Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Direttore Prof. Corrado Blandizzi
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNICHE DELLE
ATTIVITA’ MOTORIE PREVENTIVE E ADATTATE
Presidente: Prof. Fabio Galetta
Proposte d'inserimento della "Forza" nel
protocollo AFA in donne anziane
RELATORE
Prof. Ida Nicolini
CANDIDATO
Diego Taddei
ANNO ACCADEMICO 2016/2017
“... NO, provare no! Fare o non fare. Non c’è provare…”
(Maestro Yoda)
Indice
Presentazione della struttura della tesi 3
Fisiopatologia dell’invecchiamento 4
Patologie più frequenti 5
Malattia di Alzheimer 5
Malattia di Parkinson 7
Ictus 9
Obesità 10
Sarcopenia 12
Osteoporosi 13
Diabete mellito 14
Il progetto della regione Toscana per l’Attività Fisica Adattata 17
Il protocollo di esercizi attuale, la Delibera 1418 del 27/12/2016 23
Introduzione al Progetto di Tesi 28
Capitolo SF-36 29
Questionari per indagare la qualità della vita 29
Il Questionario SF-36 31
Questionario sullo stato di Salute SF-36 33
Elaborazione e Presentazione dei risultati 37
Profilo individuale dell'SF 36 37
Questionario M.U.S. e Sintomi Scheletrici 40
Autovalutazione Sintomi Scheletrici 43
Questionario M.U.S. 45
Programmazione 47
Analisi dei dati e Conclusioni 51
Situazione a inizio protocollo 51
Situazione alla fine del protocollo 55
Confronto prima-dopo 57 Appendice 63 Bibliografia 76 Ringraziamenti 78
Presentazione della struttura della tesi
Questo elaborato è suddiviso in 6 capitoli, i primi due sono un preambolo al lavoro che presento.
Il primo tratta la fisiopatologia dell’anziano, cioè va a dare un quadro generale delle patologie più frequenti con cui, durante lo svolgimento del progetto, mi sono trovato a contatto.
Il secondo descrive l’attività fisica adattata, la storia, passando per tutte le tappe che l’hanno modificata, fino ad arrivare al protocollo attuale.
Il terzo capitolo riguarda uno dei questionari, l’SF-36, che ho utilizzato per valutare la qualità di vita dei soggetti e del quale ho analizzato i dati.
Nel quarto capitolo viene spiegato l’altro questionario utilizzato, MUS e autovalutazione dei sintomi scheletrici, il quale serve a indagare lo stato di infiammazione cronico dei soggetti.
Il quinto presenta il protocollo di lavoro, in particolare gli esercizi proposti come integrazione al protocollo AFA.
Il sesto ed ultimo capitolo tratta l’analisi dei dati, le spiegazioni e le considerazioni che
Fisiopatologia dell’invecchiamento
L'invecchiamento è un fenomeno globale che, grazie al miglioramento delle condizioni di vita, coinvolge un numero sempre maggiore di persone. Secondo la World Health Organization (WHO), in quasi tutti i Paesi del mondo il numero di persone con più di 60 anni sta aumentando più velocemente rispetto alle altre fasce di età. Si stima che nel 2050 le persone con più di 60 anni saranno quasi 2 miliardi (oltre il triplo rispetto al 2005) e rappresenteranno circa un quarto (22%) della popolazione mondiale. Quando si parla di invecchiamento in generale non ci si riferisce solo all’avanzare dell’età cronologica, ma ai cambiamenti organici, emotivi e cognitivi che sono ad esso correlati. Non è facilmente definibile quali di queste modificazioni siano normali e quali patologiche; così la differenza tra invecchiamento fisiologico ed invecchiamento patologico rimane una linea teorica, variabile a seconda degli apparati considerati, ma anche degli approcci scientifico-culturali utilizzati. Il concetto di normalità in gerontologia non ha una chiara definizione a causa dell’estrema variabilità che caratterizza il modo di invecchiare di ogni individuo, nonché per la mancanza, soprattutto via via che si avanza verso le età più estreme della vita, di un netto confine tra fisiologico e patologico. Di solito si considera normale ciò che è presente in tutti gli individui di una determinata età (p.e. presbiopia); nella norma è invece ciò che è comunemente riscontrato in quegli stessi soggetti, ma non presente in tutti, potendo contenere in sé anche condizioni di patologia (p.e. cataratta, ipertensione sistolica isolata, osteoartrosi, osteoporosi). Per poter distinguere nell’anziano ciò che è normale da ciò che è soltanto nella norma dovrebbero essere definiti al meglio i criteri di normalità. A concorrere ai cambiamenti correlati al progredire dell'età, che variano da individuo a individuo, c’è un duplice ordine di fattori che comprende, da una parte, le influenze genetiche e, dall'altra, l'effetto di determinanti ambientali quali lo stile di vita, l'alimentazione, l’ambiente, l'esposizione a sostanze nocive o a contingenze dannose per l'organismo. Nel corso dell’invecchiamento si verifica una progressiva riduzione età-correlata della funzione di numerosi organi (cervello, cuore, reni, polmoni, sistema immunitario) con conseguente aumento della vulnerabilità di fronte a vari agenti patogeni. Un altro aspetto correlato all’età è rappresentato dal numero di malattie che possono coesistere nello stesso individuo. Di conseguenza l’invalidità aumenta di pari passo con l’età e con il numero di condizioni croniche. Sono questi alcuni degli aspetti determinanti che spingono sempre più a parlare di “anziano fragile”, con tutte le problematiche connesse a questa condizione. Va considerato che i problemi sanitari nelle persone anziane presentano un notevole peso per le caratteristiche presentate. Si ha infatti:
• maggiore tendenza alla cronicizzazione delle patologie senili; • maggiore associazione di malattie (polipatologia);
• maggiori difficoltà per la diagnosi e la cura;
• maggiore necessità di terapie riabilitative e di trattamenti psico-sociali.
Dalla complessità legata alle problematiche delle patologie delle età avanzate deriva la necessità di prevenire la perdita dell’omeostasi in cui l’anziano “sano” si trova, cioè colui che rientra il più possibile nei canoni di un invecchiamento fisiologico. Tenendo conto della correlazione tra fattori mentali, fisici, sociali e spirituali, nonché degli altri elementi senilizzanti, la protezione dell’anziano è mirata al mantenimento del suo stato di salute, che va oltre la lotta contro le malattie. Così per la salute mentale rivestono notevole importanza gli interessi culturali per esempio per la lettura, l’impegno in attività artistiche o più semplicemente artigianali con il mantenimento di un atteggiamento propositivo, una adeguata stimolazione psico-affettiva (con la vicinanza di figli e nipoti); per la salute fisica è di grande importanza la riduzione dei fattori di rischio come ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, fumo, diabete mellito, osteoporosi, etc... Mantenere un certo grado di attività fisica è un metodo sicuro per conservare il più a lungo possibile le capacità funzionali necessarie per il mantenimento dell’autosufficienza. È infatti ormai dimostrato che una regolare attività fisica è un fattore protettivo nei confronti della
comparsa della disabilità in età avanzata, mentre la sedentarietà è predittiva di un declino funzionale nell’anziano. Garantire pertanto all’individuo una condotta di vita attiva, ricca sul piano psico-affettivo e delle relazioni sociali, stimolante dal punto di vista culturale, significa metterlo nel miglior stato di salute per un “invecchiamento di successo”, cioè in condizioni psico-fisiche ottimali ed in piena autonomia di vita.
Epidemiologia
In Italia, oltre la metà della popolazione anziana soffre di patologie croniche gravi. Nel 2012 le persone con almeno una patologia cronica grave erano il 14,8% della popolazione, con un aumento dell'1,5% rispetto al 2005. Non si tratta di un peggioramento delle condizioni di salute, ma di un incremento della popolazione anziana esposta al rischio di ammalarsi. Infatti, il tasso depurato dall’effetto dovuto all’incremento delle persone anziane resta stabile (14,6% nel 2005 vs 14,9% nel 2012), con una differenza di genere a sfavore degli uomini (16,0% vs 13,9% delle donne). Nelle classi di età >65-69 anni e ≥70 anni, le donne che soffrono di almeno una cronicità grave rappresentano, rispettivamente, il 28 e il 51%. Gli uomini soffrono di almeno una cronicità grave nel 36% dei casi, nella classe di età 65-69 anni, e nel 57% tra quelli con età ≥70 anni. In merito alla prevalenza delle singole patologie croniche, si evidenzia come il 57% degli anziani soffra di artrite, il 55% di ipertensione, il 38% abbia problemi respiratori, il 17% sia affetto da diabete, il 17% da cancro, il 16% da osteoporosi. Il diabete, i tumori, l’Alzheimer e le demenze senili sono patologie in evidente crescita rispetto al passato. La multimorbilità è presente in un terzo della popolazione adulta e la sua prevalenza aumenta con l’età, raggiungendo una prevalenza del 60% tra gli individui di età compresa tra 55 e 74 anni. Inoltre, il trend di prevalenza di questa condizione è in crescita ed è stata chiaramente dimostrata la tendenza di alcune patologie a formare “clusters”.
Patologie più frequenti
Malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer-Perusini, detta anche morbo di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante con esordio prevalentemente in età presenile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca precedente). Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l'avanzare dell'età possiamo avere sintomi come: depressione, afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. Anche se la velocità di progressione è variabile, l'aspettativa media di vita dopo la diagnosi è tra tre e nove anni. La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben comprese. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è ancora nota la causa prima di tale degenerazione. Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono solo un piccolo beneficio sintomatico e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l'identificazione di un possibile trattamento per l'Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso. Circa il 70% del rischio si ritiene sia genetico con molti geni coinvolti, gli altri fattori di rischio includono traumi, depressione o ipertensione. Il processo della malattia è associata a placche amiloidi che si formano nel SNC. Una diagnosi probabile è basata sulla progressione della malattia, i test cognitivi con imaging medico e gli esami del sangue per escludere altre possibili cause. I sintomi iniziali sono spesso scambiati per normale invecchiamento. È necessaria la biopsia del tessuto cerebrale per una diagnosi definitiva.
L'esercizio mentale e fisico possono diminuire il rischio di Alzheimer. Non esistono farmaci o integratori che scientificamente possano diminuirne il rischio. Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, sia come modalità complementari di gestione della malattia. La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione la rendono una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo, data la limitata e, comunque, non risolutiva efficacia delle terapie disponibili e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che ricadono in gran parte sui familiari dei malati. Anche se il decorso della malattia di Alzheimer è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti; i primi sintomi osservabili sono spesso erroneamente considerati problematiche "legate all'età", o manifestazioni di stress. Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l'incapacità di
acquisire nuovi ricordi e la difficoltà nel ricordare eventi osservati recentemente. Quando si ipotizza la presenza di una possibile malattia di Alzheimer, la diagnosi viene di solito confermata tramite specifiche valutazioni comportamentali e test cognitivi, spesso seguiti dall'imaging a risonanza magnetica. Con l'avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione,
difficoltà nel linguaggio, irritabilità e aggressività, sbalzi di umore, perdita della memoria a breve e lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali.
Poiché per la malattia di Alzheimer non sono attualmente disponibili terapie risolutive e il suo decorso è progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto a prendersi in carico il malato, compito che comporta notevoli difficoltà e oneri.
Il decorso della malattia è diviso in quattro fasi, con un progressivo deterioramento cognitivo e funzionale.
Pre-demenza
I primi sintomi sono spesso scambiati con l'invecchiamento o lo stress. I test neuropsicologici dettagliati possono rivelare difficoltà cognitive lievi fino a otto anni prima che una persona soddisfi i criteri clinici per la diagnosi di Alzheimer. I primi sintomi possono influenzare molte attività di vita quotidiana. Uno dei sintomi più evidenti è la difficoltà a ricordare i fatti appresi di recente e l'incapacità di acquisire nuove informazioni. Piccoli problemi di attenzione, di pensiero
astratto, di pianificare azioni, o problemi con la memoria semantica (memoria che collega la parola al suo significato) possono essere sintomatici delle prime fasi dell'Alzheimer. L'apatia, che si osserva in questa fase, è il sintomo neuropsichiatrico che persiste per tutto il decorso della malattia. Sintomi come depressione, irritabilità e scarsa consapevolezza delle difficoltà di memoria sono molto comuni. La fase preclinica della malattia è stata chiamata "mild cognitive
impairment" (MCI). Quest'ultima si trova spesso ad essere una fase di transizione tra l'invecchiamento normale e la demenza. MCI può presentarsi con un’ampia varietà di sintomi, e quando la perdita di memoria è il sintomo predominante è chiamato "MCI amnesico" ed è spesso visto come una fase anticipativa della malattia di Alzheimer.
Fase iniziale
Nelle persone con Alzheimer la crescente compromissione di apprendimento e di memoria alla fine porta ad una diagnosi definitiva. In una piccola percentuale, difficoltà nel linguaggio, nell'eseguire azioni, nella percezione (agnosia), o nell'esecuzione di movimenti complessi (aprassia) sono più evidenti dei problemi di memoria. L'Alzheimer non colpisce allo stesso modo tutti i tipi di memoria. Vecchi ricordi della vita personale (memoria episodica), la memoria implicita (la memoria del corpo su come fare le cose, come l'utilizzo di una forchetta per mangiare) e le nozioni apprese (memoria semantica) sono colpiti in misura minore rispetto a nozioni imparate di recente. I problemi linguistici sono caratterizzati principalmente da un impoverimento del vocabolario e una diminuzione della scioltezza, che portano ad un depauperamento generale del linguaggio orale e scritto. In questa fase, la persona con il morbo di Alzheimer è di solito in grado di comunicare adeguatamente idee di base. Può essere presente una
difficoltà nell’esecuzione di attività come la scrittura, il disegno o vestirsi, la pianificazione di movimenti complessi e la coordinazione spazio-temporale può essere parzialmente compromessa, ma questi sintomi sono comunemente sottostimati. Con il progredire della malattia, le persone con Alzheimer spesso continuano ad essere autonome per svolgere molti compiti, ma potrebbero avere bisogno di assistenza o di controllo per le attività cognitivamente più impegnative .
Fase intermedia
Il progredire dell'Alzheimer ostacola l'autosufficienza dei soggetti, i quali lentamente non sono più in grado di svolgere le attività quotidiane. Le difficoltà linguistiche diventano evidenti per via dell'afasia, che porta frequentemente a sostituire parole con altre, errate nel contesto. La lettura e la scrittura vengono lentamente abbandonate. Le sequenze motorie più complesse diventano meno coordinate con il passare del tempo e aumenta il rischio di cadute. In questa fase i problemi di memoria peggiorano, la persona può non riconoscere i parenti stretti, la memoria a lungo termine, che in precedenza era intatta, diventa compromessa. I cambiamenti comportamentali e neuropsichiatrici diventano più evidenti. Si può passare rapidamente dall'irritabilità al pianto e non sono rari impeti di rabbia o resistenza al "caregiver". I soggetti perdono anche la consapevolezza della propria malattia e i limiti che essa comporta.
Fase finale
Durante le fasi finali, il paziente è completamente dipendente dal "caregiver". Il linguaggio è ridotto a semplici frasi o parole, anche singole, portando infine alla completa perdita della parola. Nonostante la perdita delle abilità linguistiche verbali, alcune persone spesso possono ancora comprendere e restituire segnali emotivi. Anche se l'aggressività può ancora essere presente, l'apatia e la stanchezza sono i sintomi più comuni. Le persone con malattia di Alzheimer alla fine non saranno in grado di eseguire anche i compiti più semplici in modo indipendente; la massa muscolare e la mobilità si deteriorano al punto in cui sono costretti a letto e incapaci di nutrirsi. La causa della morte è di solito un fattore esterno, come un'infezione o una polmonite.
Malattia di Parkinson
La malattia di Parkinson, definita come morbo di Parkinson, è una malattia neurodegenerativa. I sintomi motori tipici della condizione sono il risultato della morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. Queste cellule si trovano nella sostanza nigra, una regione del mesencefalo. La causa che porta alla loro morte è sconosciuta. All'esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono lentezza nei movimenti, tremori, rigidità, e difficoltà a camminare. In seguito, possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali, come la demenza che si verifica a volte nelle fasi avanzate. La malattia di Parkinson è più frequente negli anziani; la maggior parte dei casi si verifica dopo i 50 anni. I sintomi motori principali sono comunemente chiamati parkinsonismo. La condizione è spesso definita come una sindrome idiopatica. Molti fattori di rischio e fattori protettivi sono stati indagati: ad esempio c’è un aumento del rischio di contrarre la malattia nelle persone esposte a idrocarburi, solventi e pesticidi. La patologia è caratterizzata dall'accumulo di una proteina, chiamata alfa-sinucleina, in inclusioni denominate corpi di Lewy nei neuroni e scarsa formazione di dopamina. La distribuzione anatomica dei corpi di Lewy è direttamente correlata all'espressione e al grado dei sintomi clinici di ciascun individuo. La diagnosi nei casi tipici si basa principalmente sull’analisi dei sintomi, con indagini di neuroimaging come conferma. I trattamenti sono efficaci per gestire i sintomi motori precoci della malattia, grazie all'uso di agonisti della dopamina e del levodopa. Col progredire della malattia, i neuroni dopaminergici continuano a diminuire di numero e questi farmaci diventano inefficaci nel trattamento della sintomatologia. Allo stesso tempo si produce una complicanza, la discinesia, caratterizzata da movimenti involontari. Una corretta
alimentazione e alcune forme di riabilitazione hanno dimostrato una buona efficacia sui sintomi. Come ultima risorsa la chirurgia e la stimolazione cerebrale profonda vengono utilizzate per ridurre i sintomi motori, in quei casi più gravi dove i farmaci risultano inefficaci.
Sintomi Motori
Quattro caratteristiche motorie sono considerate la base sintomatologica della malattia di Parkinson: la bradicinesia, il tremore, la rigidità e l'instabilità posturale. Il tremore è il sintomo
più comune ed evidente, anche se circa il 30% degli individui con malattia di Parkinson all'esordio non lo mostra. Il tremore è prevalente "a riposo", con bassa frequenza, scompare durante i movimenti volontari, in genere peggiora nelle situazioni di stress emozionale, mentre è assente durante il sonno. Esso si manifesta maggiormente nella porzione più distale dell'arto e
all'insorgenza appare tipicamente in un solo arto (braccio o gamba), divenendo successivamente bilaterale. La frequenza del tremore parkinsoniano è compresa tra i 4 e 6 hertz (cicli al secondo) ed è descritto come l'atto di "contare le monete" o come pill-rolling. La bradicinesia (lentezza dei
movimenti) è un'altra caratteristica della malattia associata alla difficoltà in tutte le fasi del movimento: pianificazione, iniziazione, esecuzione. La bradicinesia è il sintomo più invalidante nei primi stadi della malattia. Il movimento sequenziale e simultaneo viene ostacolato. Queste
manifestazioni comportano diversi problemi durante lo svolgimento delle attività quotidiane che richiedono un controllo preciso dei movimenti, come la scrittura, le faccende domestiche o il vestirsi. La valutazione clinica si basa su prove riguardanti operazioni simili. Generalmente gli individui che presentano bradicinesia mostrano difficoltà minori se gli vengono forniti degli ausili. La bradicinesia non è uguale per tutti i movimenti, alcuni pazienti risultano in grado di camminare con grandi difficoltà, ma tuttavia riescono ancora ad andare in bicicletta. La rigidità e la resistenza al movimento degli arti è causata da una continua ed eccessiva contrazione dei muscoli. Nel parkinsonismo la rigidità può essere uniforme o a scatti. La rigidità può essere associata a dolore articolare, il quale è una frequente manifestazione iniziale della malattia. Nelle fasi iniziali, la rigidità è spesso asimmetrica e tende a localizzarsi tra i muscoli del collo e delle spalle, rispetto ai muscoli del viso e degli arti. L'instabilità posturale è tipica delle ultime fasi. Ciò comporta disturbi dell'equilibrio e frequenti cadute che possono causare fratture ossee. L'instabilità è assente nelle fasi iniziali, soprattutto nelle persone più giovani. Fino al 40% dei pazienti possono andare incontro a cadute e circa il 10% cade settimanalmente, con un numero di cadute correlabile alla gravità della malattia. La deambulazione è caratterizza da piccoli passi, strisciati, con un avvio molto problematico e spesso si osserva il fenomeno della "festinazione", cioè una progressiva accelerazione della camminata sino a cadere. Vi possono essere disturbi della deglutizione, il linguaggio può diventare monotòno, poco espressivo, lento (bradilalia); la mimica facciale è scarsa e l'espressione impassibile. Anche la scrittura cambia, con una grafia che tende a rimpicciolirsi. Tuttavia, la gamma dei sintomi motori può essere molto più vasta.
Sintomi neuropsichiatrici
La malattia di Parkinson può causare disturbi neuropsichiatrici che includono disturbi del linguaggio, della cognizione, dell'umore, del comportamento e del pensiero. La prevalenza di essi aumenta con la durata della malattia. Il disturbo cognitivo più comune è la disfunzione esecutiva, che può comprendere difficoltà nella pianificazione, nel pensiero astratto, nella flessibilità cognitiva, nell'avvio di azioni appropriate e nell'inibizione delle operazioni inappropriate. Le variazioni di attenzione e il rallentamento della velocità cognitiva sono ulteriori problemi a livello cognitivo. La memoria viene influenzata, in particolar modo, nel ricordare le informazioni apprese. Una persona con malattia di Parkinson ha un rischio di soffrire di demenza da 2 a 6 volte maggiore rispetto alla popolazione in generale. La demenza è associata ad una forte riduzione della qualità della vita, sia nei pazienti che in chi li assiste. Modificazioni del comportamento e dell'umore sono più comuni nella malattia di Parkinson rispetto alla popolazione in generale. I
problemi più frequenti sono la depressione, l'apatia e l'ansia. Questi aspetti sono stati correlati anche ai farmaci usati per combattere la malattia.
Ictus
L'ictus si verifica quando una scarsa perfusione sanguigna al cervello provoca la morte delle cellule. Vi sono due tipi principali di ictus, quello emorragico, causato da un sanguinamento, e quello ischemico, dovuto alla mancanza del flusso di sangue; entrambi portano come risultato che una porzione del cervello rimane incapace di funzionare correttamente. I segni e i sintomi di un ictus possono comprendere, tra gli altri, l'incapacità di muoversi o di percepire un lato del corpo, problemi nell'esprimere parole o nella comprensione fino alla perdita di visione di una parte del campo visivo. Se i sintomi durano meno di una o due ore, l'episodio viene chiamato attacco ischemico transitorio. I sintomi possono essere permanenti e le complicanze a lungo termine possono includere: demenza vascolare, parkinsonismo, afasia, paraplegia, tetraplegia, paresi. Il principale fattore di rischio per l'ictus è la pressione alta. Altri possono essere il fumo di tabacco, l'obesità, il diabete mellito, il colesterolo alto, un precedente TIA e la fibrillazione atriale. L'ictus emorragico è tipicamente causato dal sanguinamento nel cervello o nello spazio circostante, mentre l'ictus ischemico da un blocco di un vaso sanguigno. La diagnosi viene generalmente formulata attraverso l'esame clinico. Le tecniche di neuroradiologia, in particolare la risonanza magnetica e la tomografia computerizzata, risultano fondamentali per confermare il sospetto clinico, caratterizzare e quantificare le lesioni, pianificare il trattamento. La prevenzione
comprende tentativi di diminuzione dei fattori di rischio, eventualmente l'assunzione di aspirina e/o statine, l'intervento chirurgico per mantenere pervie le arterie del cervello nei pazienti con un restringimento problematico. Il trattamento dell'ictus spesso richiede il ricorso a cure
d'emergenza. L'ictus di tipo ischemico, a poco tempo dall’insorgenza, si può giovare della tradizionale terapia con somministrazione sistemica di fibrinolitico e, nei centri dotati di unità di neuroradiologia interventistica, del trattamento endovascolare mediante trombectomia meccanica. Alcuni ictus emorragici possono essere trattati tramite intervento chirurgico. La riabilitazione intrapresa nel tentativo di recuperare alcune delle funzionalità perse si svolge idealmente nelle stroke unit, che tuttavia spesso non sono disponibili in molte parti del mondo. Nel 2010 circa 17 milioni di persone hanno subito un ictus e 33 milioni reduci ad un evento di questo tipo erano ancora in vita. Nel 2013, l'ictus è stato la seconda più frequente causa di morte dopo le malattie coronariche, responsabile di 6,5 milioni di decessi (il 12% del totale). Circa 3,3 milioni di morti sono conseguenza dell'ictus ischemico, mentre 3,2 milioni dell'ictus emorragico. In generale, due terzi degli ictus si sono verificati in persone di oltre 65 anni di età.
Ictus ischemico
L'ictus ischemico si verifica quando c’è una diminuzione nel flusso sanguigno verso una parte del cervello, con una conseguente disfunzione del tessuto cerebrale in tale zona. Vi sono tre ragioni per cui questo può accadere:
● Trombosi (ostruzione di un vaso sanguigno per un coagulo di sangue)
● Embolia (ostruzione dovuta ad un embolo proveniente da altre parti del corpo)
● Ipoperfusione sistemica (generale diminuzione dell’afflusso di sangue, ad esempio in seguito ad uno stato di shock).
Ictus emorragico
Una emorragia intracranica è un accumulo di sangue in un qualsiasi punto della volta cranica. I principali tipi sono l'ematoma epidurale, l'ematoma subdurale e l'emorragia subaracnoidea.
Una emorragia cerebrale è invece dovuta al sanguinamento all'interno del tessuto cerebrale, il quale può essere legato a emorragia intraparenchimale o emorragia intraventricolare. La maggior parte degli ictus emorragici hanno sintomi specifici e in particolare mal di testa o un trauma cranico precedente.
Fattori di rischio
Studi hanno individuato molteplici fattori che aumentano il rischio di ictus. Alcuni di questi fattori, principalmente l'età, non possono essere modificati, ma costituiscono tuttavia importanti indicatori per definire le classi di rischio. Altri fattori possono essere modificati con misure farmacologiche e non. I fattori di rischio modificabili ben documentati sono:
● ipertensione arteriosa; ● alcune cardiopatie; ● diabete mellito;
● ipertrofia ventricolare sinistra; ● stenosi carotidea;
● fumo di sigaretta;
● eccessivo consumo di alcol; ● ridotta attività fisica.
Obesità
L'obesità è una condizione medica caratterizzata da un eccessivo accumulo di tessuto adiposo che porta effetti negativi sulla salute con conseguente riduzione dell'aspettativa di vita oltre che della qualità. Si tratta di una patologia tipica delle società dette "del benessere". L'Organizzazione mondiale della sanità definisce l'obesità attraverso l'indice di massa corporea (BMI / IMC), un dato biometrico che mette a confronto peso e altezza: sono considerati obesi i soggetti con IMC maggiore di 30 kg/m 2. Una dieta alimentare corretta, esercizio fisico e un approccio psicologico
sono le basi per la terapia preventiva e curativa dell'obesità. L'obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile in tutto il mondo e, con l'aumento della prevalenza in adulti e bambini, è considerata anche uno dei più gravi problemi di salute pubblica del XXI secolo.
Effetti sulla salute
Il peso corporeo eccessivo è spesso associato ad altre patologie, in particolare a malattie cardiovascolari, sindrome delle apnee ostruttive nel sonno, diabete mellito di tipo 2, ad alcuni tipi di cancro e alla osteoartrosi. Pertanto l'obesità è causa di una riduzione dell'aspettativa di vita.
Mortalità
Rischio relativo di morte a 10 anni per uomini (a sinistra) e donne (a destra) statunitensi di etnia caucasica, che non siano mai stati fumatori, ripartiti per indice di massa corporea. Nell'Unione
europea un milione di decessi (pari al 7,7% del totale) sono attribuiti al peso in eccesso. In media, l'obesità abbassa l'aspettativa di vita di circa sei-sette anni: in particolare, l'aspettativa di vita diminuisce di due/quattro anni in caso di obesità moderata (corrispondente a un IMC compreso fra 30 e 35 kg/m 2), mentre l'obesità grave (IMC maggiore di 40 kg/m 2) riduce l'aspettativa di vita
di dieci anni.
Dieta
Mappa della disponibilità di energia alimentare per persona al giorno nel 1961 (sinistra) e nel 2001-2003 (destra) in kcal/persona/giorno
no data <1600 1600–1800 1800–2000 2000–220 0 2200–2400 2400–2600
2600–2800 2800–3000 3000–3200 3200–3400 3400–3600 >3600
Il consumo calorico totale è in stretta relazione con l'obesità. La disponibilità energetica alimentare pro capite varia sensibilmente tra le diverse regioni del mondo ed è cambiata significativamente nel corso del tempo. Fra gli inizi degli anni settanta e la fine degli anni novanta, le calorie mediamente disponibili per persona al giorno sono aumentate ovunque. La
diffusa disponibilità di linee guida nutrizionali non è stata sufficiente per combattere i problemi legati all'eccesso di calorie e agli errori nella scelta della dieta. La maggior parte di questa energia alimentare in eccesso è dovuta all'aumento del consumo di carboidrati piuttosto che al consumo di grassi.
Stile di vita sedentario
Uno stile di vita sedentario gioca un ruolo significativo nell'obesità. Nel mondo si è verificata una grande diminuzione del lavoro fisicamente impegnativo: conseguentemente almeno il 60% della popolazione mondiale compie attività motorie insufficienti. Anche nei bambini è stato documentato un calo nei livelli di attività fisica. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha registrato una netta diminuzione del numero di persone che nel tempo libero si dedicano ad attività fisiche. Tanto nei bambini quanto negli adulti è emersa una correlazione fra il tempo
dedicato all'uso della televisione o computer e il rischio di obesità.
Sarcopenia
È il fenomeno (entro certi limiti fisiologico), rallentabile ma non arrestabile, che inizia dopo i 40 anni con una diminuzione della forza e della massa muscolare. I fattori che concorrono a tale processo sono: il grado di attività fisica, le modificazioni ormonali, la malnutrizione e diverse malattie croniche. Nell’anziano, l’attività fisica migliora molto la forza, ma aumenta di poco la massa muscolare. La sarcopenia, quando è particolarmente accentuata e quindi condizione patologica, è la principale causa di invalidità e debolezza nell’anziano, con una compromissione dell’autonomia; causa equilibrio instabile, incapacità di salire o scendere le scale, o portare a casa la spesa, e quindi riduce la qualità della vita; aumenta il rischio di cadute e la loro gravità, che aumenta con l’osteoporosi per la ridotta tensione muscolare sulla struttura scheletrica e per la riduzione dell’effetto cuscinetto del muscolo sull’osso. Nelle donne l’abbassamento della concentrazione estrogenica dovuto alla menopausa è un fattore che aumenta la perdita di massa muscolare di circa 3 Kg ed aumenta la massa grassa di circa 2,5 Kg, la quale può essere molto limitata o addirittura eliminata dalla terapia ormonale sostitutiva. Gli uomini tendono a perdere in assoluto maggior massa muscolare rispetto alle donne, alcuni autori sostengono che la sarcopenia sia per i maschi l’equivalente dell’osteoporosi nelle donne. Queste ultime sono a loro volta maggiormente soggette a quella che invece si definisce “obesità osteo sarcopenica OSO”, dove il grasso in eccesso maschera masse muscolari ridotte e nella quale il rischio di disabilità risulta estremamente elevato in base alla sommazione degli effetti negativi di sarcopenia ed eccesso di massa adiposa in concomitanza ad uno stato di osteoporosi. La diagnosi di sarcopenia si basa sulla presenza di ridotta massa muscolare, ridotta forza muscolare e ridotta performance fisica e si effettua facendo riferimento a tre misure recentemente individuate da un gruppo europeo di esperti in Nutrizione e Medicina Geriatrica. La prima è la misura della massa muscolare che può essere rilevata in vari modi: la Dexa, ovvero lo stesso apparecchio usato per la diagnosi di osteoporosi, la bioimpedenziometria (BIA), con la quale attraverso formule si arriva a calcolare la massa grassa, la massa magra e la quota di acqua ed infine l'antropometria, che prevede la misurazione delle circonferenze e la plicometria, con la quale si valuta la quantità di grasso corporeo.
Successivamente si misura la forza e lo strumento più semplice per farlo è l'hand grip attraverso un dinamometro. Infine il terzo parametro, la misurazione della funzione attraverso la velocità di cammino (walking speed) in un tratto di 4 metri: al di sotto di 0,8 metri al secondo siamo di fronte ad un campanello di allarme. Queste tre misure, insieme, ci consentono di formulare una diagnosi: se tutti i valori sono a posto non siamo in presenza di sarcopenia, se solo la massa muscolare è fuori posto, siamo in una fase di pre-sarcopenia, se la massa muscolare e un altro valore sono fuori soglia siamo in presenza di sarcopenia, se tutti e tre i valori sono fuori posto parliamo di sarcopenia severa. Quest’ultima fa parte di un’altra sindrome geriatrica complessa sempre più frequente nell’anziano e causa di ospedalizzazione, la “fragilità”: una sindrome biologica caratterizzata da ridotta riserva funzionale e resistenza agli stress e provocata dal declino cumulativo delle funzioni di più sistemi ed apparati. La sarcopenia è un fenomeno inevitabile con l’avanzare dell’età ma è rallentabile con l’attività fisica e un adeguato apporto proteico. Si previene innanzitutto adottando, fin dalla giovane età, un regime alimentare completo e bilanciato e la pratica regolare di attività fisica. L’aumento dell’età è associato ad una
fisiologica diminuzione dell’introito di cibo, che a volte evolve in una forma di vera e propria anoressia, ma anche un'alimentazione squilibrata, monotona e povera in proteine, a causa delle difficoltà di masticazione, e di vitamine ed antiossidanti, per la difficoltà di approvvigionamento e preparazione, può accelerare la fisiologica perdita di fibre muscolari.
Osteoporosi
Con la parola osteoporosi si intende una condizione in cui lo scheletro è soggetto a perdita di massa ossea e resistenza. Le ossa sono quindi soggette a un maggior rischio di fratture, in seguito alla diminuzione della densità e alle modificazioni della microarchitettura trabecolare.
La causa è nella perdita, con l’avanzare dell’età, dell'equilibrio fra osteoblasti e osteoclasti. I primi sono delle cellule che contribuiscono alla formazione ossea, i secondi invece contribuiscono al riassorbimento osseo; se gli osteoclasti lavorano più velocemente degli osteoblasti, l'osso si deteriora. Nella menopausa si riscontra una maggiore produzione di osteoclasti, causata dalla diminuzione di estrogeni che porta a un eventuale innalzamento delle citochine, correlate alla produzione di osteoclasti.
Fattori di rischio
Esistono diversi fattori di rischio che aumentano la probabilità che l'osteoporosi si manifesti. Essi
si dividono a seconda che sia un evento modificabile o no: Non modificabili
● Età: costituisce il più elevato fattore di rischio, in quanto avviene normalmente il deterioramento della massa ossea con il passare degli anni. Molto importante per le donne è anche l'età alla quale si giunge alla menopausa;
● Carenza di ormoni, come estrogeni, somatotropina, testosterone (sia per i maschi sia per le femmine);
● Presenza di patologie come cirrosi epatica o artrite reumatoide;
● Malattie ereditarie: osteogenesi imperfetta, omocistinuria, acidosi tubulare renale; ● Anomalie endocrine, sindrome di Cushing.
Modificabili
● Dieta, carenza di minerali essenziali, di proteine, di vitamina D, vitamina C, vitamina K, vitamine del gruppo B e altre.
● Basso peso corporeo; ● Abuso di alcool
● Anoressia nervosa
● Inattività fisica, che spazia da una vita sedentaria sino alla paralisi; ● Ipercalciuria (pH urina basso, acido)
● Ipogonadismo ● Iperomocisteinemia
● Alcune categorie di farmaci ● Neoplasie del midollo osseo
● Condizione protratta del corpo in micro-gravità (condizione presente in subacquea e per estremo nello spazio)
Osteodensitometria
Stadio 0, osteopenia: minerali ossei diminuiti. T-score da -1.0 a -2.5 deviazione standard.
Stadio 1, osteoporosi clinica: densità ossea bassa. T-score minore di -2.5 deviazione standard, senza fratture cliniche.
Stadio 2, osteoporosi conclamata: densità ossea molto bassa. T-score minore di -2,5, fratture vertebrali senza trauma rilevante.
Stadio 3, severa osteoporosi progredita: densità ossea molto bassa; stato di iper fragilità. T-score inferiore a -2,5; fratture vertebrali multiple senza trauma rilevante, spesso anche fratture extra spinali come una frattura femorale senza trauma evidente, fratture vertebrali o femorali spontanee.
Attività fisica
Una forma di attività fisica è necessaria in tutti i casi parallelamente all’uso di farmaci, rivolti a contrastare il processo di degradazione dell’osso e favorire la sua costruzione, e all’integrazione o supplementazione di vitamine e sali, poiché è in grado di prevenire la perdita di massa ossea e inoltre di incrementarla dell'1% circa all'anno.
Diabete mellito
Il diabete mellito, o DM, è una forma di disturbo metabolico caratterizzato dalla presentazione di una persistente instabilità del livello glicemico del sangue, passando da condizioni di iperglicemia, più frequente, a condizioni di ipoglicemia. Sebbene il termine diabete si riferisca nella pratica comune alla sola condizione di diabete mellito, cioè dolce (chiamato così dagli antichi greci per la presenza di urine di tale sapore), esiste un'altra condizione patologica detta diabete insipido. Tali malattie sono accomunate dal solo fatto di presentare abbondanti quantità di urine, non presentando infatti cause, né altri sintomi, comuni.
Tra i fattori di rischio si riscontrano: ● Obesità;
● Inattività fisica; ● Ipertensione;
● Colesterolo HDL (minore o uguale a 35 mg/dl); ● Trigliceridi (maggiori o uguali a 250 mg/dl);
● Ipogonadismo: in uomini ipogonadici l'assunzione di testosterone diminuisce l'insulino resistenza e migliora il quadro glicemico;
● Disturbi del sonno, che favoriscono l'insorgenza della forma 2.
Anche l'età favorisce la comparsa del diabete, poiché essa si accompagna ad una riduzione fisiologica del testosterone e IGF-1 e quindi a una diminuita sensibilità dei tessuti periferici all'insulina.
Diabete di tipo 1
La forma di tipo 1 ha un'eziologia che si costituisce con il passare del tempo:
● Predisposizione genetica, fra i vari geni responsabili quello localizzato nella regione HLA del cromosoma 6;
● Stimolo immunologico. Diabete di tipo 2
Il diabete di tipo 2 ha un’eziologia multifattoriale, in quanto è causato dal concorso di più fattori, sia genetici che ambientali. Il riscontro di DM di tipo 2 è molto spesso casuale nel corso di esami di laboratorio a cui il paziente si sottopone per altri motivi, perché la patologia si instaura molto lentamente e occorre molto tempo prima che la sintomatologia possa divenire clinicamente manifesta; in molti pazienti i sintomi di iperglicemia e glicosuria non sono presenti. I fattori causali responsabili provocano la malattia attraverso il concorso di due meccanismi principali: l'alterazione della secrezione di insulina e la ridotta sensibilità dei tessuti bersaglio alla sua azione (insulino - resistenza). Difetti della secrezione di insulina sono presenti non solo nei pazienti diabetici di Tipo 2, ma molto spesso anche nei gemelli sani e nei familiari di primo grado; in questi ultimi è stata rilevata frequentemente anche resistenza all'insulina. Si pensa pertanto che il diabete Tipo 2 sia preceduto da una fase pre-diabetica, in cui la resistenza dei tessuti periferici all'azione dell'insulina sia compensata da un aumento della secrezione pancreatica di insulina. Soltanto quando si aggravano sia i difetti di secrezione insulinica che l'insulino-resistenza, in seguito all'invecchiamento, alla obesità, all'inattività fisica o alla gravidanza, si renderebbe manifesta prima l'iperglicemia post-prandiale e poi l'iperglicemia a digiuno. L'obesità viscerale riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo della resistenza all'insulina. Il tessuto adiposo è, infatti, in grado di produrre una serie di sostanze (leptina, TFN-α, acidi grassi liberi, resistina, adiponectina), che concorrono allo sviluppo della insulino-resistenza. Inoltre, nell'obesità, il tessuto adiposo è sede di uno stato di infiammazione cronica a bassa intensità, che rappresenta una fonte di mediatori chimici, i quali aggravano la resistenza all'insulina. Di conseguenza, i markers di infiammazione, come interleuchina 6 e proteina C-reattiva, sono spesso elevati in questo tipo di diabete.
Il metabolismo del glucosio
Il glucosio rappresenta la più importante fonte di energia per le cellule del nostro organismo e proprio per questo, oltre ad essere utilizzato immediatamente, viene anche immagazzinato in riserve di glicogeno. Il glucosio, dunque, dal sangue (nel quale viene disciolto dopo il processo di digestione degli alimenti) deve essere trasportato all'interno delle cellule per essere utilizzato e immagazzinato. L'insulina è il principale ormone che regola l'ingresso del glucosio dal sangue nelle cellule, il deficit di secrezione insulinica o l'insensibilità alla sua azione sono proprio i due meccanismi principali attraverso cui si espleta il DM. La gran parte dei carboidrati nel cibo viene convertita entro un paio di ore in glucosio. L'insulina è prodotta dalle cellule β del pancreas come esatta risposta all'innalzamento dei livelli di glucosio nel sangue (per esempio dopo un pasto): le cellule β del pancreas sono infatti stimolate dagli alti valori di glicemia e inibite dai valori bassi. Se la disponibilità di insulina è insufficiente (deficit di insulina) o le cellule rispondono inadeguatamente ad essa (insulinoresistenza) o se l'insulina prodotta è difettosa, il glucosio non può essere efficacemente utilizzato dal nostro organismo: la conseguenza di ciò è uno stato di carenza di glucosio nei tessuti con elevati valori nel torrente sanguigno. Quando la glicemia a digiuno supera i 126 mg/dl si parla di DM, mentre per valori compresi tra 110 e 125 mg/dl si parla di "alterata glicemia a digiuno" (fattore di rischio per la futura comparsa di DM). Il glucosio compare nelle urine (glicosuria) per valori di glicemia maggiori di 180/200 mg/dl.
Trattamento
Le linee guida per attuare una terapia in caso di DM non complicato prevedono l'adozione da parte del paziente di uno stile di vita adeguato e funzionale al trattamento farmacologico impostato. Senza voler prescindere dall'importanza di una dieta con apporto limitato di zuccheri semplici, studi recenti individuano come una precoce terapia insulinica possa scongiurare una progressione del diabete di tipo 2 in una percentuale maggiore che non con gli ipoglicemizzanti orali. Un regime
dietetico in cui i rapporti tra carboidrati, proteine, acidi grassi siano ben controllati è fondamentale affinché la terapia farmacologica riesca a controllare efficacemente la glicemia.
1. Contrariamente a quanto avveniva in passato, non si prescrivono più regimi nutrizionali ipoglucidici, ma si ritiene che l'apporto di carboidrati debba costituire il 50-55% del totale giornaliero di calorie, l'apporto di grassi circa il 30% (cercando di ridurre i grassi saturi a meno del 10%) e l'apporto proteico intorno al 10-20% (non più di 0,8-1 gr/kg/die).
2. L'alcool va assunto in quantità modesta se il paziente è ben compensato; è assolutamente sconsigliato nei pazienti in sovrappeso, con livelli di glicemia non ottimali nonostante la terapia, nei pazienti con ipertrigliceridemia.
3. Ultimamente si è dimostrato che le fibre, in quantità di 20-30 gr/die, sono utilissime nel controllo glicemico, dei trigliceridi, del peso corporeo attraverso un aumento del senso di sazietà. Un diabetico deve quindi incrementare l'assunzione di frutta, verdura e cereali.
Esercizio fisico
Il diabetes prevention program (DPP, letteralmente il programma di prevenzione del diabete) ha dimostrato che un modesto esercizio fisico giova soprattutto alla forma DM2 nella maggioranza dei casi, indicando come un esercizio fisico della durata di 30 minuti circa per 5 giorni alla settimana possa produrre effetti positivi, sia a livello di prevenzione che per quanto riguarda il ritardarsi dei possibili effetti. A meno che non sia controindicato per la coesistenza di altre patologie, l'esercizio riduce l'intolleranza al glucosio, migliorando la sensibilità all'insulina, e diminuisce i fattori di rischio cardiovascolari. L'effetto positivo si riscontra in entrambi i sessi e a qualunque età. Contrariamente a quanto si può pensare, capita che durante lo sforzo fisico la glicemia aumenti. Ciò che accade è che durante l'attività fisica ormoni come l'adrenalina e il glucagone vengono prodotti causando perciò un aumento della glicemia. Prima e/o dopo l'attività sportiva potrebbe essere opportuno diminuire l'insulina, in quanto lo sforzo fisico aiuta la funzione dell'insulina stessa: si calcola infatti che sotto sforzo l'azione dell'insulina sia potenziata del 20/30%. Basandosi sulle indicazioni del proprio medico curante ed eventualmente sui riscontri glicemici è quindi necessario apportare i dovuti cambiamenti alla terapia insulinica, tenendo conto di tali informazioni.
Il progetto della regione Toscana per l’Attività
Fisica Adattata
Cos’è l’Attività Fisica Adattata - AFA
L’Attività Fisica Adattata, o AFA, è un’attività fisica, non sanitaria, svolta in gruppo. E’ indicata per tutti i soggetti con ridotta capacità motoria legata all’età o a causa di patologie croniche. Tale progetto ha lo scopo di educare ad uno stile di vita sano e attivo per la prevenzione secondaria e terziaria della disabilità. I Piani Sanitari Nazionali e il Servizio Sanitario Regionale propongono come obiettivo primario la promozione e l’educazione di un’attività fisica regolare in tutta la popolazione, in particolar modo nei soggetti anziani. L’AFA non è un’attività riabilitativa, ma si inserisce nella fase cronico/stabilizzata delle patologie e, se continuata nel tempo, permette l’interruzione del circolo vizioso caratterizzato da sedentarietà-menomazioni-limitazioni funzionali-disabilità (Singh, 2002).
L’idea del protocollo AFA nasce in Toscana nel 2005 nell’USL 11 di Empoli, l’iniziatore del progetto è il Prof. Francesco Benvenuti, ex Direttore del Dipartimento Fragilità di Empoli.
L’evoluzione del progetto AFA
La Delibera 595/05
L’AFA viene instaurata in Toscana con la Delibera 595/05. Tale delibera è il provvedimento di attivazione delle disposizioni per la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) ed ha lo scopo di regolamentare le attività ambulatoriali di riabilitazione, individuando così i tre percorsi assistenziali:
1. Percorso assistenziale per sindromi algiche da ipomobilità; 2. Percorso assistenziale di medicina fisica;
3. Percorso assistenziale ambulatoriale di riabilitazione.
Il primo percorso individua l’attività fisica adattata, come alternativa di presa in carico per sindromi algiche da ipomobilità:
“Sono definite come sindromi algiche da ipomobilità le condizioni di artrosi con disturbo algofunzionale ed altre artropatie non specificate con disturbo algofunzionale caratterizzate da un andamento cronicizzante e con un bisogno di adattamento del proprio stile di vita. Per tali condizioni si ritengono appropriati programmi di attività motoria anche di tipo modificato e di gruppo, non necessariamente sanitari, che rientrano nel campo della educazione alla salute e della promozione di stili di vita corretti (igiene motoria e posturale fitness adattato). Tali programmi dovranno essere organizzati e resi accessibili su tutto il territorio regionale e previsti nell’ambito dei piani integrati di salute. Sono attori privilegiati del percorso: La medicina generale nei momenti specifici di educazione alla salute con indicazioni di igiene motoria e posturale da far gestire come self management; Le risorse presenti nelle comunità locali nella capacità di gestire attività motorie non sanitarie dedicate a soggetti con uno stato di salute compatibile con l’età ma con un bisogno di proposte
motorie mirate che favoriscano il mantenimento di uno stile di vita sano. A questo scopo si prevede l’inserimento di iniziative specifiche anche di tipo formativo nell’ambito dei medesimi programmi integrati di salute e la verifica dei cambiamenti indotti predisponendo allo scopo apposite elaborazioni e utilizzando i flussi informativi. Sono da utilizzarsi come riferimento, per quanto sopra riportato, le “Linee Guida regionali per la promozione della salute attraverso l’attività motoria.” ” (DGR 595/05)
La Delibera 595 fa riferimento alle “Linee guida regionali per la promozione della salute attraverso l’attività motoria”, adottate dal Consiglio Sanitario Regionale nel 2005, dove si specifica che l’AFA:
● non è un’attività sanitaria;
● è rivolta alla popolazione in condizioni di salute stabile per assenza di malattie acute o con riduzione delle capacità funzionali;
● è svolta sotto forma di attività di gruppo in luoghi deputati ad attività di socializzazione, fitness o palestre.
● i programmi di esercizio sono stati ideati per rispondere alle specifiche esigenze derivanti dalle differenti condizioni croniche: prevenzione delle fratture da fragilità ossea e delle patologie croniche stabilizzate negli esiti con limitazione della capacità motoria.
La Delibera 595 indica le modalità di accesso e i costi di tale attività. L’AFA è stata classificata come attività motoria ricreativa, per la quale non è richiesta certificazione medica, i percorsi AFA non sono compresi nei livelli essenziali di assistenza assicurati dal Servizio Sanitario Regionale e i soggetti aderiscono ai corsi con una quota massima di 2€ per seduta.
Le evidenze scientifiche
La Regione Toscana, prima che entrasse in vigore la Delibera 459/09, ha promosso delle attività di ricerca per valutare i protocolli di esercizio dei corsi AFA.
Di seguito verrà riportato il lavoro di ricerca descritto all’interno della Delibera 459/09.
“Per valutare l’efficacia e la sicurezza dei programmi di esercizio la Regione Toscana ha promosso programmi di ricerca nella AUSL di Empoli (DGR 367/2006) e nelle AUSL di Pisa, Siena, Prato ed Empoli (DGR 265/2007). Questo secondo studio, svolto con la consulenza scientifica dell’Università degli Studi di Firenze e con la supervisione dell’Istituto Superiore di Sanità e dei National Institutes of Health (USA), è iniziato nel dicembre 2007. L’AUSL11 di Empoli, l’ASL 5 di Pisa e la Casa di Cura “Ulivella Glicini” di Firenze partecipano inoltre allo studio “Efficacia di strategie di intervento basate sulla attività fisica in soggetti con esiti cronici di ictus cerebrale”, finanziato dall’Istituto Superiore di Sanità nell’ambito del progetto Obtaining Optimal Functional Recovery and Efficient Managed Care for the Chronic Stroke Population (convenzione N. 530/F20/2). Anche questo studio è condotto in collaborazione con Istituto Superiore di Sanità e i National Institutes of Health (USA) all’interno del Memorandum of Understanding del 2003 fra il Department of Health and Human Services USA ed il Ministero della Salute Italiano e avrà termine nel 2009. I risultati della prima fase dello studio sono stati presentati nel convegno “L’Attività Fisica Adattata nella fase cronica dell’Ictus Cerebrale: un Modello per il Sistema Sanitario Nazionale”, tenutosi il 9 febbraio 2007 presso la sede dell’Assessorato Diritto alla Salute della Regione Toscana. L’esperienza innovativa della Toscana ha destato interesse in altre Regioni italiane dove sono iniziate