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IL NUDO NELL’ARTE Il nudo è stato da sempre fonte inesauribile di ispirazione per la realizzazione dei più grandi capolavori nella storia dell’arte da parte dei più grandi artisti

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2. IL NUDO NELL’ARTE

Il nudo è stato da sempre fonte inesauribile di ispirazione per la realizzazione dei più grandi capolavori nella storia dell’arte da parte dei più grandi artisti. Basti citare Leonardo da Vinci, profondo conoscitore del nudo come emerge dall’Uomo Vitruviano, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Renoir, Modigliani e Klimt ma potremo citarne a migliaia o per meglio dire quasi tutti, visto che ben pochi pittori si sono occupati solo di altre forme espressive.

Per cercare di offrire una panoramica e valutare il percorso che il nudo ha fatto nella storia della pittura, quale modo migliore può essere quello di partire dalla dicotomia insita nel termine nudo, nelle sue due accezioni di naked [svestito] e nude [nudo], così egregiamente colta da Kennet Clark nel suo libro Il Nudo. Nella prima accezione, che implica essere privo di vestiti, si coglie un senso di imbarazzo del soggetto che si trova nella suddetta condizione; nella seconda invece, che richiama alla mente il campo artistico, proietta nella mente l’immagine di un corpo armonioso1.

Proprio perché il corpo umano ha sempre avuto grande rilievo nel mondo dell'Arte, la sua rappresentazione sotto varie forme e per

1 Si veda K. Clark, Il nudo, Neri Pozza, Venezia, 1995 (edizione originale: C.

Kenneth, The nude: a study in ideal form, University Press, Princeton, 1984), pp.

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diverse finalità ha costituito il patrimonio dei più grandi pittori che si sono impegnati a studiarlo per raffigurarlo al meglio. È significativo ripercorrere questo cammino con gli occhi di quegli artisti che attraverso di esso hanno voluto stupire o provocare, lanciare messaggi o nuove forme espressive del corpo umano, fermando sulla tela il loro modo personalissimo di vederlo.

Sin dagli inizi del Diciassettesimo secolo i dipinti di Tiziano a soggetto erotico sono stati le opere più apprezzate e imitate del pittore cadorino.

2.1. Il nudo come simbolo della realtà

Il nudo, inteso come creazione artistica, come spiega lo storico dell’arte Bernard Berenson2, è il soggetto che meglio rappresenta un determinato periodo della storia dell’arte e un segnale del modo particolare di interpretare la realtà: un chiaro esempio ci viene fornito dalle epoche in cui la figura umana è stata messa in ombra in favore di forme espressive che prediligevano lo stile geometrico o l’arte animalistica, svelandoci il carattere più profondo di una civiltà. In altri termini, il ruolo che la figura umana svolge all’interno della produzione artistica di un particolare periodo può essere considerato quasi come la cartina di tornasole e assumere una prospettiva

2 Si veda B. Berenson, Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (Titolo originale: Aesthetics, ethics and history in the arts of visual representation), Electa, Firenze, 1948.

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privilegiata per comprendere la natura più intima di un determinato movimento artistico.

Questo aspetto è particolarmente vero per la civiltà rinascimentale, in primo luogo perché stava cambiando il concetto medievale secondo cui l’uomo fosse il centro dell’universo e misura di tutte le cose, in secondo luogo perché l’immagine del corpo nudo rappresentava per i suoi artisti una scelta che rispondeva all’intenzione legata al recupero dell’antico.

La scoperta della prospettiva spiegava scientificamente l’effetto secondo cui lo spazio si comprime o si dilata in funzione della distanza e del punto di vista, permettendo di ridurre al minimo i margini di errore nella riproduzione pittorica dello spazio reale e della figura umana, e rivelando quale doveva essere il giusto rapporto tra la testa e il resto del corpo, fra la mano e la testa o fra il tronco e le gambe. Questa scoperta mostra come il microcosmo umano rifletteva il cosmo perché entrambi erano regolati dalle stessi leggi, potendo essere entrambi spiegati, indagati e capiti grazie agli strumenti della matematica e della geometria. Il corpo umano pertanto, rispecchiava la sua struttura dell’universo e veniva visto come la più perfetta sintesi dell’armonia universale.

È per questo motivo che l’arte risultava il mezzo privilegiato per portare alla luce ciò che non appariva immediatamente ad uno sguardo superficiale e comprendere profondamente la natura celata delle cose.

In questo modo veniva a crearsi una precisa corrispondenza fra la

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bellezza armonica dell’universo e quella dell’uomo inteso come microcosmo, e quindi come specchio del primo.

Questa complessa concezione, in cui si fondono aspetti di carattere teologico con conoscenze di natura scientifica, crea una visione artistica che influisce sulla rappresentazione della figura umana e del nudo nella produzione pittorica del Quattrocento.

Il Cristo nel Battesimo di Piero della Francesca (Figura 1), dipinto tra il 1448 e il 1550, è ritenuto un esempio rappresentativo, la cui statuaria bellezza si impone al centro del quadro, occupando buona parte della linea mediana dell’intera composizione. Il Salvatore è l’immagine attorno alla quale ruota tutta la composizione, in lui si incontrano la componente spirituale – simboleggiata dalla colomba dello Spirito Santo – con quella umana – rappresentata anche dalla persona che si spoglia perché sta per essere battezzata. L’immota bellezza di Gesù che lo fa quasi apparire al di fuori del tempo, è in evidente contrasto con il precario equilibrio dell’uomo intento a svestirsi; l’armonia sprigionata dalle proporzioni del suo corpo enfatizza la sua natura divina. La scelta di rappresentare il Cristo frontalmente, in quanto centro e paradigma dell’esistenza, in netta opposizione alla posizione di profilo adottata per l’uomo che si sta per battezzare, è il segno della volontà di sottolineare il legame che viene teorizzato nel Quattrocento tra l’armonia del cosmo e l’immagine del nudo.

Volendo trovare una conferma visiva di questa concezione, come non menzionare La Calunnia (Figura 2), dipinta da Botticelli

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nell’ultimo decennio del Quattrocento, opera complessa e affascinate, in cui l’unica figura completamente nuda in piedi e veduta frontalmente è proprio quella della Verità. Come nel Battesimo di Piero della Francesca, anche qui si confrontano due valori diversi della nudità, quello positivo è conferito alla figura nuda veduta frontalmente.

Un esempio che invece mostra il nudo, nell’accezione di essere privi di vestiti, suggerendo quel senso di imbarazzo che si prova in questa determinata condizione, è costituito dalla drammatica scena della Cacciata dal Paradiso terrestre di Masaccio (Figura 3). Adamo ed Eva sono nudi, rappresentati di scorcio, mentre escono dalla porta del giardino dell’Eden. Il peccato originale si trasforma in doloroso riconoscimento della nudità, in distinzione fra corpo nudo, quello della sessualità e della vergogna, e corpo vestito. Hanno abbandonato la condizione edenica per muovere il primo passo nella storia, lasciandosi alle spalle la perfezione armonica dei loro corpi che ora appaiono grevi e appesantiti. Nel mito della Genesi i progenitori erano nudi in due modi profondamente diversi fra loro: prima, quando la loro nudità faceva parte dello stato semidivino di innocenza e perfezione in cui Dio li aveva creati; e dopo quando la nudità apparve al loro sguardo come fonte di vergogna. Hanno preso coscienza della loro condizione di creature, ma si è reciso il legame con lo stato di eternità, a cui erano stati in un primo tempo destinati. Distribuendole nei due momenti temporali della storia sacra – il prima dell’innocenza, e il dopo del peccato – il discorso mitico della Genesi ripropone in

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forma narrativa le profonde contraddizioni cognitive che la nudità pone alla cultura: perfezione e peccato, purezza e vergogna in una stessa immagine. In una parola sono diventati uomini.

Una condizione questa, sottolineata anche dai fratelli van Eyck nel famosissimo Polittico di Gand (Figura 4), che rappresenta l’adorazione dell’Agnello mistico. I due progenitori sono stati dipinti sull’interno delle ante laterali e appaiono sgomenti per loro nudità.

Evidente è la cura per particolari, tipica dell’arte fiamminga: i due fratelli raffigurano i peli pubici e, nel caso di Adamo, quelli delle gambe, del torace e della barba, per sottolineare la loro condizione umana. Anche qui a rappresentare la caducità è la loro posizione di scorcio. Adamo ed Eva, appena usciti dalla penombra della loro nicchia, sono in contrasto, per esempio, con la solare nudità, rappresentata appunto frontalmente del San Sebastiano di Antonello da Messina (Figura 5). San Sebastiano è depurato da tutte le imperfezioni corporee che sono proprie degli uomini. Nonostante sia nota la predilezione di Antonello per la descrizione delle impurità della pelle, nel San Sebastiano non c’è traccia di tutto questo. Questo includere nella riflessione del concetto di bellezza un tema tipicamente cristiano, che nel Quattrocento inoltrato fa ormai proprie soluzioni formali strettamente legate al recupero della classicità, è evidenziato dalla pelle liscia; questo lascia supporre che il modello di riferimento sia stato una statua di marmo. La classicità oltre ad essere evocata dalla colonna abbattuta che rimanda all’idea che il paganesimo è stato sconfitto, lo è anche dalla scelta di rappresentare il

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santo nudo, esplicito riferimento all’antico; la conferma del fatto che la nudità del santo non sia affatto scontata ci viene fornita da Raffaello che nel 1502 rappresenterà il suo San Sebastiano vestito (Figura 6), seguendo un’iconografia allora ampiamente diffusa.

Escludendo i casi particolari dalla riflessione del legame tra nudo e antichità, come gli studi sul nudo femminile di Pisanello che hanno fini indagatori e didattici, o le immagini dei nostri progenitori ,in cui la loro nudità è il simbolo del limite della condizione umana, per il resto la presenza di una figura nuda in un’opera fa riferimento alla classicità intesa dagli artisti del Quattrocento come riconquista della bellezza ideale. È all’insegna di questo nuovo sodalizio tra nudo e mito che ha inizio la ricerca dell’equilibrio delle forme che evocano il tempo lontano della classicità.

I motivi culturali che confluiscono nella concezione del nudo, caratteristica del XV secolo, sono molteplici; nel secolo successivo le esigenze si modificano in conseguenza del mutamento delle condizioni storiche. In Italia, dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, viene meno l’equilibrio politico in Europa; e così come si sgretola l’unità commerciale del Mediterraneo con la scoperta dell’America, così accade per quella religiosa con il movimento della Riforma e la nascita delle confessioni protestanti volute da Lutero e dagli altri.

Quello a cui si assiste è uno scardinamento delle certezze sulle quali si basava la società quattrocentesca: da un lato cambia l’assetto geografico del mondo, dall’altro si pone in discussione l’asse ideale che unisce Dio agli uomini grazie all’intercessione della Chiesa di

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Roma. Dal momento in cui viene messa in discussione l’univocità del messaggio di Cristo, questo ha avuto ripercussioni anche sulla concezione che sottostava all’immagine dell’uomo nudo nel Cinquecento. I cambiamenti per adeguarsi alla nuova concezione furono graduali e questo spiega il motivo per cui nel corso del primo decennio del secolo le istanze culturali del Quattrocento non vennero stravolte, spiegando inoltre l’equilibrio di un’opera come il David di Michelangelo e la classicità della posa di Adamo nella volta della Sistina.

L’arte del Quattrocento aveva creato l’effimera illusione che l’uomo fosse il centro dell’universo, incanto che all’alba del nuovo secolo si era già dissolto: se i nudi del Tondo Doni (Figura 7) sembrano guardare indietro con rimpianto, gli Adamo ed Eva dipinti da Dürer e da Cranach (Figura 8) sono consapevoli che dopo il fatidico morso della mela, la bellezza cederà il passo alla vecchiaia e alla morte.

Nonostante ciò, non si deve pensare che il nuovo corso della storia abbia prodotto un’involuzione nella resa della figura umana, al contrario, il nudo del Cinquecento si avvalse di tutta l’esperienza artistica maturata nel secolo precedente. Le conoscenze anatomiche e la teoria delle proporzioni smettono di rappresentare un ordine cosmico, ma divengono piuttosto strumenti di lavoro. La verità si fa più articolata, persino quella anatomica, dando origine ad un ampia gamma di situazioni diverse a cui si apre la figura umana che influiscono sulla sua rappresentazione: la sensualità entra a far parte

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nei nudi femminili, come emerge dal confronto della Verità dipinta da Botticelli nella Calunnia con la Venere e Cupido di Lucas Cranach.

Pur avendo una posa quasi identica, la verità è pudica e quindi si copre, al contrario quella della dea dipinta da Cranach, nella quale lo sguardo enfatizza l’atteggiamento del corpo flessuoso e invitante, è divenuto malizioso. La cosiddetta Allegoria di Venere dipinta dal Bronzino verso il 1545 (Figura 9), è un chiaro esempio di come talvolta si giunga a gesti forse troppo espliciti per il codice gestuale dell’epoca, l’ambiguità della scena è data dal fatto che il bacio così sensuale fra Venere e Cupido è in realtà un’effusione incestuosa fra madre e figlio.

Siamo ormai in pieno Manierismo e la frontalità equilibrata dei nudi quattrocenteschi lascia spazio a corpi femminili che si muovono nello spazio con gesti sinuosi e serpentinati, quelli maschili che creano un impetuoso vortice di energia dall’annodarsi l’un l’altro come nel Mosè che difende le figlie di Jetro (Figura 10); occasione per Rosso Fiorentino di mostrare tutta la propria abilità nel comporre i nudi nei più svariati atteggiamenti.

Il nudo del tardo Cinquecento è la metafora visiva della condizione di passaggio che, oltre a rispecchia la situazione storica del secondo Cinquecento, può anche considerarsi ormai parabola dello stesso essere uomini. Per questo motivo le passioni e i sentimenti lo travolgono e ne modificano addirittura la fisicità: sono figure allungate, flessuose e muscolose a un tempo. La figura umana ha riconquistato un proprio equilibrio che consiste proprio

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nell’esaltazione della diagonale e della linea serpentinata, come si osserva nelle leggiadre fanciulle del dipinto di Vasari Perseo e Andromeda per lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio (Figura 11). In poche parole il nudo palpita di vita3.

2.2. Il nudo mitologico e il nudo eroico a confronto

L’approccio all’Antichità classica da parte di Annibale Carracci è un esplicito richiamo a quello di Raffaello, come mostra l’immagine del nudo mitologico compiuto da Annibale a Roma quando, nella Galleria di Palazzo Farnese, modifica sostanzialmente la sua tradizionale impostazione a favore di un vero e proprio recupero della classicità raffaellesca. Proprio nell’arte di Raffaello si era progressivamente sviluppata una conoscenza filologica del patrimonio classico: l’Antico consacrato come una sorta di punto di arrivo insuperabile in sé, e per questo inteso come modello esemplare di bellezza, sintesi ed equilibrio formale da ristabilire. La Galatea (Figura 12) nella Villa di Agostino Chigi è il punto di arrivo di un processo di studio e assimilazione dei prototipi classici in base a una visione libera e creativa che Raffaello aveva potuto avviare, fin dal suo arrivo a Roma. In quest’opera, Raffaello ha già raggiunto il

3 Cfr. AA. VV., Il nudo. Eros, natura, artificio. A cura di G. Fossi, Giunti, Firenze, 1999, pp. 78-98.

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canone della figura mitologica da affidare ai suoi discepoli, che arriverà fino ai tempi di Annibale: lo spazio del mondo antico inventato, non dipende da prototipi del patrimonio scultoreo o pittorico; la figura è il risultato di una complessa riformulazione della statua antica reinterpretata sui modelli della contemporaneità.

L’immagine della Galatea raffaellesca costituisce una figura completamente nuova perché basata sul modello della Leda di Leonardo, sulla quale il pittore innesta un tratto fermo e duro; le forme della statua classica restaurata sono reintegrate con quella carica di fissità e immobilità che l’opera antica inevitabilmente porta con sé. Il mare su cui passa l’imbarcazione di Galatea sembra marmo, così come i capelli e i drappi che appaiono duri e rigidi; l’impressione generale è quella della stasi e dell’immobilità.

Le complesse riflessioni che Jacopo Zucchi fa nella Galleria di Palazzo Rucellai a Roma alla fine del Cinquecento, simboleggiano le riserve rispetto alla reale possibilità di recuperare il senso del mondo antico in pittura. La lezione di Raffaello rappresentò una vera e propria commemorazione degli elementi costitutivi del passato, che fu però avvertita come immobile e fisso nella sua pur formidabile capacità di soluzione.

Fu proprio dalla scuola di Raffaello che uscirà il primo grande studioso e restauratore di statue antiche attivo a Roma agli inizi del secolo sedicesimo, Lorenzo Lotti detto il Lorenzetto, grande maestro e autore della straordinaria statua del Giona che esce dalla balena nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, disegnata da Raffaello.

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Nell’esile nudo di Giona, Lorenzetto sembra applicare letteralmente le idee sulla classicità fissate da Raffaello nell’immagine della Galatea, alla quale aggiunge quella componente di indagine filologica e critica che il maestro stesso non aveva mai sviluppato fino in fondo.

È proprio con Lorenzetto cha ha inizio una scuola, che attraverserà tutto il Cinquecento per confluire nel grandioso rinnovamento berniniano. È a partire dai risultati conseguiti da questa grande scuola, dedita al restauro e all’integrazione delle statue antiche che Annibale, a fine secolo, riprenderà le idee di Raffaello, integrandole in una con le acquisizioni conseguite dai maestri del restauro.

Per l’imponente rievocazione romana dal mondo antico, le fonti a cui attinge Annibale sono, oltre all’innumerevoli esercitazioni filologiche della scuola raffaellesca, l’invenzione del nudo mitologico nell’arte del Cinquecento, debitrice a Correggio. È lui, infatti, l’artista che riformula in maniera radicale il patrimonio visivo creato da Mantegna: inventa l’idea del nudo neoellenistico, sottratta al criterio del modello perché il fascino segreto dell’eros è svincolato dall’esigenza filologica di ricostruire un’ipotesi attendibile del passato. La lezione di Correggio, che insegna a vedere con occhi nuovi e a scrutare l’immagine secondo un’ideale di bellezza e di fascino che spingono nella direzione dell’arcano e dell’inquieto, viene eccellentemente ripresa, dal Parmigianino, il quale crea un prototipo formale decisivo per tanti aspetti del manierismo storico, che resterà sempre latente nell’immaginario occidentale.

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Correggio, nel nudo mitologico, riesce ad unire le potenzialità della statua con quelle della pittura, seguendo l’idea secondo la quale i due domini, quello pittorico e quello scultoreo, sono uniti dalla tensione verso il vivente. La disputa sulla supremazia della pittura o della scultura, che avviene nel secolo sedicesimo, rappresenta il riflesso teorico del rapporto tra lo spazio e la figura, tra la rappresentazione sacra e profana, tra l’esigenza del naturalismo e la rievocazione del mito.

L’immagine del nudo implica una propensione al naturalismo, perché il suo scostarsi dall’imitazione della natura diverrebbe troppo evidente rendendolo pertanto inattendibile, ma come rappresentazione si adatta perfettamente a uno spazio immaginario come quello del mito. Questa critica implicita al correggismo che viene messa a fuoco a fine Cinquecento, modifica sostanzialmente il tema mitologico. Gli artisti iniziano pertanto a interrogarsi su un tema che viene ripreso da ogni cultura secondo prospettive differenti, e cioè su quale sia il senso profondo dell’eros in rapporto al nudo.

Annibale Carracci lo impostò armonizzando il filologismo di tipo raffaellesco con l’ellenismo correggesco, il risultato raggiunto ha una componente emotiva, che ha l’intento di riscattare la rievocazione del mondo antico dall’ombra di rigidezza e freddezza recondita nei metodi strettamente filologici.

Dopo le grandi meditazioni del Parmigianino e di tutti i suoi seguaci, è la volta di Caravaggio che crea una prospettiva in cui l’idea del nudo trascende la dimensione dell’eros ed elude ogni eccesso di

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filologico intellettualismo, pur nella straordinaria densità dei significati che sottende. Un esempio rappresentativo è l’esecuzione di un dipinto mitologico per il soffitto del Camerino della distilleria del cardinale Francesco Maria del Monte, nel quale il tema mitologico mostra la reazione del pittore lombardo agli innumerevoli stimoli dei miti e delle leggende antiche raffigurate su marmi e affreschi romani.

La soluzione adottata è quella di un recupero delle invenzioni più audaci della tradizione figurativa padana, come mostrano le figure divine sospese sopra lo sguardo dello spettatore, lo scorcio estremo utilizzato presume una conoscenza della tradizione lombarda del Lomazzo e soprattutto degli sperimentalismi del Bramantino. C’è quindi un rifiuto di un’imitazione classicistica evidente soprattutto dalla rilettura naturalistica dei corpi nudi e degli animali derivanti dall’osservazione di modelli concreti dell’epoca4. La forza dell’immagine creata ha insita la consapevolezza dello stile e del pensiero.

Il Raffaellismo e il Correggismo si erano contrapposti nell’atteggiamento e nella dialettica della questione antica; con Caravaggio questo dibattito sembra subire una battuta d’arresto, ma Reni con la sua dimensione neoellenistica, nella quale c’è una rielaborazione personale della lezione del maestro Annibale, ripropone la dialettica storica, che riemerge con un fascino e una capacità di persuasione assoluti. Con la mediazione di Reni, il quale ha il merito

4 Si veda V. Farinella, ‘Un percorso nella cultura artistica romana’, in Antonio Pinelli (a cura di), Roma del Rinascimento, Editori Laterza, Bari, 2001, pp. 394-5.

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di caricare con l’esplicita leggerezza del desiderio dell’eros le sue fantasie, si assiste a un ritorno alla reinvenzione del nudo classico legittimata dallo studio filologico. Reni crea, con la sua arte, un equilibrio fra sacro e profano, fornendo, ancora oggi, una garanzia di bellezza, per l’utilizzo della componente erotica, evitando di scadere in soluzioni troppo sfrontate e aggressive. Proprio quando il mondo del mito era stato destituito di ogni valore di modello di riferimento anche etico, giunge Reni a fornire questo modello rassicurante5.

2.3. Corpo femminile e sguardo maschile

Secondo Augusto Gentili6 non esistono nella pittura veneziana di primo Cinquecento ritratti di cortigiane. L’opinione ampiamente diffusa, secondo la quale molte donne dipinte, in particolar modo se poco vestite siano professioniste dell’amore mercenario, dipende in primo luogo dalla radicata attitudine moralistica, sessuofobica a considerare di facile costumi ogni donna che mette in evidenza il suo potenziale erotismo; in secondo luogo dalla non conoscenza sia della storia del costume dell’istituto del matrimonio che dell’analisi iconologica e semiologica, che non permette così la corretta lettura e interpretazione dei simboli e dei segni. Altro mito da sfatare è quello

5 Cfr. AA. VV., cit., pp. 112-122.

6 Cfr. A. Gentili, ‘Corpo femminile e sguardo maschile’, in G. Fossi (a cura di) Il nudo. Eros, natura, artificio, Giunti, Firenze, 1999, p. 126.

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secondo cui ogni bella donna rappresenti un ritratto, anche quando tagliato secondo modalità, anche laddove ci sarebbero tutti i presupposti, come tipologia e impaginazione di ritratto, a farlo supporre. Questo perché il riferimento mitologico implica una percentuale di idealizzazione: il ritratto di Flora deve lasciare spazio al modello, non può, pertanto, essere troppo individualizzata.

L’immagine di Flora, moglie di Zefiro, secondo la tradizione ovidiana, è sinonimo di concordia matrimoniale e di fecondità.

Le Flore della pittura veneziana sono promesse spose, immortalate nell’attimo in cui stanno per unirsi con lo sposo, in bilico tra verginità e connubio. L’iconografia che le contraddistingue è quella in cui portano i capelli lunghi, sciolti sulle spalle nude, talvolta coperti dal velo nuziale, il manto allentato fino a mostrare il seno, abbigliate con la camicia bianca, intimo d’uso corrente e ultimo fragilissimo baluardo che lo sposo dovrà abbattere. La forza della loro sessualità viene esibita con la massima chiarezza, attraverso l’utilizzo di espedienti classici come la parziale esibizione del corpo e la consolidata gestualità a essa riferita.

La Flora di Tiziano (Figura 13) porta all’anulare della mano destra l’anello della promessa, celato in mezzo alle foglie e ai fiori del mazzolino primaverile; offrendo l’attributo che la contraddistingue, che rappresenta un’offerta metaforica di sé stessa; sul viso si scorge una lieve preoccupazione e difficoltà a scoprire il seno, rendendolo stupendamente espressivo. La mano sinistra spicca sullo splendido broccato di vermiglio e oro, dirigendo verso il ventre l’indice e il

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medio, aperti a forbice. Gentili ipotizza con un’illazione di fondamento puramente semiotico, che il gesto segnala la forbice, alludendo all’imminente taglio del cinto virginale.

Non è possibile, invece, prescindere dal ritratto in mancanza del travestimento; il riferimento individuale, a seconda delle qualità pittoriche dell’artista e delle intenzioni del committente, potrà essere più o meno caratterizzato. Le donne di Giorgione e di Tiziano, del Cariani e del Palma, sono bellezze assolutamente topiche e ideali; la loro elusività e sfuggevolezza si deve attribuire a una inconsapevolezza di quello che doveva essere il loro contesto originario. Senza rinunciare ai segnali di ordine simbolico e di ordine cerimoniale, le bellezze rappresentate offrono una gamma di attitudini molto ampia, motivato dal fatto che ci troviamo di fronte a tante diverse e diversificate identità.

Celebre è il caso della Venere di Urbino (Figura 14): il soggetto raffigurato è stato interpretato da alcuni come la Venere celeste, allegoria del legame matrimoniale, da altri come esplicito ritratto erotico di una cortigiana veneziana. Non si spiega, secondo Gentili, perché il riferimento matrimoniale dovrebbe necessariamente chiamare in causa Venere celeste e l’amore sublimato: l’erotismo della protagonista così ostentatamente rivolta verso lo spettatore, e non certo verso il grande pubblico del museo dove oggi si trova, ha una dimensione assolutamente privata, della camera da letto di allora, suggerita anche da quella sorta di parete divisoria che occupa metà del dipinto. L’indubbio carattere erotico del quadro, evidente dallo

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sguardo invitante, dai capelli scesi sulle spalle, dalla posa allusiva della mano, dalle lenzuola stropicciate del letto, elegge a protagonista la Venere mondana con i tipici attributi amorosi: le rose nella mano e del mirto sul davanzale, le ancelle che tirano fuori dal cassone nuziale l’abito adibito per occasione. Si tratta pertanto di un quadro che sottolinea l’importanza della dimensione erotica all’interno del matrimonio. Questo spiegazione emerge chiaramente dall’analisi del contesto: Guidobaldo aveva sposato nel 1534 per ragioni politiche Giulia Varano da Camerino, allora fanciulla di dieci anni, quindi l’insistenza con la quale nell’arco del 1538 sollecita il suo agente a Venezia all’acquisto di questo dipinto che è in mano a Tiziano, lascia ipotizzare a Gentili che il quadro abbia lo scopo di persuadere e istruire al connubio la sposa ancora adolescente, fornendole un modello appropriato e culturalmente inattaccabile. È allora che Tiziano entrò in gioco con la sua Venere, elegantemente travestita, creando un capolavoro di erotismo e funzionalità per il proprio committente.

La Maddalena di Tiziano a Pitti (Figura 15), rappresentata come eremita nel deserto (i cambiamenti nell’iconografia dell’immagine di Maria Maddalena durante il quindicesimo e sedicesimo secolo, sono stati analizzati nel paragrafo delle Immagini religiose come exempla), coperta soltanto dai bellissimi capelli lunghi, che lasciano gli splendidi seni scoperti, è solitamente interpretata come immagine erotica sotto pretesto penitenziale. Considerazione e vera ma solo in parte, se non si spiega e non si contestualizzata la

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funzionalità di tale erotismo: tenendo presente il fatto che secondo le leggende e le orazioni del tempo Maddalena è infatti protettrice del parto e dell’allattamento, l’evidenza dei seni richiama prepotentemente questo significato. La Maddalena potrebbe allora essere stata commissionata da Guidobaldo in occasione della nascita della figlia Virginia (1544), continuando così la tradizione secondo la quale questi dipinti erano metafora della difficile vita matrimoniale tra Guidobaldo e Giulia da Varano, inaugurata ancor prima con la Venere.

L’erotismo nella pittura del primo Tiziano è elegante, sottile e velato, filtrato dall’allegoria letteraria e dalla funzionalità sociale.

L’espediente utilizzato è lo stupore provocato dall’accostamento di corpi nudi e corpi vestiti, in uno spazio all’aperto che riecheggia il luogo ameno petrarchesco, in cui domina la dimensione astratta, all’interno della quale si possono facilmente inserire il mito e l’allegoria.

Questo accade nel Concerto Campestre (Figura 16), dove le due donne nude in campagna sono in compagnia dei due giovani vestiti con abiti di qualità diverse; e, nelle Tre età (Figura 17), a ruoli invertiti, in cui i due giovani protagonisti del dipinto di Edimburgo non hanno attributi particolari che indichino la loro identità o il loro stato sociale. Non c’è nessun motivo per supporre che si tratti di un pastore o di una contadina, come riteneva Vasari, il quale sapeva però che i flauti a becco sono strumenti caratterizzati dalla dimensione rustica e considerati inferiori. Non era certo ammissibile che due giovani perbene potessero presentarsi all’aperto in quelle condizioni,

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con lui seminudo e lei discinta, mentre si scambiano uno sguardo di intensa passione. L’erotismo della sequenza principale è chiaramente sottolineato dai tre flauti: due nelle mani della ragazza, e un altro nella mano destra del giovane posata sull’erba. Quello nella mano sinistra di lei, il più piccolo, è dunque del tutto superfluo ai fini del duetto musicale, ma sottolinea esplicitamente il significato della scena che allude a quello amoroso, che si sta per consumare a seguito del metaforico duetto musicale che è già stato eseguito, sia per il simbolismo fallico tradizionalmente connesso al flauto a becco, sia tenendo in considerazione la sua posizione inequivocabile.

Il ciclo di dipinti mitologici per il camerino di Alfonso d’Este, duca di Ferrara, sono completati da Tiziano col Baccanale degli Andrii (Figura 18). Bacco trasforma l’isola di Andro in un banchetto a cielo aperto, dove l’acqua del torrente si muta in vino, l’euforia erotica si rinnova al moltiplicarsi delle libagioni, il putto sta urinando un po’ nel torrente e un po’ sulle gambe della ragazza nuda, che dorme appagata di vino e d’amore.

Il contenuto dionisiaco del dipinto viene stabilito dal riferimento musicale degli elementi iconografici: in primo luogo lo spartito a terra, poi la danza frenata e infine l’apparato strumentale composto esclusivamente di flauti. Le due fanciulle in primo piano stanno suonando i loro flauti, ma c’è ancora una volta un terzo flauto, tra la gamba del giovane sdraiato al centro e un calice pieno di vino, di dimensioni maggiori rispetto agli altri due. Lo strumento appartiene sicuramente al giovane, che insinuando una mano sotto la veste della

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fanciulla abbigliata di rosso, appare impegnato in questo approccio amoroso, nonostante stia guardando altrove.

Pochi sono i dati a nostra disposizione che permettono di datare e collocare le tre versioni oggi conosciute di Venere con Organista (Figure 19-20); dall’analisi delle caratteristiche interne dei dipinti Gentili ipotizza che siano state eseguite nella corte e per la corte imperiale durante i soggiorni di Tiziano ad Augsburg nel 1548 e nel 1550-51. Per le due versioni più tarde di Venere con liutista manca invece qualsiasi prova che permetta di ricostruire il contesto nelle quali sono state create.

Come nel caso della Venere di Urbino, anche qui la critica avanza la stessa paralizzante alternativa: o sono state interpretate come allegorie d’amore sublimato con riferimento al dibattito neoplatonico sulla superiorità della vista o dell’udito, tra i sensi più nobili; o sono state giudicate scene di ordinaria pornografia, identificando le protagoniste non più come Venere, ma come cortigiane al cospetto dei loro amanti. Anche in questo caso, Gentili non ha dubbi nell’identificare Venere connotata ogni volta in maniera diversa e riccamente ingioiellata, e che i protagonisti maschili siano i ritratti di tre precisi personaggi della realtà; la sovrapposizione del ritratto con la rappresentazione del desiderio amoroso, sia pure in termini dichiarati di voyeurismo, definisce automaticamente una dimensione allegorica, l’unica accettabile, per la mentalità dell’epoca.

La musica viene qui utilizzata come metafora e immagine d’amore, come richiamo e incitamento ad amare, come sospensione e attesa

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d’amore; il rapporto tra musica e amore è dunque il tema principale.

Le tenere Arcadie di primo Cinquecento si sono trasformate nei festosi giacigli di terrazze con vista sui parchi ornati e ordinati di nobili dimore europee di metà secolo. L’esplicito erotismo e l’implicito narcisismo di questi sono quadri sono declinati al maschile e fatti apposta per la camera da letto, e solo i committenti potrebbero svelare se si tratti di camere matrimoniali o di alcove segrete7.

7 Cfr. AA. VV., cit., pp. 127-145.

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