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2.1 La ricostruzione in Europa

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2.1 La ricostruzione in Europa

I bombardamenti del secondo conflitto mondiale hanno lasciato segni profondi, danni, distruzioni al patrimonio architettonico e archeologico dell’intera Europa: dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra all’Italia, il problema dei vuoti generati dalle distruzioni ha posto intellettuali, architetti e urbanisti di fronte a scelte complesse e dibattute, spesso subordinate a considerazioni di ordine sociale e psicologico.

Il disfacimento del patrimonio artistico e architettonico non consentì di applicare i principi della carta di Atene del 1931, ma fece si che non si seguissero regole precise, intervenendo sovente caso per caso. «I moderni restauratori si sono trovati di fronte ai casi più disperati per i quali nessuna semplice determinazione poteva essere d’aiuto.»1 Fu a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta che si aprì il dibattito su restauro o conservazione di singoli edifici e, quindi, sull’opportunità di accostare l’architettura moderna a quella antica.

Germania

Subito dopo il conflitto mondiale la nazione fu divisa in due zone di influenza: le potenze vincitrici si spartirono il territorio, con la Sassonia e la parte est di Berlino sotto il controllo sovietico. La gestione delle rovine rappresenta un aspetto interessante e significativo della ricostruzione e è possibile individuare una tendenza negli interventi, almeno per alcune categorie di monumenti. Le antiche residenze signorili di solito erano destinate alla demolizione o al massimo subivano rimaneggiamenti, le chiese difficilmente ricevevano interventi, i municipi venivano al contrario ricostruiti. Dagli anni Sessanta si cercò di dare una maggiore omogeneità alla tutela dei monumenti, ma i risultati non furono all’altezza. Per vent’anni molti Denkmale vennero completamente distrutti, talvolta vennero rasi al suolo interi quartieri

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storici, introducendo piani urbanistici che proponevano una sorta di rinnovamento “violento” degli antichi tessuti2. Una situazione che sostanzialmente perdurò fino alla riunificazione del paese e che trova in Dresda e Berlino due casi esemplari.

Dresda, 1944

Dresda

Dresda è sicuramente una delle città tedesche più colpite e, di fatto, dell’originale impianto cittadino rimase ben poco. La ricostruzione fu caratterizzata da una prima fase volta a rispettare gli allineamenti e le geometrie urbane, seguita da una successiva netta modifica delle tradizionali soluzioni storiche. Accanto alla tutela di alcuni edifici, si ebbe la sostituzione di abitazioni interne alla città storica con nuovi fabbricati che crearono un panorama urbano completamente diverso da quello precedente il conflitto. Più interessanti paiono gli interventi su due degli edifici simbolo, il cui danneggiamento aveva lasciato ferite così profonde da ricorrere in entrambi casi ad una vera e propria

2 D. Fiorani, Il restauro architettonico nei paesi di lingua tedesca. Fondamenti, dialettica,

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ricostruzione in stile: la Frauenkirche e il Neumarkt. Per la ricostruzione della chiesa si prese spunto dai disegni settecenteschi, dalla documentazione fotografica esistente e il criterio adottato fu quello di una ricostruzione completa. Il progetto ha considerato tutti i resti esistenti dell’edificio, ne è stata valutata la resistenza strutturale, sono stati consolidati, se necessario integrati, e poi ricollocati nella loro posizione originale. Per l’intervento sul Neumarkt sono stati utilizzati gli stessi criteri della Frauenkirche, avvalendosi di documentazione fotografica e, quando possibile, degli elementi architettonici conservati. In questo caso però, accanto all’attenzione filologica, si è tenuto conto anche dei corpi di fabbrica mantenendo le facciate e andando a mutare le planimetrie originali3.

i resti della Frauenkirche, Dresda 1944

3 M. Pretelli, “Germania anno zero tra ricostruzione postbellica e riunificazione della nazione”, in S. Casiello (a cura di), I ruderi e la guerra, Firenze 2011, pp. 11-31.

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la ricostruzione della Frauenkirche, Dresda 2005

Berlino

«I danni di guerra nel 1945 sono stati tali da far dubitare gli esperti dei contingenti alleati che potesse mai tornare a essere una città funzionante. Qualcuno aveva suggerito di lasciarla come una gigantesca rovina, un monumento alla sconfitta.»4 I progetti per Berlino sono stati improntati ad una politica rivolta a rendere la città accessibile alle automobili andando così a modificare i tracciati stradali e a demolire parte dell’edilizia storica superstite. In questa città, più che in altre, si deve tener conto che ai danni materiali si sono aggiunti i

4 N. Sachs, “Be Berlin: vivere una nuova città”, in L’industria delle costruzioni n. 417, gennaio-febbraio 2011, p. 4.

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danni psicologici apparentemente invisibili, ma certo non inferiori a quelli prodotti dalle distruzioni ambientali. Tutto ciò ha portato a ricostruzioni storiciste paradossali, ad accostamenti fra nuovo e antico, a demolizioni di intere porzioni di tessuto: un esempio su tutti la distruzione di quanto era ancora presente del Castello, allo scopo di creare luoghi per le parate militari.

il nuovo campanile accanto ai resti della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, Berlino 1961

La scelta neutra di mantenere i vuoti urbani prevalse nella parte est di Berlino soprattutto per un’ottimizzazione dei fondi, utilizzati principalmente per risolvere il problema degli alloggi per il gran numero di sfollati. Le tecniche costruttive utilizzate furono sempre più industrializzate e unificate, secondo i principi di uguaglianza propri di questa parte della città e portarono alla realizzazione di quartieri con i caratteristici corpi di fabbrica piatti e complanari.5

5 G. de Martino, “Ricostruzioni Berlino”, in S. Casiello (a cura di), I ruderi e… cit., pp. 33-51.

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fronti dei complessi residenziali, Berlino est 1950

Dopo la caduta del muro le cose sembrarono cambiare, le demolizioni rallentarono e non si pensò più a cancellare i vecchi insediamenti ma piuttosto a risanarli. Cominciarono progetti di grandiosi interventi di costruzione e ristrutturazione, ma la velocità dei fenomeni evolutivi fece si che architetti e amministratori, abituati a approcci più razionali e a lunghi momenti di riflessione, non trovassero il tempo per avviare una ricostruzione critica: «da entrambe le parti si fanno saltare in aria i valori della città storica al fine di creare spazi liberi per il “nuovo”, e così si va avanti. C’è un bisogno continuo di nuovi spazi liberi da sfruttare, e così si prosegue nell’opera di distruzione, lasciando tutto in rovina. Si continua a progettare e a demolire sulla Alexanderplatz, sulla Postdamer Platz, nelle aree centrali, presso il Lehrter Bahnhof, nella Friedrichstrasse, lungo lo Spreebogen e chissà in quanti altri luoghi. La storia, la tradizione, la continuità, il raziocinio sono concetti che, evidentemente, non possono essere assunti.»6

6 O. M. Ungers, “Ancora una volta, nessun piano per Berlino”, in Lotus n. 80, ottobre-novembre-dicembre 1994, p. 7.

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Postdamer Platz, Berlino 2013

Inghilterra

L’Inghilterra, e più in generale la Gran Bretagna, può essere ritenuta la patria della conservazione degli edifici allo stato di rudere, sia in termini teorici che pratici e il culto delle rovine ha di fatto origine dalla cultura anglosassone.

Durante il Cinquecento, la confisca dei monasteri da parte di Thomas Cromwell aveva lasciato dietro di sé un gran numero di rovine, segnando l’immagine del paesaggio inglese; mutamento che non ebbe eguali fino alla II guerra mondiale. Questi edifici furono riscoperti agli inizi del Settecento e ebbero una grandissima influenza su letterati,

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poeti, artisti e architetti, nel pieno del fervore romantico. In questo contesto nacque il desiderio di intervenire sui ruderi con ulteriori demolizioni quando non addirittura di realizzarne di nuovi. Nel corso dell’Ottocento, invece, con il riavvicinamento al linguaggio gotico in opposizione al palladianesimo, si diffuse la tendenza opposta, più orientata al restauro e al ripristino. Tuttavia, già alla metà del secolo, l’influenza di John Ruskin ricondusse verso la conservazione degli edifici allo stato di rudere.

ruderi di una dimore di un signore locale in Cowdray park, Midhurst West Sessex 1793

Quando si trovò a far fronte al problema dei vuoti e delle rovine causati dal conflitto, l’Inghilterra aveva già alle spalle quindi una tradizione secolare. Londra sconvolta dal primo raid aereo nel giugno del 1940 fu colpita non solo negli obiettivi militari ma anche nei monumenti, negli edifici storici come la cattedrale di Saint Paul, non risparmiando nemmeno i simboli della monarchia come Buckingham Palace.

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i danni al coro della cattedrale di Saint Paul, Londra 1940

il re Giorgio VI e la futura regina Elisabetta dopo il bombardamento di Buckingham Palace, Londra 1940

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Molte altre città furono bombardate, Southampton, Liverpool, Manchester, ma quella più colpita fu Coventry, la cui cattedrale andò quasi completamente distrutta.

Nonostante la propensione degli inglesi a non toccare le rovine degli edifici, a Londra si scatenò un intenso dibattito sulle modalità della ricostruzione, in primo luogo delle chiese, quando ancora i raid aerei erano in atto, animato da tre distinti orientamenti7. Da un lato c’era chi voleva lasciare intatte le rovine, in quanto il ripristino non avrebbe avuto alcun valore storico e sarebbe stato inoltre molto costoso. Un’altra visione, suggeriva di ricostruire adottando un linguaggio contemporaneo nel caso in cui l’edificio fosse quasi interamente distrutto. Se invece fossero sopravvissute parti di importanza rilevante si suggeriva di incorporare l’opera antica in un progetto nuovo. Infine il terzo orientamento, decisamente minoritario, difendeva la tesi di una ricostruzione più estesa, pur non scadendo nella falsificazione.

Tra i tre approcci quello adottato con maggior frequenza fu il primo che prevedeva di conservare le chiese bombardate come memorie della guerra, sistemandole a giardino senza alcuna ricostruzione. Ciò che ne deriva sono talvolta validi esempi di conservazione delle rovine, come nel caso della Christ Church in Newgate Street, altre volte edifici che vengono estraniati in un contesto di edifici più moderni, come la torre di Saint Alban in Wood Street.

7 A. Pane, “La guerra e le rovine in Inghilterra. Memoria, conservazione, restauro: da Londra a Coventry”, in S. Casiello (a cura di), op. cit., pp. 53-76.

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Christ Church in Newgate Street, Londra 2013

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Francia

Già nel 1940, a seguito dei primi danni bellici provocati dall’invasione tedesca si intrapresero le prime ricostruzioni, soprattutto nelle aree rurali del nord-est. In questo ambito riveste particolare interesse la pubblicazione nel 1941 della Charte de l’architecte reconstructeur, primo testo dedicato ad affrontare il problema dei danni della II guerra mondiale in Francia. Si tratta di un documento nel quale vengono forniti agli architetti francesi indicazioni, consigli e prescrizioni sulle metodologie da seguire, e sulle indagini e le osservazioni necessarie a comprendere lo spirito dei luoghi. Il fine è quello di preservare l’identità rurale fatta di tradizioni e radicamento, di una popolazione costituita prevalentemente da paesani, contadini e artigiani, senza però escludere un approccio moderno.

In quest’ottica di riconoscimento del valore di un’architettura moderna capace di dialogare e reinterpretare la tradizione lavora l’architetto Auguste Perret. Nel 1945 riceve dal Ministère de la Reconstruction et de l’Urbanisme l’incarico di coordinare un gruppo di progettazione per ricostruire il centro storico e la parte nord-orientale di Le Havre, rasi al suolo dai bombardamenti alleati nel 1944. L’intensità e la violenza della distruzione della città portuale dipesero sia dalla sua evidente posizione strategica sulla Manica, sia dalla presenza massiccia in città dell’esercito tedesco.

Nella ricostruzione ex novo del centro urbano si adottò un approccio che tentava di coniugare classicità e innovazione, confrontando linguaggi, materiali e metodi tipici del moderno con il tema della città storica, affrontato peraltro nella fase violenta e drammatica della sua distruzione e della sua necessaria e urgente ricostruzione8.

8 Nel 2005 l’UNESCO ha inserito il centro di Le Havre nell’elenco del patrimonio

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centro storico di Le Havre, 1944

Varie proposte scaturirono dal raggruppamento coordinato da Perret, che oscillavano fra una continuità con il passato e un’accentuata e futuristica sperimentazione, che si manifestò con la proposta, poi abbandonata, di realizzare interamente la rete stradale sopraelevata rispetto al vecchio livello9.

Il piano finale mantenne come punto fisso il triangolo determinato dai tre assi viari storici del centro urbano a orientarne lo sviluppo; venne riproposta la maglia ortogonale che assunse il ruolo di elemento armonizzante nell’ambito della standardizzazione e della prefabbricazione, fortemente caldeggiati dal Ministère nell’ottica dell’economia dell’intervento. Venne posta attenzione all’architettura regionale, realizzando portici e pensiline necessari in una città molto piovosa, ottenendo peraltro un buon soleggiamento grazie

9 B. Gravagnuolo, La progettazione urbana in Europa, 1750-1960: storia e teorie, Roma 1991, p. 230.

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all’alternanza di costruzioni alte e basse, con soltanto qualche torre per modellare la composizione10.

Il grado zero, la tabula rasa, si materializzarono in questa occasione in tutta la loro complessità ponendo quindi la nuova architettura di fronte a scelte inedite.

Varsavia

Varsavia fu talmente danneggiata dai bombardamenti da mettere in dubbio la capacità di ricoprire il suo ruolo di capitale11. La ricostruzione attraversò due fasi: la prima, nell’immediato dopoguerra, caratterizzata da una piano rivoluzionario di modernizzazione; la seconda, nel decennio successivo al 1949, in cui le direttive di ripristino furono impartire dal Cremlino sul modello della città di Mosca.

Varsavia, 1944

10 Riccardo de Martino, “ Le ricostruzioni in Francia nel secondo dopoguerra. Perret e gli altri”, in S. Casiello (a cura di), op. cit., pp. 77-99.

11 Interessanti sono le diverse sorti di Varsavia e Praga, la città più distrutta e quella risparmiata cfr. R. Pane, Città antica… cit., Napoli 1959, pp. 235-246.

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Non tutti erano d’accordo sull’opportunità di riportare il governo a Varsavia, anche perché, con il nuovo assetto geografico, la città non era più al centro del paese. Ma le intenzioni di Stalin, conformi del resto al desiderio della nazione polacca, furono chiare fin da subito e l’unica soluzione per cui l’Unione Sovietica avrebbe finanziato la ricostruzione era che la città rimanesse capitale. E così fu deciso all’inizio del 1945.

Furono chiamati architetti e urbanisti che facevano parte dell’avanguardia funzionalista per compiere l’opera di modernizzazione della città, attraverso la realizzazione di quartieri di diversa natura – residenziali, commerciali, industriali – in cui le abitazioni sarebbero state adiacenti alle aree produttive, divise da ampie aree di verde. Per far ciò si fece riferimento ai principi della Carta di Atene del 1931 e al progetto Varsavia funzionale, presentato ai Congressi internazionali di architettura moderna nel 1934. Si superò il binomio città-campagna, andando a prevedere la crescita integrata di entrambe le aree e creando un sistema funzionale che comprendesse la capitale e le zone limitrofe per un raggio di circa cinquanta chilometri. Nel mezzo di questa opera rivoluzionaria si intervenne anche sul centro storico medievale, ma in modo completamente diverso. Nella città vecchia si operò utilizzando la formula del “com’era dov’era”, andando a ricostruire non solo la città ma anche a ricomporne l’iimagine tradizionale. «Ma ciò che desta il più grande stupore è la ricostruzione di tanta parte della città antica, specialemente quella intorno alla piazza del vecchio mercato […] Invece i polacchi hanno voluto che la loro capitale, non solo risorgesse là dove era, ma anche in quelle forme e quegli aspetti che avevano costituito l’ambiente del loro più grande ed eroico sacrificio. In altre parole la città doveva riapparire fedele alla sua immagine antica: quella di una patria che riaffermava il bisogno di una sua autonoma esistenza, e proprio per le stesse ragioni

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che avevano provocato la meticolosa distruzione ordinata da Hitler; distruzione motivata dal proposito di non lasciare alcuna traccia che potesse essere espressione di una locale tradizione ed indipendenza di cultura.»12

La fase rivoluzionaria ebbe però vita breve e nel 1949 ebbe inizio una nuova fase politica, lo Stalinismo polacco, che influenzò direttamente il ripristino della città e vincolò architetti e urbanisti ai principi ideologici del marxismo-stalinismo. La città, sul modello sovietico, doveva diventare un centro di grandi dimensioni demografiche ed economiche, in cui i grandi impianti industriali dovevano essere uno degli elementi chiave del paesaggio della capitale. Una città socialista monocentrica, ridisegnata in modo tale da rendere visibili i luoghi e le sedi del potere che dovevano essere connessi tra loro, creando così gli spazi necessari per le adunate delle masse proletarie in occasione delle celebrazioni solenni.

L’Italia

Se il processo di ricostruzione dopo la Grande Guerra è stato spesso spontaneo e ha riguardato prevalentemente paesi di frontiera, con il secondo conflitto bellico si è assistito alla distruzione mirata di molti centri urbani posti in posizione strategica sul territorio. Le città erano a un tale livello di devastazione da porre seri problemi di approccio alla ricostruzione. Nel 1945 furono redatte da ciascun comune interessato le Norme per i Piani di Ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra con le quali si cercò di evitare le demolizioni diffuse e di assicurare la conservazione del carattere tradizionale dei luoghi rispettando sia le emergenze architettoniche che l’edilizia cosiddetta minore.

12 R. Pane, op. cit., pp. 236-238.

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Negli anni Cinquanta e Sessanta venne avviato un ampio dibattito sulla conservazione, sulla ricostruzione e sul restauro sia dei singoli edifici che dei centri storici e, quindi, sull’opportunità dell’accostamento dell’architettura moderna e di quella antica. «Quando pensiamo ad un accostamento tra l’edilizia moderna e l’antica sentiamo subito sollevarsi in noi molti problemi ed interrogativi; e ciò specialmente in Italia dove più che in ogni altro paese del mondo tale accostamento denuncia il contrasto fra due modi di vita: quello che si manifesta nella ricchissima stratificazione del nostro passato e l’immagine nuova e brutale che ad essa si va aggiungendo, senza determinare una nuova unità, ma dando ovunque il senso di una penosa, intollerabile frattura.»13

Si pone il quesito del “se e come” ricostruire all’interno di città distrutte e il dibattito si svolge anche su riviste quali “Casabella-Continuità” che ospiterà diversi confronti tra Roberto Pane e Ernesto N. Rogers. Il primo, di fronte all’accusa di considerare un insieme urbanistico come una “perfezione immutabile”, sostenne che fosse «…necessario ed urgente il formarsi di una educazione culturale capace di orientare la nostra sensibilità nella concreta definizione dei singoli casi.»14 Il tutto concludendo che «…non si tratta di porre norme aprioristiche ma di renderci consapevoli della necessità di raggiungere un’armonica convivenza tra antico e nuovo.»15 Anche se con alcune distinzioni il pensiero di Rogers è in accordo con quello di Pane e, avendo superato le idee di ricostruzione in stile e quelle di coloro che si rifanno a Wright o Le Corbusier, convenne sulla necessità di una cultura teorica che impedisse pessime scelte architettoniche: «…io temo proprio che non

13 R. Pane, op. cit., p. 63.

14 R. Pane, in R. Pane, E. N. Rogers, “Dibattito sugli inserimenti nelle preesistenze ambientali”, in Casabella-Continuità n. 214, febbraio-marzo 1957, p. 3.

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essendo sufficientemente chiare le premesse teoriche, si vada incontro a un sistema che se obbligherà i migliori al più piatto conformismo, non ci salverà dalle cattive operazioni dei più sprovveduti, i quali sapranno infliggere le loro scemenze, pur concentrandole nei parametri di un’altezza uguale a quella preesistente. Se il principio del caso per caso è ovvio, esso implica che si rifiuti ogni comoda casistica, qualunque tipologia e qualunque generalizzazione: in certi casi il tuo suggerimento sarà ottimo, in altri sarà sostituibile da interpretazioni completamente diverse; esso non sussiste come regola.»16 Arrivò a pensare che fosse impossibile formulare un progetto, se non in forma teorica, in quanto moltissime altre ipotesi sarebbero state possibili. Firenze fu una delle città più colpite e nell’agosto del 1944 i tedeschi distrussero cinque dei sei ponti durante la ritirata. L’unico a essere risparmiato fu Ponte Vecchio, per il suo carattere pittoresco caro alla cultura tedesca, ma i due quartieri sulle sponde dell’Arno furono rasi al suolo, così come buona parte del centro medievale. Il dibattito sulla ricostruzione fu particolarmente vivace con la contrapposizione di Berenson da una parte e Bianchi Bandinelli dall’altra: il primo sostenitore del com’era dov’era nel saggio Come ricostruire la Firenze demolita17, il secondo convinto «… che ogni bellezza distrutta ne scopre una nuova»18 nel polemico Come non ricostruire la Firenze demolita. Confrontando in modo particolare la zona di Por Santa Maria19 ci si accorge che tutto il furore profuso dalle opposte fazioni non aveva prodotto risultati all’altezza se non per un vago sentore di fiorentinità. Dopo la fase emergenziale – per carenza di fondi e talvolta di idee – molti luoghi sono rimasti “intatti” fino a pochi decenni orsono.

16 E. N. Rogers in R. Pane, E. N. Rogers, “Dibattito sugli inserimenti… cit., p. 4. 17 B. Berenson, “Come ricostruire la Firenze demolita”, in Il Ponte n. 1, aprile 1945. 18 R. Bianchi Bandinelli, “Come non ricostruire la Firenze demolita”, in Il Ponte n. 2, maggio 1945.

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Ne sono testimonianza, fra i tanti, interventi come quelli di Gardella a Genova o Carmassi a Pisa. Nel capoluogo ligure, l’autore della Casa delle Zattere, lavorò sugli edifici universitari nel complesso di Sant’Agostino, andando a sovrapporre la sua architettura ai resti dell’esistente20. A Pisa, nella zona accanto alla chiesa di San Michele in Borgo, viene reinterpretato il rudere in chiave urbana ponendo l’attenzione sulla possibilità di stabilire un nuovo legame tra quanto risparmiato dalle distruzioni e la trasformazione nella città contemporanea21.

Ponte Vecchio, Firenze 1944

20 Cfr. V. Russo, “Ruderi di guerra nella dimensione urbana. Conservazione, integrazione, sostituzione in ambito italiano (1975-2010) in S. Casiello (a cura di), op.

cit., pp. 127-136.

21 Cfr. A. Cornoldi, M. Rapposelli (a cura di), Pisa. Ricostruzione di San Michele in

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2.2 Il progetto critico

«Ora l’accennato confronto ci induce a porre il seguente dilemma: se è vero che esista una inconciliabilità insuperabile tra la vecchia edilizia e la nuova, come vanno di recente affermando alcuni scrittori e studiosi i quali reclamano, per conseguenza, una netta separazione tra la città di ieri e quella di oggi; o se si tratta, invece soltanto di una negativa condizione di spirito, una sorta di rassegnazione, di diffusa mancanza di entusiasmo morale per cui noi rinunciamo a farci padroni degli strumenti che noi stessi abbiamo creato.»22 Quello della ricostruzione è un tema complesso, ogni restauro, rivalutazione o inserimento di elementi architettonici può essere visto come a sé stante, interpretabile in modo diverso a seconda del soggetto che vi si confronta. Il momento conservativo e quello innovativo non sono da considerarsi fatti separati ma coesistono, si rifiuta la negazione della creatività, ma anche la negazione dei vincoli. «Progettare vuol dire inventare. Un tempo, alla Kunstgewerbeschule, avevamo cercato di aderire completamente a questo postulato. Per ogni problema cercavamo una soluzione nuova. Quel che ci importava, era essere avanguardisti. Solo più tardi dovetti costatare che in fin dei conti sono pochi i problemi ai quali non sono state trovate soluzioni valide in precedenza. Guardando indietro, la mia educazione alla progettazione mi risulta astorica. I nostri modelli erano i pionieri e gli inventori del Neues Bauen. Intendevamo la storia dell’architettura come una cultura generale, che incideva ben poco sui progetti. Cosicché reinventavamo quello che era già stato inventato e azzardavamo a cimentarci in quello che inventare non si può. Una formazione progettuale di questo tipo possiede i suoi valori didattici. Ma al più tardi come architetto praticante si trae gran beneficio dall’accertarsi dell’immenso sapere e dell’esperienza contenute nella storia dell’architettura. Se riusciamo a

22 R. Pane, op. cit., p. 64.

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integrarle nella nostra pratica, accresceremo – io penso – la nostra possibilità di realizzare un nostro personale contributo.»23

Chi persegue la sopravvivenza dei siti antichi non può negare la necessità di trovare soluzioni intermedie tra una rigida cultura della conservazione e una innovazione sregolata dettata soprattutto da linguaggi autoreferenziali, cercando un rapporto tra la comprensione dell’esistente e l’invenzione della novità, passando oltre la diatriba tra chi sostiene l’identità tra conservazione e restauro e chi avvalora la loro piena contrapposizione. Allo stesso modo chi difende strenuamente, e ottusamente, il patrimonio storico, deve andare oltre il preconcetto per cui la produzione odierna manca di qualità, e confrontarsi con l’architetto affinché il nuovo si guadagni il diritto di accostarsi all’antico.

Il progetto di architettura si articola su tre versanti: conservazione, ripristino ed innovazione24. Ogni aspetto può essere più o meno preponderante sugli altri fino alla propria esasperazione. Ad esempio, se il progetto riguarda un oggetto architettonico ricco di storia, ben inserito nel territorio e nella memoria collettiva, tanto più ci si accosterà alla conservazione, rischiando di ricadere in una sorta di imbalsamazione dell’oggetto e riducendo il progetto a un semplice intervento di manutenzione (ordinaria o straordinaria?); se ci si accosta al ripristino di elementi ormai persi – per incuria, calamità naturali, vandalismi – il rischio è la falsificazione; se al contrario ci si spinge troppo oltre il concetto di innovazione si rischia di scivolare nella provocazione.

Accanto a questo dualismo esiste una terza via: il progetto critico. Non si possono percorrere strade univoche né affidarsi a regole predefinite,

23 P. Zumthor, Pensare architettura, Milano 2003, p.17.

24 A. Cornoldi, M. Rapposelli (a cura di), Pisa. Ricostruzione di San Michele in Borgo, Padova 2005, pp. 9-11.

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mancando di quelle caratteristiche proprie del “modello scientifico” e in particolare della riproducibilità. La composizione critica avvicina le varie soluzioni possibili attraverso successivi aggiustamenti, combinazioni di conservazione, ricostruzione, reinterpretazione e rievocazione con il progetto finito che è la somma e la sovrapposizione di una serie di tentativi spesso contraddittori.

«L’architettura del nostro tempo non è la definizione di una forma nuova, della forma più moderna imposta dalla fantasia dell’architetto, quanto invece la forma più adeguata al problema che la trasformazione dei luoghi presenti.»25

25 L. Mies Van Der Rohe , “Il pensiero” in V. Pizzigoni (a cura di), Ludwig Mies Van Der

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