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Circolare approfondimenti, notizie e informazioni

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Academic year: 2022

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novembre 2020

Circolare

approfondimenti, notizie e informazioni

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novembre 2020

1. AMBIENTE E SICUREZZA ... 3

di Marina Zalin…..

2. GIURISPRUDENZA ANNOTATA …

...75

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di Ciro Santoriello

3. MISURE CAUTELARI ……….. 7

di Michele Bonsegna e Serena Miceli

4. PROFILI INTERNAZIONALI ... 11

di Giovanni Tartaglia Polcini e Paola Porcelli

5. SOCIETÀ ED ENTI PUBBLICI

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di Carlo Manacorda

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novembre 2020

AMBIENTE E SICUREZZA

di Marina Zalin, Butti & Partners, Verona

Il reato di combustione illecita di rifiuti e le sanzioni interdittive di cui al D.Lgs. 231/01

La Corte di cassazione, con la sentenza resa dalla sez. III, n. 18112 del 12 giugno 2020, esamina le ricadute sanzionatorie sull’ente nell’ipotesi di condanna del legale rappresentante per il reato di combustione illecita di rifiuti, punito dall’art. 256-bis del D.Lgs. 152/2006.

La disposizione sanziona con la pena della reclusione da due a cinque anni chiunque appicchi il fuoco a rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato.

Qualora il reato sia commesso nell’ambito di un’attività d’impresa, oltre a un trattamento sanzionatorio aggravato a carico del responsabile dell’impresa, trovano applicazione le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2 D.Lgs. 231/2001, nonostante tale reato non sia inserito nell’elenco dei reati presupposto.

Nello specifico caso esaminato dalla suprema Corte, il ricorrente aveva impugnato la sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. in relazione al reato di combustione illecita di rifiuti, che gli era stato contestato per avere appiccato il fuoco a un cumulo di rifiuti depositati in modo incontrollato all’interno dei locali dell’impresa di cui era legale rappresentante.

L’impugnazione aveva ad oggetto soltanto le sanzioni interdittive applicate all’ente, che non avevano costituito oggetto di “patteggiamento” e consistenti nell’interdizione dall’esercizio dell’attività, nella sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, nel divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, nell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti o contributi e nel divieto di pubblicizzare beni o servizi ,per un periodo di tre mesi.

Secondo la prospettazione del ricorrente, tali sanzioni interdittive avrebbero dovuto essere annullate, stante la loro natura di sanzioni accessorie conseguenti automaticamente alla sola contestazione della fattispecie di reato aggravata, mentre nel caso concreto sarebbe stata contestata soltanto la fattispecie semplice di cui all’art. 256-bis, comma 1 D.Lgs. 152/2006.

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La Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso valorizzando due argomenti.

Anzitutto, rileva come la fattispecie aggravata sia stata correttamente contestata “in fatto”, cioè attraverso una descrizione dalla quale si evince chiaramente che l’incendio era stato appiccato all’interno dell’azienda di cui l’imputato è titolare, eliminando così ogni dubbio in merito alla correttezza dell’applicazione delle sanzioni interdittive a carico dell’ente.

In secondo luogo, la suprema Corte osserva che tali sanzioni non trovano alcun ostacolo applicativo nell’art. 445 c.p.p. - come prospettato dal ricorrente -, che esclude, nelle ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti, le sole pene accessorie e misure di sicurezza, ma non le sanzioni amministrative accessorie e neppure le sanzioni di cui al D.Lgs. 231/2001.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, la Corte di cassazione conferma l’applicazione delle sanzioni interdittive a carico dell’ente, in conseguenza della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., per il reato di combustione illecita di rifiuti commesso dal suo legale rappresentante.

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GIURISPRUDENZA ANNOTATA

di Ciro Santoriello, Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Torino

Corte cassazione, sez. V, c.c. 29 settembre 2020 (dep. 4 novembre

2020), n. 30753

In tema di responsabilità da reato dagli enti collettivi, la contestazione dell’illecito alla persona giuridica deve specificare quale sia il vantaggio che questa ha ottenuto o l’interesse della medesima che è stato perseguito mediante la realizzazione del reato presupposto. Quando tale elemento non sia presente nella contestazione, il giudice dovrà invitare il pubblico ministero ad integrare la contestazione e solo in caso di mancato adempimento all’invito potrà dichiarare la nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale e rinviare gli atti alla Procura per provvedere altrimenti (1)

Il tema della corretta formulazione dell’imputazione viene di frequente all’attenzione della giurisprudenza.

Che la contestazione del fatto all’accusato debba rispondere a criteri di completezza e determinatezza è sancito dalla lett. b) dell’art. 417 c.p.p.

secondo cui la richiesta di rinvio a giudizio (ovvero il decreto di citazione) deve contenere “l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge”.

Medesima disciplina è sancita con riferimento al processo nei confronti degli enti collettivi.

Secondo l'art. 59, comma 2, D.Lgs. 231/2001 la contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell'ente giuridico, l'enunciazione in forma chiara e precisa del fatto che fonda la responsabilità, l'indicazione del reato presupposto e delle fonti di prova.

Quanto all’indicazione del reato presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, deve ritenersi che l’esposizione non debba differire, quanto a completezza di contenuto, dalla formulazione della imputazione cui il pubblico ministero procede nell’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona fisica.

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Pertanto il pubblico ministero dovrà indicare che il reato presupposto è stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica, nonché quale sia la natura del rapporto funzionale che lega l'autore dell'illecito penale allo stesso ente, evidenziando anche l'eventuale insufficienza dei modelli organizzativi, di gestione o di controllo operanti all'interno della società.

Oltre a questo, nella decisione si indica che l’imputazione deve precisare anche in cosa sia consistito il vantaggio ottenuto dalla società a seguito della commissione dell’illecito; trattasi di profilo rilevante e che si ricollega a quanto di recente sta affermando la giurisprudenza in tema di responsabilità degli enti collettivo per i reati di lesioni o omicidi colposi conseguenti alla violazione della normativa antinfortunistica (Cass., sez. IV, 13 settembre 2019, n.

16713; Cass., sez. IV, 27 novembre 2019, n. 49775; Cass. Sez. IV, 24 settembre 2019, n. 43656; Cass., sez. IV, 24 gennaio 2019, n. 16598), nel tentativo di arginare una tendenza – a volte riscontrabile nelle decisioni di merito – secondo cui, specie con riferimento agli illeciti colposi addebitabili a un soggetto che riveste la qualifica di datore di lavoro in una società, la persona giuridica sarebbe beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica.

Alla luce di quanto (sia pur sommariamente) indicato nella pronuncia in esame, pare di poter sostenere che la Cassazione pretenda che la contestazione nei confronti dell’ente non si limiti ad asserire la presenza di un vantaggio in capo all’ente ma precisi come il delitto commesso dal singolo rispondesse ex ante a un interesse della società, o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio.

Quando questa precisazione manchi, il giudice dovrà richiedere al pubblico ministero di integrare la contestazione e solo in caso di inerzia da parte del titolare della pubblica accusa potrà rinviare allo stesso gli atti dichiarando la nullità dell’esercizio dell’azione penale

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MISURE CAUTELARI

di Michele Bonsegna e Serena Miceli, avvocati penalisti

La presunta natura cautelare dell’informazione antimafia interdittiva: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea risponde al TAR Bari

Quando si discorre di misure cautelari a carico degli enti, non ci si può più esimere dal confrontarle con l’arsenale delle misure di prevenzione previste dal codice antimafia.

Nella Circolare 231 di gennaio 2020, vi avevamo dato conto di un’interessante ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa dal TAR Bari.

L’ordinanza n. 28/2020 aveva il pregio di rimettere questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affinché la stessa chiarisse se gli artt. 91, 92 e 93 D.Lgs.159/2011 fossero compatibili con il principio del contraddittorio, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endo- procedimentale in favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di rilasciare un’interdittiva.

La tanto attesa risposta della Corte sovranazionale è finalmente arrivata, per mezzo dell’ordinanza n. 17/2020 della Sezione IX della Corte di Giustizia.

Prima di esaminarla, tuttavia, occorre ripercorrere brevemente la vicenda che ha portato alla sua adozione.

Ebbene, il caso esaminato dal TAR pugliese traeva origine dal ricorso presentato da un’impresa avverso il provvedimento prefettizio che aveva disposto l’interdittiva antimafia, a causa di alcuni elementi indiziari da cui la Prefettura aveva dedotto il pericolo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 91.

L’organo di giustizia amministrativa, tuttavia, proprio a causa del ragionamento indiziario su cui si basa il procedimento, non ha ritenuto rispettato il principio del contraddittorio, poiché se l’impresa fosse stata coinvolta avrebbe avuto modo di fornire delucidazioni sulle accuse che le erano mosse e di apportare anche elementi che magari la Prefettura avrebbe potuto e dovuto valutare prima di emettere il provvedimento interdittivo.

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Il Consiglio di Stato, dal canto suo, ha sempre offerto un salvacondotto al procedimento, definendo la misura interdittiva come di carattere preventivo, di anticipazione della difesa sociale, ragion per cui ben potevano essere omesse le garanzie dell’ordinario procedimento amministrativo che prevede la partecipazione dell’interessato.

Il TAR di Bari, dal canto suo, non condivide l’assunto della natura cautelare del provvedimento, poiché “non si tratta di misura provvisoria e strumentale, adottata in vista di un provvedimento che definisca, con caratteristiche di stabilità e inoppugnabilità, il rapporto giuridico controverso, bensì di atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili”, soprattutto se si considera che all’interdittiva “segue il ritiro di un titolo pubblico o il recesso o la risoluzione contrattuale, nonché la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che, da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale sono stati estromessi”.

Se così è, allora, l’interdittiva perde ogni presunta natura cautelare e si mostra per quel che è realmente, una misura in grado di mandare a morte certa l’impresa.

E dunque, il procedimento amministrativo che conduce alla sua adozione non potrà che essere partecipato, onde tutelare il supremo principio del contraddittorio che, come giustamente scriveva il TAR, è “espressione fondamentale di civiltà giuridica europea”.

L’art. 93 del codice antimafia prevede invece un coinvolgimento dell’interessato solo eventuale, rimesso alla discrezionalità del Prefetto.

Rebus sic stantibus, il TAR ha ritenuto che le norme richiamate potessero porsi in contrasto con il principio del contraddittorio, per come sancito dall’art.

41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e per come espresso anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che, come noto, entra nel diritto dell’Unione tramite l’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea.

Ciò posto, ha rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione affinché si esprimesse sulla questione pregiudiziale sollevata e ha sospeso il procedimento nell’attesa della decisione della Corte sovranazionale.

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L’ordinanza, dunque, aveva avuto il merito di attribuire il giusto peso alla mancata attivazione del contraddittorio in un procedimento sì delicato: si poneva dunque come speranza per le imprese di ottenere la possibilità di poter essere interpellate e potersi difendere prima che fosse troppo tardi.

L’esito della vicenda è tuttavia inaspettatamente deludente, poiché la Corte di Giustizia ha ritenuto la questione “irricevibile”. Così facendo, dunque, non si è espressa sul merito, rigettando la domanda pregiudiziale con mera ordinanza.

Ebbene, secondo la Corte sovranazionale, il giudice del rinvio non avrebbe dimostrato l’esistenza di un criterio di collegamento tra il diritto dell’Unione e l’informazione antimafia interdittiva adottata dalla Prefettura.

Secondo la Corte dunque, la normativa oggetto del procedimento principale non sembra ricadere nell’ambito del perimetro di applicazione del diritto europeo.

Invero, il rinvio pregiudiziale è uno strumento previsto dagli articoli 19, paragrafo 3, lettera b), del trattato sull'Unione Europea (in breve «TUE») e 267 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in breve «TFUE»).

Esso ha lo scopo di garantire l'interpretazione e l'applicazione uniformi di tale diritto in seno all'Unione, fornendo ai giudici degli Stati membri uno strumento che consenta loro di sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale, questioni riguardanti l'interpretazione del diritto dell'Unione o la validità di atti adottati dalle istituzioni, organi o organismi dell'Unione.

Il TAR ha richiamato l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che tuttavia si riferisce, con riguardo al principio di “buona amministrazione”, solo alle istituzioni dell’Unione europea: non può valere, quindi, nei confronti delle istituzioni e degli organi degli Stati membri.

Esiste, del resto, certamente un principio generale del diritto di difesa, in virtù del quale “i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione”.

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Tuttavia, il giudice a quo avrebbe dovuto spiegare perché la normativa nazionale relativa all’informazione interdittiva antimafia rientrasse nel raggio di applicazione del diritto europeo.

Secondo i giudici di Lussemburgo questo collegamento non è stato fatto.

Per tali ragioni, la domanda di pronuncia pregiudiziale è stata dichiarata irricevibile, con buona pace di tutte quelle imprese che aspettavano un esito diverso e una sentenza dirompente che avrebbe potuto alterare le carte in tavola e offrire loro un tavolo paritetico cui sedersi per tentare di evitare la misura interdittiva.

Ciò non significa, tuttavia, che questo sia l’esito definitivo della vicenda: il giudice a quo, infatti potrebbe, a seguito di questa pronuncia, argomentare diversamente il collegamento fra il diritto europeo e la normativa italiana di riferimento e ottenere una sentenza di diverso segno.

Ad esempio, nonostante la normativa di riferimento non sia disciplinata da fonti europee, si potrebbe proporre una lettura della stessa che ne metta in luce la rilevanza rispetto al diritto dell’unione.

Non resta che attendere e sperare in un’ordinanza di rimessione che colpisca nel segno e conduca la Corte di Giustizia a esprimersi nel merito.

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PROFILI INTERNAZIONALI

di Giovanni Tartaglia Polcini, Magistrato, Consigliere giuridico presso il Ministero degli Affari Esteri e Paola Porcelli, Avvocato, patrocinante in Cassazione, Foro di Benevento

La liability of legal persons nell’attività multilaterale del 2021 La responsabilità degli Enti derivante da reato sarà oggetto di attenzione nei due prossimi principali esercizi multilaterali che vedranno l’Italia impegnata nel corso del 2021.

A) OCSE valutazione passiva di quarta fase nel meccanismo di peer review sulla corruzione internazionale

Come noto, dal 4 luglio 2001 sono pienamente efficaci in Italia le norme anche penali introdotte in esecuzione della Convenzione dell’OCSE, entrata in vigore per l’Italia dal 15 febbraio 2001.

Dal 25 ottobre 2000 è in vigore il nuovo articolo 322-bis del codice penale (introdotto dalla legge di ratifica della Convenzione, del 29 settembre 2000 n. 300) e le modifiche agli artt. 321 (Pene per il corruttore) e 322, comma 2 (Istigazione alla corruzione) del codice penale, prevedendo che dette disposizioni si applichino anche “a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali”.

Dal 4 luglio 2001 è in vigore anche il Decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231 che disciplina la responsabilità amministrativa delle società per i reati di corruzione sia interna che all’estero, emanato in forza della delega al Governo disposta dall’art. 11 della Legge 300/2000.

L’Italia sarà soggetta alla verifica di quarta fase del ciclo di revisone della Convenzione OCSE sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali.

Il questionario predisposto dal Gruppo Anticorruzione dell’OCSE, organismo che sorveglia l’implementazione del più importante strumento di contrasto

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alla foreign bribery da parte dei Paesi membri, dedica infatti un’intera sezione alla liability of legal persons.

Le tematiche che saranno scrutinate in particolare nel corso della valutazione, a cura di esperti della delegazione statunitense, affiancati da esperti tedeschi, saranno volte soprattutto a una verifica sostanziale di efficace contrasto a pratiche corruttive da parte delle imprese nelle attività economiche volte all’estero.

I lead examiners effettueranno una visita on site, incontrando esponenti delle istituzioni centrali, di law enforcement, delle libere professioni e della società civile, nel mentre il Paese dovrà procedere a implementare un questionario dettagliato per preparare e favorire la redazione di un rapporto Paese.

Il processo si concluderà con la discussione del rapporto nella riunione plenaria annuale del Working Group on Bribery in programma a dicembre del 2021.

Il sistema 231 sarà oggetto di screening sui temi più delicati quali l’obbligatorietà dell’azione contro gli Enti (o meglio, la non facoltatività della stessa), l’effettiva proporzionalità e dissuasività delle sanzioni per l’ente, la prescrizione dell’illecito dell’Ente.

B) Il G20 sotto la Presidenza italiana: la liability of legal persons nell’agenda dell’esercizio annuale

Con il primo dicembre vi sarà il passaggio delle consegne tra la Presidenza uscente del G20 (Arabia Saudita) e la nuova leadership che per il 2021 spetterà all’Italia.

Il nostro Paese sarà perciò chiamato a guidare l’esercizio in tutte le sue componenti.

Tra queste, quella di maggiore rilievo per la responsabilità degli Enti è l’attività del Gruppo anticorruzione.

Le priorità selezionate dal nostro Paese avranno ad oggetto le nuove forme di manifestazione della corruzione, le nuove aree di rischio, con grande attenzione al tema della pandemia e delle conseguenze della crisi sulla società e l’economia.

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Il settore della lotta alla corruzione ha rappresentato finora un tratto distintivo di un multilateralismo efficiente.

Grazie alla sua esperienza nell'armonizzazione di standard comuni tra i quadri giuridici nazionali, il G20, attraverso il suo Gruppo di lavoro anticorruzione, continua a essere in una buona posizione per affrontare le sfide attuali ed emergenti per rafforzare integrità, trasparenza e responsabilità nella lotta globale contro la corruzione.

La Presidenza italiana curerà anche un esercizio ciclico denominato accountability report.

Si tratta di un rapporto di revisione annuale fondamentale in un Foro privo di Segretariato.

I Paesi saranno infatti chiamati a riferire in ordine ai progressi in un settore specifico che è proprio quello dell’integrità nell’attività di impresa.

Tre saranno i documenti oggetto di scrutinio dal punto di vista dell’implementazione a livello nazionale:

o i G20 High-Level Principles on Beneficial Ownership Transparency del 2014

o i G20 High-Level Principles on Beneficial Ownership Transparency del 2015

o i G20 High Level Principles on the Liability of Legal Persons for Corruption del 2017

Uno studio del 2011 della iniziativa Stolen Assets Recovery (StAR) ha riportato che 150 dei 213 casi di corruzione su scala globale hanno implicato l'utilizzo di almeno un veicolo societario per nascondere informazioni sui titolari effettivi, mentre i proventi di corruzione stimati in questi casi ammontavano a 56,4 miliardi di dollari.

È perciò agevole comprendere perché il promuovere maggiore trasparenza nella beneficial ownership delle persone giuridiche e degli accordi societari (inclusi i trusts) è un'alta priorità nella lotta globale contro la corruzione.

L'identificazione dei beneficiari e la tracciabilità dei flussi finanziari è anche un fondamentale principio del "know your customer", che aiuta le istituzioni finanziarie e le attività e professioni non finanziarie all’uopo designate a monitorare le transazioni dei loro clienti.

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L'indagine su questa tipologia di attività illecita è però fortemente condizionata dalla effettiva capacità delle forze dell'ordine, delle amministrazioni fiscali e delle altre autorità competenti di identificare, attraverso un efficace scambio di informazioni, il beneficiario effettivo dei veicoli societari utilizzati per nascondere attività criminali o flussi finanziari illeciti.

Ciò posto, il primo rilevante strumento tra quelli richiamati (G20 High-Level Principles on Beneficial Ownership Transparency) parte dal presupposto che migliorare la trasparenza delle persone giuridiche e dei contratti sia importante per proteggere l’integrità e la trasparenza del sistema finanziario mondiale.

Prevenire l’abuso di queste entità per scopi illeciti quali la corruzione, l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro, serve anche da supporto agli obiettivi del G20 per l’incremento della crescita nel settore degli investimenti privati.

Il G20 è impegnato a dare l'esempio affermando una serie di principi fondamentali sulla trasparenza della titolarità effettiva delle persone giuridiche e degli accordi, applicabili in tutti gli ambiti d’azione del G20.

Questi principi si basano sugli standard internazionali prevalenti e consentono una flessibilità sufficiente per adattarsi ai diversi quadri costituzionali e legali.

L’intero impianto degli Alti Principi sulla BOT, oltre al primo punto che riguarda profili definitori e quindi di applicazione, è costruito sulla necessità di maggiore trasparenza e sullo scambio di informazioni tra autorità competenti, sia a livello nazionale che internazionale.

Il G20 si impegna a dare l’esempio nell’implementazione dei 10 Principi.

Come passo successivo, ciascuno dei Paesi del G20 si impegna a intraprendere azioni concrete e a condividere per iscritto le misure da adottare per attuare tali principi e migliorare l'efficacia dei quadri giuridici, normativi e istituzionali in materia di trasparenza della proprietà effettiva.

Con riferimento, invece, ai Principi di Alto Livello del G20 sulla trasparenza e integrità del settore privato, occorre soffermarsi sullo scopo dell’esercizio, che è volto a integrare le linee guida e i più dettagliati principi internazionali per combattere la corruzione, come il Manuale di etica e conformità anticorruzione per le imprese, preparato - su richiesta del G20 - dall'UNODC,

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dall'OCSE e dalla Banca Mondiale (“Un programma di etica e conformità anticorruzione per le imprese: una guida pratica").

I Principi non intendono creare nuovi standard o rappresentare uno strumento legalmente vincolante per gli Stati Membri del G20.

Si tratta di strumenti di soft law per le imprese che mirano, piuttosto, a incoraggiare l'impegno di queste ultime a porre in essere controlli interni, a promuovere l'etica, la compliance, la trasparenza e l'integrità.

Le misure elencate sono elementi generali suggeriti per lo sviluppo e per il miglioramento di controlli interni efficaci e di programmi di etica e compliance.

L’adozione di tali misure va effettuata sulla base di una valutazione del rischio per meglio comprendere l'esposizione a quest’ultimo legata alla singola impresa, alle sue dimensioni, alla struttura e all'area geografica di attività e per meglio allocare le risorse in modo efficiente ed efficace.

Non esiste un approccio "one size fits all". L'enfasi su elementi specifici varierà da un’impresa all'altra a seconda, tra gli altri fattori, dei rischi particolari fronteggiati dalla stessa. Un'impresa potrebbe voler prendere in considerazione la richiesta di consulenza da parte di professionisti per saperne su quale tipo di controlli interni e di modello di etica e compliance sia più appropriato per la propria attività e per le diverse giurisdizioni in cui essa opera.

L’attuazione da parte dei paesi del G20 delle linee guida e impegni già esistenti, in particolare i Guiding Principles on Enforcement of the Foreign Bribery Offence (2013), i Guiding Principles to Combat Solicitation (2013), gli High-Level Principles on Beneficial Ownership Transparency (2014) e i G20 Principles for Promoting Integrity in Public Procurement (2015), sosterrà ulteriormente la trasparenza e l'integrità nel settore privato.

Nel preambolo, il G20 afferma che continuerà a collaborare con le imprese e altre parti interessate, tra cui B20 e C20, per combattere la corruzione promuovendo la compliance attraverso azioni collettive e il dialogo tra i settori pubblico e privato. Il Gruppo, inoltre, sostiene lo sviluppo e l'attuazione di programmi anticorruzione per le PMI, a seconda delle dimensioni, delle risorse e dei rischi; e accoglie favorevolmente le iniziative delle organizzazioni imprenditoriali e della società civile per fornire assistenza, formazione e sensibilizzazione.

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Il terzo e ultimo strumento richiamato è quello degli High level Principles on the Liability of legal persons for corruption.

L’avvenuta definizione da parte dell’ACWG dei Principi sulla responsabilità degli enti costituisce il parametro di riferimento globale (benchmark) in termini di soft law per le normative di contrasto alle diverse fattispecie di corruzione.

Il contrasto alla criminalità economica e alla corruzione impone il riconoscimento di una responsabilità non solo delle persone fisiche, ma anche delle persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio si è agito.

La natura di tale responsabilità, spesso non penale, richiede una cooperazione giudiziaria e investigativa, civile e amministrativa, fondata sullo scambio di informazioni.

L’Italia guiderà questo screening globale, che offrirà una fotografia della realtà della responsabilità degli enti pressoché unica nel suo genere.

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SOCIETÀ ED ENTI PUBBLICI

di Carlo Manacorda, Presidente del Nucleo di Valutazione dell’Università della Valle d’Aosta, già Docente di Pianificazione, programmazione e controllo delle aziende pubbliche, Università di Torino

Società in house: questioni aperte per l’applicazione del decreto 231 e nell’affidamento diretto di contratti

Sotto il profilo ordinamentale, le società in house formano una categoria a se stante. Si tratta infatti di organismi nuovi che, a prescindere dal nome comune a quello di soggetti ormai consolidati, presentano connotazioni particolari, affatto riconducibili a quelle contemplate dal Titolo V c.c.

Sono enti creati da una o più amministrazioni pubbliche all’interno della loro sfera (in house) allo scopo di affidare loro direttamente - cioè senza emissione di bandi di gara - l’esecuzione di contratti per la fornitura di opere, beni e/o servizi a loro favore.

Affinché l’affidamento sia legittimo, occorre però che le amministrazioni costituenti esercitino sulla società in house un controllo analogo a quello che svolgono sulle proprie strutture organizzative.

Inoltre, la società in house deve effettuare la maggior parte della propria attività in favore delle amministrazioni che l’hanno creata. Queste peculiarità danno luogo a problematicità operative di varia natura e in diversi settori.

Esaminiamo due casi: applicabilità alle società in house del decreto 231 e conseguenze che possono verificarsi nel caso di affidamento diretto di contratti a questi soggetti.

Dopo varie incertezze dovute alla “caratteristica bifronte” di questi soggetti - al contempo, pubbliche amministrazione (con relativo ordinamento, sebbene con adattamenti) e persone giuridiche di diritto privato riconducibili al regime privatistico (Cons. Stato, Ad. Speciale 16.03.2016, n. 438) -, sul primo punto detto sopra è intervenuta l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).

In base ai principi stabiliti dalla legge 190/2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) e dai suoi decreti attuativi, ha affermato che, per quanto concerne l’applicazione della disciplina del decreto 231 alle società in house, esse devono attenersi alle stesse direttive previste per le società in controllo

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pubblico, società cioè sulle quali una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c. (delib. ANAC n.

1134/2017).

Anche a un rapido sguardo, non sfugge la sbrigativa conclusione dell’ANAC sulla questione.

Infatti, non sembra possibile - anche soltanto tenendo presenti le sintetiche note su questi organismi esposte all’inizio dello scritto - assimilare la società in house alle altre società.

È sufficiente guardare alle differenze che intercorrono nelle modalità costitutive delle due categorie di soggetti e alla tipologia del controllo effettuato sulle medesime.

Relativamente al controllo, ben diversi sono i contenuti del controllo analogo cui le società in house sono sottoposte rispetto a quello previsto dalla citata norma civilistica (sostanzialmente, esercizio di un’influenza dominante sulle decisioni assembleari).

Al proposito, merita ricordare alcune puntualizzazioni giurisprudenziali in base alle quali “la società in house ha della società di capitali solo la forma esteriore, ma, in realtà, è una longa manus della pubblica amministrazione”

(Cass., ss.uu., n. 26283/2013).

E ancora (Cass., II sez civ., n. 4938/2016) “devesi concludere, per un verso, che la medesima società, a dispetto della sua formale personalità giuridica, è sostanzialmente una mera articolazione organica dell’ente costituente”.

Inoltre, dovendo la società in house svolgere prevalentemente la propria attività in favore dell’amministrazione/amministrazioni costituente/i (più dell’80% del fatturato), significa che la sua attività per così dire “libera” - che tra l’altro, come risulterà anche da quanto diremo dopo, deve osservare specifiche condizioni - è meramente residuale, donde le difficoltà di strutturare un Modello di organizzazione e gestione che contempli le due tipologie dell’attività della società in house.

Né si può dimenticare che il decreto 231 stabilisce che c’è responsabilità dell’ente se il reato è commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.

Esistendo una quasi compenetrazione tra società in house e amministrazione pubblica controllante, bisogna chiarire a chi debba essere riportato l’interesse o il vantaggio perseguito con la commissione del reato.

Senza dimenticare il caso (più frequente) in cui la società in house sia

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costituita da amministrazioni pubbliche non tenute all’applicazione del decreto 231 (art. 3, comma 3).

Permangono dunque questioni aperte per l’applicazione alle società in house della disciplina del decreto 231, sulle quali l’ANAC - nell’ambito delle funzioni interpretative della legge affidatele dal legislatore - dovrebbe dare indicazioni più articolate.

Ovvero, potrebbe essere una pronuncia del Giudice a indicare la soluzione praticabile.

Più definita la posizione che le società in house assumono nell’ambito della normativa riguardante i contratti pubblici.

Le amministrazioni aggiudicatrici - quali precisate dall’art. 3 del Codice citato appena dopo - possono procedere ad affidamenti diretti di contratti a enti che abbiano i requisiti della società in house (art. 5 Codice dei contratti pubblici, D.Lgs. 50/2016).

Per affidare un contratto di fornitura di opere beni o servizi a una società in house - come accennato prima - non è necessaria l’emissione di un bando di gara utile per stimolare la partecipazione alla fornitura di più soggetti.

Stante tuttavia, in questo caso, la totale esclusione delle regole per l’affidamento dei contratti pubblici, e onde evitare l’alterazione della libera concorrenza e della competitività che devono essere presenti per pervenire alla stipulazione di un contratto pubblico, l’affidamento può avvenire soltanto nel rispetto di regole particolari.

Una di queste (assorbente) è stabilita dall’art. 192 del Codice suddetto.

Sotto la rubrica “Regime speciale degli affidamenti in house”, ai commi 1 e 2 la norma prevede:

“1. E' istituito presso l'ANAC, anche al fine di garantire adeguati livelli di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici, l'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house di cui all'articolo 5. L'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l'esistenza dei requisiti, secondo le modalità e i criteri che l'Autorità definisce con proprio atto. […]

2. Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di

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affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta […]”.

Con deliberazione n. 951/2017, l’ANAC ha emanato le “Linee guida n.7 per l’iscrizione nell’Elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del D.Lgs. 50/2016”.

Le Linee guida stabiliscono gli elementi che vanno indicati nell’elenco, con informazioni dettagliate sulla società in house cui si intende affidare direttamente un contratto e con la precisazione che più dell’80% del suo fatturato sia svolto in favore dell’ente pubblico o degli enti pubblici soci e che la produzione ulteriore rispetto a detto limite è consentita solo se assicura economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società partecipata.

L’ANAC esaminerà la sussistenza di tutti i requisiti per l’iscrizione nell’elenco per le finalità del medesimo.

Se le verifiche daranno esito positivo, l’amministrazione vi sarà iscritta.

Peraltro, se l’ANAC venisse a conoscenza, in qualsiasi maniera, dell’assenza dei requisiti occorrenti per l’iscrizione nell’elenco, avvierà un procedimento per il mantenimento o non dell’iscrizione dell’amministrazione nell’elenco.

Tuttavia, anche l’affidamento di contratti a società in house da parte degli enti costituenti non è privo di problematicità.

Qui emerge la questione della fallibilità o non della società in house e delle conseguenze che deriverebbero se si verificasse questo fatto.

La Corte d’Appello dell’Aquila ha dichiarato la non fallibilità di una società in house (sent. n. 304/2015).

La Corte di Cassazione civile, sez. I - richiamando anche l’art. 14, comma 1, del D.Lgs. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) ai sensi del quale tutte queste società sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo - ne ha dichiarato, per contro, la fallibilità (sent. n. 5346/2019).

Il Consiglio di Stato, nel parere sullo schema del D.Lgs. 100/2017 che modifica il detto D.Lgs. 175/2016, però dissente da questa conclusione.

L’avviso contrario è fondato sull’analisi coordinata degli articoli 14 (possibilità di fallire anche della società in house) e 21 (obbligo delle amministrazioni

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locali partecipanti di accantonare nel bilancio un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione) del suddetto Testo unico.

Osserva il Consiglio di Stato che “nel caso di società interamente partecipate dall'ente locale, qualora quest'ultimo non intenda dismettere la partecipazione o porre in liquidazione la società, sarà obbligato a ripianare le perdite, eventualità quest'ultima che negherebbe in radice la possibilità per le società in house di fallire.

È, pertanto, necessario chiarire che, dall'obbligo di accantonamento di cui al comma 1 dell'art 21, non deriva un obbligo di ripiano, potendo le pubbliche amministrazioni locali partecipanti decidere di non ripianare il bilancio delle società in house, in considerazione della sperimentata necessità di rivolgersi al mercato”.

Il Consiglio di Stato sembra dunque far emergere la contraddittorietà esistente, nello stesso Testo unico, sulla fallibilità delle società in house in base dell’art. 14 e sulla possibile non fallibilità in base all’art. 21.

Stante poi l’intreccio prima evidenziato tra amministrazione costituente e società in house, nel caso di fallimento della seconda non sono chiari i riflessi che si produrrebbero sul patrimonio della prima e quali dovrebbero essere gli interventi che questa dovrebbe mettere in atto.

Com’è dato di vedere, in tema di società in house sono ancora molti i problemi da chiarire.

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