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Giovedì 12 dicembre ore 18:30. ALTRAGRICOLTURA NORD EST presenta e discute con l autore il libro LAVORO MALE COMUNE. di Andrea Fumagalli

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Giovedì 12 dicembre 2013 - ore 18:30

ALTRAGRICOLTURA NORD EST

presenta e discute con l’autore il libro

LAVORO MALE COMUNE

di Andrea Fumagalli

Docente di Storia dell’economia Politica presso l'Università di Pavia, socio della sezione italiana del BIN (Basic Incombe Network)

La precarietà non è la condizione di lavoro e di vita dei giovani assunti con uno dei tanti contratti di lavoro atipici legalizzati negli anni. A definirla in questo modo si rischia di considerarla come un fenomeno marginale, temporaneo, congiunturale o ancora peggio come un conflitto generazionale. La precarietà è la condizione strutturale su cui si è riorganizzato negli ultimi 30 anni in Italia e nei Paesi Occidentali il sistema economico, il quale ha quindi modificato condizioni di lavoro e di vita degli individui.

Certamente la precarietà può assumere connotati diversi e, a seconda di determinate situazioni soggettive e oggettive, rendere gli individui più o meno vulnerabili. In ogni caso è il prodotto di processi di frammentazione, individualizzazione, deregolamentazione delle attività produttive e di un progressivo trasferimento del rischio d'impresa verso i lavoratori. Una socializzazione del rischio che solo gli ingenui o i politici in mala fede si ostinano a sostenere possa essere accompagnata da una nuova e più ampia redistribuzione della ricchezza, e che invece va di pari passo con la concentrazione dei patrimoni.

Secondo Fumagalli "Per anni abbiamo assistito a una sorta di sbornia della flessibilità come condizione necessaria per favorire la crescita economica. Questa politica dei due tempi, prima la flessibilità e poi la crescita economica, si è rivelata fallimentare, ma non è con il ritorno, più o meno forzoso, alla disciplina del lavoro subordinato stabile che la trappola della precarietà può essere elusa. Che fare allora? Forse occorre rovesciare la questione: prima sicurezza sociale, ovvero continuità di reddito a prescindere dalla prestazione lavorativa (questo si che è un bene comune!) e accesso ai servizi di base materiali e immateriali (dalla casa alla mobilità e alla conoscenza), e solo dopo discussione delle politiche necessarie per meglio riorganizzare il lavoro e renderlo meno ricattabile. In altre parole, passare dal diritto al lavoro al diritto alla scelta del lavoro".

E questo libro sostiene senza timidezza una proposta forte, discutendone presupposti, possibili esiti e concrete vie di attuazione: il reddito di base garantito.

NELL'OCCASIONE SARÀ DISPONIBILE

IL N. 5 DELLA RIVISTA QUADERNI DI SAN PRECARIO

AltrAgricoltura NordEst, Corso Australia 61, Padova

Tel. 049.7380587 [email protected]

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LAVORO MALE COMUNE

La precarietà non è la condizione di lavoro e di vita dei giovani assunti con uno dei tanti contratti di lavoro atipici legalizzati negli anni. A definirla in questo modo si rischia di considerarla come un fenomeno marginale, temporaneo, congiunturale o ancora peggio come un conflitto generazionale.

La precarietà è la condizione strutturale su cui si è riorganizzato negli ultimi 30 anni in Italia e nei Paesi Occidentali il sistema economico, il quale ha quindi modificato condizioni di lavoro e di vita degli individui. Certamente la precarietà può assumere connotati diversi e, a seconda di determinate situazioni soggettive e oggettive, rendere gli individui più o meno vulnerabili. In ogni caso è il prodotto di processi di frammentazione, individualizzazione, deregolamentazione delle attività produttive e di un progressivo trasferimento del rischio d'impresa verso i lavoratori. Una socializzazione del rischio che solo gli ingenui o i politici in mala fede si ostinano a sostenere possa essere accompagnata da una nuova e più ampia redistribuzione della ricchezza, e che invece va di pari passo con la concentrazione dei patrimoni (l'Italia è il 4° Paese OCSE per disuguaglianze sociali).

Qualcuno potrebbe dire che nonostante una precarietà diffusa e particolarmente concentrata in determinate categoria sociali (giovani, migranti, donne), esiste ancora uno zoccolo più o meno consistente di lavoratori con contratti a tempo indeterminato. E’ vero che molti lavoratori per lo più dell'industria hanno un contratto che non ha una data di scadenza (anche se sempre più in calo visto che ormai gran parte delle nuove assunzioni sono con contratti atipici), ma questa condizione non è più sufficiente a proteggere dalla precarietà. Non è forse precario chi lavora in una delle tante cooperative che gestiscono pezzi importanti di servizio pubblico sempre più privatizzato e di fasi di processo produttivo o distributivo esternalizzato? Chi lavora in un magazzino in un'azienda di abbigliamento, chi lavora nella chimica di base, chi lavora nella navalmeccanica come nella ricerca farmaceutica e nell'informatica, e addirittura nei servizi sociali è sempre più di frequente costretto confrontarsi con trasferimenti, terziarizzazioni, delocalizzazioni o con la loro minaccia. Anche il lavoro storicamente più stabile, quello per le pubbliche amministrazioni, ha ormai scoperto le collaborazioni a progetto, le riduzioni del personale e il licenziamento. Certo i lavoratori a tempo indeterminato hanno diritti, tutele e salari quasi sempre maggiori di quelli dei precari dei call center o della ricerca, ma le differenze si stanno smussando sempre di più, perché il ricatto occupazionale in questo periodo di crisi viene fatto pesare dalle imprese.

Di fronte a questo ricatto qual è la rivendicazione che normalmente viene sostenuta? Quella della difesa dell'occupazione o la richiesta di lavoro tout court. A prescindere dal fatto che questo lavoro possa produrre sofferenza fisica o psichica, non consenta di vivere una vita dignitosa, sia nocivo per i lavoratori e il territorio e non ecologicamente sostenibile. L'ideologia secondo il quale lavoro, così come è dato dall'attuale sistema economico, sia qualcosa di inevitabile, l'essenza della dignità della persona, la fonte di tutto ciò che arricchisce la vita sociale, del progresso, al punto da definirlo un bene comune, porta a rimuovere il suo senso e i suoi fini, le condizioni concrete in cui si manifesta, i sacrifici che ci chiede e i danni che ci produce. E alla fine dei conti la mera difesa dei livelli occupazionali, si è rivelata anche una strategia incapace di difendere i diritti acquisiti dai lavoratori e gli stessi posti di lavoro.

Questa impostazione ha semmai favorito la precarietà e il contenimento del costo del lavoro, ha accettato l'intensificazione e l'individualizzazione della prestazione produttiva, nonché l'aumento della stimolazione della competizione tra lavoratori. Questa impostazione troppo spesso ha difeso produzioni e impianti che hanno altissimi costi in termine di sicurezza e salute dei lavoratori e dei cittadini. L'Ilva di Taranto è solo uno degli esempi più eclatanti.

l lavoro non può essere considerato un bene, men che meno un “bene comune”. Per i lavoratori in una società capitalistica è lo strumento per procurarsi i mezzi per la propria sussistenza e per soddisfare bisogni materiali ed immateriali. La partecipazione al “mercato” del lavoro non è quindi una scelta libera, come la teoria economica dominante e le retoriche liberiste sostengono, ma è una “non”

scelta, è una scelta di necessità, cioè una costrizione.

Il lavoro non deve essere confuso con la più generale “operosità umana”, cioè con l'agire, il creare, l'ingegnare per sé, come forma di auto-realizzazione. Il lavoro imposto, l'unico “certificato” dal nostro sistema è invece la coercizione a partecipare al processo di creazione di merci e servizi, finalizzato a produrre ricchezza, in contesti organizzativi e più in generale in un ambiente economico in cui anche

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le regole e le modalità di partecipazione non sono frutto di una scelta partecipata e libera. Inoltre è fuorviante parlare di mercato del lavoro, dato che i soggetti dello scambio non hanno pari opportunità né pari potere.

Il lavoro è semmai un “male comune” visto che comporta inevitabilmente sforzo fisico e mentale, gerarchia e comando, sottrazione di tempo alla cura, agli affetti e alle relazioni sociali.

Questo sistema di organizzazione della produzione e della società ha aumentato esponenzialmente la capacità produttiva e la ricchezza sociale, ciononostante anche nei Paesi più ricchi o dove maggiore è stata la sua distribuzione non vi è stato un affrancamento dell'attività umana dal ricatto del bisogno verso un diritto alla scelta del lavoro. L'introduzione di macchinari, di tecnologia, di informatizzazione governata da chi ha il capitale e il potere ha significato disoccupazione e non liberazione dal lavoro né tanto meno diminuzione di orario di lavoro o nuova distribuzione della ricchezza. Anzi, in questi stessi Paesi, si assiste alla condizione paradossale per cui il lavoro, sempre più intermittente e svalorizzato, non è più nemmeno il mezzo che garantisce la soddisfazione dei bisogni basilari. Il lavoro ormai non permette più neppure un salario di sussistenza.

Chi è entrato nel mondo del lavoro negli ultimi anni non solo è sempre più di frequente indebitato (altro meccanismo di controllo sociale) o addirittura in condizioni di povertà, ma quando raggiungerà l'età pensionabile si troverà con una pensione talmente bassa da non garantire la sopravvivenza (già oggi, l'INPS certifica che più di 7,2 milioni di pensionati beneficiano di un assegno inferiore a 1000 € e di questi 2,2 milioni non arrivano nemmeno a 500 €).

Come abbiamo già detto la precarietà non è un fenomeno solo italiano, ma l'Italia è sicuramente uno dei Paesi dell'Unione dove si lavora peggio, dove si lavora di più e con retribuzioni inferiori. Dove il reddito e la ricchezza sono maggiormente concentrati. Pochi hanno tanto e tanti hanno poco.

La ricchezza però continua ad essere prodotta e se andiamo ben vedere le attività che creano valore, hanno assunto nuove qualità e forme che travalicano la tradizionale prestazione lavorativa e proprio per questo molto spesso non vengono riconosciute e remunerate. Oggi, la produttività del lavoro non si estrae più solo con una riduzione dei tempi per ogni mansione, ma anche e sopratutto attraverso la polivalenza e la mobilità di una forza lavora capace di apprendere e adattarsi al cambiamento continuo della produzione. Queste capacità non vengono riconosciute e remunerate, ma rubate da chi detiene il potere nella società. Una volta si sarebbe semplicemente e direttamente detto “dal padrone”. Inoltre cresce lo spostamento del tempo di lavoro pagato verso quello gratuito. Fenomeno che le donne conoscono bene dovendo lavorare ogni giorno all'interno delle mura domestiche e che sta investendo sempre di più anche la vita degli uomini. Tempo di vita “liberato” dal lavoro diventa tempo di lavoro non pagato. Oggi in realtà tutti lavoriamo. Veniamo divisi in categorie come occupati, precari, atipici, inattivi, sottoccupati, scoraggiati, disoccupati ma solo quelli di noi che lavorano con un “lavoro certificato” hanno diritto ad un salario. Gli altri, chi presta lavoro domestico o lavoro di volontariato, chi lo scambia con altri o in un rapporto di socialità e di relazione, chi si produce gli ortaggi per se e per amici o chi si organizza in GAS per mangiare cibi sani e saltando tutta la catena della grossa distribuzione, per la società non lavora. Il suo lavoro non viene “certificato” e di conseguenza non viene pagato.

Il salto da una produzione principalmente fordista e di merci a una produzione cognitiva e finanzia rizzata ha fatto si che quando agiamo come consumatori non solo chiudiamo il cerchio denaro-merce- denaro, ma produciamo valore. Come scrive Fumagalli nel libro “Lavoro male comune”:

”ad esempio tramite una fidelity card, diventa nella grande distribuzione anche produzione di informazioni, sulla base delle quali ricontrattare i rapporti di fornitura; del semplice fatto di guardare la TV quando il nostro ascolto modifica gli indici Auditel, in relazione ai quali vengono negoziati i contratti di pubblicità: della partecipazione a un evento sociale e pubblico se la nostra adesione incide sulla costrizione dell'immagine di chi lo organizza” (p.103).

Ad ogni modo, lavoro certificato o no, dobbiamo riconoscere che l’umanità deve tener conto dei limiti naturali del sistema terra, un sistema biologico finito e chiuso. La circolazione denaro-merce-denaro deve essere analizzata anche come natura-merce-natura dove la qualità, il valore di una merce non può essere dato solo dal suo costo, ma deve essere analizzato come flusso di materie prime e di energia che il lavoro trasforma in beni, i quali dopo essere stati usati tornano nuovamente alla natura sotto forma di scorie solide, liquide e gassose. Il problema non è affannarsi a dichiarare che una riconversione dell'economia non porterebbe a una diminuzione del PIL, ma metterla in atto consci che bisogna scontrarsi con l’organizzazione attuale del lavoro. La “decrescita” o “a-crescita” o meglio, come si

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affermava un tempo la scelta di “cosa, quanto, come produrre” socialmente condivisa, comporta la ridistribuzione di carichi di lavoro, forme di cooperazione sociale, processi partecipativi, rapporti e legami sociali comunitari, forme di autogoverno basate sull’autonomia di movimenti di massa.

A questo se siamo convinti che il lavoro, lungi dall’essere un “bene comune” come tutte le forze politiche e sindacali si prodigano di sostenere, rappresenta un complesso dispositivo ideologico ed al tempo stesso terribilmente concreto di controllo e disciplinamento dell’intera società, capace di far accettare condizioni di vita sempre più vicine alla mera sussistenza anche qui nel primo mondo, dobbiamo assumere anche che la situazione va affrontata con nuovi modelli organizzativi, nuovi obiettivi e forme di lotta.

Durante il “boom” economico degli anni ’60, a fronte di una struttura produttiva incentrata sulla grande fabbrica metalmeccanica e chimica – e più avanti sulla fabbrica diffusa - il miglioramento della qualità della vita degli operai e dei salariati in generale, è stato possibile mettendo al centro delle rivendicazioni un salario sganciato dalla produttività del singolo addetto, quindi uguale per tutti, e parametrato al soddisfacimento dei nascenti bisogni (casa, trasporto familiare, accesso agli studi superiori per tutti, vacanze, etc.. ). Le forme di lotta erano indirizzate a bloccare la produzione materiale delle merci così da ingenerare direttamente un danno economico e giungere a trattative con un rapporto di forza favorevole.

Oggi con una struttura produttiva completamente diversa e processi di scomposizione sociale, che chiamiamo precarietà, che individualizzano e gerarchizzano le tante forme del lavoro questo modo di operare non è più riproponibile in quanto insufficiente e inefficace.

Di qui la necessità trovare obiettivi che soddisfino in eguale misura quei bisogni di accesso al reddito che le diverse figure del lavoro esprimono e producano un doppio effetto: ricostituire e ricomporre attorno ad una unica piattaforma rivendicativa una soggettività altra dagli interessi del padronato e riconquistare da subito con forme di agitazione e lotta quote di quella ricchezza che viene estorta e negata ai lavoratori. La richiesta generalizzata – per tutti i residenti in Italia (ma la scala Europea è ormai imprescindibile) – di accedere ad un reddito di base incondizionato può rispondere bene a questo scopo ricomponendo le tante figure del lavoro e del non-lavoro sul medesimo terreno rivendicativo.

REDDITO MINIMO GARANTITO o REDDITO DI BASE

Presso il nostro Parlamento sono depositate 3 proposte di legge che riguardano, se pur in modo differente, una qualche forma di reddito garantito. Una presentata da BIN (Basic Income Network) e altre 170 associazioni con la firma di oltre 50.000 cittadini italiani, una di Sel e per ultima una del M5S (vedi allegato 1).

Su quella presentata dal Governo e quella presentata da Fassina del PD caliamo un velo pietoso. (vedi allegati 2,3).

Quello che a noi interessa discutere è la necessità impellente che nascano “lotta e organizzazione” che abbiano come obiettivo un Reddito Minimo Garantito (RMG) che funzioni come strumento:

per uscire dalla trappola della precarietà;

per liberarsi dalla necessità;

per unificare le tante figure della precarietà;

per remunerare la cooperazione sociale non certificata, ma produttrice di valore.

Questo reddito deve essere pagato dallo Stato attraverso la fiscalità generale per tutti i residenti in Italia (nativi o migranti) che abbiano compiuto i 18 anni e sostituisce tutte quelle erogazioni sociali di pari importo. La rivendicazione e l’applicazione deve essere nazionale e non regionale o locale, per non costruire nuove “gabbie salariali”, come avvenuto nel breve periodo dal 1998 al 2002 con l’introduzione del Reddito Minimo di Inserimento (RMI) in 306 Comuni italiani. Chiedere leggi regionali in una situazione dove gli enti locali sono in bancarotta perché lo stato centrale ha chiuso i rubinetti non sembra un sentiero molto praticabile. Mentre i Comuni e gli Enti territoriali possono incrementare questo reddito attraverso l’erogazione di beni e servizi.

Il RMG deve essere legato indissolubilmente ad un Salario Minimo Garantito (SMG). In Italia il SMG potrebbe essere di 1.200 euro mensili netti per la categoria contrattuale più bassa, legato all’indice ISTAT e per un orario di lavoro di 40 ore settimanali. Nessun rapporto di lavoro deve essere stipulato sotto questa soglia (vedi la richiesta in discussione in Germania).

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Il RMG deve essere erogato ad alcune condizioni :

l'incondizionalità: perché è remunerazione di attività già svolta;

l'individualità: la somma sarà ricalcolata in ragione del numero dei componenti del nucleo familiare;

l'ammontare deve essere pari o superiore alla soglia di povertà (€. 600,00) rivalutato annualmente sulla base degli indici sul costo della vita elaborati dall’ISTAT e aumentato annualmente aggiornandolo con i dati ISTAT;

la cumulabilità con il salario e altri redditi fino all’ammontare della cifra del salario minimo garantito, cioè 1.200 €. netti/mese per 40 ore settimanali.

Quanto viene a costare l'erogazione?

La sostenibilità economica e finanziaria è assolutamente possibile, purché lo si voglia davvero. Non è la ricchezza che manca, ma la volontà politica e non parliamo ovviamente solo della destra.

Alcune questioni da tener presente:

• per calcolare e controllare il costo del RMG occorre separare il bilancio della previdenza da quello dell’assistenza;

l’imposta evasa in Italia (anno 2011) calcolata dall’Associazione Contribuenti italiani è di 180,3 miliardi di euro;

• una piccolissima percentuale sulle transazioni finanziarie è sufficiente a coprire il RMG, oppure una patrimoniale che tocchi solo il 10% dei cittadini più ricchi. La ricchezza patrimoniale mobiliare dovrebbe essere sottoposta a gran parte delle regole a cui è sottoposta la ricchezza patrimoniale immobiliare per poter essere scovata e facilmente tassata;

• la tassazione dovrebbe colpire il patrimonio e la rendita in egual misura del reddito da lavoro, aumentando anche le aliquote per gli scaglioni più alti;

• ridurre drasticamente le spese militari e le missioni “umanitarie”, le consulenze milionarie e le società partecipate decise per accontentare gli amici degli amici, porterebbero tante risorse non solo finanziarie;

• il sostegno al reddito in Italia si aggira sul’1% del PIL rispetto al 2-2,5% di altri paesi europei;

• l’Europa i soldi per salvare le banche li trova sempre. Gli Stati Uniti tra il 2007 e il 2010 hanno erogato a banche e imprese, con lo scopo di “salvarle”, 16 mila miliardi di dollari senza interessi. Vuol dire che quando si parla di “mercati” questi hanno sempre un nome e un cognome.

Dicembre 2013 - AltrAgricoltura NordEst

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Appello per una larga intesa per il reddito garantito

Dinanzi all'immobilismo sulla questione sociale dimostrata dalle larghe intese attualmente al Governo diviene urgente promuovere una "larga intesa sociale e politica" per introdurre un reddito garantito in Italia: qui e ora.

Inutile insistere sulla cruda realtà delle statistiche: un quarto della popolazione sospesa tra esclusione e marginalità sociale, un tasso di disoccupazione giovanile al 40%, circa tre milioni di disoccupati, per non considerare i milioni di "scoraggiati" che neanche si affacciano più al "mercato del lavoro", tutte e tutti senza alcuno strumento di sostegno al reddito.

In questi mesi il Governo non è stato capace di adottare nessuna misura utile ad arginare l'esplodere di una questione sociale che peggiora continuamente, nel sesto anno di crisi sociale ed conomica, acuita dalle misure di austerità assunte dalle politiche pubbliche. L'Italia ha così guadagnato il triste primato di avere, tra i 28 paesi dell'Ue, il tasso maggiore di incremento della popolazione a rischio di esclusione sociale e si avvia a rimanere l'unico Paese senza una forma di garanzia universalistica dei "bisogni primari".

Negli stessi mesi sono state presentate alle Camere tre proposte di legge per l'introduzione di una qualche forma di reddito garantito. Parlamentari del Partito Democratico ed i gruppi di Sinistra Ecologia e Libertà e del Movimento 5 Stelle hanno depositato tre distinti progetti di legge in favore di misure che in qualche modo hanno a che fare con il reddito minimo garantito.

È il momento che queste tre proposte diano vita ad una concreta, unica, iniziativa in favore di un reddito minimo garantito, che permetta di introdurre, realmente, una prima tutela delle persone a rischio povertà, esclusione sociale determinata dall'aggravamento della precarietà di vita.

Una misura capace di agevolare l'autodeterminazione individuale e investire sulle possibilità di miglioramento delle condizioni sociali, culturali, economiche delle donne e degli uomini.

L'Unione europea si avvia, peraltro, ad introdurre parametri sociali di valutazione delle politiche economiche nazionali che potrebbero costare all'Italia, stante l'inerzia sul fronte del contrasto alla povertà, sanzioni molto gravi come l'esclusione dalle risorse del Fondo Sociale Europeo.

Nella primavera scorsa inoltre circa 170 associazioni, raccogliendo oltre 50mila firme, hanno presentato una proposta di legge di iniziativa popolare per l'istituzione del reddito minimo garantito.

Da tempo in molte manifestazioni di movimenti sociali, studenteschi, di precari-e e disoccupate/i la richiesta di un reddito garantito è tra le prime ad essere urlate.

Una dimostrazione che nel Paese e in diversi settori sociali e della società civile l'introduzione di questa misura è già largamente sentita e condivisa. Lanciamo quindi un appello perché le forze politiche ed i singoli parlamentari sensibili al tema convergano su un'unica proposta legislativa, determinando una

"larga intesa parlamentare per il reddito garantito" che si misuri con i numeri necessari per giungere finalmente ad approvare una proposta di legge, la più universalistica, garantista e inclusiva possibile.

Una "larga intesa" in grado spostare l'asse delle politiche di austerity verso la definizione di nuovi diritti, a partire dal reddito garantito.

Consiglio direttivo Basic Income Network – Italia

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Di Giuseppe Allegri, Il Manifesto 27.11.2013

Un'altra farsa italiana. Quale reddito minimo? E' solo una social card

Siamo nel mezzo dell'ennesima commedia degli equivoci tipicamente italiana. Peccato che a farne le spese sia quel quarto di popolazione in sofferenza economica e sociale. Tutto inizia con una dichiarazione. «Negli emendamenti riformulati dai relatori vi è un importante intervento, seppur sperimentale, per il contrasto alla povertà: l'introduzione di un reddito minimo di inserimento che avvia un percorso in alcune grande aree metropolitane».

Queste le parole inspiegabilmente festanti utilizzate dal Vice-ministro Fassina per presentare uno strumento che nulla ha a che fare con il reddito minimo garantito (Rmg), con il quale è stato confuso sia dallo stesso Viceministro che da gran parte della stampa nazionale, chissà se per dolo o per ignoranza. L'emendamento governativo non introduce neanche la misura che la Commissione voluta dal Ministro del Welfare Giovannini nel giugno scorso definiva «un istituto nazionale di contrasto alla povertà»: il «Sostegno per l'inclusione attiva» (Sia). Di quella Commissione facevano parte autorevoli studiosi come Tito Boeri e Chiara Saraceno che proprio in questi giorni tornano a difendere quel progetto: un reddito minimo di inserimento (Rmi), su base familiare, di lotta alla povertà e all'esclusione sociale, i cui costi erano valutati intorno agli 8 miliardi di euro annui. Fassina gioisce per aver introdotto una non meglio specificata sperimentazione, finanziata con 120 milioni di euro triennali: 40 milioni annui. Siamo dopo il ridicolo: la farsa si affianca alla tragedia, purtroppo. A nulla vale ribadire, con la calma dell'argomentazione ragionevole, che questo sussidio, sperimentale, temporaneo e circoscritto, sembra essere un'estensione dell'inadeguata social card voluta dai Governi Berlusconi e Monti: una misura caritatevole, una piccola elemosina miserevole che riguarderebbe solo un frammento infinitesimale di quei milioni di famiglie in difficoltà.

Perciò fa ancora più rabbia e tristezza che sia un esponente della sinistra Pd a creare queste false aspettative, illudendo con proclami azzardati larga parte del suo elettorato impoverito e milioni di persone in condizioni esistenziali sempre più disagiate. C'è da sperare, e sarebbe comunque un bel problema, poiché stiamo parlando di un Vice-ministro all'Economia, che sia andato in confusione, sia riguardo alla misura, che all'entità dei fondi. Torna purtroppo necessario ribadire quanto di più scontato: facendo ammenda con le lettrici e i lettori più avveduti. A oltre venti anni dal primo richiamo delle istituzioni europee (1992), l'Italia rimane uno dei due Paesi Ue senza una qualche forma di Rmg.

È anche utile ricordare che il Rmg non è un sussidio di povertà, un'elemosina di Stato. È il tentativo di garantire il fondamentale diritto all'esistenza: un investimento pubblico che promuova l'autodeterminazione individuale e la solidarietà collettiva, per sfuggire ai ricatti. La base per nuove politiche sociali e un Welfare universale. Qualcosa che appare del tutto incomprensibile ai burocrati della Legge di stabilità; e questo è forse prevedibile. Ma anche agli esponenti della sinistra parlamentare e governativa; e questo ci dà la misura del fallimento di quella rappresentanza politica.

La proposta Letta non è il reddito minimo garantito.

In Europa, Italia e Grecia sono i due Paesi che ad oggi ancora non si sono dotati di un reddito minimo garantito, pacificamente riconosciuto come mero strumento di contrasto alla povertà:

sono altresì i due Paesi maggiormente in crisi. È un caso?

Quanto costa a questi due Paesi n o n garantire una dignità ai cittadini e alle cittadine che risiedono nei loro confini? Quanto spendono i Paesi per contrastare l'esclusione sociale e la povertà? Sicuramente non abbastanza.

Non è un caso, infatti, che sin dal '92 l'Europa ha richiamato il nostro Paese per non essersi dotata di questo strumento.

Quasi ad anteporsi a una classe politica che ormai sembra non essere più in grado di leggere la realtà che viviamo sulla nostra pelle, il tema del reddito è molto sentito nella società. e non solo

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nei salotti degli addetti ai lavori: con sfumature diverse, il tema è al centro dell'attenzione più o meno di tutti e tutte.

U n grande lavoro in questo senso è stato fatto durante la campagna per la proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre u n reddito minimo garantito che ci ha portato a raccogliere oltre 60 mila firme in tutto il Paese.

La campagna è stata anche l'occasione per sensibilizzare ulteriormente i nostri concittadini e le nostre concittadine sulla necessità di unirci per prendere parola i n merito e a confermarci, semmai ce ne fosse stato bisogno, che non possiamo più aspettare, che in Italia è necessario ed urgente l'introduzione di u n sostegno al reddito per contrastare la povertà, arginare il lavoro nero e liberarci dalla ricattabilità.

Sì, perché senza un reddito siamo ricattabili e n o n siamo padroni delle nostre vite: non possiamo orientarle nella direzione che più desideriamo, siamo invisibili e schiavi di un sistema che ci porta a occuparci della mera sopravvivenza. Le nostre vite non sono libere e. quindi, neanche noi.

Negli scorsi mesi, i n seguito alla raccolta firme, sono state depositate ben tre proposte di legge per introdurre nel nostro Paese u n sostegno al reddito da parte di Sei, P d e M5S: tre proposte di legge differenti perché ancora una volta la nostra miope classe politica ha perso l'occasione di poter creare u n intergruppo, anche ascoltando i promotori della campagna, per poter stendere una unica proposta di legge e introdurre questo prezioso strumento.

Per questo motivo negli scorsi giorni il B i n - Basic Income Network - ha lanciato un appello per

«una larga intesa in favore del reddito minimo garantito», che occorre sostenere e rilanciare.

Pretendiamo che la classe politica che siede i n Parlamento ci dia una chiara risposta in merito, che si metta a lavorare seriamente per una sola proposta d legge da discutere e conseguentemente da approvare. Non vogliamo più sentire che non ci sono i soldi per finanziare il reddito:

autorevoli studi dimostrano che i soldi ci sono e che il nostro governo sceglie come investirli.

Cara politica, cari politici, non ci sono scorciatoie o sotterfugi: non è più il momento della retorica e dei bei discorsi. Vogliamo un reddito. Ed ecco perché rischia di essere una goccia in mezzo al mare il maxiemendamento alla legge di stabilità che verrà votato nelle prossime ore e che tra le altre cose propone un finanziamento di 120 milioni di euro in tre anni recuperato dalle cosiddette pensioni d'oro, a fronte dei 7 miliardi che servirebbero, volto a introdurre il Sia (Sostegno per l'inclusione attiva), proposta da un gruppo di studio del ministero del Lavoro e delle politiche sociali lo scorso giugno.

Il Sia avrebbe come intento di sostenere e integrare il reddito delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà assoluta, fissata sui 600 euro a persona dall'Istat, a fronte di un patto d'inserimento con i beneficiari del reddito.

Non la vediamo come una prova di reddito, contrariamente a quanto titolano molti giornali a poche ore dal voto; vediamo questa proposta totalmente insufficiente.

L'amministrazione della res publica riguarda in primis le nostre vite e per questo pretendiamo i nostri diritti. Pretendiamo il reddito minimo garantito.

* PrecariaMente

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di Giuseppe Allegri ,“Il Manifesto” – 15/11/2013

Il diritto all'esistenza

Il reddito minimo è uno strumento di lotta alla povertà e per la tutela dell'autonomia individuale. È il momento di approvarlo. L'Unione Europea obbliga l'Italia a istituirlo e in Parlamento ci sono tre proposte di legge: è possibile arrivare ad una proposta condivisa?

Non è mai troppo tardi, verrebbe da dire con una punta di amarezza, per prevedere una qualche forma di reddito di base anche nel nostro Paese. Considerando che nelle legislazioni di molti Paesi europei questo passo è stato intrapreso già negli anni Settanta del Novecento, dinanzi alle prime trasformazioni del tardo-capitalismo finanziario globale, noi arriviamo al momento di crisi massima di questa parabola: nell'autunno 2013 della Grande Depressione italiana.

Le rilevazioni Istat del 2012 ci dicevano che quasi cinque milioni di persone (il 7,9% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta, mentre poco meno di dieci milioni (il 15,8% della popolazione) erano in condizioni di povertà relativa, con una disponibilità di 506 euro mensili. Circa un quarto della popolazione vive attualmente in condizioni di disagio economico e sociale, con picchi insostenibili tra le fasce giovanili e quelle più anziane. Intorno a questa vera e propria emergenza sociale si muove l'associazionismo laico e cattolico della campagna Miseria Ladra (Gruppo Abele e Libera) e della neonata «Alleanza contro la povertà in Italia», promossa da Acli ed altre organizzazioni del Terzo Settore. Per tentare di combattere l'esclusione sociale di queste fasce era stata fatta la proposta governativa del «Sussidio per l'inclusione attiva» promossa dal Ministro del Welfare Enrico Giovannini, in dialogo con quella stessa rete di associazioni cattoliche di lotta alla povertà. Per esplicita ammissione dello stesso Ministro questa misura non ha niente a che fare con il reddito, né di base, né garantito, né minimo. Si tratta di una misura sospesa tra l'elargizione di un'elemosina contro l'esclusione sociale, da far gestire alle reti del Terzo Settore. A queste si aggiungono misure di workfare che aumenterebbero la ricattabilità delle persone e senza scalfire il monopolio Confindustria-sindacati degli enti bilaterali e del Welfare sussidiario.

La novità, invece, è che in quest'ultimo anno sono state presentate alle Camere tre proposte di legge favorevoli all'introduzione di una qualche formula di reddito di base. Lo scorso 10 aprile una nutrita pattuglia di parlamentari Pd (da Danilo Leva a Enza Bruno Bossio e Marianna Madia) ha presentato un'iniziativa legislativa per l'«istituzione di un reddito minimo di cittadinanza attiva», che prevede

«forme reddituali dirette e indirette in grado di garantire un'esistenza libera e dignitosa», insieme con una serie di misure per indurre i beneficiare a «partecipare agli interventi di inserimento lavorativo e di integrazione sociale».

Poche settimane fa (manifesto del 24 ottobre) Sinistra Ecologia e Libertà ha proposto un articolato di legge per un «reddito minimo garantito» di 600 euro al mese per «tutti gli individui (inoccupati, disoccupati, precariamente occupati) che non superino gli 8000 euro annui», riprendendo il contenuto di una proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da 170 associazioni e oltre 50 mila firme. Ieri anche i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, capitanati da Daniele Pesco, Marco Baldassarre e Nunzia Catalfo hanno presentato la loro proposta di «reddito di cittadinanza», approfittando dei lavori parlamentari sulla Legge di Stabilità. Al di là dell'intestazione sembra di essere dinanzi alla previsione di un reddito minimo garantito, quantificato, similmente alla proposta Sel, in 600 euro mensili.

È il momento che i promotori di queste tre proposte si parlino. Per due ordini di ragioni. Da una parte sembra evidente che dinanzi agli urgenti e improrogabili temi sociali si possa definire una maggioranza di sinistra, alternativa alla grande coalizione governativa. Un'ipotesi difficile da praticare dentro le stringenti compatibilità dell'attuale compromesso storico guidato dal Colle, ma in grado di aprire una crepa a sinistra del Pd. Non è un caso che il sottosegretario Fassina, testa d'uovo della sinistra Pd nel governo, è risultato il più stizzito dalla proposta pentastellare. Fassina sa benissimo che proprio su quel versante possono aprirsi fronti comuni che metterebbero a repentaglio le "convergenze parallele" di un Pd ossessionato dall'incompatibilità di stare al Governo e ottenere consenso popolare.

Dall'altra, soprattutto, le tre proposte sul "reddito" pongono, con tonalità diverse, ma convergenti, l'urgenza di riformare il sistema di Welfare in senso più universalistico, inclusivo, garantista nei confronti delle persone, per la tutela della dignità umana e l'autodeterminazione individuale e collettiva. È questa la scommessa più alta e anche la più necessaria da giocare, perché permetterebbe alla sinistra di delineare la sua proposta per un'altra idea e pratica di società e di spesa pubblica.

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Dalle tre iniziative potrebbe uscire una proposta condivisa su pochi, decisivi punti: reddito di base come strumento di autonomia delle persone, riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico, introduzione di un salario minimo orario, strumenti indiretti di sostegno al reddito, per l'indipendenza dei beneficiari. Questa sarebbe una rivoluzione copernicana, che permetterebbe di ripensare la spesa pubblica, eliminando tutti gli elementi di corruzione, assistenzialismo, selettività, discriminazione che caratterizzano la crisi dello Stato sociale in Italia da un trentennio a questa parte:

dalla corsa alle false pensioni di invalidità, alla spesso iniqua cassa integrazione in deroga.

Per la sinistra questa è una sfida al sistema. Oggi può attualizzare parole e pratiche iscritte nel suo codice genetico, per lo meno da Thomas Paine in poi.

di Giuseppe Bronzini, “Il Manifesto”

Italia e Grecia sorde alla tutela per la dignità della persona

Dal 1992 l'Europa chiede l'istituzione del reddito minimo garantito. Siamo obbligati a tutelare quasi 10 milioni di poveri. A rischio le risorse del Fondo sociale

Si imputa spesso alle politiche europee di essere poco trasparenti, incerte e, dopo l'austerità, anche inique dal punto di vista sociale. Non è questo certamente il caso del reddito minimo garantito (rmg).

Sin dal 1992 la Commissione europea adottò una Raccomandazione che rendeva evidenti e molto precisi i contorni di questa misura di cui godevano già alcuni paesi sulla base delle loro Costituzioni nazionali che incentrano le loro architetture di diritti e prestazioni attorno al meta- principio della dignità della persona. L'idea di Delors, prima di procedere ai negoziati che avrebbero portato all'approvazione del Trattato di Maastricht e, quindi, al rilancio del mercato interno ed alla costruzione di un'unione monetaria, era di definire un pacchetto di trattamenti sociali «comuni» in modo da scoraggiare la concorrenza «sleale» tra stati (quella che viene chiamato social dumping). Questa operazione non riuscì interamente, anche perché allora le competenze sovranazionali erano molto più limitate, ma la Raccomandazione invitò solennemente tutti i paesi membri a dotarsi di schemi di reddito minimo garantito da erogarsi ai quei soggetti che, secondo parametri europei, sono a rischio di esclusione sociale, si da assicurare la percezione di almeno il 60% del reddito mediano da lavoro dipendente, calcolato per ciascun paese. A coloro che si trovano in situazione di difficoltà va assicurata anche una tariffazione agevolata per i servizi indispensabili (come luce e gas), un aiuto - se necessario - alle spese di affitto e la copertura di quelle impreviste. Questo insieme di misure mira a consentire a tutti di condurre una vita libera e dignitosa garantendo, almeno, i mezzi «elementari di vita».

Da quella data è quindi molto chiaro che tipo di prestazioni ogni paese deve assicurare; ad esempio per l'Italia la soglia del 60% prima indicata è pari a 600 euro mensili, così come è ben noto il numero di italiani che sono a rischio di esclusione sociale. Mentre il reddito di cittadinanza per definizione spetta a tutti, indipendentemente dalle condizioni lavorative e patrimoniali, l'rmg presuppone una situazione concreta di bisogno. Le finalità ultime delle due misure sono le medesime e cioè realizzare per tutti le precondizioni di ordine sociale di un gioco democratico equo ed parti partecipativo, quella che il presidente Roosevelt chiamava «freedom from want». Per questa ragione anche il reddito minimo garantito costituisce un corollario ineludibile di una nozione di cittadinanza autenticamente incentrata su basi solidaristiche «assicurando ad ogni persona bisognosa le condizioni materiali indispensabili per la sua esistenza» (Tribunale costituzionale tedesco 9.2.2010). Tornando all'Europa non solo la Raccomandazione del 1992 è stata reiterata nel 2008 in piena crisi economica internazionale, ma si è avuta una vera e propria «costituzionalizzazione» dell'rmg. Questo diritto sociale fondamentale è stato prima recepito nella Carta dei diritti dei lavoratori comunitari (1989), quindi nella Carta sociale europea del 1996 (del Consiglio d'Europa) e infine nella Carta dei diritti dell'Ue (più nota come Carta di Nizza, le cui norme godono dello «stesso valore giuridico dei Trattati») che al suo articolo 34 sancisce «il diritto all'assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un'esistenza libera e dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti». Quest'ultima norma rende evidente che la misura deve avere natura individuale ed è volta alla protezione della dignità delle persone, non ad un loro reinserimento lavorativo. Proprio il Parlamento europeo con una storica Risoluzione dell'ottobre del 2010 (adottata con 539 voti a favore e 19 contrari) non solo ha nuovamente invitato gli stati che ne sono privi (Italia e Grecia) ad adottare l'rmg, ma tutti i paesi a rispettare i parametri già fissati a livello europeo e ad erogarlo secondo modalità che siano rispettose della sua natura di diritto fondamentale. Il reddito minimo garantito non può essere quindi accompagnato da forme di controllo e sorveglianza che

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mortificano quella dignità degli individui che invece si vorrebbe tutelare. Non può neppure essere condizionato all'accettazione di offerte di lavoro che non siano compatibili con il livello professionale acquisito o il curriculum formativo. Infine il reddito minimo garantito, insieme al diritto alla formazione permanente e continua e a quello di accesso gratuito ad efficienti servizi di collocamento, costituiscono i tre pilastri della politiche cosiddette di flexicurity formalizzate nel 2007 con gli 8 principi comuni cui tutti gli stati dovrebbero ispirarsi in materia sociale. Si tratta, comunque, di una tendenza planetaria. Proprio alcuni dei paesi emergenti hanno fatto del l'rmg un momento essenziale delle loro politiche. In Brasile 34 milioni di persone vivono con la Bolsa social, subordinata - per chi è genitore - al solo obbligo di mandare i figli a scuola. Molti stati dell'India usano l'rmg per impedire la distruzione dell'economia rurale. Le Corti del Sudafrica lo riconoscono come un diritto fondamentale, cosi come la Corte interamericana dei diritti dell'uomo (come specificazione del «diritto alla vita»).

La reazione scomposta del sottosegretario Fassina alla proposta legislativa di reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle (peraltro cauta e prudente) lascia, quindi, sbigottiti. Si è prontamente smentito quanto sostenuto dallo stesso Pd che, sotto la dirigenza Bersani, inserì tra gli 8 punti da sottoporre al Movimento anche una proposta di reddito minimo garantito. Inoltre la relazione dei saggi nominati da Napolitano prima del varo del governo di larghe intese (di cui costituisce la piattaforma «ideale») ha espresso una valutazione positiva delle esperienze europee di rmg, in particolare per il modello francese di Revenu de solidarité active che prevede assegni pari al doppio di quelli previsti dal M5S.

Parlamentari del Pd hanno peraltro già depositato in questa come nella precedente legislatura proposte di legge. Posizioni del genere condannano l'Italia, tra le sue tante sventure, anche a dover avere l'unico partito socialdemocratico sul piano globale contrario a una garanzia universalistica dei «bisogni primari». Il disinteresse ostentato per la sorte di circa 10 milioni di poveri italiani finisce con il minare, alla fine, qualsiasi strategia di resistenza sociale. Ma c'è di più: l'Italia «deve» adottare una misura del genere che persino la Grecia in default ha annunciato, la scorsa settimana di voler approntare. Ci si illude forse che, mancando una direttiva Ue si tratti solo di una libera scelta, ma non di un obbligo? Si dimentica però che, nell'area euro e con l'avvio dei «semestri europei», le indicazioni sovranazionali (a cominciare dalle Raccomandazioni) si fanno sempre più stringenti sui paesi riottosi, soprattutto se questi sono a rischio di dover chiedere, come l'Italia, aiuti (ne abbiamo visto qualcosa con la famosa lettera della Bce).

In ogni caso l'Italia è obbligata a perseguire gli obiettivi fissati dalla «Strategia 20-20» che nel 2010 ha sostituito quella di Lisbona che ci impone di ridurre (nel decennio) del 20% il numero dei nostri poveri.

In mancanza dell'unico strumento in grado di aggredire direttamente il fenomeno, l'Italia ha, tra i 28 paesi dell'Unione, il tasso più elevato di crescita dei soggetti a rischio di esclusione sociale, il che potrebbe portare (se ne sta discutendo) ad escluderci dalle risorse del Fondo sociale europeo, cioè dalle uniche risorse che in qualche modo possono essere giocate nella crisi. Insomma, caro vice-ministro, se non volete farlo per convinzione, fatelo perché è un obbligo ed è troppo rischioso violarlo ancora a lungo.

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di Andrea Fumagalli, “Il Manifesto”

Proposta M5S

Una proposta innovativa con diverse ombre

Se poteva esserci qualcosa di utile nella polemica del vice-ministro Fassina nei confronti della proposta del M5S sul Reddito di Cittadinanza (RdC) era di approfondire in modo serio gli aspetti di costo e di sostenibilità finanziaria di una simile misura. Così non è stato. Secondo i dati proposti dalla proposta di legge sul RdC (che sarebbe meglio chiamare Reddito di Base, perché una simile misura non può che essere rivolta a tutti i residenti, cittadini o non cittadini italiani, senza alcuna discriminazione di base), il M5S stima che le risorse necessarie perché tutti abbiamo come minimo un reddito pari a 600 euro mensili ammonterebbero a poco più di 19 miliardi. Il RdC è erogato sottoforma di integrazione, e non al 100&. Se un pensionato o un precario ricevono un reddito medio mensile di 400 euro, riceveranno un'integrazione sino a 600 euro (quindi 200 euro). Il che è positivo perché in tal modo si crea una barriera alla diffusione di lavoro precari e sottopagati. Occorre inoltre considerare le risorse che già oggi lo Stato eroga sotto forma di reddito diretto, tramite trasferimenti o ammortizzatori sociali e che verrebbero in parte sostituite dall'introduzione di un RdC. Si tratta di una cifra che oscilla (per un livello sino a 600 euro) intorno ai 12-13 miliardi di euro. Una cifra che ogni anno viene già messa a bilancio dello Stato, non rientra nella legge di stabilità e che quindi occorre sottrarre al computo dei costi dello stesso RdC. Ne consegue che la stima dei 19 miliardi necessari per sostenere il costo dell'introduzione di un RdC è la cifra netta, non lorda.

Quando Fassina afferma, senza specificazioni, che il costo del RdC è 30 miliardi, probabilmente fa riferimento alla cifra lorda. Infatti, calcoli già pubblicati sui «Quaderni di San Precario», con riferimento al 2010 e 2011, quando i poveri relativi erano circa 8 milioni, confermano la stima del M5S che ragiona su una povertà che nel 2012 ha colpito più di 9 milioni di individui (+17% dal 2011). Per quanto riguarda il finanziamento, finalmente a carico della fiscalità generale e non dei contributi sociali, la proposta del M5S - per quel che è dato di sapere - intende reperire le risorse dalle pensioni d'oro, dalla rinuncia agli F35, dall'introduzione dell'Imu per gli immobili della chiesa, dall'introduzione di aliquote più alte sulla rendita finanziaria e da altri interventi, in buona parte condivisibili, ma che solo marginalmente toccano la struttura altamente iniqua del sistema fiscale italiano. La proposta di legge presenta aspetti positivi e innovativi che vanno sottolineati: riforma dei Centri dell'Impiego, l'istituzione un salario minimo di 9 euro l'ora (con buona pace della Camusso), la possibile sostituzione a regime dell'attuale sistema, selettivo, iniquo, distorto e clientelare, degli ammortizzatori sociali (tanto comodo alla Confindustria come al sindacato), la possibilità di rifiutare sino a tre proposte di offerta di lavoro congrua (ovvero in linea con la condizione professionale, reddituale e territoriale del beneficiario). Ma la cultura dell'etica del lavoro e del workfare continua comunque ad aleggiare:

occorre una dichiarazione di disponibilità lavorativa (non meglio precisata) e viene introdotto l'obbligo (?) di prestare comunque un numero limitato di ore di lavori utili (tipo servizio civile?). Si tratta di misure che contraddicono l'idea di un reddito di base come remunerazione della vita produttiva (e quindi non assistenziale), finalizzato al diritto di scelta del lavoro, in nome dell'operosità umana.

Pur con questi limiti, la proposta del M5S (al pari di quella di Sel, che è però meno articolata) appare distante anni luce da quella del Pd (sponsorizzata proprio da Fassina), che prevede l'introduzione di reddito di inclusione al lavoro, novello strumento di ricatto, subalternità, finalizzato a scaricare sulla collettività il costo sociale dello sfruttamento del lavoro precario e del lavoro tout court in nome del profitto e delle compatibilità (inique) del sistema attuale.

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di Chiara Saraceno - 03/12/2013

La beffa del governo

Il governo ha stanziato 120 milioni per allargare la sperimentazione della carta acquisti. Ma una cifra così ridotta per una platea così ristretta non costituisce certo l'atteso arrivo anche in Italia di quella garanzia di reddito per i poveri che esiste in quasi tutti i paesi Ue

120 milioni in tre anni per allargare un po' la sperimentazione della nuova carta acquisti destinata alle famiglie povere assolute (Isee non superiore a 3.000 euro) con figli minori. Una sperimentazione già avviata nei 12 capoluoghi di provincia e, utilizzando i fondi europei, negli ambiti territoriali delle tre regioni meridionali. Uno stanziamento così ridotto per una platea così territorialmente e categorialmente ristretta non può essere certo annunciato come il lungamente atteso arrivo anche in Italia di quella garanzia di reddito per i poveri che esiste in quasi tutti i paesi Ue, oltre che in diversi paesi Ocse. L’esiguità dello stanziamento appare quasi una beffa, a fronte dei miliardi (almeno 4) impegnati per compensare l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa per quest’anno, e che ancora non sembrano bastare del tutto.

Le stime più conservative, incluse quelle della commissione di esperti istituita dallo stesso ministro Giovannini, valutano che, per coprire almeno la metà del gap tra il reddito disponibile e la soglia di povertà assoluta alla totalità dei poveri, occorrerebbero tra il miliardo e il miliardo e mezzo circa all’anno. Nonostante gli sforzi del ministro Giovannini e della viceministra Guerra, il governo delle ex larghe intese onora gli impegni presi solo verso una parte del paese e della sua (ex) maggioranza.

L'introduzione di una misura di sostegno al reddito a livello nazionale per chi si trova in povertà, a prescindere da dove abita e in che famiglia vive, così come la revisione dell'Imu, faceva, infatti, parte degli impegni presi da Letta all'atto del suo insediamento. Purtroppo, il Pd sembra persino essersi dimenticato di avere depositato una proposta di legge in materia. A parte il ministro Giovannini e la viceministra Guerra, il sostegno al reddito per il poveri non ha trovato nel governo e nella sua maggioranza sostenitori altrettanto convinti, tenaci (e ricattatori) di quelli che si sono battuti per l’abolizione dell'Imu per quest'anno e la sua ristrutturazione per l'anno prossimo. Con l'ulteriore beffa che questa ristrutturazione, sotto forma di Iuc, sia più svantaggiosa dell’Imu proprio per i gruppi sociali in cui più elevata è l’incidenza della povertà.

La Iuc, infatti, graverà anche sugli affittuari. Dato che, a differenza che nell’Imu, viene lasciato ai comuni decidere se, quanto e a chi effettuare detrazioni, a seconda del comune, potrebbe inoltre essere più svantaggiosa per le famiglie numerose con figli.

La scarsità delle risorse messe a disposizione, inoltre, crea una disparità entro la stessa categoria di poveri potenziali destinatari della nuova carta acquisti. Non basterà che siano in condizione di povertà assoluta, vivano in una famiglia (deve esserci almeno un minore) e città (ammessa alla sperimentazione) "giuste" e siano disponibili a sottostare a tutte le condizioni richieste. La scarsità dei fondi obbligherà a formare graduatorie del bisogno, riducendo e frammentando ancora una volta proprio i diritti dei più vulnerabili, minori inclusi.

I poveri, in Italia, nonostante siano in aumento, continuano ad essere considerati e trattati da cittadini di seconda o terza categoria. Le “sperimentazioni”, di fatto, non servono per mettere a punto uno strumento efficace ed efficiente, da attuare poi su tutto il territorio nazionale e per tutti coloro che si trovano in condizione di bisogno. Servono solo a coprire la mancanza di universalismo e a creare

“categorie di meritevoli” più o meno casuali e temporanee. È già successo con la sperimentazione del reddito minimo di inserimento di una quindicina di anni fa.

Per altro, anche questo, poco più che simbolico, allargamento della "sperimentazione" della nuova carta acquisti ha un finanziamento discutibile e perciò incerto. Non si capisce perché la solidarietà aggiuntiva debba venire solo dalle pensioni alte (per altro già colpite per il secondo anno consecutivo dalla mancata indicizzazione) e non da tutti i redditi, e patrimoni, alti. Colpire solo le pensioni alte avrebbe senso e giustificazione solo se il loro importo fosse sproporzionato rispetto ai contributi versati. Il che è vero in alcuni casi, ma non sempre (si veda il recente articolo su lavoce.info in argomento1). C'è quindi il rischio che qualcuno faccia ricorso alla Corte Costituzionale e che questa bocci, come è già successo, il prelievo. Ed allora il governo potrà scaricare sulla Corte la propria incapacità a trovare una forma equa e dignitosa di sostegno al reddito dei poveri.

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(1) T. Boeri e T. Nannicini, Pensioni d’oro. Il diavolo sta nei dettagli

Lavoro Male Comune

Lavoro Male Comune. Un libro coraggioso, supportato da una solida analisi economica, che descrive l'attuale situazione socioeconomica (per la quale ricchezza materiale e precarietà sociale sono due facce della stessa medaglia) e chiarisce i presupposti teorico metodologi di una proposta forte, alla quale Fumagalli lavora con intelligenza e dedizione da molti anni in diverse realtà associative e di movimento (BIN, San Precario, Uninomade): il reddito di base garantito.

Non è un libro per addetti ai lavori, ma per un pubblico esteso, scritto con l'obiettivo di rendere massimamente fruibili alcune categorie della cosiddetta globalizzazione o, per usare il gergo del libro, del biocapitalismo.

Il filo conduttore è il recente passaggio del capitalismo dalla sua fase industriale a quella odierna, propriamente finanziaria e cognitiva. "Lavoro Male Comune" ci permette di capire cosa vuol dire che in questa nuova stagione la vita stessa è messa a lavoro e produce valore in termini capitalistici; e che l'idea del ritorno al lavoro stabile (keynesiano, proprio del capitalismo industriale) è una mera illusione. Una illusione gravida di conseguenze negative.

"Lavoro Male Comune" discute del significato e del senso del lavoro oggi, alla luce delle nuove condizioni di organizzazione della produzione e di creazione di ricchezza. E' composto da tre capitoli e due utili appendici statistico metodologiche. Nel primo capitolo si passa in rassegna l'ideologia del lavoro e ben si capisce perché il lavoro non è un bene, tanto meno un bene comune. Nel capitalismo il lavoro è sempre stata una merce di scambio, tramite la quale chi la vende ha garantite le condizioni d'esistenza con un salario (oggi sempre meno, come dimostrano i working poor), chi la compra riesce a generare profitti e saldare (se i soggetti non coincidono) le rendite proprietarie e gli interessi bancari.

Dire che il lavoro è un bene (comune o meno) vuol dire credere che esso sia formalmente libero, che chi lo eroga può anche scegliere di non erogarlo, che non ci sono condizioni di necessità dietro la scelta di lavorare. Se non cediamo alle fantasticherie prive d'immaginazione degli economisti liberisti, non ci possono essere dubbi in merito: si è costretti a lavorare per vivere, la scelta è quasi sempre obbligata! Il lavoro è un male comune perché, come accennato in una delle tre efficaci sintesi che precede i capitoli, oggi più che mai nel momento in cui l'attività lavorativa coinvolge sempre più non solo il corpo ma l'insieme delle facoltà umane, da quelle fisiche a quelle mentali, assistiamo alla mercificazione totale del lavoro.

Il secondo è una fotografia socioeconomica dell'attuale situazione italiana. Sono analizzati criticamente i principali indicatori del mercato del lavoro e si mette in evidenza come questi siano del tutto insufficienti per comprendere le caratteristiche del mercato attuale. Per fare un esempio, l'attuale definizione di occupato/disoccupato non prende in considerazione le nuove figure lavorative emerse in quest'ultimo passaggio capitalistico. E' disoccupata una persona che ha almeno quindici anni, che non ha svolto nemmeno un'ora di lavoro retribuito nella settimana dell'indagine, che è disponibile a lavorare nelle due settimane successive ed ha svolto almeno un'attività di ricerca di lavoro nell'ultimo mese. La compresenza delle condizioni non considera buona parte dei lavoratori "potenziali attivi": i precari, gli

"scoraggiati" e i giovani che ne lavorano ne studiano. Se l'Istat dice che in Italia ci sono oggi all'incirca 3,5 milioni di disoccupati; questi, a conti fatti, considerando anche le categorie appena accennate, sono all'incirca il doppio. Ma il problema non è il conteggio di per sé, certamente utile, ma la dimostrazione che le categorie in uso non sono adeguate a comprendere la realtà sociale che è profondamente cambiata. Il metro è rimasto industriale mentre la società è andata da un'altra parte.

Nel terzo capitolo ci si pone la fatidica domanda: "che fare"? Per Fumagalli, l'abbiamo detto, il reddito di base ricopre un ruolo fondamentale. Su questo punto è bene essere chiari: il reddito di base di cui si parla nel libro ha caratteristiche precise, diverse da quelle in voga tra i partiti e i sindacati, per le quali il reddito è un sussidio per chi ha perso il lavoro o un aiuto alle fasce deboli. In questo caso, di converso, il reddito di base deve essere individuale, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale.

Su tali punti, a livello istituzionale e del sistema di rappresentanza c'è bisogno di un salto culturale che in Italia non si intravede; c'è bisogno di capire che molte delle dicotomie classiche della società industriale, a partire da quella occupato/disoccupato, lavoro produttivo/improduttivo, eccetera, sono definitivamente saltate in aria: oggi anche il disoccupato e il povero sono diventati produttivi! Oggi siamo in un periodo storico in cui i fattori immateriali del lavoro e la cooperazione sociale sono diventati determinanti per la produzione della ricchezza: non si ha dunque diritto al reddito solo se un padrone è fallito o ti ha buttato per strada, ma perché siamo parte della cooperazione sociale, ne siamo

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tutti coinvolti, tutti produciamo ricchezza, ma solo in pochi riescono a valorizzarla capitalisticamente:

guardiamo la tv e sale l'audience (che decide il valore dei contratti pubblicitari. Andiamo al supermercato e forniamo informazioni che vengono utilizzate nei rapporti con la fornitura.

Apprendiamo e facciamo esperienze gratuitamente per poi metterle a valore sotto comando (e guadagno) altrui. Più che alla fine del lavoro assistiamo al lavoro senza fine.

Il reddito di base è la remunerazione di un lavoro svolto e non retribuito, non è la concessione di uno stato buono o di un ente filantropico. Detto in termini tecnici, il reddito non va inteso come una politica

"re"distributiva (di memoria socialista o progressista), bensì come una variabile distributiva primaria, che interviene direttamente nella retribuzione dei fattori produttivi. In questo senso il reddito di base deve essere garantito come il salario, il profitto e la rendita. Perché il reddito di base remunera quelle attività produttive di valore che oggi non vengono certificate, remunera le qualità sociali ed umane delle diverse singolarità che sono messe al lavoro, remunera una quota della cooperazione sociale nella quale siamo tutti coinvolti.

Una ultima annotazione sul reddito di base, riportata peraltro su questo giornale un anno fa dal sottoscritto, riguarda il suo essere ad un tempo una politica riformista e rivoluzionaria. Perché riformista l'abbiamo detto, perché impone il riconoscimento della dimensione sociale e cooperativa della produzione di ricchezza. Perché rivoluzionaria mi piace dirlo, in modo schematico, con un esempio relativo alla Calabria ed al Mezzogiorno, esempio che può essere esteso a molte altre aree: il reddito di base sottrarrebbe i giovani (e tutti coloro i quali si trovano in condizioni di povertà) dal ricatto sociale clientelare. Seppur minimo, con un reddito garantito non si è più obbligati a condividere le relazioni clientelari, cosi come si è liberi di non obbedire ai valori di affiliazione e sudditanza ancora determinanti per una vita dignitosa in terre neo feudali. In altri termini, il reddito di base moltiplicherebbe l'indisponibilità dei giovani meridionali a far parte dell'attuale assetto di potere clientelare, il quale si troverebbe svuotato senza più sudditi ai quali concedere favori ma con cittadini liberi titolari di diritti fondamentali. Le ultime elezioni sono state un segno forte di tale indisponibilità in Calabria: accanto ad un abbondante 35% di non votanti, oltre 230 mila persone (il 25% dei votanti), alla camera, hanno espresso un voto di protesta e premiato il movimento di Beppe Grillo che come primo punto programmatico ha il reddito di cittadinanza, purtroppo declinato come sussidio di disoccupazione. Ma non è questo il punto, il dato che emerge dall'ultima tornata elettorale è quello della crescente indisponibilità dei residenti verso le reti locali (politico clientelari) di potere e, di converso, la debolezza di queste ultime a regolare il contesto come facevano un tempo. Si tratta di deficit di governance, nel senso di deficit nelle capacità gestionali delle clientele da parte delle reti locali di potere. Il reddito di base aumenterebbe tali deficit, minerebbe alla base il sistema di scambio clientelare e le reti di potere che su di esso si sono storicamente costruite. Il reddito di base è un modo per favorire ed accelerare l'agonia del neo feudalesimo meridionale.

Francesco Maria Pezzull Associazione Sud Comune

INDICE:

Lavoro Male Comune (AltrAgricoltura Nord Est) pag. 3

Appello per una larga intesa per il reddito garantito (Consiglio direttivo Basic Income Network, Italia) pag. 7

Un’altra farsa italiana. Quale reddito minimo? E’ solo una social card (Giuseppe Allegri) pag. 8

La proposta Letta non è il reddito minimo garantito (*Precariamente) pag. 9

Il diritto all’esistenza (Giuseppe Allegri) pag. 10

Italia e Grecia sorde alla tutela per la dignità della persona (Giuseppe Bronzini) pag. 11

Proposta M5S (Andrera Fumagalli) pag. 13

La beffa del governo (Chiara Saraceno) pag. 14

Lavoro Male Comune (Francesco Maria Pezzul) pag. 15

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