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Capitolo IV I duchi

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Capitolo IV

I duchi

In questo capitolo mi soffermerò sulla lunga permanenza del protagonista e del suo scudiero presso il castello dei Duchi. Dalla vicenda emerge una raffigurazione della nobiltà in termini non certo elogiativi.

Quijote e Sancho arrivano alla corte e vengono accolti apparentemente bene, ma in realtà si tratta di una burla atroce al povero folle e al contadino ignorante che gli fa da scudiero.

Come ha affermato Maravall, Cervantes non rinuncia, mediante delle situazioni svariate da lui prospettate negli episodi del libro, a

manifestare, le sue critiche della nobiltà cortigiana del suo tempo1. In

questi capitoli egli rappresenta la vita dispendiosa e priva di veri valori propria di questo settore della società.

A tale proposito è da rilevare che nel corso del XVI secolo la funzione sociale della nobiltà perse non poco della sua importanza. Secondo Antonio Domínguez Ortiz:

la función más propia de la nobleza era la guerrera, y de ella derivaba teóricamente la mayoría de sus exenciones y privilegios. [...] Sin embargo, ya a fines del XVI había

indicios de que la nobleza estaba olvidando su misión2.

1

Cit. in M. Scaramuzza Vidoni, Rileggere Cervantes, Led, Milano, 1994, pag. 316

2 A. Domíguez Ortiz, Las clases privilegiadas en el Antiguo Régimen, Istmo, Madrid, 1973,

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In conclusione afferma che: «vivir noblemente era vivir en ocio, fasto y

riqueza»3.

A partire da questa premessa, vedremo come Cervantes rappresenti la vita tutt’altro che eroica di tale settore della società.

Don Quijote, nel suo vagabondare alla continua ricerca di avventure, incontra, nel bel mezzo di una caccia, alcuni Duchi.

Quest’ultimi, che ben conoscono le avventure del famoso cavaliere, lo ricevono alla loro corte e decidono di assecondarne sistematicamente le follie.

[los duques] por haber leído la primera parte de esta historia y

haber entendido por ella el disparatado humor de don Quijote, con

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grandísimo gusto y con deseo de conocerle le atendían, con prosupuesto de seguirle el humor y conceder con él en cuanto les dijese, tratándole como a caballero andante los días que con ellos se detuviese, con todas las ceremonias acostumbradas en los libros de caballerías, que ellos habían leído, y aun les eran muy aficionados4.

Comincia così un’impostura che vede coinvolto l’intero feudo, dalla coppia ducale agli ultimi servitori: «todas industriadas y advertidas del duque y de la duquesa de lo que habían de hacer y de cómo habían de tratar a don Quijote para que imaginase y viese que le

trataban como caballero andante»5.

Osserva Mario Vargas Llosa che: «Los duques lo hacen con la intención egoísta y algo dispótica de divertirse a costa del loco y su

escudero»6.

Il loro divertirsi a spese di un pazzo, oltretutto buono e animato da nobili intenzioni, appare evidentemente ingiusto. Secondo Serrahima, «quien leyera tan solo un episodio, como por ejemplo, el de la estancia en el castillo ducal, casi podría dudar de si los Duques fueron creados para satirizar a Don Quijote, o si éste fue inventado para hacer visible la insensibilidad y la irresponsabilidad de aquellos altos e impertinentes

señores»7.

Di sicuro, i duchi trovano nei due protagonisti un modo per

distrarsi dalla noia di ogni giorno. Ne sono esempio le innumerevoli

4 Quijote, II, XXX, pag. 781 5 Quijote, II, XXXI, pag. 786

6 Mario Vargas Llosa, “La ficción y la vida”, in Don Quijote de la Mancha,ed. Rico, cit., pag.

XVII

7 Del Quijote al persiles, Rev. Insula, num.110, cit da, L. Rosales. Cervantes y la libertad,

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burle ideate ai loro danni, e che sempre finiscono con il provocare, come sottolinea Riley: «dolor fisico, ligero pero molesto (bofetadas,

coscorrones, alfilerazos, pellizcos, aranazos, latigazos…)»8

.

Come ho anticipato, non sono soltanto i duchi a prendersi gioco delle due vittime. Infatti il divertimento coinvolge anche i membri della servitù, che sono i protagonisti della messa in atto della prima burla.

«Llegaron cuatro doncellas, la una con una fuente de plata y la otra con un aguamanil asimismo de plata, y la otra con dos blanquísimas y riquísimas toallas al hombro, y la cuarta descubiertos los brazos hasta la mitad, y en sus blancas manos [...] una redonda pella de jabón napolitano. Llegó la de la fuente, y con gentil donaire y desenvoltura encajó la fuente debajo de la barba [...]. [Don Quijote] creyendo que debía ser usanza de aquella tierra en lugar de lavar las manos lavar las barbas [...] tendió la suya todo cuanto pudo»9.

Come evidenzia Francisco Rico, ‘‘Manosear las barbas era

insultante, y en ello estriba la burla que le hacen a Quijote’’10. Inoltre,

le donzelle lo lasciarono con il viso insaponato, così: «quedó Don Quijote con la más extraña figura y más para hacer reír que se pudiera

imaginar»11.

Dunque, questa cerimonia, che per il cavaliere rappresentava un evento importante, non è altro che un’umiliazione nei suoi confronti. E tutto questo avviene dinanzi agli occhi dei duchi, che lasciano libere le donzelle di proseguire sino alla fine dello scherzo.

8 E. Riley, Introducción al Quijote, Crítica, Barcelona, 1990, pag. 163 9

Quijote, II, XXXII, pag. 796

10 Ibidem, nota.19 11 Ibidem.

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Infatti, il duca e la duchessa si divertono a prenderli in giro, inscenando in un bosco una mascherata con maghi, demoni, donzelle ed altri personaggi. Essa ha come punto focale quella Dulcinea del Toboso che don Quijote ha trasformato nella propria dama, anche se è in realtà una rozza contadina. Poiché don Quijote è convinto che Dulcinea sia vittima di un incantesimo, i duchi, instancabili nel progettare nuove avventure per don Quijote, fanno apparire nel bosco, dove la corte è impegnata in una caccia, nientemeno che il diavolo, accompagnato da musiche d'effetto. E poi, su un grande carro, il mago Merlin, il quale annuncia che per la libertà di Dulcinea è necessario che Sancho si frusti

tremilatrecento volte «en ambas sus valientes posaderas»12. Lì per lì lo

scudiero si rifiuta ma poi, col miraggio del governatorato dell’isola, dichiara che si frusterà da solo. Naturalmente non troverà mai il momento adatto.

Qui, s’impongono almeno due considerazioni. Anzitutto, che la burla è stata studiata nei minimi dettagli: dallo scenario agli effetti speciali, ai gruppi di musicanti, il tutto finalizzato ad ottenere la fine, sempre fittizia, dell'incantesimo di Dulcinea. In secondo luogo, occorre rilevare come il gusto dei nobili duchi riveli la sua volgarità di fondo allorchè essi scelgono come bersaglio quel poveraccio di Sancho. Questa volgarità ha già trovato una prima manifestazione quando lo stesso Sancho, fuggendo da un cinghiale, si arrampica su di un albero e rimane appeso a testa in giù ad un ramo, suscitando le risate dei presenti.

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La burla più incredibile è quella del cavallo Clavileño. I duchi organizzano l’intervento della contessa Trifaldi e delle sue dodici donzelle, che rimarranno sempre barbute se don Quijote non combatterà col gigante Malambruno, artefice dell’incantesimo. Don Quijote viene avvisato che un cavallo alato, in realtà di legno, inviato da mago Merlin, lo trasporterà in aria fino al lontano regno di Candaya. Dapprima Sancho si ribella all’idea di accompagnare il cavaliere errante, ma alla fine si convince. Secondo le istruzioni, il cavaliere gira il cavicchio di legno che dovrebbe mettere in moto il cavallo, e il viaggio incomincia. Non hanno l’impressione di muoversi, ma sentono soffiare il vento dal di sotto.

«Y así era ello, que unos grandes fuelles le estaban haciendo

aire: tan bientrazada estaba la tal aventura por el duque y la

duquesa y su mayordomo, que no le faltó requisito que la

dejase de hacer perfecta»13.

In modo estremamente raffinato, sono stati predisposti alcuni congegni per rendere plausibile l’illusione del volo a don Quijote e Sancho, i quali, naturalmente, non si muovono da terra. La gente grida: «¡Dios te guíe, valeroso caballero! ¡Dios sea contigo, escudero intrépido! ¡Ya, ya vais por esos aires, rompiéndolos con más velocidad

que una saeta!»14. Ad un determinato momento il duca fa esplodere i

mortaretti contenuti nel marchingegno e i due, dopo aver fatto un gran salto in aria, cadono sull’erba, doloranti e storditi. «Don Quijote y Sancho se levantaron maltrechos y, mirando a todas partes, quedaron

atónitos de verse en el mismo jardín de donde habían partido»15. Ma in

una lancia conficcata al suolo vi è un biglietto in cui il gigante

13 Quijote, II, XLI, pag. 860 14 Ibidem, pag. 859

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Malabruno dice di essere disposto a sciogliere gli incantesimi, poiché don Quijote ha già dimostrato il suo valore tentando l’impresa.

Così, anche quest’avventura si conclude con le risate e il divertimento dei duchi.

L’atteggiamento assunto dai due aristocratici si rivela però piuttosto ambiguo. Possiamo notare, la loro mancanza totale di compassione: «no quedaron arrepentidos los duques de la burla hecha a

Sancho Panza del gobierno que le dieron[…]»16. Però qualche volta

affiora in loro un sentimento di rimorso:

«Los duques le dejaron sosegar y se fueron pesarosos del mal suceso de la burla: que no creyeron que tan pesada y costosa le saliera a don Quijote aquella aventura, que le costó cinco días de encerramiento y de cama» 17.

Ma, nonostante simili accenni a sentimenti apprezzabili dei duchi, la raffigurazione della loro corte è decisamente negativa.

È evidente che, con l’arrivo di Quijote e Sancho alla corte, i Duchi trovano un nuovo modo per impiegare il proprio tempo. Come spiegare altrimenti l’accurata orchestrazione dell’avventura di Clavileño e del mago Merlin?

Lo stesso Cervantes considera le burle dei duchi crudeli: «[…] porque no son burlas las que duelen, ni hay pasatiempos que valgan, si

son con daño de tercero»18. Del resto la maggior parte dei critici

16 Quijote, II, LVI, pag. 975 17 Quijote, II, XLVI, pag. 899

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concorda nel sottolineare l’asprezza della critica allo stile di vita

nobiliare19.

Tuttavia, vi sono eccezioni a tale unanimità. Così Luis Rosales definisce questa parte del romanzo ambientata nella corte ducale, ‘‘la comedia de la felicidad’’: «consiste justamente en hacernos vivir como queremos y no aceptar la tiranía de los usos sociales inclementes y mas utilizados que atendidos. La comedia de la felicidad representa la integración de don Quijote en el mundo y la plena realización de su

existencia personal»20.

Secondo Rosales, quindi, grazie ai duchi e alla loro meticolosità nel dirigere le burle, don Quijote può vivere como un vero cavaliere errante per tutta la permanenza nella corte ducale. Ciò è vero, a mio avviso, se consideriamo, solamente, l’inizio della vicenda, l’arrivo di don Quijote alla corte, poichè solo in quel momento viene accolto come

un cavaliere: «Bien sea venido la flor y nata de la andante caballería»21.

E non risulta strano, quindi, che per don Quijote: «aquél fue el primer día en que todo en todo conoció y creyó ser caballero andante y no

fantástico»22.

Però nel momento in cui i duchi, cominciano ad ideare le innumerevoli burle e a metterle in atto, provocano dei danni a don Quijote. Essi, infatti, mostrano di disprezzare gli ideali del cavaliere, assecondando sistematicamente il proprio desiderio immediato di divertimento. Questo atteggiamento viene messo in risalto soprattutto nel

19 R. Gonzalez Echevarría, Amor y ley en Cervantes, Madrid, 2008, pag. 173 20

L. Rosales, Estudios sobre el barroco,Valladolid, 1997, p. 560.

21 Quijote, II, XXXI, pag. 784. Corsivo mio 22 Ibidem. Corsivo mio

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capitolo LXX, in cui si narra dell’arrivo alla corte del baccelliere Sansón Carrasco che, preoccupato per Quijote, si era messo a cercarlo.

«Llegó, pues, al castillo del duque, que le informó el camino y derrota que don Quijote llevaba con intento de hallarse en las justas de Zaragoza; díjole asimismo las burlas que le había hecho con la traza del desencanto de Dulcinea, que había de ser a costa de las posaderas de Sancho»23.

Carrasco informa il duca delle sue intenzioni affinchè: «sanase de su locura,[...] por ser cosa de lástima que un hidalgo tan bien entendido

como don Quijote fuese loco»24, ma il duca: «tomó ocasión [...] de

hacerle aquella burla: tanto era lo que gustaba de las cosas de Sancho y

de don Quijote»25.

A tal proposito l’opinione del narratore è chiara: «Y dice más Cide Hamete: que tiene para sí tan locos los burladores como los

burlados, y que no estaban los duques dos dedos de parecer tontos»26.

Cervantes evidenzia al lettore la situazione paradossale che si crea nel momento in cui quelli che si credono saggi, i duchi, si dimostrano in verità folli, molto più di quelli che sono considerati i veri folli di questa storia. I duchi perdono il loro tempo e s’impegnano ad architettare inganni ridicoli ai loro ospiti, solo per il gusto di divertirsi.

Naturalmente, i duchi non vogliono che don Quijote se ne vada. Hanno conferito un senso alla loro vita trascorrendo le giornate

23

Quijote, II, LXX, pag. 1076

24 Ibidem, pag. 1077 25 Ibidem.

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nell’organizzare gli scherzi. Non desiderano tornare a vivere privi di quella risorsa.

Ebbene, sarà proprio l’ozio a costituire il motivo principale della partenza di Quijote: «yo pienso dejar presto esta vida ociosa en que

estoy, pues no nací para ella»27. E aggiunge: «pues, en fin en fin, tengo

de cumplir antes con mi profesión que con su gusto»28.

Come ha osservato Carlos Varo: «don Quijote se siente hastiado de la vida en casa de los duques, cree necesario salir de este estado de

poltronería que le quiere atenazar desvirtuando su misión»29. Le regole

della cavalleria impongono ai cavalieri erranti uno stile di vita sobrio e rigoroso. Essi devono essere costantemente in attività. La necessità di aiuto e di assistenza ai derelitti può verificarsi infatti in qualunque momento ed in ogni luogo.

Alla luce di quanto fin qui esposto, emerge dunque una critica alla vita oziosa e frivola dei nobili. C'è però un ulteriore aspetto che viene messo in evidenza da Echevarría. A suo avviso: «la critica más sutil y

mordaz está en la historia de amor de la hija de la dueña Rodríguez»30.

All’interno di questo episodio, del capitolo XLVIII, infatti, emerge il bisogno di mettere in mostra, lo status e il potere dei duchi. Si permettono una vita lussuosa ignorando i diritti altrui. Così nel capitolo in questione, dueña Rodríguez, la maggiordoma della duchessa, racconta a don Quijote il dolore che l’affligge: sua figlia era stata sedotta da un ricco contadino, che l’aveva ingannata con la promessa del matrimonio. Dueña Rodriguez chiede al cavalere di intevenire in difesa dell’onore

27 Quijote, II, LI, pag. 942 28

Ibidem, pag. 943

29 C. Varo, Génesis y evolución del Quijote, Madrid, 1968, pag. 453 30 R. Gonzalez Echevarría, Op,Cit., pag. 173

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della giovane poiché il duca, che potrebbe e dovrebbe farlo, non interviene, dal momente che il padre del ragazzo gli presta del denaro e non può permettersi di offenderlo: «y es la causa que, como el padre del burlador es tan rico y le presta dineros y le sale por fiador de sus trampas por momentos, no le quiere descontentar ni dar pesadumbre en ningún

modo»31.

Emerge, quindi, una raffigurazione fortemente negativa dell’aristocrazia: un ceto della società potente, ma insensibile alle esigenze della giustizia.

Per questo motivo, chiedere al duca di svolgere quello che dovrebbe essere il suo dovere più importante, cioè garantirla ai sudditi,

equivale a «pedir peras al olmo»32, secondo Dueña Rodriguez. I duchi

vivono di prestiti, di menzogne e di abusi. Questa è la descrizione quindi, di un ambiente inerte socialmente, ipocrita e iniquo.

Come abbiamo evidenziato più volte, don Quijote crede solo nella giustizia dei cavalieri erranti, al di sopra della quale, per quanto egli ne sa, esiste solo la giustizia di Dio.

Dall’analisi dei suoi interventi più importanti all’interno delle situazioni burlesche create dai duchi, emerge come Quijote colga spesso l’occasione per esaltare ancora una volta la insopprimibile e benemerita missione dei cavalieri erranti, veri ministri leali ed incorruttibili della giustizia. Mi riferisco in particolar modo a due episodi, dei capitoli XXXII e XXXVI, in cui don Quijote si difende dalle critiche del cappellano. Il primo episodio vede i due protagonisti seduti attorno ad

31 Quijote, II, XLVIII, pag. 915 32 Quijote, II, LII, pag. 947

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una ricca tavola imbandita, insieme ai duchi e al cappellano. Quest’ultimo, rivolgendosi a don Quijote, prima lo chiama ‘‘don Tonto’’ e poi aggiunge:

quién os ha encajado en el celebro que sois caballero andante y que vencéis gigantes y prendéis malandrines? Andad enhorabuena, y en tal se os diga: Volveos a vuestra casa y criad vuestros hijos, si los tenéis, y curad de vuestra hacienda, y dejad de andar vagando por el mundo, papando viento y dando que reír a cuantos os conocen y no conocen33.

Il cappellano chiede a don Quijote di lasciar perdere la caballería andante e di tornare al paese di origine per occuparsi delle proprietà e della famiglia; si invita insomma l’hidalgo a ritornare “al proprio posto”. Ma don Quijote, che crede fermamente nella cavalleria, non mancherà in tale occasione di sciorinare ai duchi, al cappellano, al maestro di sala e ai molti altri presenti un lungo ed equilibrato ragionamento in difesa della sua professione.

«Yo he satisfecho agravios, enderezado tuertos, castigado insolencias, vencido gigantes y atropellado vestiglo. [...] Mis intenciones siempre las enderezo a buenos fines, que son de hacer bien a todos y mal a ninguno: si el que esto entiende, si el que esto obra, si el que desto trata merece ser llamado bobo, díganlo vuestras grandezas, duque y duquesa excelentes»34.

Il discorso suscita le grandi risate dei duchi e di tutti i presenti, tranne il cappellano che, non volendo partecipare allo scherzo, se ne va.

33 Quijote, II, XXXI, pag.792 34 Ibidem, pag. 793

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L’altro episodio, quello della burla della contessa Trifaldi, vede di nuovo don Quijote difendere il proprio primato su ogni altro tutore della giustizia. L’occasione gli si presenta nel momento in cui lo scudiero della duchessa, dopo aver raccontato l’incredibile storia orchestrata dai duchi, chiede a don Quijote di intervenire in suo aiuto.

Don Quijote dice allora:

que estuviera aquí presente aquel bendito religioso que a la mesa, el otro día, mostró tener tan mal talante y tan mala ojeriza contra los caballeros andantes, [...] tocara por lo menos con la mano que los extraordinariamente afligidos y desconsolados, en casos grandes y en desdichas inormes no van a buscar su remedio a las casas de los letrados [...],el remedio de las cuitas, el socorro de las necesidades, [...]en ninguna suerte de personas se halla mejor que en los caballeros andantes, [...]y doy por muy bien empleado cualquier desmán y trabajo que en este tan honroso ejercicio pueda sucederme. Venga esta dueña y pida lo que quisiere, que yo le libraré su remedio en la fuerza de mi brazo y en la intrépida resolución de mi animoso espíritu35.

Così don Quijote ribadisce la sua fedeltà all’ordinamento della cavalleria e il suo rispetto per la giustizia.

Vi è un marcato contrasto tra il senso e l'amore della giustizia del cavaliere, e l’irresponsabilità di un ceto potente come l’aristocrazia. Perfino Sancho potrà dare una lezione di giustizia a questa nobiltà sfaccendata. Lo scudiero infatti rappresenta l’alternativa totale ai duchi. Ciò appare evidente quando otterrà il bramato governo dell’isola

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Barataria. La sua è una saggezza contadina al potere. Cerca di evitare le contese civili fra i suoi amministrati, vuole evitare lo spreco di soldi, di tempo, di giudici. Nei sette giorni del suo mandato Sancho si comporta molto bene, amministra la giustizia con buon senso e lungimiranza e, per svolgere la mole di lavoro che lo sommerge, non si risparmia.

Prima di passare all’episodio del governo di Sancho, trovo interessante analizzare i consigli che don Quijote gli dà quando sta per partire per l’isola Barataria. Non si tratta di una vera isola, ma di un borgo nel feudo del duca, molti dei cui abitanti sono tutti informati della burla giocata al pover’uomo.

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