasprimento dei rapporti sociali interni che sfociarono talora in violente guerre civili. Le condizioni di vita sull'isola divennero pertanto proibitive per la poca popolazione rimasta, in gran parte decimata dagli scontri interni e dai flussi migratori, sia per la flora e la fauna locali che andarono in gran parte incontro all’estinzione. (http://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_Pasqua)

(21)

ancora possibile approntare delle soluzioni, l’ambiente non è ancora irrimediabilmente compromesso ma il tempo dei rinvii appare finito: o si agisce ora o si rischia di oltrepassare il punto di non ritorno27.

Fortunatamente con l’evoluzione di un pensiero che riconosce la necessità di gestire i beni pubblici si stanno reperendo gli strumenti in grado di effettuare un controllo sullo sfruttamento ambientale. Attualmente la materia è in via di elaborazione e si sta indirizzando verso la creazione di un capitalismo “verde”. Un capitalismo, cioè capace di prendere in considerazione le conseguenze ecologiche dell’attività umana, correggendo le distorsioni causa di esternalità attraverso l’integrazione delle componenti ambientali e sociali nell’economia di mercato, al fine di pervenire ad uno sviluppo più sostenibile. Con queste metodologie si tende di definire una soluzione di tipo capitalistico, e quindi di mercato, ai problemi ambientali, anche attraverso l’azione incentivante e di controllo dello Stato, specialmente nella fase di transizione verso un sistema produttivo eco-compatibile. Gli Stati che per primi si muoveranno su questa strada non solo saranno ecologicamente più responsabili, ma molto probabilmente conquisteranno vantaggi competitivi; mentre in passato la difesa dell'ambiente era vista da molti come un lusso incompatibile con l'esigenza dello sviluppo, soprattutto nel sud del mondo, oggi è ormai chiaro che lo sviluppo di tecnologie pulite e di energie rinnovabili può generare posti di lavoro rilanciare le attività di ricerca e sviluppo e ridurre i costi sociali, ambientali e sanitari28.

27 Si calcola che la crisi ambientale se non sarà attenuta in meno di un secolo, desertificherà gran

parte della terra, la priverà dell'acqua sufficiente a dar da bere a tutti ed innalzerà mari e oceani. (M. Serafini, Ambiente, è finito il tempo delle parole e dei rinvii, in “Il Manifesto” 04 dicembre 2008)

28 E. Ronchi, Sostenibilità, competitività e crescita, http://www.passages.it/Passages0205/

sostenibilita_e_compet.pdf,

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Capitolo 2

La monetarizzazione dell’ambiente

2.1

L’Analisi Costi-Benefici come strumento di tutela

ambientale

Per secoli, nelle società orientate verso la crescita economica, le risorse naturali erano considerate "beni liberi" illimitati e pertanto oggetto di sfruttamento indiscriminato da parte di tutti. Solamente la scarsità del capitale (credito, produzione industriale, etc.) era avvertita come l’unico limite allo sviluppo sociale29. A partire dalla fine degli anni sessanta emerge, nell’opinione pubblica mondiale, la consapevolezza che tali risorse devono essere tutelate. La prospettiva di un rapido esaurimento dei combustibili fossili e di eventuali modifiche ambientali progressivamente modifica il rapporto uomo-ambiente30. I beni

29 La concezione dell’uomo dominatore della natura, di matrice prima greca e poi illuministica, ha

da sempre segnato il comportamento delle società “occidentali”. Esistono tuttavia, ed in passato erano molte di più, società che hanno approcci più conservativi nei confronti dell’ambiente, relazionandosi sulla base di una diversa visione del rapporto uomo-natura. In Africa, ad esempio, l’intimo legame con la natura caratterizza numerose pratiche sociali. L’uomo ricerca una vita in armonia con il suo ambiente poiché ne è parte integrante; questo legame non esclude una gerarchia (Dio, le divinità, gli antenati, l’uomo, gli animali e poi le cose) ed è questa gerarchia a condurre all’armonia ed all’intesa tra gli elementi, l’uomo non si ritiene superiore ne padrone della natura ma ne è gestore ed ha delle responsabilità nei suoi confronti (A. Robert, L’Afrique au secours de

l’Occident, Parigi, Les Èditions de l’Atelier, 2004, p. 141-142 ). Tali approcci si sono modificati

progressivamente nel tempo fondendosi con l’impostazione occidentale che, sia per ragioni storiche sia per la superiorità tecnologica che mette in campo, è divenuta il modello sociale più diffuso. Questo modello, definito capitalista, è ormai considerato l’unico in grado di creare un benessere globale anche perché a seguito della caduta dell’Unione Sovietica non incontra più alcuna opposizione ideologica. Si deve comunque aggiungere che pure nelle esperienze del socialismo reale la natura è sempre stata ignorata e la sua presenza è sempre stata considerata come un dato elementare ed invariabile (G. Rist, Lo sviluppo. cit.).

30 Nel 1972 anno viene pubblicato “I limiti della crescita”. Il rapporto, predice le conseguenze

della continua crescita della popolazione sull'ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana (D. Meadows et al., The Limits to Growth, New York, Universe Books, 1972). Sempre nello stesso anno viene indetta a Stoccolma la conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente Umano in cui si focalizza l’attenzione sulla protezione dell’ambiente come condizione per lo sviluppo delle popolazioni ed introduce la concezione dell’ambiente come “patrimonio comune dell’umanità”. Tuttavia è lo shock petrolifero degli anni 1973 – 1974 a porre, nell’opinione pubblica, la questione dell’esaurimento delle risorse. Nel 1987 viene pubblicato il rapporto Brundtland che rileva come le società umane siano all’origine dell’deterioramento ambientale ed introduce il concetto di “sviluppo sostenibile” ovvero sia “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di

(23)

ambientali iniziano ad essere percepiti come risorse scarse31 e i principi economici sono posti alla base di nuovi approcci per affrontare le problematiche ecologiche, viene concettualizzato un nuovo paradigma in grado d’indirizzare le scelte dei “decision maker”: il capitale naturale (Kn) 32; ossia l’insieme costituito dai sistemi naturali (mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio) e dai loro “prodotti” (agricoli, della pesca, della caccia, ecc.) presente nel territorio. L’uomo passa da dominare la natura a gestirla. Ovviamente, essendo i principi economici a governare il modello sociale capitalista, questo passaggio diviene possibile grazie alla presa in considerazione del capitale naturale, ovvero riconducendo l’ambiente all’interno dei paradigmi della scienza economica. La natura diviene quindi un fattore di produzione ed assume un ruolo sempre più trasversale in varie branche dell'economia.

Quasi contemporaneamente si diffonde l’uso dell’analisi costi/benefici (ACB) come guida per l’azione politica e per la pubblica amministrazione33. L’analisi costi/benefici si presenta come un’applicazione del modello della massimizzazione dell’utilità attesa, ovvero della scelta razionale in condizioni di

soddisfare i propri bisogni”. Con la Conferenza sull'Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 diviene chiaro che la degradazione delle risorse naturali di base si traduce in un deterioramento della crescita di lungo periodo e che sono i PVS a pagare il prezzo più alto in termini di riduzione della produttività, salute e modifica del paesaggio. Tuttavia i vari rapporti non mettono in dubbio i livelli di consumo indotti dall’espansione dell’economia mondiale, nonostante rilevino i limiti ambientali ne sottolineano implicitamente l’elasticità derivante dallo sviluppo tecnologico connaturato alla crescita economica (G. Rist, Lo sviluppo. cit. p. 180 – 185).

31 Si deve ricordare che già Malthus nel 1798 con il “Saggio sul principio della popolazione”

poneva l’accento sul concetto di scarsità assoluta che si sarebbe determinata a seguito di uno sviluppo demografico superiore rispetto alla crescita dei mezzi di sussistenza.

32 Per capitale naturale si può considerare qualsiasi stock di materiale di origine naturale dal quale

sia possibile ricavare un flusso di beni e servizi per il futuro, il Kn, essendo un capitale multifunzionale, svolge anche funzioni non economiche (regolazione del clima, protezione dei bacini idrografici, mantenimento della biodiversità, ecc.); pertanto mettendo nel conto anche queste cose viene meno la concezione classica che collocava le capacità produttive solamente nel capitale umano (inteso come capitale prodotto dall’uomo) fisico o finanziario (M. Rovai, Il

sistema economico e l’ambiente, 2007,

http://www.agr.unipi.it/labrural/Didattica/estimo- ambientale-e-territoriale-ccddll-ppavp-s-agr-gtaaf-s-amb/lezioni/luc_estamb-01-sistema-economico-e-ambiente.pdf).

33 L’analisi costi/benefici trova la sua collocazione temporale nel 1965, quando il presidente

statunitense Lyndon Johnson ne decide l’adozione come parte del nuovo Planning-Programming-Budgeting System. Da allora l’analisi costi/benefici è diventata un elemento ineludibile di tutte le decisioni amministrative. L’analisi costi/benefici si è sviluppata prima come pratica, e soltanto successivamente ha avuto uno sviluppo teorico. Le prime esperienze applicative risalgono al periodo ai primi decenni del novecento e sono quelle nordamericane nel campo del controllo delle risorse idriche. A partire dagli anni sessanta la scienza economica comincia a sviluppare sul piano teorico questo tipo di analisi, mentre la sua metodologia si diffonde ad altre discipline, dal diritto alle scienze amministrative alla scienza politica (A. Petroni, L’analisi costi/benefici ed i suoi

riflessi sul sistema politico ed amministrativo, Relazione alla Conferenza annuale della Ragioneria

(24)

http://www.astrid-online.it/Economia-e/Studi--rischio e di incertezza. In conformità ad un approccio paretiano al problema permette sia di valutare la convenienza e la fattibilità di un investimento in funzione degli obiettivi che si vogliono raggiungere, sia di effettuare un confronto tra progetti alternativi d’intervento in modo da determinare se il progetto procura più benefici netti delle altre opzioni mutuamente esclusive (ossia tutte ugualmente fattibili) per l’uso delle risorse in questione. Per cui un progetto sarà implementato se la differenza tra la somma dei suoi benefici attualizzati e la somma dei suoi costi sarà non solo positiva ma anche superiore a quella di ogni altro progetto proposto. L’analisi costi/benefici, valutando i flussi monetari che nel corso degli anni sono provocati dagli investimenti, riconduce la gestione della cosa pubblica all’interno delle categorie economiche dell’azione privata e di mercato; al principio della corretta gestione delle norme si sostituiscono pratiche come quella della “management by objectives”: si passa dal concetto contabile di spesa a quello di progetto od obbiettivo di cui l’analisi costi/benefici costituisce uno strumento fondamentale. La metodologia deve la sua diffusione mondiale grazie alla sua applicazione nei progetti di cooperazione con i PVS, ed è interpretabile in parte come reazione agli insuccessi della pianificazione globale registrati negli anni settanta, ed in parte come interesse alla verifica del progetto da parte del soggetto internazionale che lo finanzia. La filosofia di fondo che orienta la politica della cooperazione internazionale viene a fondarsi sul presupposto che i mercati liberati dei vincoli e dagli interventi pubblici, che determinano inefficienze e distorsioni nell’impiego di risorse, sono in grado di assicurare la maggiore produttività crescita e benessere34.

ric/Archivio-2/Petroni_Rag_Stato_29_07_04.pdf).

34

Negli anni settanta - ottanta con l’aggravarsi della situazione in molti PVS e con lo scoppio della crisi debitoria l’originaria ispirazione keynesiana di Bretton Woods, che vedeva nella regolazione lo strumento necessario per correggere i fallimenti del mercato, viene rovesciata. I PVS per avere accesso a nuovi prestiti o rinegoziare i vecchi devono accettare le condizioni contenute all’interno di “piani di aggiustamento strutturale” che essenzialmente implicavano un ritirarsi dell’azione pubblica. Si assiste ad una sempre maggiore interpenetrazione tra settore pubblico e settore privato. Sempre di più il settore pubblico ricorre al settore privato per la fornitura di beni e servizi. L’importanza dell’ACB emerge proprio in questa situazione dove la commistione tra le differenti attività rende difficile distinguere dove si situi l’interesse pubblico, e dove si situi l’interesse privato. Vi sono, infatti, molti benefici e costi che sono importanti per la collettività nel suo insieme, intesa anche in senso intergenerazionale, e che tuttavia il mercato non è in grado di registrare o non riesce a rilevare in modo fedele; o altri che, seppure rilevati, non vengono considerati importanti dai privati. Si rende quindi necessaria, nell’ottica della gestione pubblica, una perizia che consenta di prendere in considerazione nel processo decisionale non solo gli interessi di coloro che sono direttamente avvantaggiati dall’opera o che ne godrebbero i benefici nel presente e nell’immediato futuro, ma anche gli interessi di coloro che, territorialmente e temporalmente, non hanno voce per manifestare le proprie preferenze nel processo decisionale (Ibidem, A. Fossati, Economia pubblica. Elementi per un’analisi economica dell’intervento

(25)

Gli indirizzi evidenziati arrivano a toccarsi negli anni novanta. Con l’“Earth Summit” di Rio de Janeiro (1992) si diffonde nella comunità internazionale la concezione che la degradazione ambientale e il depauperamento delle risorse riducono il potenziale economico di lungo termine e che sono proprio i Paesi “poveri” a pagare i prezzi umani e sociali più alti. Il legame tra peggioramento dello stato dell'ambiente e aumento della povertà e delle malattie viene indicato come il punto di partenza per ogni strategia credibile di contrasto dell'inquinamento globale e di crescita economica; di conseguenza lo sviluppo sostenibile35 diverrà possibile solo se le formulazioni pianificatorie, organizzative e gestionali saranno contestualmente basate, oltre che sui parametri classici “capitale fisso” e “lavoro”, anche sulla tutela del capitale naturale36. Attraverso il programma “Agenda 21”, elaborato nel corso della conferenza, si chiede ai governi di avvalersi dell'evoluzione del pensiero economico al fine di stabilire orientamenti e quadri di riferimento basati su finalità ed obiettivi generali che impediscano il degrado ambientale37.

Le azioni umane vengono allacciate alla salute degli ecosistemi governi ed istituti finanziari internazionali (IFI) si mostrano sempre più sensibili all’adozione di misure che prendono in considerazione la relazione esistente tra uomo e natura, nonché il modo con cui l’ecosistema incide crescita economica e da queste viene influenzato. S’iniziano a studiare le conseguenze degli interventi umani e a

pubblico, Milano, Franco Angeli 1999, p.269. e F. Volpi, Le istituzioni internazionali della cooperazione, in V.Ianni (a cura di), Verso una nuova visione dell’aiuto, Roma,

ANCI-MAE/DGCS, 2004, p. 22-23).

35 Il rapporto "Our common future" presentato nel 1987 dalla World Commission on Enviroment

and Development (1984-1987), meglio noto come rapporto Brundtland, dal nome della premier norvegese che aveva presieduto la commissione, elabora il concetto di “Sviluppo Sostenibile” e lo propone come fondamento della politica economica mondiale per i decenni futuri. Secondo tale rapporto è possibile imprimere una direzione nuova e particolare allo sviluppo economico così da riuscire a soddisfare le esigenze della generazione attuale senza compromettere le opportunità delle generazioni future di soddisfare le proprie (G. Rist, Lo sviluppo. cit., p. 180 - 198).

36

Al termine della conferenza sono redatti una serie di documenti tra cui la “Dichiarazione di Rio”, detta anche “carta della Terra”. Si tratta di 27 principi relativi alla tutela dell’ambiente tra i quali troviamo il principio "chi inquina paga", secondo cui chi causa danni all'ambiente deve sostenere i costi per ripararli, o rimborsare tali danni. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, la politica ambientale non dovrebbe essere finanziata dai fondi pubblici, ma dagli stessi responsabili dell'inquinamento se identificabili (Ibidem).

37 Il programma “Agenda 21” pianifica una serie di azioni da intraprendere, a livello mondiale,

nazionale e locale dalle organizzazioni delle Nazioni Unite, dai governi e dalle amministrazioni in ogni area in cui la presenza umana ha impatti sull'ambiente. Tra i vari punti, vale la pena ricordare: l’impegno dei governi a prevenire il degrado ambientale anche attraverso una tassazione e dei sussidi in grado di favorire l'assunzione di responsabilità e di impegno ambientale da parte dei cittadini, siano essi fornitori, produttori o consumatori; l’internalizzazione dei costi al fine di dare un nuovo indirizzo qualitativo e quantitativo agli obiettivi ed all'andamento delle attività economiche (http://www.agenda21.provincia.siena.it/page/page_sostenibile_2.asp).

Figura

Figura 3-1 Elementi costitutivi analisi LCA
Tabella 4-1 Risorse energetiche del Senegal

Riferimenti

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