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4. Oltre il libro

4.1. Erfahrende Philosophie

La Stella della Redenzione è un testo che percorre una strada tortuosa ed articolata: dalla morte, quale concetto limite che sancisce la creaturalità, esso conduce alla vita. Al termine della Stella abbiamo visto anche la volontà dell’autore di non fermarsi al libro, anzi il testo deve andare oltre il testo per immergersi proprio nel cuore del quotidiano. La scelta di fare di un libro qualcosa di pratico che si realizzi nella vita concreta è sicuramente segnata da una vena antiaccademica che Rosenzweig esplica sia contro tutti gli “-ismi”: essi sono

nebbia rispetto alla verità eterna1; ma anche, più concretamente, nella fondazione

del Freies Jüdisches Lehrhaus.

Il destino del libro sembra essere il suo stesso superamento, in questo senso la fine del libro non è un traguardo raggiunto, ma anzi rappresenta «al tempo stesso

un inizio e un centro»2, ovvero l’inizio nella vita e nel centro della vita. La scelta

di andare oltre il libro ha anche una precisa curvatura etica: il libro ha un limite strutturale, ovvero il fatto che esso può anche istillare dei principi o delle regole di agire, ma essi devono essere riportati nella vita di tutti i giorni, altrimenti rischiano di essere principi fine a sé stessi, caratteri impressi su pagine. Diverso è

il caso della Bibbia, «“il” libro»3, che non ha uno statuto particolare per il suo

contenuto, bensì per gli effetti nella storia universale.

A partire da questo punto di vista, Rosenzweig decide di concludere la Stella della redenzione andando oltre il libro. Tale andare oltre è al contempo l’emancipazione del pensiero dalla filosofia, se con essa s’intende contemplazione e ricerca dell’essenza, indagine che i filosofi nei secoli hanno portato avanti come l’unico modus operandi possibile. Si comprende perché la ricerca dell’essenza è fortemente criticata da Rosenzweig: essa ha come presupposto proprio l’andare al di là della vita concreta quotidiana per cercare un nucleo imperituro

1 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 433.

2 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p.69. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 281. 3 F. Rosenzweig, Significato storico universale della Bibbia, in La Scrittura, cit., p. 73.

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2 completamente svincolato da essa. Rosenzweig mostra come la ricerca dell’essenza di Dio, mondo e uomo che l’intera storia della filosofia ha portato avanti sia in realtà una ricerca tautologica nel momento in cui essa assurge la pretesa di comprendere ciò che essi siano in verità. La pretesa del filosofo è allora quella di distinguersi dall’uomo comune il quale non si pone mai la domanda circa l’essenza di Dio, dell’uomo o del mondo. L’uomo comune, o come lo definisce Rosenzweig, l’intelletto sano, anche se vive la vita senza la ricerca delle cose ultime, ha comunque un’esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo.

Con ciò Rosenzweig non vuole affatto sancire la fine della filosofia, ma solo di quella che è sinonima di contemplazione: davanti allo stupore, alla meraviglia, il filosofo si irrigidisce. Il problema diventa per lui un cavillo mentale da indagare e sondare in solitudine. Il distinguo tra l’uomo comune ed il filosofo è in definitiva proprio la vita: il primo, davanti a qualcosa che gli provoca stupore, continua ad essere trascinato dal fiume della vita e prima o poi la vita stessa gli donerà la soluzione; il filosofo al contrario cerca di estrapolare il problema dal flusso della vita facendolo diventare un oggetto rigido da indagare fuori dal tempo. Rosenzweig mostra così la paradossalità del metodo filosofico: l’uomo comune giunge alla soluzione, il filosofo a risposte tautologiche. La domanda circa l’essenza non solo astrae dal flusso della vita, ma non viene nemmeno posta solitamente nella vita. Come ironicamente scrive Rosenzweig: il filosofo «non chiederà che cosa “propriamente” costa un etto di formaggio. Egli non domanderà

all’eletta del suo cuore se vuole “propriamente” sposarla»4. Rosenzweig conduce

tutti i lettori a chiedersi qual è il senso della domanda circa l’essenza e quindi qual è il senso di questo modo di filosofare, e non qual è il senso della filosofia in generale.

Anzi ne Il nuovo pensiero Rosenzweig specifica che «tutti devono filosofare, almeno una volta. Tutti devono gettare lo sguardo globalmente tutt’intorno partendo dal proprio punto di vista e dalla propria vita. Ma questo guardare non è fine a se stesso»5. Se il guardare fosse fine a sé stesso, infatti, si rischierebbe di

4 F. Rosenzweig, Dell’intelletto comune sano e malato, cit., p. 39.

5 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp.69-70. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p.

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3 avere una filosofia completamente distaccata dalla vita reale e di conseguenza essa diventerebbe impossibilitata a risolvere i problemi stessi. Questa de Il nuovo pensiero è un’affermazione decisamente diversa rispetto a quella Dell’intelletto comune sano e malato in cui filosofare è una malaugurata idea e simbolicamente è rappresentato come una malattia: la apoplexia philosophica.

È forse un cambio di prospettiva che Rosenzweig compie nei confronti della filosofia? Sono in gioco due modi di filosofare il cui discrimine che rende quello corretto tale è il non fare della filosofia un’attività fine a sé stessa, astratta rispetto al flusso della vita, altrimenti diventa una malaugurata idea. Rosenzweig vuole mostrare come il filosofare necessiti dell’esperienza: essa in qualche modo è stata soppiantata dall’astrazione del pensiero. La filosofia, dunque, deve abbandonare la ricerca dell’essenza e diventare una erfahrende Philosophie. Con tale espressione non s’intende una filosofia dell’esperienza, bensì una filosofia esperiente, cioè una filosofia, o meglio un pensiero, che fa esperienza in modo concreto.

L’astrazione che il filosofo compie nei confronti della vita e del tempo riguarda anche la morte. Abbiamo visto che per Rosenzweig l’essere umano deve rimanere ancorato alla paura della morte perché solo così capisce che in realtà vuole vivere. La morte nella Stella è non solo il contrassegno della creaturalità, ma anche ciò che è in grado di scalfire il Tutto onninclusivo della filosofia. Infatti abbiamo già visto come la filosofia del Tutto vuole negare questa paura della morte, il cui esito però è un circolo vizioso mostrando il quale Rosenzweig mostra al contempo l’insensatezza di tale negazione: l’uomo per sfuggire alla morte «esce dalla vita.

Egli preferisce piuttosto non vivere, se vivere significa morire»6. Ma, nonostante

questo tentativo, in realtà la morte non si può eludere in nessun caso: «chi si sottraesse alla vita potrebbe pensare di sottrarsi alla morte. Ma in verità egli si

sottrae soltanto alla vita»7. Perciò la soluzione di Rosenzweig è insegnare a vivere

la vita, che poi è contemporaneamente anche un andare incontro alla morte. La morte, dunque, rappresenta l’inveramento della vita stessa o, meglio, «l’ultima

6 F. Rosenzweig, Dell’intelletto comune sano e malato, cit., p. 134. 7 Ivi, p. 136.

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verifica della vita»8, tanto da pensare che «poter vivere significa dover morire»9.

Assumere questa consapevolezza vuol dire avere un atteggiamento diverso nei confronti della vita stessa. La paura della morte che nelle pagine iniziali della Stella era qualcosa a cui rimanere ancorati, si trasforma in un’emancipazione dall’astrazione, un invito alla vita del presente e contemporaneamente uno sguardo al-di-là nel momento in cui l’amore, che abbiamo visto essere «forte

come la morte»10, rivela la verità eterna della vita.

Di fronte tutto questo bisogna sviluppare un nuovo tipo di filosofia, anzi un nuovo pensiero. È per questo che nella Parte Prima della Stella Rosenzweig riconduce Dio, mondo e uomo, i tre concetti fondamentali della filosofia, a sé stessi. Il pensiero filosofico, l’abbiamo visto, non accetta l’esperienza che si ha di questi tre fenomeni originari e per tal motivo ne ricerca l’essenza. Ma se essi si mostrano, come fa Rosenzweig appunto nella Parte Prima della Stella, come tre Tutto a sé stanti, così il pensiero che l’indaga non riesce effettivamente a darne conto. È per questo che nella storia della filosofia vengono ricondotte di volta in volta l’uno all’altro. Il nulla del sapere nei confronti di Dio, mondo e uomo, a cui aveva condotto la Parte Prima, mostra chiaramente che «con il subdolo, “alterante” sapere del pensiero noi non sappiamo proprio per niente che cos’altro

siano Dio, il mondo e l’uomo»11. È chiaro dunque che bisogna andare oltre la

vecchia filosofia verso la realtà in cui vige il sapere intuitivo dell’esperienza. Attraverso di esso qualcosa la sappiamo: le stesse parole “divino”, “umano” e “mondano” sono per noi determinanti.

L’esperienza non fa di Dio, del mondo o dell’uomo un oggetto di indagine, ma li esperisce nella realtà stessa. Essa, «per quanto in profondo possa penetrare, scopre nell’uomo sempre solo l’umano, nel mondo il mondano e in Dio il

divino»12. È questa chiaramente un’espressione tautologica, proprio come lo è la

risposta alla domanda circa l’essenza. Ciò avviene perché Dio, mondo e uomo,

8 Ibidem. 9 Ibidem.

10 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 161.

11 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p.49. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 264. 12 Ivi, p. 47. Cfr. anche ivi, p. 262.

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5 singolarmente presi, generano una tautologia. Diversamente accade nelle relazioni che li coinvolgono e che Rosenzweig analizza nella Parte Seconda della Stella. È qui in esame la realtà e non il pre-mondo o il sovra-mondo. Qui, «nell’unica realtà di cui noi abbiamo esperienza si gettano, a superarla, dei ponti e tutte le nostre

esperienze sono esperienze di questi ponti gettati»13.

Bisogna a questo punto fare un importante distinguo tra i termini che Rosenzweig utilizza per esprimere “esperienza”. L’esperienza delle tre fattualità originarie che abbiamo visto essere tautologica perché non va oltre il divino, il mondano e l’umano, e l’esperienza delle loro relazioni ovvero creazione,

rivelazione e redenzione, possono essere espresse con il termine Erfahrung14. La

singolarità consiste nel fatto che nella Stella Rosenzweig utilizza il termine Erlebnis, mentre Erfahrung compare molto più raramente ed è invece centrale ne Il nuovo pensiero. La ragione di tale scelta terminologica è che nella Stella Rosenzweig vuole dare conto dell’esperienza immediata, dell’Erlebnis, che l’uomo vive in prima persona: l’esperienza di fede. Questo tipo di esperienza è direttamente collegata da Rosenzweig all’ebraismo: emunah è la parola ebraica generalmente tradotta con “fede”. Essa presenta altre sfumature di significato, ma qui occorre sottolineare brevemente soltanto il suo carattere di immediatezza, rispetto al significato di “fede” che troviamo, per così dire, sul versante greco. L’uomo ebreo è tale per discendenza sanguigna e perciò, per usare le parole di

Rosenzweig, «è già presso il Padre»15. Si tratta appunto di un’esperienza di fede

immediata in cui l’uomo si trova già coinvolto. Nello stesso tempo l’autentica

13 Ivi, p. 56. Cfr. anche ivi, p. 270.

14 Il termine Erfahrung, come indica il verbo fahren e il prefisso riflessivizzante er-, ha un

carattere dinamico che si adatta a queste prime due accezioni di esperienza. È infatti in atto un percorso che conduce alle relazioni. Rosenzweig nell’utilizzarlo non riprende né Kant, né Hegel, bensì l’ultimo Schelling: la conoscenza può avvenire solo su qualcosa che è già accaduta. Infatti il metodo del narrare è ripreso da Rosenzweig, come abbiamo visto, nella creazione la cui specifica forma verbale è il passato. Bisogna infine sottolineare che Erfahrung è anche considerata come un’esperienza che separa perché è «esperienza di qualcosa» (A. Fabris, L’esperienza del «Nuovo

pensiero», in «Teoria», XXVIII, 1 (2008), cit., p. 152). Dunque l’espressione secondo cui tutte le

nostre esperienze sono esperienze di ponti gettati può essere vista come un tentativo da parte di Rosenzweig di andare contro l’assimilazione e di salvaguardare le differenze e le relazioni che tra essi si costituiscono.

15 F. Rosenzweig, Lettere sul cristianesimo, la missione agli ebrei e il sionismo, in La Scrittura, cit.,

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6 professione di fede è «sempre una testimonianza che la propria esperienza vissuta d’amore deve essere più che un’esperienza vissuta individuale, che colui di cui l’anima, nel suo amore, fa esperienza, non è soltanto illusione o autoinganno

dell’anima amata, ma realmente vive»16. L’anima amata nella confessione di fede

permette a Dio di attingere alla realtà al di là dal suo nascondimento, secondo le parole di Isaia 43,10: «quando voi mi confessate io sono». Secondo Rosenzweig, infatti, solo grazie alla relazione originaria tra Dio e uomo, che poi è, come abbiamo visto, Rivelazione, è possibile fondare la relazione con gli altri uomini, intesa non esclusivamente come rapporto Io-Tu, ma anche come comunitario del Noi perché l’uomo fin dalla nascita è già inserito e coinvolto nella comunità.

In definitiva, l’Erlebnis è doppiamente significativa perché non solo è un’esperienza immediata e di conseguenza non mediata dalla ragione, ma nello stesso tempo è fondatrice delle relazioni umane. Si può aggiungere che l’Erlebnis, poiché è un’esperienza fortemente ancorata alla vita e alla consapevolezza di questo stesso vivere, riporta ancora una volta il discorso sulla concretezza del vissuto che l’uomo esperisce nel suo quotidiano, contro l’astrattezza del pensiero.

Il passaggio dall’esperienza come Erlebnis, centrale nella Stella, all’Erfahrung de Il nuovo pensiero, che Rosenzweig intende come note supplementari all’opera principale, può essere visto come il passaggio da un’esperienza immediata vissuta in prima persona, ad un’esperienza che, in forte polemica anti-idealista, vuole salvaguardare le differenze e nello stesso tempo permettere un incontro, dei ponti, tra i differenti stessi. È questo contemporaneamente un elemento ebraico, ovvero l’espressione di quel pensiero non-sintetico che sostiene una relazione tra termini separati e differenti; e un elemento anti-greco nel momento in cui l’esperienza, strettamente connessa alla verità, rompe il principio di non contraddizione. La verità, infatti, intesa come una e una sola statica verità, deve venir meno e al suo

posto deve subentrare una «verità per qualcuno»17. Questo non vuol dire che

bisogna sostituire l’unica verità con tante verità tutte ugualmente valide, perché questo vorrebbe dire cadere nel relativismo. Al contrario, si istituisce una nuova

16 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 187.

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7 gnoseologia che Rosenzweig definisce messianica e che fa della verità qualcosa di strettamente connesso all’esperienza: il “propriamente” della ricerca dell’essenza è sostituito dalla congiunzione “e” che collega Dio, mondo, uomo. Secondo Rosenzweig è proprio questa “e” che «fu il primum dell’esperienza e deve

ritornare anche come il postremum della verità»18. Detto altrimenti, la verità è una

sola per l’Uno, ma per noi in essa è contenuta una “e” che la rende molteplice: «la verità così cessa di essere ciò che “è” vero e diventa ciò che vuole essere

confermato vero [bewährt]»19. In questo caso allora tocca al soggetto il compito di

in-verare la verità unica attraverso la sua verità particolare che esperisce nella vita. Questa verità particolare è una precisa presa di posizione tra due messianismi:

«quella del messia che viene e quella del messia che ritorna»20, cioè tra ebraismo e

cristianesimo. Dunque la verità unica appartiene a Dio, mentre la verità che l’uomo esperisce è frammentata e particolarista. Questa prospettiva è quindi legata alla responsabilità delle scelte dell’uomo nei confronti della redenzione: «la

ricerca del vero […] sorregge e giustifica l’opera della redenzione»21. Infatti al

«soggetto, e alla sua responsabilità, sono quindi delegate non soltanto la convinzione di quale sia la prospettiva salvifica ritenuta vera […], ma anche la decisione di mettere questa appartenenza al centro della propria vita e della

propria azione»22. In questo senso il soggetto rende testimonianza (in senso

religioso) della relazione con Dio, mette in opera tale relazione, la esperisce in prima persona (Erlebnis). Con in-veramento della verità, dunque, Rosenzweig intende l’accoglimento della relazione dopo la chiamata per nome da parte di Dio e la successiva messa in opera della relazione stessa che l’uomo estende nei confronti degli altri uomini e del mondo. Perciò l’esperienza è una testimonianza.

Abbiamo visto all’inizio del paragrafo la volontà di Rosenzweig di non far ricadere il nuovo pensiero in qualche etichetta o di allontanarlo dagli “-ismi”. Egli

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 68. Cfr. anche ibidem. 20 Ibidem. Cfr. anche ivi, p. 280.

21 P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, cit., p. 174

22 G., Bonola, Alcune considerazione sulla gnoseologia messianica, in «Teoria», XXVIII, 1 (2008),

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8 al massimo lo potrebbe connotare come “empirismo assoluto” se con tale definizione s’intende assurgere a sapere ciò che si sperimenta. È in questo senso che il nuovo pensiero eleva «il “metodo” del senso comune a metodo del pensare

scientifico»23 perché il pensare comune non è altro che l’esperienza che l’uomo

vive e che costituisce il suo sapere. Per tali motivi, Rosenzweig afferma che la «fiducia nell’esperienza costituirebbe la componente insegnabile e tramandabile

contenuta nel nuovo pensiero»24.

Abbiamo visto che Rosenzweig si pone contro tutti gli “-ismi”, ma ci si potrebbe chiedere se questa definizione di “empirismo assoluto” non rappresenti forse proprio un’etichetta in riferimento al nuovo pensiero. In realtà Rosenzweig non accetterebbe neanche questa definizione, se non fosse che non riesce ad esprimere la portata del nuovo attraverso nuove parole, egli piuttosto si serve delle vecchie parole che tenta di risemantizzare e riconnotare per dare loro una veste diversa.

A questo punto ci si potrebbe anche chiedere quali siano le implicazioni

teoriche del fare del nuovo pensiero un «empirismo assoluto»25 e che fine farebbe

quella progressione che affonda le sue radici nella filosofia greca ovvero quella che parte dall’esperienza sensibile e arriva alla sofia, ricerca delle cause e dei principi primi. Non si tratta tanto di parlare di metafisica intesa secondo la tradizione filosofica, perché, come abbiamo visto, Rosenzweig utilizza questo termine con un’accezione nuova, ovvero volta ad indicare che Dio è molto più che la sua physis. Si può invece parlare di essere e vedremo in che modo esso è strettamente legato al tempo.

4.1.1. Essere e tempo

L’unità di pensiero ed essere è il filo conduttore che dalla Ionia giunge a Jena. Con il sistema hegeliano questa identità arriva al culmine. Le ripercussioni teoriche di tale impostazione conducono ad una filosofia totalizzante e

23 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p.54. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 268. 24 Ivi, p. 71. Cfr. anche ivi, p. 282.

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9 unidimensionale, inaccettabile per Rosenzweig. Infatti la Parte Prima della Stella è volta a dimostrare che «la totalità dell’essere non si lascia cogliere dal pensiero»26.

Rosenzwerig mostra come la domanda Che cos’è?, domanda che caratterizza la ricerca circa l’essenza, sia caduca in due questioni: la questione dell’essere e quella del tempo. Nella storia della filosofia l’essere è stato acquisito come oggetto di indagine a partire da Aristotele, il quale tra tutte le modalità espressive sceglie il logos apophantikos, linguaggio oggettivante e definitorio. Vedremo più specificatamente nel paragrafo successivo la concezione tutt’altro che definitoria che propone Rosenzweig per quanto riguarda il linguaggio. Qui occorre invece sottolineare come la vecchia filosofia con la domanda circa l’essenza cerca di fissare l’essere attraverso le categorie del pensiero: facendo dell’essere un oggetto di indagine, la filosofia lo astrae dal flusso temporale. Ricercare l’essenza vuol dire ricercare ciò che è propriamente qualcosa, e questo propriamente per essere ricercato deve celarsi alla realtà. Si potrebbe quindi dire, parafrasando le parole di qualche anno più tardi di Heidegger, che questo tipo di filosofia in tal modo dimentica il problema dell’essere perché fa dell’essere il predicato più generale e ovvio di tutti. E lo fa estrapolando dall’essere l’essenza atemporale attraverso il pensiero che non solo è senza tempo, ma che volontariamente se ne trae fuori per

poter «porre mille collegamenti in un sol colpo»27. È l’impazienza con cui il

filosofo cerca di risolvere i problemi che gli si pongono davanti ad indurlo ad astrarsi dal tempo. Ma l’astrazione avviene anche nei confronti degli altri perché egli vuole condurre questa ricerca in solitudine.

Al contrario, per il nuovo pensiero la questione dell’essere e quella del tempo sono strettamente connesse e rimandano l’una all’altra. Innanzitutto parafrasando le parole di Schelling si può dire che nel mondo c’è qualcosa di più e di altro

rispetto alla ragione, anzi qualcosa che ne oltrepassa i limiti stessi28. Rosenzweig

26 B., Casper, La concezione dell’«evento» nella Stella della redenzione di Franz Rosenzweig e nel

pensiero di Martin Heidegger, tr. it. di G. Moretto, in «Teoria», XI, I (1991), n. 2, p 49.

27 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 57. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p.270. 28 C. Belloni, Filosofia e rivelazione. Rosenzweig sulla scia dell’ultimo Schelling, Marsilio, Venezia,

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10 adotta questa concezione al fine di negare l’identità di essere e pensiero e di mostrare come il pensiero in realtà non sia in grado di comprendere il Tutto: c’è qualcosa che va al-di-là della capacità di comprensione del pensiero. Rosenzweig propone una gnoseologia secondo cui la conoscenza dell’uomo è imprescindibile dal tempo.

Abbiamo visto la critica all’atteggiamento del filosofo di fronte l’oggetto di indagine: immobilità, solitudine, accanimento. Mentre il sano intelletto comune

non si astrae dalla vita, fiducioso che «il tempo porta consiglio»29. Dunque

secondo i dettami del nuovo pensiero, l’intera gnoseologia è legata al tempo: al pari del senso comune che appartiene a tutti gli uomini, il nuovo pensiero sa che non si può conoscere tutto subito, ovvero «che non si può conoscere in modo

indipendente dal tempo»30. Al contrario del tentativo della filosofia di astrarre

l’essenza dal flusso temporale e vitale e di indagare con impazienza le questioni, il nuovo pensiero propone il metodo della vita in cui il comprendere arriva al momento giusto. La cifra della comprensione è la redenzione. In questo senso ci appare ora più chiaramente la gnoseologia messianica di cui parla Rosenzweig: la verità unica ci è preclusa nel tempo presente, così come la vista sull’aldilà, ma permane la speranza che essa possa dischiudersi nel futuro della redenzione. Questa speranza verso il futuro, sussiste solo se nel presente accade l’evento del

linguaggio: esso è «il ponte tra essere e sapere»31.

Una delle differenze principali tra vecchio e nuovo pensiero è il «bisogno

dell’altro o, che è lo stesso, prendere sul serio il tempo»32. Il legame tra il tempo,

l’altro e il linguaggio si evince già nella Stella e verrà posto in primo piano anche ne Il nuovo pensiero. Esso rappresenta il cuore teorico dell’intera proposta rosenzweighiana e al contempo l’eredità che il nuovo pensiero ha lasciato ai posteri.

29 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 54. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 268. 30 Ibidem.

31 E. Goodman-Thau, Da Dio-Uomo-Mondo a Storia-Linguaggio-Sé. Il Nuovo Pensiero di

Rosenzweig come critica della ragione dalle fonti dell’ebraismo, in «Teoria», XXVIII, 1 (2008), cit.,

p. 22.

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11 In via preliminare ci si può domandare cosa vuol dire per Rosenzweig prendere sul serio il tempo. Per capirlo bisogna fare un passo indietro al concetto di nulla. Nella Parte Prima della Stella Rosenzweig ha posto il nulla del sapere nei confronti di Dio, mondo e uomo. Non è un caso che Rosenzweg lo indichi ne Il nuovo pensiero come un concetto metodico ausiliario. Il nulla in questione non è

il nulla reale, bensì un nulla astratto e atemporale del pensiero interrogante33. Esso

vuole arrivare all’essenza di Dio, dell’uomo e del mondo, ma tale ricerca è preclusa al pensiero e l’esito di questo interrogarsi non può che essere l’ammissione che di Dio, del mondo e dell’uomo non ne sappiamo proprio nulla. Rimangono dunque astratti. Il passaggio dal nulla astratto al nulla reale, particolare, avviene mostrando che il nulla è divenuto qualcosa, cioè «la morte, l’enigma del dover morire, la temporalità di tutto ciò che è umano e la finitudine

di tutto ciò che è terreno»34. In questo nuovo paradigma proposto da Rosenzweig

vi è l’«urgenza di tornare a pensare ciò che alla ragione non può essere

ricondotto»35. In tal senso «la temporalità dell’esistenza» non può più essere

esclusa dal pensiero, ed è questo che vuol dire prendere sul serio il tempo.

A ciò bisogna aggiungere che il tempo non è solo uno: l’uomo fa «esperienze

del tempo»36 nella realtà. Per quanto l’esperienza è «sempre soltanto presente»37, i

tempi della realtà sono molteplici e «ogni singolo accadere ha il suo presente, il suo passato e il suo futuro, senza i quali non viene conosciuto o lo si conosce solo

in modo stravolto»38. Questo è il tempo della relazionalità che Rosenzweig ha

enunciato nella Parte Seconda della Stella: il passato della creazione, il presente della rivelazione e il futuro della redenzione. Tutti e tre costituiscono la realtà. Perciò la conoscenza di Dio, mondo e uomo non può prescindere da questi tempi della realtà e della relazionalità: «conoscere Dio, mondo e uomo significa

33 B. Casper, Il principio dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, tr. it. Di R.

Nanini, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 101.

34 Ivi, p. 98.

35 C. Belloni, Filosofia e rivelazione, cit., p. 21.

36 A. Cirillo, Franz Rosenzweig. Pensare il tempo, Le lettere, Firenze, 2012, p. 9.

37 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 55. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 269. 38 Ivi, p. 56. Cfr. anche ibidem.

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12 conoscere che cosa essi fanno o cosa accade loro in questi tempi della realtà.

Fanno all’altro o accade di uno rispetto agli altri»39. Questo tempo che dà conto

delle relazioni non può prescindere dall’essere stesso di Dio, mondo e uomo: proprio perché sono esseri separati e autonomi si possono dischiudere l’uno all’altro in una relazione e in un tempo comune. La separazione è, nell’ottica di Rosenzweig, relazione perché la linea che separa rende al contempo limitrofi ciò che ha separato. Ed è per tale concezione, in cui si può riscontrare chiaramente una matrice ebraica, che Rosenzweig valorizza la congiunzione “e” quale ponte che collega due realtà autonome e separate. Come chiaramente mette in luce Ciglia, Rosenzweig propone una «ontologia bifasica, dalla forte fisionomia ritmico-dinamica»40 secondo cui è possibile la relazione solo se i termini relati sono differenti. Tale differenza deve essere assoluta ed irriducibile, altrimenti si rischia di fondare un’ontologia dell’identità, che è, in fin dei conti, la critica che Rosenzweig muove al pensiero filosofico. Questo interscambio tra differenza e relazione per la quale l’una non può sussistere senza l’altra rappresenta sicuramente uno dei lasciti più importanti del nuovo pensiero al nostro secolo.

In questo quadro, il tempo, che abbiamo visto essere determinante per la conoscenza e per la fondazione delle relazioni, è quello reale che accade storicamente: «non è che ciò che accade accada nel tempo, è il tempo stesso ad

accadere»41. Di conseguenza anche l’essere si dà soltanto perché accade

storicamente nel tempo42. Detto altrimenti, l’essere è già inserito in una

temporalità che lo coinvolge. Perciò anche lo studio della storia può qui essere preso come esempio volto a mostrare la valorizzazione del nuovo pensiero della singolarità dell’uomo, ovvero del suo vissuto concreto e reale nel mondo e nel tempo. La storia infatti può essere vista da una parte come un grande processo volto a fagocitare ogni particolarità. Rosenzweig in questo caso ha di mira ancora una volta Hegel e la sua concezione di storia universale e si pone invece sulla scia

39 Ibidem.

40 F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il progetto del «nuovo pensiero», in «Teoria», XXVIII, 1

(2008), cit., p. 103.

41 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 53. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 267. 42 B., Casper, La concezione dell’evento, cit., p. 52.

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13 di Dilthey e Meinecke. Ma nonostante la critica che Rosenzweig compie nei confronti della concezione hegeliana della storia universale, che poi è anche quella nei confronti dello Stato in Hegel e lo Stato, ad un certo punto si rende anche conto che la storia non può essere neppure un insieme di figure completamente relative una rispetto all’altra. In questo caos c’è un centro: la

rivelazione. Essa assume qui il ruolo di paradosso43: essa è il centro della storia,

ma è nello stesso tempo sovra-storica.

La rivelazione, lo abbiamo visto, è il cuore pulsante dell’intera Stella e nella scansione dei tempi rappresenta il presente accettando il quale si accoglie il passato e ci si direziona verso il futuro. La rivelazione è il centro che non

rappresenta solo un orientamento44 che l’uomo assume nel caos del mondo.

Rivelazione è per Rosenzweig la possibilità per l’io chiuso nella propria egoicità di aprirsi all’alterità. E solo perché l’io parte da una situazione di completa chiusura può successivamente aprirsi.

Le parole di Rosenzweig non si direzionano «all’uomo di cuore puro in cui

palpita l’intenso anelito al volontario dono di sé»45, bensì all’uomo dal cuore

sordo al quale accade un evento. Il verbo “accadere” sembra dare l’idea di una passività. In questo senso Casper parla di una sovranità dell’evento nei confronti

dell’uomo46. Ciò avviene perché l’uomo chiuso in sé stesso è sostanzialmente

incapace di aprirsi con le sue sole forze all’alterità, mentre riesce grazie all’evento accaduto che investe l’uomo e gli permette di aprirsi all’alterità. Questa apertura però non è assimilazione, infatti, come abbiamo visto, egli deve ma mantiene la sua diversità. L’evento che accade investe sì l’uomo, ma questo non vuol dire che sia passivo. Egli deve accogliere e mettere in pratica la relazione che ha con Dio e ha la responsabilità non solo nei confronti di Dio stesso (responsabilità intesa

43 B., Casper, Il principio dialogico, cit. p. 161.

44 F. Rosenzweig, Cellula originaria della Stella della redenzione, in Il nuovo pensiero, cit., pp.

19-20. Cfr. anche F. Rosenzweig, in La Scrittura, cit., p. 242.

45 Ivi, p. 28. Cfr. anche ivi, p. 249.

46 B., Casper, Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, tr. it. di A. Cimino, Morcelliana, Brescia,

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14 come risposta alla chiamata per nome), ma anche nei confronti del mondo e degli altri uomini (intesa come estensione della relazione che ha con Dio).

Questo punto di vista è ebraico e cristiano al tempo stesso perché al centro è posta la rivelazione intesa come evento che accade all’Io. Non c’è alcuna pretesa di fare dell’Io qualcosa di migliore rispetto a ciò che è: caparbietà, egoismo, sordità rispetto all’altro, questo è l’essere umano. Ma con l’accoglimento della rivelazione la caparbietà dell’uomo diventa umiltà: da un io chiuso si apre e dona fiducia a Dio, accoglie la sua opera e decide in piena libertà di compierla nel mondo. Potremmo dire, in definitiva, che l’uomo non ha bisogno di un imperativo categorico, ma solo di accogliere la rivelazione e di rispondere alla chiamata per nome da parte di Dio. Il rapporto tra Dio e l’Io, quest’ultimo inteso come un pensiero pensante che si eleva al di sopra di tutto e che anzi diventa un Tutto, è dunque capovolto tramite un’inversione: non è l’io che diviene Dio, ma è Dio che

«scende fino a noi»47 e attraverso il primo “Tu” fonda ogni altro tipo di relazione.

Dio chiama l’uomo per nome e così il nome proprio fonda l’essere della cosa nominata: di fronte alla molteplicità indistinta della specie, il nome distingue l’essere dal non essere e salva l’essere da ogni possibile reificazione.

Potremmo chiederci, analogamente a quanto accade con l’imperativo categorico, chi ci assicura che l’uomo accoglierà la rivelazione e abbandonerà l’egoicità per aprirsi all’alterità? Rosenzweig risponderebbe che per l’ebraismo questa è una scelta innata e che risale fino al primo «eccomi!» pronunciato da

Abramo48.

Bisogna a questo punto esaminare l’altro polo che insieme al tempo esperienziale vanno a costituire l’ossatura centrale del nuovo pensiero: il dialogo.

47 F. Rosenzweig, Cellula originaria della Stella della redenzione, in Il nuovo pensiero, cit., p. 31.

Cfr. anche F. Rosenzweig, in La Scrittura, cit., p. 251.

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15 4.2. Sprachdenken

Abbiamo visto che la differenza tra vecchio e nuovo pensiero consiste «nel

bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo»49. Le due

prospettive, quella della relazionalità e quella temporale, non possono essere disgiunte perché solo nel tempo le relazioni possono darsi e per converso le relazioni sono vissute in uno specifico tempo.

Nell’arco della temporalità scandita tra passato, presente e futuro, Rosenzweig mostra come la parola si specifica di volta in volta in maniera diversa. In questo quadro la parola è legata al tempo e perciò tra tutte le parti che compongono la frase l’accento cade sul verbo. Inteso come Zeit-wort, il verbo colloca i parlanti in uno specifico arco temporale della realtà. Per tal motivo la forma della narrazione, che abbiamo visto che Rosenzweig trae dai Weltalter, è la forma del passato. Infatti solo ciò che è già accaduto può essere narrato, com’è il caso della parola di Dio nelle Scritture. Nel presente, invece, la narrazione viene sostituita dal

colloquio immediato. Esso assume la forma del dialogo tra Dio e uomo e poi tra uomo e gli altri uomini. Infine nel futuro Rosenzweig parla di coro, di noi, di comunità.

Anche in questo caso la scansione dei tempi presentata da Rosenzweig può leggersi come un’opposizione all’idealismo e, in generale, a quella che lui chiama vecchia filosofia: se il passato, il presente e il futuro, ovvero i tre tempi della realtà, sono scanditi da precise modalità del parlare, allora la grammatica, scienza che governa queste modalità, prende il posto che aveva la logica nella tradizione filosofica. Rosenzweig contrappone esplicitamente il pensiero al parlare sulla base della dicotomia reale-ideale. Infatti il pensare si astrae volontariamente dal tempo e si esercita sempre in solitudine. Esso viene sostituito nel nuovo pensiero dal

parlare che non può prescindere dal tempo, anzi «si nutre di tempo»50 né può

prescindere dagli altri perché la parola viene ascoltata nella narrazione, vive nel

49 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 58. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 271. 50 Ivi, p. 57. Cfr. anche ibidem.

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16 colloquio immediato del dialogo o è pronunciata all’unisono nel coro. In ogni

caso «parlare è legato al tempo»51 e agli altri.

Tra queste tre modalità, il dialogo assume un ruolo determinante nel nuovo pensiero: esso è fondativo per il narrare, oltre ad essere estremamente reale esso si rinnova nel presente della temporalità ed è anche il punto di partenza per andare al di là del dialogo stesso nella lingua comunitaria del coro.

Concentriamoci sull’apporto del dialogo nel presente vissuto. Abbiamo detto che il dialogo è qualcosa che ci coinvolge nella realtà e che si rinnova. Questo rinnovarsi riguarda anche l’Io. Abbiamo visto che l’Io era chiuso in sé stesso prima di aprirsi al dialogo. Esso, quale evento non anticipabile in nessun modo, trasforma l’Io in Io-per-un-Tu. Dunque il dialogo sembra essere il tramite che conduce l’Io dall’ipseità all’alterità. Questa trasformazione avviene perché il dialogo, contrapposto esplicitamente al pensare o ai dialoghi platonici, non è statico o preimpostato. Il dialogo che Rosenzweig definisce vero è un evento in

cui qualcosa «accade sul serio»52: l’impossibilità di prevedere cosa l’altro mi

risponderà, ma anche l’impossibilità di prevedere cosa io stesso dirò all’altro, è segno non solo della dinamicità intrinseca del dialogo rispetto al pensare o rispetto ai dialoghi preimpostati, ma anche del fatto che dobbiamo prestare ascolto all’alterità per scoprire cosa ha da dirci nella sua radicale differenza e di conseguenza abbiamo bisogno di tempo per scoprirlo. Se il dialogo è qualcosa di statico o di preimpostato, come Rosenzweig ritiene che siano i dialoghi platonici in cui Socrate conosce già la risposta dell’interlocutore o sa già cosa dirà all’interlocutore, allora l’alterità con cui l’Io si confronta è uguale a lui, dunque non è un vero confronto, ma è un’assimilazione. Di conseguenza nel dialogo che potremmo definire falso anche l’Io è statico e sempre uguale a sé stesso e perciò questo modello dialogico non dà conto né dell’alterità e della sua differenza né dell’Io e del suo essere un essere temporale che cambia in base alle esperienze che vive. Questo modello in definitiva non riesce a dar conto di quello che accade effettivamente nella realtà e perciò rimane un modello tautologico fino a sé stesso.

51 Ibidem. 52 Ibidem.

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17 Al contrario nel dialogo del nuovo pensiero si ha bisogno di tempo, non si può anticipare nulla e si ha bisogno degli altri. Il ragionamento non verte soltanto sul fatto che nel dialogo l’Io scopre il Tu e da esso viene investito ed in qualche modo influenzato. Nel dialogo l’Io scopre contemporaneamente di essere un Tu per l’altro. Per tal motivo il dialogo coinvolge allo stesso modo entrambi i partner del discorso.

Dunque il pensiero è contrapposto alla parola e rispettivamente essi sono incarnati nel pensatore pensante e nel pensatore del parlare (Sprachdenker). Il primo è chiaramente il filosofo che si astrae e crede di poter anticipare o assimilare tutto; il secondo è colui che si apre al dialogo con l’alterità e quindi prende sul serio il tempo. Anche lo Sprachdenker è dunque un pensatore, segno questo che il pensare non è estraneo totalmente al nuovo pensiero. Analogamente anche il pensatore pensante parla. Si può quindi dire che il pensare ed il parlare in questione sono di segno diverso: per il pensatore pensante i suoi pensieri sono statici, già conosciuti in precedenza, ed il parlare che ne consegue è solo un modo per esprimerli. Al contrario il pensatore del parlare non ha dei pensieri statici: nel dialogo può accadere che l’altro cambi la sua prospettiva. Anzi, nel dialogo vero, che è iscritto nella temporalità, tutto può accadere. Ad esempio può accadere che il parlante non parlerà affatto, o che dirà cose che non ha mai nemmeno pensato. In ogni caso, nel dialogo vero nulla può essere anticipato e tutto dipende dall’alterità. Il discriminante tra i due approcci, che in definitiva è la dicotomia tra approccio logico e quello grammaticale, è che il primo coinvolge il pensare e il parlare in una generalità indistinta, il secondo al contrario si direziona a qualcuno di ben determinato: ad una coscienza individuale contrassegnata da un preciso nome e cognome.

La prospettiva nominale è importante perché i soggetti coinvolti in un dialogo sono investiti del loro essere in quanto esseri particolari, non assimilabili ad un universale che li confonde. Il nome, in questa prospettiva, si sostituisce al concetto. Il nome coinvolge l’intero ambito delle relazioni: a partire dal nominare di Dio che fonda l’essere, il nome è il contrassegno della particolarità degli uomini e della creaturalità del mondo. Infatti anche nella relazione tra l’uomo e il

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18

mondo le cose non sono e-nunciate53. La modalità enunciativa è in definitiva

quella del logos apophantikos: essa determina lo stato delle cose. Ma in questo caso la relazione che si instaura è ancora una volta quella del soggetto che afferra ed assume a partire da sé l’intero mondo. Questa prospettiva è quel «pregiudizio

degli ultimi tre secoli»54, ovvero l’idea secondo cui il soggetto è il Tutto. Il logos

scelto da Rosenzweig per le ragioni che abbiamo visto è di segno completamente diverso: esso è dia-logos. È questo in definitiva il passaggio che Rosenzweig compie nella Stella: dal logos al dia-logos. Il passaggio ci conduce alla soglia, cioè a quel confine tra l’Io e l’Altro che non permette l’assimilazione e garantisce la diversità tra i termini relati. La soglia, cioè questa relazione che si esplica nel tempo e nel linguaggio, conduce alla porta e oltre la porta perché essa apre i battenti sulla vita.

4.3. Un sistema di filosofia

Abbiamo seguito le tappe che dalla Stella della redenzione hanno portato a definire un Nuovo Pensiero. Si può dire che questo percorso tenta l’impresa alquanto ardua di conciliare le due sponde che hanno caratterizzato la civiltà occidentale, ovvero quella greca e quella biblica, e nello stesso tempo di attuare un rinnovamento totale del pensiero. Per usare un’espressione che lo stesso Rosenzweig utilizza a proposito di una raccolta di saggi pubblicata nel 1926, la nostra cultura è un Zweistromland, ovvero il risultato di due fiumi e due correnti diverse, quella greco-latina e quella ebraico-cristiana, che si sono mescolate e che adesso sono diventate un’unica cultura. A nulla valgono, a parere di Rosenzweig, i tentativi di separare queste due correnti o di rivendicare la supremazia dell’una sull’altra. Le due sono inestricabilmente unite e di questa unione dà conto la Stella della redenzione che esplica i vantaggi di un dialogo proficuo tra filosofia e teologia. Di certo definire l’intera cultura come l’unione di soli due flussi risulta essere semplificatorio perché in tal modo vengono inevitabilmente trascurate la molteplicità e la ricchezza di diversità che, al contrario, le appartengono.

53 B. Casper, Il principio dialogico, cit., p. 138.

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19 Nonostante ciò, la definizione di Zweistromland si può adottare se il tentativo è quello che compie Rosenzweig di gettare ponti tra versanti molto diversi il cui dialogo, come ci mostra la storia, non è sempre stato pacifico.

Questo tentativo, seppur valevole, ha avuto un esito contrario alle aspettative tanto da condurre i lettori di Rosenzweig a trascurare o a non prendere in considerazione la Stella né dal versale filosofico, né da quello teologico e infine neppure da quello ebraico. È per tali ragioni che fin dalle prime battute de Il nuovo pensiero, Rosenzweig ci tiene a precisare che la Stella della redenzione

«non è affatto un “libro ebraico”»55 anche se tratta di ebraismo. Non senza un

pizzico di confusione e contraddizione, Rosenzweig afferma che la Stella tratta in egual modo di ebraismo, di cristianesimo e di Islam e che, nello stesso tempo, non è un testo di filosofia della religione, la cui parola non compare infatti neanche una volta nell’intero testo. La confusione e la contraddizione che si possono intravedere in queste parole risiedono nel fatto che la Stella sicuramente non è un «libro ebraico» se con tale definizione s’intende un libro magari destinato alla «gioventù ebraica che per vie diverse si adopera a ritrovare la strada dell’antica

legge»56 o destinato all’uso quotidiano delle famiglie. La Stella è però un «libro

ebraico» nella misura in cui, anche se tratta altrettanto diffusamente di cristianesimo e di Islam, l’ebraismo sembra avere su di loro una preminenza. Infatti l’Islam viene criticato senza mezzi termini e per quanto riguarda il cristianesimo anche se Rosenzweig lo elogia quale altro messianesimo possibile e quale via che conduce alla verità eterna, in fin dei conti esso ha comunque una dipendenza dal paganesimo e rappresenta solo una via che conduce alla verità. L’ebraismo al contrario non dipende da alcun paganesimo: gli ebrei sono il popolo eletto nella misura in cui la vita eterna si trasmette per generazione e per via sanguigna. È chiaro che le ragioni che hanno condotto Rosenzweig a compiere la scelta di non convertirsi e di restare ebreo fanno parte del suo essere e con convinzione vengono portate avanti nel suo pensiero. Per tali motivazioni risulta contraddittorio dire che la Stella è un testo tanto ebraico quanto cristiano e musulmano. Lo sarà forse per l’ampiezza delle pagine ad essi dedicati, ma non per

55 Ivi, p. 42. Cfr. anche ivi, p. 258. 56 Ivi, pp. 41-42. Cfr. anche ibidem.

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20 i contenuti. Con ciò però non s’intende affatto sminuire il tentativo di Rosenzweig di portare avanti un dialogo tra le diverse istanze religiose, al contrario esso può essere assunto come paradigma in una società in cui credenze, fedi e religioni differenti vivono a stretto contatto tra loro e la necessità di un dialogo si fa sempre più urgente.

La confusione invece si genera nel momento in cui Rosenzweig tenta di dare una definizione del suo pensiero. Tale definizione si modula attraverso tutte le critiche che compie nei confronti del pensiero fino ad oggi costituito e il conseguente tentativo di proporne uno nuovo. Ma una definizione forse non può comunque darsi in riferimento al suo nuovo pensiero. Esso, infatti, sfugge da tutto ciò che è definitorio, assertorio, definitivo, e anzi si costituisce proprio in opposizione al vecchio, statico e totalizzante pensiero. Segno è il tentativo non troppo convincente di definire il suo nuovo pensiero un «empirismo assoluto», o quello di definire il rapporto sororale tra filosofia e teologia con la dicitura di teosofia. Inoltre, stupisce sicuramente il fatto che ne Il nuovo pensiero specifica che la Stella non è un libro ebraico, o almeno lo è tanto quanto è cristiano o musulmano, non è un testo di filosofia della religione, ma «è semplicemente un

sistema di filosofia»57. L’utilizzo stesso della parola “sistema” destabilizza il

lettore il quale districandosi tra le pagine della Stella ha avuto modo di leggere una profonda e giustificata critica all’intero sistema hegeliano. Bisogna perciò soffermarsi sulla natura del sistema di filosofia che Rosenzweig propone, sul perché lo definisca proprio un “sistema” e interrogarci sulla vicinanza o distanza con il sistema hegeliano, bersaglio polemico che Rosenzweig ha assunto fin dal suo primo scritto.

Con “sistema” in filosofia s’intende un’opera programmatica in cui i vari ambiti che compongono la filosofia in generale vanno a costituire un tutto organico. Lo stesso Rosenzweig scrive che «un sistema di filosofia consta di una

logica, di un’etica, di un’estetica e di una filosofia della religione»58 che di solito

vengono disposti in modo ordinato e progressivo. Le prime pagine così hanno un ruolo fondativo e determinante per la comprensione dell’intero sistema ed è per

57 Ivi, p. 42. Cfr. anche ibidem. 58 Ivi, p. 43. Cfr. anche ivi, p. 259.

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21 questo che il general reader dei testi filosofici vi presta molta attenzione ritornando sulle parole che non ha compreso o rileggendo intere parti che ritiene siano fondamentali per capire le conseguenze logiche a cui il sistema conduce. Approcciarsi ad un testo filosofico con tale scrupolosità è secondo Rosenzweig una strategia all’ancien régime, cioè il lettore «pensa di non potersi lasciare alle

spalle alcuna fortezza inespugnata»59.

Ne Il nuovo pensiero Rosenzweig pone subito le distanze dai consueti sistemi filosofici: innanzitutto appare diversa la partizione in logica, etica, estetica e filosofia della religione. Quest’ultima abbiamo visto che non compare affatto, mentre le altre parti non vengono elencate in modo progressivo, bensì esse sono trattate in modo dislocato nell’intero testo. Per tal motivo alla strategia all’ancien régime viene contrapposta l’avanzata napoleonica, cioè il lettore non deve più soffermarsi su ogni singola parola, non deve più aver compreso tutto prima di andare avanti nel testo. Al contrario il lettore deve leggere veloce e arrivare fino alla fine. Solo una volta compreso il messaggio generale che il libro propone saranno anche più chiari tutti i piccoli dettagli che il lettore si è lasciato alle spalle. È per tale motivo che Rosenzweig decide di licenziare la Stella senza alcuna prefazione, intesa come un’anticipazione dei contenuti, ed in questo sembra essere

molto vicino all’opinione di Hegel60.

Abbiamo visto che le varie parti che compongono il sistema che Rosenzweig propone non vengono più ordinate, ma dislocate nell’intero testo. Oltre a questa differenza strutturale rispetto agli altri sistemi filosofici, vi è nella Stella un’altra importante differenza di contenuti. Rosenzweig, infatti, intende in modo diverso la logica, l’etica e l’estetica. La logica, ad esempio, presente in ogni sistema di filosofia, viene sostituita dalla grammatica, anzi le due vengono poste in una contrapposizione dicotomica volta a scardinare il vecchio pensiero astratto e a favorire il parlare reale comune a tutti.

59 Ivi, p. 44. Cfr. anche ivi, p. 260.

60 Nella Fenomenologia definisce la prefazione ad un testo filosofico «non solo superflua, ma […]

addirittura inadeguata e contraria allo scopo» (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 49).

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22 L’idea che la filosofia debba culminare con un sistema capace di raccogliere l’intera totalità dell’essere e del sapere è ricondotto a Kant ed è l’eredità che, da Kant, Hegel raccoglie e supera. Per Hegel infatti “sistema” non è una struttura in cui incasellare le varie parti, cioè la logica, l’etica, l’estetica ecc. L’intento di Hegel nel comporre un sistema è mostrare come dall’una si passa all’altra e perciò ogni parte è funzionale al tutto secondo una visione organicistica.

In questa ottica è chiaro che bisogna comprendere e afferrare ogni singola parte per comprendere il tutto sistematico ed è per questo che il general reader si sofferma su ogni singola parola. Non solo, con Hegel il sapere in quanto tale può presentarsi solo come sistema e la filosofia si presenta come l’unica tra tutte le scienze capace di articolarsi in un sistema completo e onnicomprensivo. Non è un caso che l’intero sistema hegeliano culmini con l’Enciclopedia che raccoglie in circolo l’intero sciibile umano.

Rosenzweig propone un sistema di filosofia diverso dagli altri sistemi e in esplicita polemica nei confronti di quello hegeliano. Infatti la Stella si presenta

come un testo «fortemente strutturato»61: esso è diviso rigidamente in tre parti

ognuna delle quali è a sua volta divisa in tre libri preceduti da un’introduzione. Il sistema e la divisione triadica rimandano proprio a Hegel, ma la mossa teorica che Rosenzweig compie è ancora una volta quella di intenderli in modo diverso. Rosenzweig specifica questa diversità in una lettera a Rudolf Ehrenberg del 1.12.1917: «sistema non è un’architettura in cui le pietre vengono a comporre l’edificio e sono in funzione dell’edificio […]; sistema invece significa che ogni individuo ha l’impulso e la volontà a rapportarsi a tutti gli altri singoli individui; il “tutto” sta al di là del suo orizzonte, egli vede solo il caos delle singolarità verso cui tende le sue antenne. Nel sistema hegeliano ogni posizione singolare è unicamente ancorata nel tutto, e cioè (pertanto) collegata a altre due, la posizione

immediatamente precedente e quella immediatamente successiva»62. Dunque al

sistema hegeliano in cui le singolarità esistono solo in funzione del tutto, Rosenzweig contrappone un’idea di sistema in cui ad essere valorizzate sono

61 C. Belloni, Filosofia e rivelazione, cit., p. 30.

62 F. Rosenzweig, Gesammelte Schriften, I.1, p 484, tr. it. parziale di A. Fabris, in A. Fabris,

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23 proprio quelle singolarità e non vi è un’unica ragione totalizzante che le ingloba. Infatti il tutto è al di là dell’orizzonte finito dei singoli i quali però dal loro particolare punto di vista e dal loro peculiare nome e cognome circoscrivono un orizzonte di relazioni e rapporti. Per tal motivo Rosenzweig definisce questo

modello come pluridimensionale contrapposto all’unidimensionalità

dell’idealismo.

Attraverso questa nuova idea di sistema, Rosenzweig non vuole affatto proporre una rivoluzione copernicana del pensiero. Al pari di Kant si può dire che è conscio della portata rivoluzionaria del nuovo pensiero, ma a differenza di Kant non vuole che si vedano le stesse cose che vi erano in precedenza in un’ottica nuova. Rosenzweig vuole rinnovare l’intero pensiero. Tale pretesa però non può essere realizzata se nel proporre il nuovo pensiero si usano, seppur risemantizzate, le parole della metafisica tradizionale. Detto altrimenti, nonostante la critica serrata all’intero pensiero filosofico ed in particolare all’idealismo, Rosenzweig mostra un debito insanabile nei confronti della metafisica e di Hegel. Debito che di fatto diventa dipendenza. Il suo tentativo di distaccarsi dall’idealismo fallisce nel momento in cui non riesce a non esprimersi con parole diverse da quelle hegeliane. Ciò rende il nuovo pensiero dialettico, parola che anche in questo caso deve essere risemantizzata: gli opposti si richiamano l’un l’altro, ma qui non vi è Aufhebung. Il superamento non può realizzarsi attraverso il pensiero o attraverso il libro. Esso per realizzarsi deve andare proprio oltre nel concreto della vita. Rosenzweig dunque non si distacca troppo da quella filosofia che intende rinnovare. Il suo tentativo rimane sicuramente valevole ed il nuovo pensiero ha dato vita ad una filosofia del dialogo il cui studio presta particolare attenzione all’alterità e al linguaggio. Permane forse il dubbio che il nuovo pensiero sia proprio ciò che Rosenzweig voleva evitare: una rivoluzione copernicana del pensiero.

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