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Academic year: 2021

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Considerazioni conclusive

L’uomo, che all’inizio della Stella, rivendicando la propria individualità e la propria finitezza, reclamata dalla paura della morte, era uscito dal “Tutto” che la filosofia nella sua configurazione sistematica hegeliana aveva raggiunto, è chiamato ora anche ad uscire dalla configurazione “testuale” del nuovo pensiero rosenzweighiano. L’operazione iniziale per cui il soggetto filosofante si astrae dal Tutto panlogico che lui stesso nel sistema hegeliano aveva costruito, è motivata dalla priorità che il soggetto e l’individuo, secondo Rosenzweig, ogni volta riveste nei confronti dei concetti che vorrebbero sussumerlo, e delle mediazioni che vorrebbero trascenderlo. Così “il filosofo deve essere più che la filosofia” ed “il teologo deve essere più che la teologia”, il soggetto è irriducibile al proprio predicato. La “vecchia filosofia”, quella che va “dalla Ionia a Jena” e che ha nel pensiero di Hegel il suo culmine, faceva del filosofo “un luogotenente stipendiato della storia della filosofia”1, legittimato solamente dalla funzione che assolveva

nella storia della progressiva autocoscienza del pensiero. Con la “nuova filosofia” diviene estremamente “personale”, un filosofo del punto di vista, nel senso di un filosofo che fa filosofia a partire dalla propria esperienza e dalla propria collocazione contingente storico-personale. Ciò aveva fatto lo stesso Rosenzweig, che scrisse la Stella mentre era arruolato come volontario dell’esercito tedesco nella prima guerra mondiale. Nella Stella la riflessione inizia, infatti, dal tema della morte, della finitudine e della paura della morte, da cui la filosofia in generale avrebbe sempre preso le mosse, al fine di esorcizzarla nella costruzione dell’ “armonia di Tutto-ed-Uno”, mediante il riassorbimento del singolo nello Spirito universale.

Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò che è singolo può morire […]. Infatti l’«idealismo», con la sua negazione di tutto quanto separa ciò che è singolo dal Tutto, è lo strumento artigianale con cui la

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107 filosofia rielabora la materia indocile fino a che essa non oppone più resistenza

alcuna alla confusione nebulosa entro il concetto di Uno-Tutto2.

Il predicato del discorso apofantico, non è quindi più il luogo della verità di un soggetto. La stessa proposizione dichiarativa, non è più il luogo della verità, avendo questa il suo compimento in una dimensione extra-proposizionale ed extra-testuale. E’ però fondamentale, a parere del pensatore, dapprima attraversare per intero il “sistema” esposto nella Stella per poterlo compiere e inverare in una dimensione extra-logica ed etica, che solo in tal modo possiede supporto logico e ontologico.

Potrebbe sembrare, a una primissima approssimazione, che la teoria rosenzweighiana della verità come inveramento dinamico nella prassi e nell’etica abbia una qualche assonanza con la concezione pragmatistica della stessa, elaborata pochi anni prima da William James. Secondo quest’ultimo, che aveva pubblicato un saggio intitolato Il pragmatismo pochi anni prima, il significato di un’idea risiedeva nei suoi effetti pratici, in particolare in quelle conseguenze pratiche soddisfacenti in rapporto alle esigenze dell’individuo. Ma se esaminiamo con più attenzione le due concezioni a confronto, pur notando le comuni istanze di processualità, dinamicità e responsabilità, le differenze saltano agli occhi. In Rosenzweig, infatti, il contenuto di un’idea o di una credenza non è formulato autonomamente dall’uomo, ma gli è innanzitutto consegnato da una tradizione religiosa, è “rivelato”3. Inoltre l’esistenza del soggetto e la condotta della sua vita

non sono il mero ambito di un procedimento di verifica, ma il “fattore probante” della verità. Nell’articolo a cui mi sto rifacendo nel confronto della versione rosenzweighiana della verità con quella pragmatistica jamesiana, il suo autore pone l’accento sull’aspetto religioso, riassunto dall’aggettivo “messianico”, della gnoseologia rosenzweighiana4. La testimonianza a cui Rosenzweig alluderebbe nel

procedimento inverativo della verità, sarebbe quella dell’uomo religioso, inserito

2 Ivi, p. 4.

3 Sul confronto fra gnoseologia rosenzweighiana e pragmatismo cfr.: Gianfranco Bonola, Alcune

considerazioni sulla «gnoseologia messianica» di Franz Rosenzweig, in «Teoria» 2008/1, p. 84.

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in una tradizione di fede, e tale da mettere la sua appartenenza religiosa al centro della propria vita e della propria azione. La gnoseologia rosenzweighiana è certamente riferita alla verità che ebrei e cristiani sono in grado di mettere in opera nelle loro rispettive vocazioni e a partire dalla propria natura “sociologica” – una “vita eterna”, l’ebraismo e una “via eterna” il cristianesimo. Tuttavia possiamo dire che nel Nuovo Pensiero Rosenzweig invita, come abbiamo già detto, il lettore della sua opera maggiore a “filosofare oltre” il libro, che non è un libro ebraico”, ma un particolare “sistema di filosofia”, e indipendentemente dalla sua fede religiosa.

Alla luce della critica rosenzweighiana all’impostazione che del sistema idealistico è propria, questa dichiarazione potrebbe sembrare paradossale. Tuttavia non può sfuggire al lettore la volontà dell’autore di organizzare, nella Stella, il reale all’interno di una visione complessiva. Scrive infatti nel Nuovo Pensiero:

Secondo l’uso consacrato, un sistema consta di una logica, di un’etica, di un’estetica e di una filosofia della religione. Nonostante la sua scansione in tre volumi […] La stella della redenzione rompe con quest’uso. Contiene, certo, tutti i consueti ingredienti di un ponce-sistema come si deve, a eccezione del quarto.

Anche se logica, etica ed estetica, in particolare le ultime due, non obbediscono, nella loro collocazione all’interno dell’opera, a un principio sistematico che le separi nettamente l’una dall’altra collocandole in sezioni differenti del libro.

Di fronte alla complessità dell’essere, Rosenzweig cercherebbe, quindi, di cogliere un ordine, che sia però rispettoso della pluralità delle dimensioni coinvolte e che sappia delinearne un senso. Ciò che manca è invece l’esigenza di forzare la realtà entro schemi prefissati e la determinazione a non lasciar sfuggire nulla dalle maglie del sistema stesso5. Per quanto riguarda l’unità che di un sistema è propria,

essa non è ricercata nella sincronia delle articolazioni della sua dialettica, ma nello sviluppo storico. Qui è possibile un’approssimazione e un’anticipazione, in chiave

5 Cfr.: Claudio Bellloni, Franz Rosenzweig e la critica all’idealismo tedesco, in Massimo Giuliani,

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dinamica e operativa, dell’unità vera e compiuta, che avrà luogo solo in un mondo escatologico.

Rosenzweig rifiuta la dialettica in quanto risoluzione indebita della contraddizione, contraddizione che il pensatore mantiene in tutta la sua pregnanza nella “e” posta nella prima sezione della Stella fra Dio, mondo e uomo. La mantiene fra le tre differenti sezioni dell’opera - il pre-mondo perenne, il mondo incessantemente rinnovato, e l’eterno sovra-mondo – che non sono deducibili l’una dall’altra e che permangono nella misura in cui non sono momenti funzionali all’affermazione dell’Assoluto. Si tratta di dimensioni ontologiche autosufficenti e sostanziali che non vengono annullate dall’unità che solo in prospettiva escatologica si compirà.

Sia detto soprattutto a riprova dell’inesauribilità che ha in Rosenzweig il soggetto in rapporto al proprio predicato essenziale: Dio nella sua configurazione unitaria escatologica non si identifica tout court con la verità. Non è la stessa cosa del proprio predicato.

Dio è la verità: questa proposizione con la quale noi pensavamo di giungere all’estremo limite del sapere, se esaminiamo più da vicino che cosa sia in definitiva la verità, vediamo che ci ridice con altre parole soltanto il dato più intimamente familiare e noto della nostra esperienza; da un apparente sapere circa l’essenza sorge invece la vicina, immediata esperienza del suo agire; ‘Egli è la verità’ non ci dice in definitiva nulla di diverso da questo: che Egli ama6.

La verità si risolve nella possibilità di farne esperienza, di esperirla nella vita e nel quotidiano, dove, come sappiamo dallo scritto sulla Scienza di dio, è possibile esperire Dio, ma che “questo governo percettibile sia proprio il governo di Dio lo possiamo solo credere”7. La verità è convalidata e inverata dinamicamente dalla

propria prassi, ed è oggetto dell’esperienza vissuta, non del pensiero intuitivo o di quello logico-concettuale. Rosenzweig ci ammonisce perché tale esperienza non rimanga nella nostra intimità personale e soggettiva, ciò che la esporrebbe, potremmo dire, a delle distorsioni di senso arbitrarie, ma venga testimoniata e

6 Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 399. 7 Idem, Dio, uomo e mondo, op. cit., p. 100.

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resa quanto più possibile condivisibile e universalizzabile, proprio come aveva fatto Rosenzweig con l’esperienza del proprio ebraismo riscoperto. Il “nuovo filosofo” a cui pensa deve partire da un punto di vista personale8, come sua

motivazione a filosofare, ma anche tentare di raggiungere una prospettiva universale e condivisibile, perché la natura originaria della filosofia non si smarrisca nel nulla. Singolare è che tale universalità venga offerta, nella Stella, da una formula ebraica, quella di rivelazione, ripensata filosoficamente, che offre alla molteplicità dei punti di vista un ancoraggio all’esperienza concreta e al mondo reale in cui noi tutti viviamo, che è il luogo del suo manifestarsi nell’incontro con Dio, col prossimo, e con la collettività.

Così il concetto ordinatore di tale mondo non è l’universale, né l’archè né il

tèlos, non l’unità naturale né quella storica, bensì il singolare, l’evento, non inizio o fine ma centro del mondo […]. La rivelazione dunque è in grado di essere punto centrale, centro saldo, inescutibile9.

Per concludere, al fine di mettere in luce l’attualità della proposta filosofica rosenzweighiana, vorrei riattirare l’attenzione sull’idea della “partecipazione” alla verità. “E’ essenza della verità essere parte ed essere partecipata”, scrive Rosenzweig alla fine della Stella a proposito della partecipazione alla verità che ebrei e cristiani non posseggono, unilateralmente, nella sua compiutezza. Il pensatore ci fa comprendere come nessuna fede religiosa possa rivendicare per sé il possesso esaustivo ed esclusivo della verità, ma come ciascuna possieda la sua propria “parte”. Rosenzweig si riferiva unicamente ai due monoteismi biblici, ma la ricerca futura sul pensiero rosenzweighiano potrebbe estendere, pur non seguendo pedissequamente il suo dettato, l’idea di partecipazione a tutte le confessioni religiose, in vista di un dialogo interreligioso, che riconosca a ciascuna la propria “parte”. Ciò anche ai fini di promuovere un’intesa interreligiosa che inviti quel “male radicale” del nostro tempo che è il fondamentalismo a una posizione irenica.

8 Idem, La stella della redenzione, p. 107.

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