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Marginalità sociale e vulnerabilità lavorativa. Progettare inclusione: gli interventi del Centro d'Ascolto Caritas e delle Acli di Pisa.

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione d’Impresa

e Politica delle Risorse Umane

Tesi di Laurea

Marginalità sociale e vulnerabilità lavorativa.

Progettare inclusione: gli interventi del Centro

d’Ascolto Caritas e delle Acli di Pisa

Relatrice:

Prof.ssa Sonia Paone

Candidata:

Elena Novara

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Indice

Introduzione 1

Capitolo Primo

Esclusione sociale e lavorativa 5

1.1 Scorciatoie per sfuggire a sentimenti negativi 7

1.2 Stigmatizzazione sociale e territoriale 11

1.3 Marginalità lavorativa 21

1.3.1 L’inserimento sociale e lavorativo delle minoranze autoctone 25

1.3.2 L’inserimento sociale e lavorativo delle minoranze straniere 30 1.4 Dalla teoria alla pratica 40

1.4.1 Sentenze a favore dell’inclusione sociale e lavorativa 42

1.4.2 Articoli di speranza 44

Capitolo Secondo Povertà, lavoro e lavoratori poveri 47

2.1 Nuove povertà 48

2.1.1 I senza fissa dimora 54

2.1.2 Gli stranieri 59

2.1.3 I disoccupati 63

2.1.4 I separati ed i divorziati 69

2.2 Nuove tipologie contrattuali e rischio di povertà 75

2.3 Working poors 82

Capitolo Terzo Interventi di inclusione del Centro d’Ascolto Caritas e delle Acli di Pisa 85 3.1 Il Centro d’Ascolto Caritas e la marginalità 87

3.1.1 Poveri e povertà 88

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3.2 Le Acli e l’inclusione lavorativa 110

3.2.1 Lavoro di rete con il Centro d’Ascolto Caritas 112

3.2.2 Modus operandi 114

3.2.3 L’incontro tra domanda e offerta di lavoro 117

Conclusione 122 Appendice 124 Bibliografia 132 Sitografia 134

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Introduzione

Questo lavoro di tesi nasce dalla voglia di conciliare un’attitudine, una predisposizione personale, volta a considerare lo stile di vita di chi vive ai margini e a dare un contributo nel processo che porta al superamento di condizioni di vita problematiche, con le tematiche affrontate durante il percorso di studi scelto e frequentato.

La realizzazione di questo elaborato è stata possibile grazie allo studio dei fenomeni interni alla banlieue, una zona periferica di Parigi che ospita quella porzione di abitanti che occupano una posizione tutt’altro che privilegiata all’interno del contesto sociale e hanno spesso difficoltà di inserimento lavorativo e problematiche di tipo occupazionale.

Lo spunto è nato in seguito all’esperienza di servizio civile, svolta all’interno del Centro d’Ascolto della Caritas di Pisa, che ha costituito l’osservatorio privilegiato dal quale scrutare il fenomeno della marginalità sociale e della vulnerabilità lavorativa di coloro che vivono situazioni di vita complesse. Allo stesso tempo, il lavoro condotto all’interno degli sportelli ha rappresentato il contesto nel quale poter conoscere le metodologie di intervento adottate e, realizzare progetti di inclusione. La riflessione seguita alla constatazione e alla sperimentazione in prima persona dell’esistenza di rapporti di comunicazione, coordinamento e collaborazione intrattenuti dal Centro d’Ascolto con le Acli di Pisa, che si occupano di inserire nel tessuto lavorativo, quelle persone che stentano a trovare un impiego, conciliando le richieste dei datori di lavoro con quelle degli aspiranti lavoratori, ha fornito un’ulteriore spinta per intraprendere l’approfondimento di questi temi.

Da un’iniziale illustrazione delle principali caratteristiche della banlieue, si è proseguito con la contestualizzazione e l’approfondimento delle medesime dinamiche nel territorio italiano e successivamente in quello pisano. A questo proposito sono stati riscontrati parallelismi e analogie.

Pertanto, lo studio della connessione esistente tra marginalità sociale e lavorativa, l’esperienza diretta volta ad approfondire la tematica dell’esclusione sociale e, la messa in pratica di metodologie di ricerca qualitative tese ad esaminare i processi di inclusione lavorativa, hanno costituito il filo conduttore per la realizzazione di questo lavoro di tesi.

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Con il fine di analizzare e illustrate questi aspetti sono stati elaborati tre capitoli. Nel primo capitolo, per mezzo del ricorso alla letteratura, all’osservazione di dati statistici, all’interpretazione di sentenze emanate dalle sezioni lavoro dei vari tribunali del paese, è stato constatato che i processi di esclusione sociale e di marginalità lavorativa si influenzano vicendevolmente.

Pertanto, vivere in quartieri dove sono dislocate abitazioni di edilizia residenziale pubblica, possedere bassi livelli di istruzione, una ridotta disponibilità economica, appartenere a minoranze etniche, può portare ad essere oggetto di stigmatizzazioni e di processi di esclusione che, limitando le possibilità di espansione della propria rete di riferimento, preclude anche le opportunità di ascesa sociale e di conseguenza anche quelle di inserimento lavorativo. Allo stesso modo, è stato rilevato che il ritrovarsi al di fuori del mercato del lavoro comporterebbe minori possibilità di inclusione sociale e di accettazione da parte della società. L’esclusione, oltre a presentare delle conseguenze in ambito sociale, ha dei risvolti anche sul fronte psicologico, pertanto, è stato fatto cenno anche al frequente ricorso, da parte di chi vive ai margini, a strategie di camuffamento del proprio status con la finalità di riuscire a distinguersi da un gruppo al quale non si vorrebbe appartenere e al contrario per cercare di essere e percepirsi inclusi nel resto della società.

Se i fenomeni di esclusione coinvolgono un elevato numero di minoranze autoctone, a causa del possesso di determinate caratteristiche che le contraddistinguono, si pensi in che modo ne vengono investite le minoranze straniere, che oltre a presentare tratti distintivi legati all’appartenenza territoriale, incontrano, nel paese di approdo, enormi difficoltà di adattamento e di inclusione.

Nel secondo capitolo, è stato approfondito il fenomeno della povertà e i cambiamenti a questo collegati, che hanno portato all’insorgenza delle cosiddette nuove povertà e all’ingresso in situazioni problematiche di nuove categorie di persone. Nuovi aspetti della vita, situazioni e difficoltà hanno investito ampie porzioni di società un tempo completamente al di fuori dalle dinamiche tipiche della marginalità.

Sempre più spesso gente qualificata, istruita, occupata, ben impiantata nella rete sociale e proveniente da famiglie in condizioni economiche stabili, sta sperimentando difficoltà anche nel soddisfare le proprie esigenze primarie. Ad emergere è il fenomeno dei working poors, questo coinvolge tutte quelle persone che nonostante posseggano un rapporto di lavoro si trovano a sperimentare analoghe situazioni di

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vita ed economiche di chi soffre la disoccupazione e stenta a condurre un’esistenza normale e dignitosa.

Se in passato, venivano condotti, dalle famiglie, stili di vita per lo più omogenei, caratterizzati dalla semplicità e dal consumo di beni necessari; nei nostri giorni si sta sperimentando la corsa all’ostentazione, al costante desiderio di condurre stili di vita al sopra delle proprie possibilità, alla continua ricerca del bello e di esperienze irripetibili. L’aspetto dell’innalzamento del tenore di vita auspicato, conciliato con l’attuale crisi economica e con il sopravvento di nuove tipologie contrattuali, genera l’instaurazione di rapporti di lavoro precari, temporanei, irregolari, part-time, poco tutelanti e retribuiti, i quali piuttosto che infondere sicurezza e benessere procurano instabilità e incertezza, non consentendo alle persone di progettare un futuro o nei casi limite portando le famiglie all’insufficienza e all’incapacità di spesa.

Nel terzo capitolo, al fine di mostrare i progetti e gli interventi di inclusione volti a fronteggiare, e se possibile annullare, gli effetti della marginalità sociale e della vulnerabilità lavorativa, ma anche di contestualizzare gli aspetti precedentemente illustrati; si è proceduto con la presentazione dell’operato e degli obiettivi del Centro d’Ascolto Caritas e delle Acli di Pisa.

Si tratta di due enti che, attraverso la continua collaborazione e comunicazione, si occupano di accogliere coloro che vivono situazioni di particolare disagio e marginalità e, di progettare inclusione, sociale da un lato e lavorativa dall’altro. Si è preso atto, attraverso l’osservazione diretta, che i processi di esclusione sociale vengono fronteggiati attraverso i servizi e i progetti personalizzati offerti dal Centro d’Ascolto, il quale per mezzo di interventi di bassa soglia tende a combattere le cause che generano difficoltà e a promuovere stili di vita autonomi e tendenti alla partecipazione e all’inclusione sociale.

Gli operatori degli sportelli d’ascolto, ogni qualvolta vengono a conoscenza di situazioni caratterizzate da difficoltà o precarietà lavorativa, attivano una coordinazione con gli addetti dello Sportello Incontra Lavoro delle Acli, che a loro volta interagiscono con i primi per segnalare le situazioni di particolare disagio sociale di cui sono venuti a conoscenza.

Ciò che è emerso, mediante la messa in pratica di metodologie di ricerca qualitative, è che le Acli, mirano ad inserire in rapporti di lavoro regolari e tutelanti, quelle persone che si ritrovano a sperimentare situazioni di vulnerabilità lavorativa.

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Assolve questo compito attraverso l’intermediazione effettuata per mezzo dell’ascolto e della decodifica delle richieste e dei bisogni dei datori di lavoro che cercano personale da assumere, incrociandole con i vari profili degli aspiranti lavoratori.

Dunque, il proposito dell’elaborato, è quello di dimostrare che per quanto complicato e complesso possa essere, è possibile predisporre interventi mirati a promuovere l’inclusione delle persone che vivono ai margini, che sperimentano condizioni di vita difficili e problematiche.

Le persone, comprese quelle che hanno perso la speranza, sono da considerare come risorse, piuttosto che come oggetto di stigmatizzazione, in grado di poter dare il proprio contributo anche nel mondo del lavoro. Spesso per farlo, però, hanno bisogno di trovarsi al centro di una rete di sostegno, che attraverso l’ascolto attivo e la vera attribuzione di responsabilità alla persona, è in grado di ridare dignità, assicurare diritti e progettare inclusione.

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Capitolo Primo

Esclusione sociale e lavorativa

La banlieue oltre ad essere un’area periferica francese, dove si concentrano minoranze, marginalità sociale, vulnerabilità lavorativa e fenomeni di camuffamento del proprio status, messi in pratica per il desiderio di essere maggiormente accettati e inclusi dalla società; costituisce anche l’argomento dal quale nasce la riflessione che la marginalità oltre ad essere intesa in senso sociale deve anche essere collegata alle periferie urbane, quelle zone meno attraenti della città, che rappresentano l’unica possibilità abitativa per chi affronta periodi di vita complessi.

In tal caso si parla di marginalità territoriale, nel senso che, nei nostri giorni, l’appartenenza ad una determinata area geografica, sempre più spesso, finisce per costituire un negativo fattore di identificazione anche per chi, tutto sommato, gode di una buona reputazione ma ha avuto la disgrazia di ritrovarsi a guadagnare meno di quanto gli occorra per potersi mantenere.

Inoltre, lo studio della banlieue e dei meccanismi che la contraddistinguono, hanno innescato lo sviluppo di riflessioni legate alla difficoltà, riscontrata dai cosiddetti soggetti marginali, nel processo di ricerca del lavoro, ma anche legate alla voglia di analizzare e approfondire i metodi di reclutamento messi in pratica dai datori di lavoro e alla gestione di queste risorse umane.

Come anticipato, la periferia francese si distingue dalle zone centrali, per concentrare al proprio interno la parte povera della popolazione e le minoranze, che vivono in condizioni di marginalità non solo sociale ma anche territoriale.

Si distingue anche dal ghetto americano, dove frequentemente esplodono fenomeni di criminalità e violenza ed è molto più facile imbattersi in situazioni pericolose.1 Pertanto la situazione della banlieue, piuttosto che quella del ghetto, è maggiormente assimilabile a quella delle altre periferie europee, comprese quelle italiane.

L’esclusione è una condizione esperita non solo da chi è considerato marginale, povero e deviante, e quindi da chi appartiene ad un gruppo minoritario, da coloro i quali non possiedono un’occupazione o sono impiegati in attività lavorative precarie

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e a basso salario, ma anche da tutti quelli che abitano le zone di edilizia residenziale pubblica, i luoghi diffamati e i quartieri stigmatizzati per il semplice motivo di vivere in un appartamento situato in un luogo piuttosto che in un altro.

La riflessione che parte dall’analisi della stigmatizzazione sui residenti delle

banlieues francesi è asportabile alle periferie e al contesto italiano generale, con non

pochi parallelismi.

L’attenzione è costantemente posta sull’intreccio di fattori sociali e lavorativi che insieme contribuiscono a creare differenze e conseguentemente divisione.

Come affermato da studiosi di sociologia “le strutture sociali, insieme a culture, valori e rappresentazioni, e il loro reciproco confronto/conflitto, concorrono a determinare storicamente le forme e i significati della divisione del lavoro.”2

Tra fattori sociali e lavorativi vi è dunque un rapporto molto più stretto di quanto si possa immaginare dato che “il lavoro non è soltanto un modo per guadagnarsi da vivere. È il più efficace dispositivo di integrazione nella società.”3

La presenza di stigmatizzazioni sociali e o territoriali produce effetti negativi non solo in ambito sociale, ma anche sul versante lavorativo e in particolare sulla domanda del lavoro non qualificato e sottopagato, dietro al quale vigono meccanismi di reclutamento e selezione del personale differenti rispetto a quelli che sottostanno al recruiting dei profili lavorativi elevati.

La marginalità che ne deriva è dovuta dall’intreccio di fattori sociali e lavorativi, tra i quali figura anche il processo di etichettamento della persona in base alla posizione che occupa all’interno del sistema di produzione; è come se l’individuo venisse definito esclusivamente per la professione svolta e finisse per assumere dei connotati direttamente collegati con l’immagine e le caratteristiche attribuitegli dai membri dell’outgroup.4

I processi di emarginazione lavorativa che ne derivano interessano non soltanto le minoranze autoctone ma anche, e in misura più accentuata, la popolazione straniera approdata nel nostro paese.

La discriminazione nel mercato del lavoro esiste ed è percepibile, in particolar modo quando nel processo di selezione del personale entrano in gioco colloqui e incontri

2 Cit. P. Barrucci, Le divisioni del lavoro sociale. Dagli spilli di Smith alle catene transnazionali del

valore, FrancoAngeli, Milano, 2015, p. 18.

3 Cit. M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia, il Mulino, Bologna, 2002,

p. 10.

4 F. Dubet, Integrazione, coesione e disuguaglianze sociali, in Stato e Mercato, Il Mulino, vol.88, n.1,

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piuttosto che procedure concorsuali completamente oggettive, prive di segni di riconoscimento, basate sul merito e non sulle impressioni personali.

La prova di quanto affermato è rappresentata non esclusivamente attraverso l’elaborazione di una grande mole di informazioni contenute nei testi scritti, ma anche dall’osservazione di dati statistici, dalla lettura di sentenze emanate da diverse sezioni lavoro dei tribunali e, di articoli contenuti sui quotidiani e sulle riviste scientifiche di settore.

1.1 Scorciatoie per sfuggire a sentimenti negativi

La banlieue si caratterizza per la composizione etno-razziale eterogenea degli abitanti, infatti nello stesso quartiere convivono persone dalle provenienze pluri-etniche più disparate e per converso non si riscontrano segregazioni spaziali di una determinata categoria di persone. Infatti, ”La 'banlieue', o anche 'il grande complesso' o la 'citè' non rappresentano per niente realtà omogenee dal punto di vista sociologico.”5

La periferia francese intrattiene legami socio-economici, spesso insufficienti, con il centro che si esplicano in continui scambi con l’ambiente circostante, ma si distingue dalle zone centrali per l’atmosfera cupa che si respira e la avvolge a causa della presa di coscienza che il proprio ambiente di provenienza è visto dall’esterno in modo negativo, è identificato con la miseria e l’esclusione sociale, nonché dall’opprimente constatazione dello stigma che ne deriva e che li investe.6

La maggior parte degli abitanti è consapevole di provenire da un ambiente malfamato che li penalizza su diversi ambiti della vita, essi stessi guardandosi intorno non possono fare a meno di additarlo come negativo, soprattutto dopo aver provato sulla propria pelle l’assoggettamento alla stigmatizzazione, legata congiuntamente ad aspetti sociali e spaziali, infatti “… vivere in complessi abitativi a basso costo, a cui è strettamente associata la povertà, la criminalità e il degrado morale nella mente dell’opinione pubblica, pervade ogni sfera della esistenza quando si tratta di cercare un impiego, di intrattenere una relazione, di rapportarsi

5 Cit. R. Castel, op. cit., p. 33.

6 L. Wacquant, I reietti della città. Ghetto, periferia, stato, trad. it. Sonia Paone, Agostino Petrillo,

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con le agenzie pubbliche siano esse la polizia o i servizi sanitari e sociali, o semplicemente di intraprendere una discussione con conoscenti.”7

Quando si fa riferimento al concetto di differenziazione, si intende il “processo attraverso il quale le parti di una popolazione o di una collettività, […] acquisiscono gradatamente una identità distinta […] alla luce di categorie sociali e per cause sociali.”8

In questo contesto, è frequente la sensazione di disagio e di vergogna provata ogni qualvolta si presenta loro la necessità di svelare il proprio indirizzo o di invitare qualcuno, per questo non di rado tendono a screditare l’altro, l’appartenente a una cultura differente e a negare le relazioni di vicinato. Le relazioni intergruppo sono così connotate da aspetti escludenti, per cercare di differenziarsi ma soprattutto di dissociarsi da un gruppo al quale non si vorrebbe appartenere e con il quale alcuni non sentono di avere nulla in comune.9

“I gruppi competono per differenziarsi in maniera a loro favorevole, così da ottenere una distintività positiva, e ciò fornisce un’identità sociale positiva all’individuo che ne è membro.”10 In questo modo il processo di differenziazione che avviene

all’interno del gruppo minoritario ma anche quello che viene perpetrato nei suoi confronti dall’esterno tendono a coincidere, in entrambi i casi le persone desiderano distinguersi in modo positivo dagli altri, cercano un meccanismo per accrescere l’immagine che gli viene attribuita e allo stesso tempo la considerazione che hanno di se stessi.

“Sul piano istituzionale ciò si traduce in quei fenomeni di risegregazione che, più spesso di quanto non si creda, annullano i migliori sforzi di rendere più armoniche e realmente più integrate le relazioni fra membri di gruppi e culture diverse.”11

Un’altra strategia di distinzione sociale consiste nell’affermare di trovarsi solo temporaneamente, e non stabilmente, in questi quartieri a causa di fenomeni accidentali che hanno coinvolto le loro vite, in attesa di risolvere i problemi incontrati. In questo caso viene fatto affidamento su un sistema di credenze basato

7 Cit. Ibidem, p.200.

8 L. Gallino, Dizionario di Sociologia, UTET, Torino, 2004, p.222. 9 L. Wacquant, op. cit., pp.201-205.

10Cit. M. A. Hogg, G. M. Vaughan, Psicologia sociale. Teorie e applicazioni, trad. it. L. Arcuri,

Pearson, Milano, 2012, p.213

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sulla mobilità sociale, alimentato dalla speranza che con il tempo si possa realizzare un avanzamento di grado all’interno della gerarchia esistente tra i gruppi.12

In questo modo gli abitanti appaiono continuamente gli uni contro gli altri, non provano il sentimento di appartenenza e non sentono di condividere la stessa situazione, nutrono, piuttosto, disprezzo e diffidenza nei confronti dei propri luoghi e dei loro simili, finendo per allentare i già deboli legami sociali intrattenuti con i vicini e per confermare la visione di separazione sociale e di tensione negativa proveniente dall’esterno.13

A tal proposito, tra i dati rilevati dall’Istat, l’istituto nazionale di statistica che si occupa di mantenere sempre aggiornata la banca dati delle statistiche periodicamente prodotte, figurano dati relativi alla fiducia interpersonale esperita dalla popolazione (cfr. Tab. 1.1).

Tabella 1.1: Fiducia interpersonale, 14 anni e più, valori per cento.

Fiducia interpersonale - Vicino di casa Molto 33.3 Abbastanza 36.8 Poco 18.7 Per niente 9.4 - Sconosciuto Molto 1.9 Abbastanza 9.6 Poco 41 Per niente 45.5

Fonte: Istat, Vita quotidiana e opinione dei cittadini, Fiducia interpersonale, 2017.

In questo modo è possibile conoscere le abitudini delle persone sottoposte all’indagine e i problemi che queste quotidianamente si trovano ad affrontare. 14

Nello specifico si può osservare che la tendenza è, in genere, quella di avere maggiore fiducia nei confronti dei vicini di casa, che rappresentano volti noti e,

12 M. A. Hogg, G.M. Vaughan, op. cit. p. 213. 13 L. Wacquant, op. cit., p.221.

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minore fiducia verso i perfetti sconosciuti. Questi dati non tengono comunque conto del quartiere di residenza e delle varie tipologie di relazioni di vicinato considerate in precedenza, che possono contribuire a creare le condizioni per la formazione di fenomeni di isolamento e marginalità.

Quando il pregiudizio e le aspettative, in questo caso provenienti dai quartieri centrali, creano condizioni in grado di confermare lo stereotipo, si parla di profezia che si autoadempie, “le rappresentazioni sociali tendono quindi a trasformarsi in realtà. L’immigrato rappresentato come marginale lo diventa.”15 In questo modo, “gli

individui stigmatizzati sono consapevoli che gli altri possono giudicarli e trattarli in maniera stereotipata: nei compiti di vero interesse per loro, temono di poter confermare attraverso il proprio comportamento gli stereotipi: temono cioè che il proprio comportamento incarni una profezia che si autoavvera”16, è quindi evidente

come entrambi i processi, di stigmatizzazione e di ricerca di dignità, ruotino l’uno attorno all’altro, finiscano per convergere e per confermare continuamente lo status quo.

“La gente qui comunemente nasconde il proprio indirizzo, evita che la famiglia e gli amici li visitino a casa, e si sentono in dovere di scusarsi per il fatto di risiedere in una località malfamata, che macchia l’immagine che hanno di se stessi”.17

Probabilmente tutte queste strategie di distinzione sociale e i vari atteggiamenti di dissociazione vengono messi in pratica per cercare una via di fuga, da una situazione di disagio e di esclusione, che gli consenta di apparire e sentirsi non solo migliori ma soprattutto accettati dall’esterno del quartiere.

In ogni caso si viene a delineare una situazione in cui “discriminazione e ripiegamento identitario si rafforzano vicendevolmente, con effetti cumulativi che tendono ad irrigidire i rapporti interetnici, o verso una sostanziale indifferenza reciproca”.18

A partire dalla considerazione che “… l’idea stessa di una relegazione in uno spazio separato di inferiorità e di immobilità sociale istituzionalizzate rappresenta una palese violazione della ideologia francese di una cittadinanza unitaria e di una partecipazione aperta alla comunità nazionale”19, si può affermare che tale processo

15 Cit. M. Ambrosini, op. cit. p. 171.

16 Cit. M. A. Hogg, G. M. Vaughan, op. cit, p.201. 17 Cit. L. Wacquant, op. cit., p.265.

18 Cit. M. Ambrosini, op. cit. p. 180. 19 Cit. L. Wacquant, op. cit., p.206.

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appare escludente anche nel complesso contesto italiano, dove la discriminazione palese è in declino ma si continua a rilevare la presenza di forme sottili e indirette di pregiudizio e stereotipo, e la tendenza a condurre vite separate rispetto all’altro percepito come diverso.20

1.2 Stigmatizzazione sociale e territoriale

“Una «connotazione negativa di luogo» viene quindi a sovrapporsi alla stigmatizzazione già esistente, tradizionalmente associata alla povertà e all’origine etnica o allo status di immigrato postcoloniale, a cui è strettamente legata, ma non riducibile.”21

Fin dagli antichi greci, quando si è fatto riferimento al processo di stigmatizzazione si è intesa l’attribuzione di una connotazione negativa, in modo da declassare a un livello inferiore le persone percepite come diverse e sovente come una minaccia, per distinguerle dal proprio gruppo di appartenenza ritenuto gerarchicamente superiore. Il termine deriva da una pratica antica in cui lo stigma rappresentava un marchio impresso sulla pelle dei malfattori e degli schiavi per renderli facilmente distinguibili e identificabili come tali.22

“I greci, che sembra fossero molto versati nell’uso dei mezzi di comunicazione visiva, furono i primi a servirsi della parola 'stigma' per indicare quei segni fisici che vengono associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione morale di chi li ha. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, o comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato, specialmente nei luoghi pubblici.”23

Da allora il termine stigma è usato per conferire un’etichetta alle minoranze.24

Il pregiudizio, lo stereotipo e la discriminazione che ne sono associati, rappresentano fenomeni molto comuni che si caratterizzano per l’uso di etichettature negative e per

20 B. M. Mazzara, op. cit., p.9. 21 Cit. L. Wacquant, op. cit. p. 264.

22 N. Zingarelli, stigma in Il nuovo Zingarelli minore, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli,

Bologna, 2008, p.1204.

23 Cit. E. Goffman, Stigma, l’identità negata, trad. it. R. Giammanco, Ombre corte, Verona, 2003, p.

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trattamenti escludenti ed ingiusti dell’altro fino a rifiutarlo e a trasformarlo in nemico.

Il pregiudizio, etimologicamente inteso come giudizio prematuro, consiste appunto nel trarre conclusioni affrettate e spesso errate e penalizzanti, piuttosto che favorevoli, riguardo la valutazione di un individuo. Non avendo a disposizione tutte le informazioni necessarie per poter avanzare un giudizio, induce a basarsi meramente su dei segni distintivi apparentemente rilevanti che disincentivano la ricerca della conoscenza corretta della realtà e approfondita della persona.25

Lo stereotipo è il processo cognitivo che sottostà alla formazione del pregiudizio. Consiste in una semplificazione grossolana e rigida della realtà, come indica la stessa etimologia del termine, dal greco stereòs, rigido e tùpos, impronta, non tiene conto della complessità e della varietà delle situazioni e dei fenomeni e favorisce l’agevolazione di associazioni e una rapida comprensione della realtà. È comunemente utilizzato in forma difensiva e si caratterizza per un’alta condivisione sociale interna al gruppo.26

La discriminazione è invece l’espressione manifesta che si palesa a fronte dell’elaborazione di uno stereotipo e del nascere di un pregiudizio, consiste nella messa in pratica di un comportamento, sia diretto che indiretto, in grado di produrre un trattamento non paritario di una persona o di un gruppo, in virtù della loro appartenenza ad una determinata categoria. Secondo l’art. 43 del d.lgs. 286/98 “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose (…..) In ogni caso compie un atto di discriminazione (….) c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio , all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”27

Questi fenomeni sociali interessano prevalentemente minoranze di vario tipo, gruppi etnici diversi dal proprio, la parte di popolazione considerata più povera, compresa

25 B. M. Mazzara, op. cit. pp. 10-14. 26 Ibidem, pp.14-19.

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quella relegata nei quartieri più disagiati delle città, chi possiede un basso livello di istruzione e chiunque altro si distingua dalla maggioranza per connotazioni fisiche o sociali fuori dal comune.

Rispetto al titolo di studio, i dati statistici (cfr. Tab. 1.2) mostrano che in genere si tende ad essere prudenti piuttosto che fiduciosi nei confronti degli altri, ma il titolo di studio posseduto influenzerebbe il grado di fiducia interpersonale esperito.

Nella precisione, si osserva che più è elevato il livello d’istruzione delle persone, più queste tenderebbero a dare fiducia, mentre più è basso, maggiore sarebbe, per converso, la probabilità di provare sfiducia e diffidenza nei confronti degli altri. La spiegazione di tali dati potrebbe risiedere nel fatto che le persone meno istruite hanno minori possibilità di riuscita sia nel contesto sociale che lavorativo e ritrovandosi ai margini sperimenterebbero di frequente un minor grado di coinvolgimento che li porterebbe ad essere maggiormente diffidenti rispetto a chi possiede maggiori risorse da impiegare nel contesto lavorativo quanto in quello sociale.

Tabella 1.2: Fiducia interpersonale – titolo di studio, valori per cento.

Fiducia interpersonale in base al titolo di studio

Nessuna licenza/ scuola elementare Licenza scuola media Diploma Laurea e post laurea Gran parte della

gente è degna di

fiducia 12.4 16.4 21.8 32.3

Bisogna stare

molto attenti 86 81.8 76.8 66.1

Fonte: Istat, Vita quotidiana e opinione dei cittadini, Fiducia interpersonale, 2017.

Anche a proposito della condizione professionale, l’Istat fornisce dati relativi alla fiducia interpersonale (cfr. Tab. 1.3).

Come nell’analisi precedente, ad emergere è la tendenza ad essere generalmente prudenti, anche se chi non ha un impiego tende ad esserlo leggermente di più rispetto a chi è occupato.

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Tabella 1.3: Fiducia interpersonale – condizione professionale, valori per cento.

Fiducia interpersonale in base alla condizione professionale Occupato Disoccupato Gran parte della gente

è degna di fiducia 23.5 16.3

Bisogna stare molto

attenti 74.9 80.2

Fonte: Istat, Vita quotidiana e opinione dei cittadini, Fiducia interpersonale, 2017.

Nel dettaglio, i dati mostrano che gli occupati sperimentano un grado di fiducia maggiore nei confronti degli altri, mentre i disoccupati con un più alto tasso di sfiducia nei confronti degli altri, finirebbero per alimentare la situazione di emarginazione percepita.

In sintesi, questi dati potrebbero essere interpretati allo stesso modo di quelli precedenti, finendo per confermare le osservazione sopra avanzate

Ulteriori dati, mostrano come posizioni di lavoro usuranti e ancor più la disoccupazione inducano le persone ad essere più diffidenti rispetto a chi nel lavoro ricopre cariche elevate (cfr. Tab. 1.4).

Tabella 1.4: Fiducia interpersonale – posizione nella professione, valori per cento.

Fiducia interpersonale in base alla posizione professionale

Dirigente Impiegato Operaio Disoccupato Gran parte della

gente è degna di

fiducia 32.8 27.8 16.9 15.7

Bisogna stare molto

attenti 66.3 71.1 81.4 82.3

Fonte: Istat, Vita quotidiana e opinione dei cittadini, Fiducia interpersonale, 2017.

La categorizzazione che consegue all’applicazione di stereotipi, pregiudizi e discriminazione è dannosa per le persone che vengono etichettate negativamente, ha

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delle ripercussioni personali che incidono sulle relazioni sociali e sulle possibilità di riuscire ad ottenere un impiego lavorativo.

La sociologia, abbina il sé a fattori non solo individuali ma anche sociali, per cui la persona finisce per avere un’idea di sé, in questo caso negativa, influenzata dalle interazioni sociali intrattenute e in funzione al confronto con la fotografia di sé che la società gli pone davanti e, anche se quest’ultima, per ovvie ragioni, non corrisponde alla realtà, influenza la costruzione di un’identità sociale che determina il modo in cui gli individui pensano a se stessi e si comportano.28

Anche teorie psicologiche, come quella del confronto sociale sostenuta da Leon Festinger, descrivono come le persone costruiscano la propria autostima attraverso l’interazione con gli altri e quindi mediante l’immagine di sé che gli viene proiettata dall’esterno.29

Le deformazioni fisiche, gli aspetti criticabili del carattere, la differenza culturale e religiosa sono le caratteristiche giudicate da Erving Goffman maggiormente soggette a stigmatizzazioni che, indubbiamente, si ripercuoterebbero sull’individuo30, mentre il luogo di residenza non viene menzionato tra i fattori che

potrebbero determinare l’emarginazione sociale, eppure basta guardarsi attorno per verificare che l’appartenenza a un quartiere povero e degradato può “'squalificare l’individuo' e privarlo della 'accettazione integrale da parte degli altri'. […] l’infamia territoriale presenta proprietà analoghe a quelle delle stigmatizzazioni a base corporea, morali e tribali, e pone dilemmi sulla gestione delle informazioni, sulla formazione dell’identità e delle relazioni sociali”.31

È, infatti, evidente in tutte le città occidentali il fenomeno di disuguaglianza urbana, di polarizzazione della città in due blocchi, tra i quali vige una forte disparità degli stili di vita.

Lo spazio urbano ospita da un lato gli abitanti benestanti che possono fare affidamento su un reddito sicuro che deriva da una stabilità lavorativa e per questo motivo possono permettersi di mantenere delle abitazioni nei quartieri più in vista della città; mentre nei margini, dove le abitazioni costano meno, vive l’altra parte di popolazione, che si caratterizza per essere generalmente meno istruita, straniera, per

28 F. Crespi, Il pensiero sociologico, Il Mulino, Bologna, 2002, pp.161-164. 29 M. A. Hogg, G. M. Vaughan, op. cit. p. 70.

30 E. Goffman, op. cit., pp.14-15. 31 Cit. L. Wacquant, op. cit. p. 264.

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soffrire la disoccupazione e per avere origini nei ceti inferiori; questa con un basso reddito e una situazione economica incerta stenta ad arrivare alla fine del mese.32 “Le città non sono riuscite ad assorbire la quantità crescente di lavoratori immigrati, così questi sono rimasti ai bordi esterni dell’area urbana, non riuscendo più a permettersi lo spostamento verso zone migliori”33, mentre “le categorie di abitanti che esercitano mestieri meglio protetti e più remunerati, e per i quali la scelta di abitare in un grande complesso spesso non era pensata che come una tappa provvisoria del loro percorso residenziale, lasciano le città. Accedono alla proprietà immobiliare realizzando il vecchio sogno del villino a schiera, oppure vanno ad abitare zone periurbane riservate alle classi medie”.34

In questo modo, i quartieri abbandonati finiscono per diventare luoghi di relegazione, dove i livelli di disoccupazione, povertà e di precarizzazione delle relazioni di lavoro sono in aumento e colpiscono quella fascia di popolazione che non ha possibilità di scelta riguardo la situazione abitativa e pertanto rimane confinata tra le categorie più fragili della città.35

L’Istat ha rilevato dati anche riguardo al titolo di godimento dell’abitazione in base al titolo di studio (cfr. Tab. 1.5).

Tabella 1.5: Titolo di godimento dell’abitazione (in affitto o di proprietà): Titolo di studio del

principale percettore, valori per cento.

Tipo di abitazione in base al titolo di studio

Affitto Propria Licenza scuola elementare/

nessun titolo 16.9 83.1

Scuola media 25.7 74.3

Diploma 18.9 81.1

Laurea e post-laurea 14.6 85.4

Fonte: Istat, Condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze, Condizioni abitative, 2016.

32 Ibidem, p. 275.

33 Cit. D. Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Editori Laterza, Bari,

2015, p. 56.

34 Cit. R. Castel, op. cit., p. 32. 35 Ibidem, pp. 30-35.

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Dall’osservazione di questi emerge che la stragrande maggioranza della popolazione, indipendentemente dal titolo di studio posseduto, vive in una casa di proprietà, per cui la credenza che chi possiede un livello di istruzione più elevato ha più probabilità di vivere in un’abitazione propria, mentre chi ha un livello di istruzione inferiore ha maggiori probabilità di vivere in un’abitazione in affitto, in funzione del fatto che i più istruiti provengono da famiglie che si contraddistinguono per il possesso di titoli di studio elevati, e che quindi hanno potuto garantire alle generazione successive un tenore di vita analogo a quello esperito a loro volta, offrendo la possibilità di continuare gli studi dopo la fine della scuola dell’obbligo e fornendo anche aiuti materiali, come ad esempio un’abitazione o i mezzi per poterla acquistare, viene in questo caso smentita.

La stessa rilevazione è stata effettuata a proposito della condizione professionale (cfr. Tab. 1.6).

Tabella 1.6: Titolo di godimento dell’abitazione (in affitto o di proprietà): Condizione professionale

del principale percettore, valori per cento.

Tipo di abitazione in base alla condizione professionale Affitto Propria

Indipendente 17 83

Dipendente 24.6 75.4

In cerca di occupazione 34 66

Totale 19.7 80.3

Fonte: Istat, Condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze, Condizioni abitative, 2016.

A possedere un’abitazione propria sono per lo più coloro i quali posseggono un lavoro, sia indipendente che dipendente; mentre costituiscono la maggioranza a vivere in un’abitazioni in affitto coloro che sono in cerca di un’occupazione, seguiti dai lavoratori dipendenti e solo alla fine dai lavoratori indipendenti.

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Così, dato che l’assenza di un lavoro può essere collegata alla conduzione di un tenore di vita modesto, si può affermare che “tra le famiglie povere risultano sovra-rappresentate le famiglie con abitazione in affitto”.36

Un’altra spiegazione della polarizzazione urbana deriva dalla concentrazione degli stranieri nelle zone più povere e già in declino della città. “Ovunque nel mondo l’arrivo di immigrati (poveri) è visto come un fattore di degrado dei quartieri e degli immobili in cui la loro concentrazione è più cospicua o comunque manifesta, e come una minaccia per la sicurezza e la tranquillità dei residenti.”37 In questo modo, agli

occhi dei residenti, il decoro e la sicurezza dei propri luoghi appaiono mutati in negativo e di conseguenza, i più abbienti, tendono a trasferirsi in una posizione giudicata maggiormente favorevole e sicura, delineando la divisione spaziale tra popolazione vulnerabile e benestante.38

Così, in periferia “chi è in possesso di una formazione di livello inferiore rischia di perdere il lavoro, o, se già disoccupato, di vedere ridursi drasticamente le sue possibilità occupazionali”39, per cui si tratta di un luogo quotidianamente pervaso dal

senso di incertezza e frequentemente sottoposto all’emarginazione e alla stigmatizzazione “sempre più legata non solo alla classe e alla origine etnica, ma anche al fatto di vivere in quartieri degradati e degradanti”40.

È come se le minoranze fossero spazialmente relegate in una condizione di povertà non solo economica ma anche sociale, la stigmatizzazione che ne deriva non è puramente legata alla classe di appartenenza o all’origine etnica ma anche al territorio di residenza soprattutto se questo è percepito come degradato; è come se “la marginalità si presentasse con un mix di aspetti sociali e spaziali.”41

A proposito del concatenarsi di fattori che contribuisco a perpetrare una situazione dalla quale si vorrebbe sfuggire, si pensi alla povertà; riguardo questo fenomeno si sono sviluppati nel tempo differenti approcci, come quello oggettivo che per definire l’entità del fenomeno prende in considerazione il livello del reddito e quindi indicatori economici e concreti; al contrario, l’approccio soggettivo si basa sulla percezione che ciascuno ha del proprio stato, compresa la condizione abitativa, ed è

36 Cit. G. Rovati, op. cit. p. 131. 37 Cit. M. Ambrosini, op. cit. p.177. 38 Idem.

39 Cit. L. Wacquant, op. cit. p. 5. 40 Cit. Ibidem, p.53.

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realizzata anche in base al feedback ricevuto da parte della comunità; l’approccio complementare, infine, collega i due precedenti in un ottica multidimensionale in modo da connettere tutti gli aspetti, sia soggettivi che oggettivi, che insieme determinano lo stato di malessere.42

Ciò che deriva da queste situazioni è l’alienazione spaziale, la sensazione di inferiorità, lo smarrimento del senso di appartenenza e di comunanza.43

Lo stigma territoriale, al contrario di quello sociale, nonostante condivida con questo la possibilità di essere ereditato, può essere annullato o nascosto cambiando o celando l’appartenenza territoriale.44

Pertanto, “quando tale diversità non risulti immediatamente evidente, e non sia conosciuta in anticipo, o almeno lui non sappia che altri lo sanno, quando dunque egli è una persona screditabile e non screditata, allora si ha la seconda fondamentale possibilità.”45

Riferito alla vita condotta all’interno della banlieue, così come ritenuto da Goffman, “lo stigma residenziale non è legato in maniera univoca ad un marcatore fenotipico o culturale che li cataloga automaticamente come membri della cintura rossa, e l’uso di semplici tecniche di 'gestione dell’impressione' permette di disfarsene, anche se temporaneamente.”46 “La cooperazione dello stigmatizzato con le persone normali

nel far sì che la sua conosciuta diversità appaia irrilevante e inosservata costituisce una fondamentale possibilità della sua vita.”47

Le persone cercano così di evadere per evitare di essere assimilate con la parte di popolazione maggiormente soggetta all’emarginazione, e inserite all’interno di una classificazione che genera disprezzo e differenziazione. Allo stesso modo “gli adolescenti delle periferie operaie parigine amano 'trascinarsi' nei quartieri di lusso e nei centri commerciali della capitale per sfuggire alla noia costante del loro quartiere ed avere un senso di eccitazione. Percorrendo gli spazi che contemporaneamente simboleggiano e contengono la vita delle classi più elevate […], possono vivere per qualche ora una fantasia di inclusione sociale e di partecipazione, sia pure per delega, nella società più ampia.”48

42 G. Rovati, Povertà e lavoro. Giovani generazioni a rischio, Carocci editore, Roma, 2007, pp. 59-65. 43 L. Wacquant, op. cit. pp. 267-270.

44 Ibidem, p.264.

45 Cit. E. Goffman, op. cit., p. 58. 46 Cit. L. Wacquant, op. cit., p.209. 47 Cit. E. Goffman, op. cit., p. 58. 48 Cit. L. Wacquant, op. cit., p.209.

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Dato che “in ogni metropoli […], uno o più distretti, quartieri o zone di edilizia residenziale pubblica sono pubblicamente noti e riconosciuti come inferni urbani in cui la violenza, il vizio e l’abbandono sono nell’ordine delle cose”49 ciò che al loro

interno viene fortemente sperato è il desiderio di inclusione sociale che è in grado di provocare forti sofferenze e sentimenti di privazioni, malcontento e isolamento laddove la stigmatizzazione territoriale sfocia in una diminuzione dell’identificazione e dell’attaccamento a una comunità.

In sintesi, “le periferie delle principali città italiane contemporanee sono state rappresentate quali i margini sociali e simbolici della nazione […]. La creazione di zone malfamate ai margini di queste città era il risultato di processi analoghi a quelli avvenuti in altre grandi città del mondo. Da una parte, l’emigrazione della forza lavoro dalle aree rurali era stimolata dalla crescita della città, che offriva il miraggio di un salario regolare e della possibilità di inviare denaro alla famiglia rimasta. Dall’altra parte, una inadeguata quantità di alloggi a prezzi accessibili, un mercato immobiliare non regolamentato e l’aumento degli affitti, portano un gran numero di persone a stringersi in spazi abitativi piccoli e insalubri.”50

È naturale e auspicabile per tutti gli individui vivere all’interno di un gruppo coeso, sperimentare il sentimento della comunanza, dell’apprezzamento reciproco e dell’appartenenza per garantirsi la sicurezza personale, evitare la solitudine e per poter contare su sostegni materiali ed emotivi nei momenti di vulnerabilità.51

Per integrazione si intende un “processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, nel costante e quotidiano tentativo di tenere insieme principi universali e particolarismi, che prevenga situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione che minacciano l’equilibrio e la coesione sociale e affermi principi universali come il valore della vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà femminile, la valorizzazione e la tutela dell’infanzia, sui quali non si possono concedere deroghe, neppure in nome del valore della differenza.”52

Visti i risvolti dannosi della discriminazione sui membri appartenenti ai gruppi minoritari, si può affermare che il ruolo giocato non solo dall’ingroup ma anche dall’outgroup è fondamentale perché, se positivo “produce un forte e assai

49 Cit. Ibidem, p.264.

50 Cit. D. Forgacs, op. cit., p. 56.

51 M. A. Hogg, G. M. Vaughan, op. cit. p.168. 52 Cit. M. Ambrosini, op. cit., p.192.

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gratificante senso di autostima e di valore personale”53 che al contrario non viene

percepito nei contesti dove è prevalente la sensazione di inferiorità, incertezza ed emarginazione a fronte di un’esclusione intenzionale, che sfocia in un emergente bisogno di inclusione sociale.

“Secondo l’accezione più generale il termine bisogno denota una mancanza di determinate risorse materiali o non materiali, oggettivamente o soggettivamente necessarie a un certo soggetto per raggiungere uno stato di maggior benessere o efficienza o funzionalità, ovvero di minor malessere e inefficienza o disfunzionalità, rispetto allo stato attuale”.54

Essere bersaglio di stigmatizzazioni sociali e o territoriali, ha dei risvolti rilevanti sulla percezione che l’individuo ha di se e sui risultati che conseguirà mettendosi in gioco, essendosi conformato ai limiti attribuitigli.

Parte dell’identità personale è frutto dell’abitare luoghi specifici della città, questi spazi fungono soventemente da comunicatori di identità fisico-spaziali che influenzano i singoli portatori di queste identità nel costruire una visione di se nello spazio generale e nella ricerca di un posto di lavoro.

1.3 Marginalità lavorativa

Lo stesso trattamento differenziale, esposto in precedenza, in riferimento al processo di stigmatizzazione sociale e territoriale, si può osservare sul versante lavorativo. La gente che vive nei quartieri di edilizia residenziale, registra tassi superiori di disoccupazione. Ad esempio, in seguito alla presentazione di curriculum vita, chi abita questi luoghi riceve minori convocazioni ai colloqui rispetto a quanti ne ricevono coloro che avevano dichiarato di risiedere in zone differenti. A parità di livello di istruzione e di qualificazione,55 i primi subiscono gli effetti della

discriminazione che come “un 'tetto di vetro' blocca le loro opportunità di impiego e ne compromette le possibilità di ascesa sociale.”56

53 Cit. M. A. Hogg, G. M. Vaughan, op. cit. p.168. 54 Cit. L. Gallino, La sociologia…, p.23.

55 R. Castel, op. cit., pp. 53-56. 56 Cit. Ibidem, op. cit., p. 54

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In questo modo “la discriminazione negativa agisce anche sul lavoro, può inquinare le relazioni fra i lavoratori e bloccare le carriere professionali.”57

Dato che il lavoro riveste un significato e un ruolo di primo piano nella vita degli individui, in quanto permette di trarre vantaggi non esclusivamente economici ma anche legati all’inclusione sociale e alla soddisfazione personale è da sempre il perno attorno al quale sono ruotati dibattiti e rivendicazioni per cercare di migliorare la condizione nella quale viene svolto. Mentre in passato quello che premeva di più era il superamento di una situazione lavorativa non in grado di garantire diritti, nei nostri giorni l’attenzione è maggiormente concentrata sul tentativo di fornire pari dignità alle diverse professioni che caratterizzano il mercato attuale.58

“Nel mercato di ieri, la domanda di lavoro era più uniforme e meno sofisticata in termini qualitativi, di competenze professionali e caratteristiche personali richieste ai lavoratori”.59

“Gli sviluppi dell’ultimo quarto del Novecento hanno inciso profondamente sui diversi termini della questione. […] Diminuiscono le dimensioni medie delle imprese […], le carriere lavorative diventano più variegate e incerte; la figura tipica del lavoratore a tempo pieno e a durata indeterminata declina; si affermano nuovi rapporti di lavoro, dallo statuto incerto e dalla stabilità precaria.”60

Il passaggio da una società industriale a una di servizi, e quindi l’affermazione nel tessuto economico del settore terziario, con il progresso tecnologico che ne è collegato, ha richiesto una tipologia di lavoratori differente rispetto al passato. Per questo motivo la parte di popolazione meglio equipaggiata economicamente ha provveduto ad acquisire una sempre maggiore professionalità nel settore emergente, dividendo la vecchia classe lavoratrice, sostanzialmente omogenea, in due parti, su un versante si sono posizionati i lavoratori specializzati, maggiormente istruiti, provenienti da ambienti abitativi ed economici favorevoli; sull’altro si sono stanziati invece tutti quelli non in possesso di un grado di istruzione elevato e provenienti da famiglie a basso reddito.61

57 Cit. Idem.

58 F. Dubet, op. cit. p.39.

59 Cit. M. Ambrosini, op. cit., p. 10. 60 Cit. Ibidem, p. 49.

61 G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale. Vol. 1, FrancoAngeli,

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Questa dicotomia può essere riassunta in una tabella (cfr. Tab. 1.7), dove figura che a vivere in condizione di povertà, sia intesa in senso assoluto che relativo, sono per lo più le persone che possiedono livelli di istruzione inferiore.

Probabilmente la connessione deriva dal fatto che chi è maggiormente istruito ha maggiori probabilità di trovare un’occupazione ben retribuita e di sfuggire con più successo ai fenomeni di povertà.

Tabella 1.7: Poor households – level of education attained by the reference person, dati percentuali.

Famiglie povere in base al titolo di studio della persona di riferimento Povertà assoluta Povertà relativa Licenza scuola elementare/

nessun titolo 8.2 15

Licenza scuola media 8.9 15

Diploma e oltre 4 6.3

Totale 6.3 10.6

Fonte: Istat, Condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze, Povertà nuove serie, 2016

Oggi il contesto italiano è costellato dalla presenza di piccole e medie imprese. La riduzione delle dimensioni di quest’ultime, rispetto al passato, ha richiesto un minore reclutamento di manodopera non specializzata che si è rivolta prevalentemente alle fasce di popolazione meno istruite e qualificate, compresi gli immigrati appartenenti per lo più agli strati poveri della società.

I lavoratori impiegati nei lavori definiti dequalificati vivono in una condizione di insicurezza lavorativa in quanto occupati in settori alle dipendenze che spingono i lavoratori alla continua ricerca di un lavoro migliore, che al contrario non sarebbe avvertita nell’ambito di un’occupazione pubblica o stabile.62

Questi subiscono anche l’effetto dell’ emarginazione derivante dalla constatazione di possedere scarse possibilità di inserirsi nei gradini più altri del mercato del lavoro,

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ciò li porta ad essere visti come soggetti di seconda categoria con minori opportunità.63

Di conseguenza chi occupa una posizione elevata nella professione dovrebbe mostrare una maggiore soddisfazione per il lavoro rispetto a chi è impiegato in lavori usuranti e instabili, ma in realtà i dati rilevati dall’ Istat mostrano che nella realtà non è sempre così (cfr. Tab. 1.8).

Tabella 1.8: Soddisfazione per il lavoro – condizione e posizione nella professione. Persone di 15

anni e più occupate per livello di soddisfazione per il lavoro. Valori percentuali.

Soddisfazione per il lavoro in base alla posizione nella professione

Dirigente Impiegato Operaio Totale

Molto 21.1 18 12.3 15.8

Abbastanza 58.3 62.9 59.7 60.4

Poco 15.1 14.3 20 17.2

Per niente 1.7 1.9 3.7 3

Fonte: Istat, Vita quotidiana e opinione dei cittadini, Soddisfazione per la vita e il lavoro, 2017.

Nello specifico, i dirigenti mostrano un grado di benessere superiore rispetto a quello esperito dagli impiegati e dagli operai, in riferimento al valore “molto soddisfatti”. Il dato sorprendente è quello riferito alla maggior parte di coloro che risultano abbastanza appagati, costituita dagli impiegati, seguiti dagli operai e solo infine dai dirigenti. Risultano poco e per niente soddisfatti, per ovvie ragioni, coloro i quali si ritrovano ad essere occupati nelle posizioni di operai.

Si può quindi affermare che “il lavoro, in definitiva, conferisce un’identità sociale, incide sull’autostima personale, influisce sulla considerazione degli altri. Ora, in una società che conosce ormai un benessere diffuso, e in cui la maggioranza degli occupati è impegnata in attività impiegatizie, professionali e autonome, la soglia delle aspettative si è indubbiamente innalzata, e il lavoro manuale, faticoso, a basso

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status sociale, ha perso di attrattiva […]. Nasce così il deficit di candidati per il lavoro operaio.”64

Oggi, in seguito a queste trasformazioni siamo in presenza di un sistema economico frastagliato, caratterizzato dalla richiesta e compresenza di professioni e lavoratori altamente qualificati e occupazioni a bassa retribuzione.

Con il tempo e l’invenzione di nuove tecnologie e l’introduzione di meccanismi imprenditoriali innovativi si sono sviluppate nuove professionalità, caratterizzate da elevate specializzazioni e derivanti da processi formativi peculiari, mentre le occupazioni sottopagate, per le condizioni lavorative che offrono, minano non solo la condizione fisica dei lavoratori ma soprattutto il loro grado di motivazione psicologica, di soddisfazione e di inserimento sociale, favorendo il mantenimento della condizione di marginalità, impedendo loro la risalita verso l’accettazione sociale e limitandogli anche l’opportunità di intravedere nuovi spiragli lavorativi. Quello che si delinea è uno scenario altamente diversificato che mette in contrapposizione, allo stesso tempo, sul campo sociale e quello lavorativo, il centro e la periferia urbana, le occupazioni di primo livello e quelle che offrono minori garanzie, i lavoratori autoctoni e quelli stranieri.

Questi ultimi si stanno inserendo nel mercato del lavoro italiano attraverso la copertura di tutte quelle posizioni che non richiedono alte qualifiche ma solamente braccia disponibili ad adeguarsi a condizioni lavorative faticose e poco riconosciute socialmente,65 definiti lavori delle tre D: dirty, dangerous, demanding.66

La struttura sociale, in definitiva, è come se fosse data dalle posizioni occupazionali presenti nel mercato del lavoro, che classifica i lavoratori in funzione del posto occupato, indipendentemente dalla loro provenienza geografica, siano essi autoctoni o originari dei paesi connotati da elevati tassi di emigrazione.

1.3.1 L’inserimento sociale e lavorativo delle minoranze autoctone

La considerazione che emerge dalle analisi precedenti è il fatto che i minori legami sociali e la loro minore intensità, dovuti principalmente, ma non in modo esclusivo, ad una stigmatizzazione legata alla residenza nei quartieri maggiormente degradati e

64 Cit. M. Ambrosini, op. cit., p. 51. 65 Ibidem, p. 79.

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poveri, si riversa e ha delle conseguenze sull’ambito lavorativo e più precisamente sulla ricerca di un’occupazione.

I fattori che concorrono a determinare una situazione di marginalità si connotano per avere una natura multidimensionale, aspetti sociali ed economici gli ruotano attorno e ne sono concausa, a tal proposito François Dubet, sociologo che ha studiato la tematica della marginalità, ha affermato “se le disuguaglianze sociali sono misurate in termini di reddito, questi redditi sono essi stessi spiegati attraverso la posizione occupata in una data struttura sociale”.67

Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, sulla stessa linea, ha sostenuto che “la disuguaglianza e quindi anche la povertà, è insita nell’essere umano e non è connessa solamente alla disponibilità economica. Una misura della povertà basata solo ed esclusivamente su un indicatore economico rende molto difficile la comparazione tra diversi livelli di benessere e non riesce a rappresentare tutte le sfaccettature del fenomeno. In altre parole, l’approccio puramente economico-monetario 'impoverirebbe la povertà'.”68

È evidente che fattori sociali ed economici agiscano insieme per determinare situazioni di marginalità e stigmatizzazione, anche lavorativa.

Il circolo vizioso illustrato viene proposto anche da Wacquant quando descrive il fenomeno della stigmatizzazione legata al luogo, la “discriminazione basata sull’indirizzo di provenienza ostacola la ricerca di lavoro e contribuisce a radicare la disoccupazione locale, i residenti […] incontrano diffidenza e reticenza aggiuntiva tra i datori di lavoro non appena accennano al luogo dove vivono.”69 Si riscontra un

intreccio tra le condizioni di vita, l’interiorizzazione del proprio stato, la consapevolezza di essere etichettati in un certo modo dall’esterno, la precarietà lavorativa e l’esclusione sociale.

“Le conseguenze dei bassi salari si estendono in ogni caso a molti aspetti della vita delle persone, come il loro inserimento sociale e le prospettive di lavori presenti e future, fino a interessare aspetti più tipicamente socio ambientali.”70

Il fenomeno della polarizzazione della città già riscontrato a proposito della stigmatizzazione territoriale si ripropone, visti gli effetti sociali che realizza, anche sul versante della marginalità lavorativa.

67 Cit. F. Dubet, op. cit. p. 36.

68 Cit. G. Rovati, Povertà e lavoro. Giovani generazioni a rischio, Carocci editore, Roma, 2007, p.59. 69 Cit. L. Wacquant, op. cit., p.201.

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Nel contesto urbano si rileva infatti un dualismo tra lavori altamente qualificati e lavori poco qualificati e sottopagati.

Il versante sul quale ci soffermeremo maggiormente è il secondo, questo comprende per lo più il lavoro alle dipendenze, dietro al quale vige un meccanismo di reclutamento e selezione del personale differente rispetto a quello che si cela dietro l’assunzione di lavoratori che mirano all’avanzamento di carriera e non semplicemente al raggiungimento di quel minimo che gli consenta di condurre un’esistenza dignitosa.

È ovvio che le aziende rinomate, per coprire i posti vacanti, cerchino personale qualificato, affidabile, che assicuri continuità e dia garanzie, per cui avviano un lungo e dettagliato percorso di selezione mirato ad individuare, attraverso l’analisi delle motivazioni della persona e delle sue attitudini, la risorsa più adeguata a ricoprire lo specifico incarico. Rimangono alla portata della gente meno istruita i posti che non richiedono, appunto, alti livelli di istruzione, adatti a una forza lavoro avente minori competenze specifiche e disposta a sostenere uno sforzo fisico maggiore a fronte di una scarsa retribuzione.

Quindi alla base di questa considerazione sta il concetto secondo cui “sia il livello d’istruzione scolastica, sia l’esperienza di lavoro accumulata rappresentino i fattori determinanti per la spiegazione dei differenziali salariali tra gli individui. In quest’ottica, gli individui che percepiscono bassi salari sono quelli caratterizzati da una bassa scolarità e da una scarsa esperienza da lavoro. […] i lavoratori sono pagati poco perché mancano delle necessarie qualificazioni […]. Ciò può dipendere dal fatto che non possiedono l’abilità necessaria a ultimare gli studi, oppure che per ragioni familiari abbiano dovuto abbandonare la scuola per integrare il reddito familiare.”71

La “'povertà d’istruzione', che si aggiunge alle più tradizionali forme di povertà monetaria, ma che ne è anche una causa diretta per i suoi effetti penalizzanti sull’acquisizione di solide competenze professionali e altrettanto solide prospettive di lavoro qualificato. Sono proprio i dati sulla povertà della popolazione a segnalarci che l’incidenza della povertà aumenta in funzione del basso livello di istruzione, mentre si riduce sensibilmente al crescere della scolarità.”72

71 Cit. Ibidem, pp.231-232. 72 Cit. Ibidem, p. 54.

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Esiste quindi un’associazione tra una situazione lavorativa instabile e il disagio economico-sociale individuale e familiare che sovente vengono trasmessi di generazione in generazione (cfr. Tab. 1.9).

Così come per la stigmatizzazione sociale e territoriale, anche la marginalità lavorativa, comprese le occupazioni a basso salario, sono sottoposte al fenomeno dell’ereditarietà, in quanto chi proviene da una famiglia particolarmente agiata raramente accetterà un lavoro a bassa retribuzione, cercherà piuttosto di mantenere un tenore di vita elevato attraverso la ricerca, a volte lunga, di condizioni professionali e retributive all’altezza delle aspettative; mentre chi appartiene ad un nucleo familiare con un reddito tutt’altro che elevato firmerà con più probabilità un contratto per un’occupazione a bassa retribuzione, non potendo contare nemmeno temporaneamente sul sostegno familiare, continuando a perpetrare in questo modo la situazione di marginalità sociale e lavorativa di provenienza.

Tabella 1.9: Famiglie povere – condizione professionale della persona di riferimento, valori per

cento.

Livello di povertà in base alla condizione professionale Povertà assoluta Povertà relativa

Dirigente 1.5 3.1

Dipendente 6.9 10.7

Operaio 12.6 18.7

Disoccupato 6.1 11

Fonte: Istat, Condizioni economiche delle famiglie e disuguaglianze, Povertà nuove serie, 2016.

C’è da considerare, inoltre, il fatto che le probabilità di rimanere intrappolati in settori occupazionali di basso reddito dipendono dalle precedenti esperienze lavorative che non hanno consentito alla persona di arricchirsi culturalmente ma di attrarre a se lo stereotipo del lavoratore precario non adatto a ricoprire professioni di prestigio, avendo trascorso tutta la vita lavorativa all’interno del medesimo comparto economico. Per cui, l’occupazione precaria a volte considerata come un trampolino di lancio nel mondo del lavoro finisce per essere una gabbia della marginalità che

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all’aumentare del tempo di permanenza al proprio interno fa divenire sempre più difficile la fuoriuscita.73

A rimanere incastrati in specifici comparti economici sono per lo più i lavoratori non qualificati e tutti coloro ai quali vengono associate determinate caratteristiche socioeconomiche, come la provenienza da quartieri poveri e malfamati e soggetti alla marginalità sociale.

Spesso le posizioni a basso salario vengono assegnate sulla base di conoscenze personali e quindi tramite un processo informale di selezione delle risorse che ha per mediatori i lavoratori già operativi che spesso mettono in comunicazione i loro familiari e conoscenti con il datore di lavoro.

Questo meccanismo alimenta continuamente le precarie condizioni lavorative, abitative e di vita dei lavoratori a bassa qualifica che percependo una bassa retribuzione si vedono costretti a mantenere la propria sistemazione abitativa nei quartieri più poveri dove i canoni d’affitto sono maggiormente sostenibili.74

“Si tratta perciò di una divisione che produce nuove differenze.”75

Le occupazioni a basso salario, possono dare vita a fenomeni di esclusione sociale ma, allo stesso tempo, i processi di stigmatizzazione sociale e territoriale condizionano il profilo professionale e il futuro lavorativo di determinate categorie.76 Per i datori di lavoro, “la paura della diversità può portare alla demotivazione o addirittura alla perdita di persone di valore e all’emergere di contrasto latente, con gravi conseguenze sul clima aziendale e sulla produttività delle organizzazioni.”77

Nella città quindi si viene a creare un “dualismo tra «lavori ad alta qualifica» e un’ampia domanda di lavoro non qualificato e sottopagato, sia nell’economia informale sia nei servizi alla persona, con una conseguente polarizzazione delle opportunità di lavoro e dei redditi degli abitanti, polarizzazione che assume anche chiare connotazioni spaziali”.78

È evidente che l’esclusione sociale finisce per indurre le persone a cercare lavori precari ma, contemporaneamente il fatto di ricoprire posizioni sottopagate nel mondo

73 Ibidem, pp. 249-259. 74 Ibidem, pp.41-42.

75 Cit. P. Barrucci, op. cit., p. 18. 76 G. Rovati, op. cit. pp.235-240.

77 Cit. L. Riva, 2016, “Differenze generazionali in azienda. Strumenti e pratiche di integrazione”, in

Persone e Conoscenze. La voce della direzione del personale, https://www.este.it/images/riviste/D

oc_Prossimi_Numeri/Articolo_Age_Management.pdf

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