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1. I CONFINI

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Academic year: 2021

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1. I CONFINI DELL’UMBRIA PREROMANA

Gli studi e le ricerche condotti soprattutto negli anni Sessanta del Novecento in tutta l’Italia centro-adriatica hanno restituito un’identità concreta agli Umbri, sebbene l’immagine di questo popolo presso gli antichi sia discordante ed instabile sia nel tempo, che nello spazio. Questi, di origine indoeuropea, sono concordemente riconosciuti dalle fonti storiche come popolo autoctono e fra i più antichi d’Italia1.

Gli Umbri occupavano un territorio assai vasto (TAV I-1, fig. 1) che, secondo Erodoto2, giungeva fino alle Alpi, comprendendo originariamente anche il paese dei Tirreni3, infatti, erano considerate di origine umbra le città di Cortona e Perugia4 ritenuta prima umbro-sarsinate che etrusca5, ed alla stessa tradizione si può allineare l’etrusca Chiusi che in epoca pre-urbana pare avere un nome, Camars, derivato da un etnico umbro6. Ma bisogna chiedersi se le tradizioni non riportino piuttosto l’informazione di una forte compagine allogena nei centri etruschi.

Il ridimensionamento del territorio degli Umbri sarebbe avvenuto prima ad opera dei Pelasgi7 e degli aborigeni, che insieme respinsero gli Umbri da Cortona e dall’area di Rieti, poi dei Lidi8, che secondo Dionisio di Alicarnasso giunsero in Italia occidentale nel territorio che era degli Umbri.

Le prime descrizioni organiche di una parte del territorio umbro, e precisamente di quello costiero, si ricavano dal periplo dello Pseudo Skylax, già attribuito al IV sec. a.C. ma in cui si è riconosciuto un nucleo fondamentale più antico, e da quello dello Pseudo Skymnos9. In ambedue si afferma che gli Umbri occupavano un ampio tratto della costa adriatica compreso tra gli Etruschi-Greci di Spina a nord e i Sannini, o meglio Picenti a sud. Lo Pseudo Skylax colloca Ancona in Umbria.

Secondo Strabone10 l’Umbria, che confinava con la Tirrenia, si estendeva dall’Appennino fino all’Adriatico; a nord giungeva fino a Ravenna, città di origine umbra; a sud il confine era rappresentato dal fiume Esino, antico Aesis. Sempre Strabone dà notizie compiute e coerenti sull’espansione degli Umbri a nord degli Appennini che, in accordo con gli Etruschi, fondarono colonie nel territorio intorno al Po.

Plinio fornisce un elenco di tutti i popoli umbri, anche di quelli al suo tempo scomparsi.

Altri autori, danno notizie essenzialmente sul territorio umbro quale appariva al loro tempo, ricordandone le principali città. Altri, tra cui lo Pseudo Skymnos11, che riporta un passo di

1PLIN., III, 112; DION.HAL.YS., I 19, 1; FORO, I XII, 17.

2HEROD. IV, 49.

3HEROD. I, 94; DION.HAL., I, 10,3; PLIN., III, 50.

4Su Cortona: DION.HAL. I, 26. Su Perugia: SERV., ad Aen. X, 201.

5SERV., ad Aen., X, 198.

6RONCALLI1988, p. 384.

7DION.HAL., I, 19, 1; IUSTIN., 20, 1.

8DION.HAL., I, 27, 4.

9SKYMN. vv. 367-369.

10STRAB. V, 277.

11RONCALLI1977, p. 245.

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Teopompo, mettono in risalto la ricchezza dell’economia di questa regione, tanto da paragonare, per il loro stile di vita molle e raffinato, gli Umbri adriatici agli Etruschi.

Le vicende storiche di questo popolo, sono ricostruibili solo sulla base delle notizie che gli storici antichi riferiscono in relazione ai rapporti con Roma.

Seguendo le indicazioni date dagli antichi, dunque, il territorio che sembra attribuibile agli Umbri di età storica, definisce un’area che si estende lungo il mar Adriatico che da Ravenna a nord scende fino Rimini ed oltre fino ad Ancona. Nella parte interna a nord si trova Mantova prima tebana, poi etrusca ed infine sarsinate12; e l’Umbria alla sinistra del Tevere.

Da sempre il Tevere è stato considerato sicuro confine tra l’Etruria, alla destra del fiume, e l’Umbria, alla sua sinistra. Ma potrebbe non essere così almeno nella prima parte del suo corso13, il quale si svilupperebbe interamente in territorio etrusco. La suggestione nasce dall’esame di due fonti, una epigrafica, l’altra letteraria, le quali collocano in Etruria i centri di Arna e di Tifernum Tiberinum entrambi alla sinistra del Tevere14.

Le due testimonianze troverebbero conferma in quanto affermato da Plinio il Vecchio15che, nel descrivere il corso del Tevere, afferma che il fiume funge da confine solo nell’ultimo tratto del suo corso pari alla lunghezza di 166 miglia (245 km a fronte dei 366 percorsi). Quindi, per i primi 120 km, fino alla confluenza con il fiume Chiascio, il fiume scorrerebbe interamente in territorio etrusco.

Possiamo dunque ricavare il dato che il Tevere, da prima scorre in territorio etrusco, poi divide gli Etruschi dagli Umbri ed altri popoli italici, tra cui i Latini, per poi arrivare a Roma.

Due notizie coincidenti una di Plinio e l’altra di Strabone16 confermano che il più alto corso del Tevere, che secondo Plinio17 nasce in territorio aretino, non è confine tra area Etrusca e umbra e che tale confine va cercato più ad est.

Nel commento al II libro delle Georgiche, Servio fornisce un’inedita collocazione topografica del fiume Clitunno e lo colloca parte in Umbria parte in Etruria.

Tuttavia, nonostante i dubbi sui confini, possiamo affermare che il territorio degli Umbri doveva avere una forma molto simile a quella attuale. Il bacino che era situato nell’attuale Valdichiana si era già prosciugato, lasciandosi dietro il Lago Trasimeno e una vasta zona fertile di terreni alluvionali. Altre due grandi conche della stessa origine sono la Valle Umbra, che dalla tiberina si stacca, presso Torgiano, e si addentra fino a Spoleto lambendo il Preappennino; e la piana di Terni più a sud. Due bacini più piccoli con una fitta rete di corsi d’acqua da immaginarsi maggiori di quelli attuali sono la zona di Gubbio e di Gualdo Tadino. Proprio queste zone devono immaginarsi come potenziali di occupazione antropica di tipo agricolo con intensa

12SERV., ad Aen., X, 201.

13Cfr. SISANI2004, p. 62 ss.

14 Arna è definita in Tuscia da un’epigrafe ritrovata a Novae in Mesia inferiore, AE 1914, 92, pertinente ad un personaggio originario della VI regio augustea. Per Tifernum Tiberinum Plinio il Giovane nell’epistolario definisce costantemente la sua Proprietà in Tuscis, PLIN. ep. III 4; IV 6; V 6; V 18; IX 15; IX 36; IX 40.

15PLIN. n.h. III 53

16STRAB. V 2, 1.

17Cfr. anche SERV. ad Aen. VII 715.

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raccolta. Sopravvisse il Lacus Umber, al prosciugamento delle antiche conche, posto tra il Chiascio e il Clitunno. Questo lago viene ricordato da Properzio18 del quale descrive la scarsa profondità e il tepore estivo delle acque che davano luogo a nebbie circoscritte. Forse, tra le formazioni paludose sparse che dovevano ridurre la piana, trova spazio quel Lacus Clitorius evocato da fonti tarde. Nell’altipiano di Colfiorito si trovava il Lago Plestino menzionato da Appiano. Altri bacini montani si erano da tempo prosciugati ed avevano dato vita a corsi d’acqua a regime torrentizio, come quelli di Norcia e Cascia. Il Tevere lungo il suo corso compiva due deviazioni una all’altezza di Todi e l’altra di Otricoli.

Il manto forestale doveva essere sicuramente più ricco dell’attuale. La zona occidentale è formata da terreni arenacei ed argillosi, episodicamente vulcanici, e, data la scarsa permeabilità di questi era attraversata da piccoli corsi d’acqua. Il possente nucleo calcareo della montagna appenninica che si trova a est e a sud si distingue da queste zone. Qui le acque si trovano sottoforma di sorgenti.

La distribuzione della popolazione doveva essere molto diversa a quella odierna. Per un popolo di pastori transumanti i luoghi abitativi migliori dovevano essere i pascoli di dosso o di altura oppure gli altipiani. Gli itinerari incontravano zone ricche di fonti ed aree abitate che assorbivano o rivendevano i prodotti attraverso il fondovalle. La crescita demografica e la conseguente pressione degli abitanti spinge in un secondo momento a cercare un nuovo spazio agricolo lungo le aree maggiori di pianura ai lati dell’Appennino.

Il paesaggio, nella sua parte più interna, si mostra geograficamente caratterizzato dalla serie dell’Appennino settentrionale e centrale che comprende anche parte della catena tosco- romagnola e quella umbro-marchigiana. Tale catena raggiunge altezze anche notevoli come ad esempio il monte Catria o i monti Sibillini. I passi generalmente non sono elevati e permettono un buon collegamento est-ovest. Alcuni di questi passi sono legati ad importanti percorsi antichi transappenninici.

Il paesaggio riflette la costituzione calcarea della catena appenninica, che si manifesta con alcuni importanti fenomeni carsici, ed è caratterizzato da montagne con fianchi spesso ripidi e rocciosi ma con sommità pianeggianti o arrotondate con ampie groppe pratie. I fianchi sono spesso totalmente o parzialmente coperti da boschi e foreste un tempo popolati da un’abbondante fauna selvatica anche di grandi dimensioni.

La catena centrale appenninica è fiancheggiata e est e a ovest da una serie di colline che sul versante adriatico si spingono fino quasi al litorale dove vi è un’ampia fascia pianeggiante di terreni alluvionali corrispondenti alle basse vallate di fiumi e torrenti. Sul versante occidentale si ha una serie antiappenninica di cui le manifestazioni più evidenti sono il massiccio del Subasio e la catena dei Monti Martani, la zona è intervallata da ampie valli fluviali.

La situazione idrografica appare diversa nei due versanti. Mentre, infatti, il versante occidentale è dominato dalla presenza del Tevere al cui bacino appartengono tutti i corsi d’acqua che

18PROP., Elegie, IV, 1, 124.

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scendono da questo lato e che rappresenta un elemento di continuità del paesaggio umbro, il versante orientale è caratterizzato dall’andamento a pettine dei corsi d’acqua romagnoli e marchigiani. In corrispondenza delle foci dei maggiori corsi d’acqua che si gettano nell’Adriatico possono identificarsi punti di approdo e veri e propri porti come nel caso di Rimini, di Pesaro. Nel complesso si tratta di un territorio vario e movimentato, idoneo, a seconda delle fasce altitudinali, a diversi tipi di attività produttive, dall’agricoltura, all’allevamento, alle attività silvo-pastorali. Altre condizioni favorevoli erano la facilità di comunicazioni e la posizione nodale negli itinerari nord-sud ed est-ovest dell’Italia antica. La presenza di argille, ottime per le attività ceramiche e laterizie, e di giacimenti minerari in alcune aree come Gualdo Tadino o Monteleone di Spoleto, anche se modesti, nonché l’estensione delle foreste che garantivano una sicura fonte di approvvigionamento di legname, hanno facilitato l’antropizzazione del territorio umbro e ne hanno favorito i contatti con realtà e culture diverse.

Si unisce a questo quadro la possibilità di approdi e di coltivazione di saline come quelle di Cervia sul litorale adriatico.

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2. L’UMBRIA SETTENTRIONALE

2.1 Il territorio e il popolamento più antico

Il distretto umbro-settentrionale coincide con l’alta valle del Tevere nel punto in cui la stessa valle si incontra con quella del Savio, antico Sapis. È limitata ad est dalla dorsale appenninica, segnata dai valichi di Bocca Serriola (730 m s.l.m.) e di Bocca Trabaria (1049 m s.l.m.). Lì dove l’Appennino offre valichi e pendii più agevoli si ancora la rete dei percorsi viari di origine protostorica diretta alla costa adriatica (TAV I-2).

All’età del Bronzo Recente/Finale, oltre alle numerose ma sporadiche testimonianze nel comprensorio di Umbertide, tra le quali spicca il sito di Monte Acuto, risale la prima strutturazione insediativa del distretto di Gubbio, controllato da due abitati egemoni ubicati in stretta relazione topografica con il sito della futura città. L’inizio dell’età del Ferro vede il subitaneo sviluppo delle potenzialità insediative lungo la fascia tiberina, con il sorgere, alla fine dell’VIII sec. a.C., dell’abitato di Riosecco presso Città di Castello, sulla riva sinistra del fiume.

Lungo la sponda opposta, si sviluppano contestualmente piccoli potentati governati da veri e propri principes, di cui sono espressione i ricchi corredi tombali rinvenuti nelle località di Lerchi, Fabbrecce e Trestina, le cui fortune si protraggono fino a tutto il VI sec. a.C. Una pallida eco di questi sviluppi è documentata anche a Gubbio dalle più antiche sepolture relative al centro protourbano, una della quali contenente un carro da parata.

Nel corso del VI sec. a.C. la fascia tiberina attraversa una fase di profondi cambiamenti. Il settore umbro del distretto vede la fine dell’abitato di Riosecco, contestuale forse all’occupazione etrusca dell’area ad est del Tevere. Sulla riva destra, al tramonto della società dei principes si accompagna una capillare occupazione del territorio, ora direttamente controllata dalle metropoli dell’Etruria interna attraverso centri fortificati d’altura e santuari. Di tale strutturazione sarà erede, a partire dal IV-III sec. a.C., un tipo di occupazione sparsa incentrata sui piccoli insediamenti rurali, testimoniata da necropoli e da ipogei isolati di marca spiccatamente etrusca. Ancora per tutto il V sec. a.C., il centro di Gubbio resta invece ancorato a una organizzazione di tipo protourbano che solo sullo scorcio del secolo si sviluppa verso forme propriamente urbane, testimoniate da una più diffusa distribuzione della ricchezza e dai primi interventi di monumentalizzazione degli spazi pubblici della città e del territorio.

Per quanto riguarda le tendenze culturali e i legami esterni dell’Umbria settentrionale durante l’arco del VI e V secolo a.C., la direzione è duplice. In un primo momento guarda verso il Piceno; dalla seconda metà del IV secolo verso l’Etruria, da cui parte la lezione iconografica e stilistica destinata a dare espressione durevole alla produzione di bronzetti votivi, ma anche alle forme, unica evidenza residua dei destinatari e attori del culto. Qui tra le figure di offerenti si aggiungono immagini di divinità come Giove, Marte ed Ercole. Si vede bene la globale matrice etrusca di questa espressione del culto locale.

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L’area umbro settentrionale dovette entrare nell’orbita romana a seguito delle campagne che, tra il 308 e il 295 a.C., interessarono l’intera regione e che portarono nei decenni successivi alla ratifica di trattati di alleanza. La definitiva incorporazione nello stato romano avviene all’indomani della guerra sociale con la concessione dei diritti politici attuata a seguito della lex Iulia del 90 a.C. e la trasformazione in municipi dei singoli centri. Lo sviluppo delle città si accompagna a un intenso sfruttamento della campagna. A partire dall’età imperiale, le fertili aree collinari del settore nord-orientale del distretto si popolano di ville e insediamenti rustici, a volte in mano a influenti personaggi della capitale19.

Di questo distretto le due città più importanti sono sicuramente due: Tifernum Tiberinum, Città di Castello, ed Ikuvium, Gubbio.

Il sito di Città di Castello è sede di un insediamento stabile a partire dalla fine dell’VIII sec. a.C., quando nell’area di Riosecco, alla periferia settentrionale della città attuale, si sviluppa un abitato composto da grandi capanne disposte sulla superficie di oltre un ettaro. L’abitato va identificato con la Tifernum umbra il cui paleonimo trae probabilmente origine dal nome italico del Tevere.

In questa prima fase il distretto tifernate, esteso su entrambe le sponde del Tevere, appare caratterizzato da forme di popolamento sparso, con piccoli potentati a carattere gentilizio. Nel corso del VI sec. a.C. Riosecco venne abbandonato, in coincidenza verosimilmente con l’occupazione etrusca del distretto. Probabilmente già in questa fase l’insediamento si sposta sul sito della futura città romana, in relazione a uno scalo sul Tevere. Le fonti letterarie non danno informazioni sulla storia della città, probabilmente federata con Roma fino al 90 a.C., quando divenne municipium, retto da un collegio di quattuorviri, e gli abitanti vennero inclusi nella tribù Clustumina. In età augustea parte del suo territorio fu forse attribuito alla pertica della neonata città di Hispellum. Plinio20 ricorda Tifernum Tiberinum tra i centri inclusi nella regio VI augustea. L’appellativo, naturalmente determinato dalla sua collocazione sulla riva del fiume, distingue la città dall’omonima Tifernum Mataurense, oggi S. Angelo in Vado. Nuove assegnazioni coloniarie sono documentate in età tiberina21. Per l’età successiva, la città e il suo distretto sono ricordati varie volte da Plinio il Giovane, che possedeva una vasta proprietà nella zona e che rivestì la carica di patronus del municipio; alla sua attività evergetica si deve la realizzazione di un tempio 22 e la donazione di un ciclo statuario raffigurante membri della casa imperiale23.

2.2 Gubbio: i santuari a controllo delle vie di comunicazione

Il più antico comprensorio iguvino coincide con la valle stretta e allungata del torrente Saonda, sede della popolazione umbra dei Satani menzionata nelle Tavole Iguvine, che trae nome

19GAL 2006, p. 45.

20PLIN., n.h., III, 114.

21GRO.VET., 224 L.

22PLIN., ep. IV, 1, 3-4.

23PLIN., ep. X, 8, 1-6.

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dall’idronimo antico del torrente. Il distretto, chiuso a nord-est della dorsale appenninica, dovette beneficiare fin dalle origini del controllo esercitato sulla rete di percorsi transregionali tracciati tra l’area tiberina e l’area adriatica e in particolare sul valico appenninico della Scheggia, su cui sarà orientato il tracciato della stessa via Flaminia. Il sito della futura città risulta occupato stabilmente a partire dalla fine dell’età del Bronzo (fig. 2), epoca a cui risalgono due insediamenti a carattere preurbano sulle pendici del Monte Ingino e del Monte Ansciano, con i rispettivi santuari collocati sulle cime dei due rilievi. Con l’età arcaica ha luogo un sinecismo che vede la fusione dei due villaggi in un’unica realtà di tipo protourbano24, ora dotata di necropoli comunitaria caratterizzata da tombe a circolo, identificata in loc. S. Biagio. In questa fase il comprensorio appare saldamente controllato da una fitta rete di castellieri, collocati in posizione strategica lungo i confini del distretto e le principali arterie transregionali25. La trasformazione dell’insediamento in senso propriamente urbano avviene alla fine del V sec. a.C., quando viene inaugurata la nuova necropoli identificata in loc. Vittorina, che con le circa 250 tombe scavate e una continuità di utilizzo fino al II sec. d.C. rappresenta la necropoli principale della città. Nei decenni iniziali del III sec. a.C. Iguvuim dovette stringere con Roma un trattato di alleanza26, attivando contestualmente una propria zecca monetaria, le cui tre serie fuse in bronzo recano come legenda l’etnico ikuvins «(moneta) iguvina». Per le epoche successive la città è ricordata poche volte dalle fonti latine: in occasione della deportazione nel centro del re illirico Genzio nel 168 a.C.27, della concessione della cittadinanza romana da parte di Mario all’iguvino M. Annio Appio nel 101 a.C.28 e in occasione del suo coinvolgimento nella guerra sociale durante il 90 a.C.29 Lo stesso anno Iguvium ricevette la cittadinanza romana e venne elevata al rango di municipium governato da un collegio di quattuorviri, con l’inclusione degli abitanti nella tribù Clustumina. In età augustea il municipio, ricordato anche da Strabone30, è annoverato da Plinio31 tra quelli della Regio VI, la città umbra, da localizzare in corrispondenza del centro medievale di Gubbio, occupava le estreme propaggini del Monte Ingino racchiuse all’interno della confluenza tra i torrenti Camignano e Cavarello. La cima del monte, sede fin dall’età del Bronzo Finale di un santuario costituisce l’arx della città. Il tessuto urbanistico antico, riprodotto da quello medievale, doveva essere strutturato su terrazzamenti artificiali disposti parallelamente al pendio. A partire dalla fine del II sec. a.C., la città si espande a valle, nell’attuale area della Guastuglia. Questo settore, opportunamente livellato e terrazzato, accoglierà nel corso del I sec.

a.C. un vasto quartiere abitativo esteso per circa 25 ettari, centrato sull’edificio del teatro e circondato da un anello pressoché continuo di necropoli, identificate nelle località di Fontevole, S. Benedetto, S. Biagio, S. Maria del Prato e Vittorina. Le domus del quartiere tardo-

24SISANI2001, p. 71.

25Ibidem.

26CIC., pro Balb. 47.

27LIV. XLV, 43, 9.

28CIC., pro Balb. 46.

29SISENN., frr. 94-95 P.

30STRAB., V, 2, 10.

31PLIN., n.h. III, 113.

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repubblicano mostrano una continuità di utilizzo fino almeno al IV sec. d.C.; l’abbandono del settore a valle dovette coincidere con il periodo delle invasioni barbariche, che portarono alla contrazione del nucleo urbano all’interno del terrazzamento più alto del vecchio centro umbro.

Per quanto riguarda i santuari, il territorio iguvino si presenta strutturato su alcuni importanti luoghi di culto, tutti legati, in maniera senza dubbio non casuale, alle principali direttrici del traffico transregionale.

2.2.1 Loc. Nogna

All’estremo limite nord-occidentale, del distretto iguvino, in loc. Caipicchi subito a nord del borgo di Nogna, lungo la prosecuzione dell’asse transappenninico segnato dal torrente Certano, recenti scavi hanno portato alla luce un tempio, di cui si conserva quasi integralmente il podio. Il podio quadrangolare (circa 10 m di lato) realizzato in opera quadrata con blocchi di arenaria lavorati a bugnato e base modanata. Dell’alzato del tempio restano tracce della cella affiancata ad alae, mentre il pronao, costituito da colonne il laterizio, è completamente perduto. La struttura, che forse a causa di una frana non dovette mai essere completata, sembra databile al II sec. a.C.32.

2.2.2 Monteleto

Sulle pendici meridionali del monte di Monteleto, che chiude a settentrione la serie di rilievi posti lungo il margine nord-orientale della valle di Gubbio, circa 6 km a nord-ovest della città, gli scavi33hanno portato alla luce un terrazzamento in opera quadrata (45 x 17 m circa) a grossi blocchi di calcare lavorati a bugnato. La struttura sosteneva probabilmente un santuario a terrazze di tipo ellenistico (fig. 3), collocato in chiara posizione di controllo sul percorso di lungo valle, nel punto in cui esso si immette da un lato nella direttrice centrata sul corso dell’Assino, che collegava il centro umbro alla valle del Tevere, dall’altro nel percorso transappenninico aperto verso la valle del Burano. Il santuario, sia nella lavorazione dei blocchi (fig. 4), che nella particolare partitura architettonica dell’alternanza di filari alti e bassi34, così come nella disposizione scenografica rispetto alla valle sottostante, dimostra la ricezione di quei principi dell’architettura ellenistica che troviamo applicati in ambito italico nei grandi santuari di epoca tardo-repubblicana, ed è databile nel corso del II sec. a.C. Tale datazione potrebbe essere confermata dall’attribuzione al tempio di Monteleto di un blocco modanato (fig. 5) rinvenuto nella vicina località di Mocaiana insieme ad altro materiale sporadico tra cui un frammento di epigrafe contenente l’indicazione «IIIv(ir)». Il profilo a cyma reversa trova confronto in quello della modanatura del tempio dell’ara sacra di Ostia, risalente nella sua prima fase edilizia ovvero al pieno II sec. a.C. L’identificazione normalmente proposta con il tempio di Diana fatto

32Cfr. MANCONI2008.

33GAL 1980; SCALEGGI, MANCONI, TUFANI1984, pp. 209 ss.

34Cfr.MARTIN1965, pp. 385 ss.

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restaurare alla fine del I sec a.C. dal quattuovir iguvino Cn. Satrius Rufus35 restaurato in età augustea, è al momento priva di ogni riscontro.

2.2.3.Bottaccione: unica attestazione di un santuario dedicato a Iuppiter

Il ruolo centrale del percorso transappenninico che attraversa la gola del Bottaccione diretto alle valli del Burano e del Sentino, soprattutto per la sua funzione di raccordo con la Flaminia, è testimoniato invece dal santuario di Iuppiter Appenninus. Questa è anche l’unica attestazione epigrafica del Dio36. Il santuario posto lungo la via Flaminia, è collegato esplicitamente a Gubbio dalla Tabula Peutigeriana, che recita «Iovis Penninus id e(st) Agubio». Il tempio venne individuato nella località nota come «Piaggia dei Bagni». La sua importanza è testimoniata dalla quantità e qualità del materiale emerso durante gli scavi dell’inizio del ‘700 e purtroppo andato disperso37. In quell’occasione furono anche rinvenute due piccole basi votive iscritte che ne attestano il culto38.

Sebbene gli unici elementi sopravvissuti alla dispersione siano di età imperiale. Il confronto con il tempio di Iuppiter Poenius al valico del Gran San Bernardo, la cui costruzione va letta in rapporto al piano di recupero delle Alpi progettato da Augusto39 che permette indirettamente di rialzare almeno ad epoca augustea la cronologia del santuario. La collocazione del santuario presso un valico rimanda al culto iguvino, che ne dovette costituire il modello suggerito dai recenti lavori di sistemazione della via Flaminia, condotti da Augusto.

2.2.4 Un bronzetto sul Monte Catria

È del 190140 la scoperta di un bronzetto sulla vetta del Monte Catria, a 1702 m s.l.m., in uno scavo moderno per l’erezione di una croce sulla vetta del monte. La figura è alta 110 mm e pesa 152 g. Sulla testa porta una corona. Nella mano destra tiene una patera, e nella sinistra una clamide. La torques che tiene al collo fa pensare ad un bronzetto gallico. Questo non fu l’unico rinvenimento nella zona poiché G. Calindri41in un suo saggio dice che nella vicinissima località di Frontone furono rinvenuti altri bronzetti.

35CIL XI 5820.

36CLAUD. VI cons. Hon. 504-505; per altre informazioni sul testo cfr. SISANI2001, p. 70 e relativa bibliografia.

37COLUCCI1971, pp. 222 ss.

38CIL XI 5803; CIL XI 5804.

39SISANI2001, p. 71 e relativa bibliografia.

40VERNARECCI1901, pp. 416-417.

41Cfr. VERNARECCI1901, p. 417.

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2.3 Due casi di macellazioni rituali: Monte Ingino e Monte Ansciano

La consistente occupazione del bacino di Gubbio sembra datarsi a cavallo tra la media e la tarda età del Bronzo, fase quest’ultima cui sono attribuibili ben sei siti Monte Ingino, Vescovado, Monte Ansciano, S. Agostino, Catignano, Monte Alto42.

All’età del Bronzo Medio (1400 a.C. circa) risalgono le prime opere di terrazzamento sul Monte Ingino, dato rinvenuto grazie agli scavi effettuati al di sotto della Rocca Posteriore43. La parte scavata costituisce probabilmente un’area marginale rispetto all’insediamento vero e proprio, che doveva occupare la cresta tra le due cime del monte. Nonostante lo spazio estremamente limitato, non sono attestati, per tutta l’epoca di frequentazione, tentativi di espandere l’occupazione alle terrazze inferiori. La costruzione delle due rocche medievali sul Monte Ingino, ha probabilmente portato alla parziale distruzione delle fasi anteriori di occupazione.

L’abbandono del sito ipotizzato dagli archeologi responsabili dello scavo è dunque del tutto apparente. La geomorfologia delle due cime del monte è tale da impedire interri di una certa profondità, così che qualunque intervento edilizio porta inevitabilmente all’erosione degli strati inferiori. In questo senso è da interpretare la soluzione di continuità tra gli strati protostorici individuati al di sotto della Rocca Posteriore e gli strati medievali. Che si tratti di un fenomeno illusorio è testimoniato dai materiali in giacitura secondaria, dell’età del Ferro e romana, che vanno a colmare il vuoto tra le due fasi attestate44.

Al Bronzo Finale (1200-1100 a.C. circa) risale un notevolissimo scarico di ceramica e di ossa, che si distacca per quantità e qualità da quello di qualunque altro insediamento coevo. In particolare, la quantità di frammenti ossei, più di 25.000, risulta enormemente superiore a quella restituita dagli altri siti dell’età del Bronzo in Italia centrale. Di fronte a quantità così elevate di resti faunistici, stupiscono le scarsissime attestazioni della flora, pertinenti oltretutto, in grande maggioranza, agli strati anteriori allo scarico del Bronzo Finale.

Molto interessante è l’assoluta maggioranza dei frammenti di ovini e suini, macellati generalmente in età molto giovane: gli ovini tra il primo e il secondo anno di vita, i suini addirittura nei primi mesi di vita.La predominanza di suini rispetto ai bovini, così come le pratiche di macellazione, distacca il caso eugubino dagli altri insediamenti noti45. La macellazione effettuata su animali così giovani sicuramente era antieconomica sia nel caso dei suini, dal punto di vista propriamente alimentare, che ovini, a livello di produzione di latte e di lana. Particolare è anche l’alta percentuale di canidi, il 7% di tutto lo scarico, pari a circa 1000

42MALONE-STODDART1994, pp. 92 ss.

43MALONE-STODDART1986; MALONE-STODDART1994, 94 ss.

44SCHIPPA1987, pp. 93 ss. Durante lo scavo. viene segnalato il ritrovamento di un bronzetto votivo di tipo arcaico di ambiente umbro-settentrionale, di un asse romano della riduzione onciale di II sec. a.C. e di ceramica tardo- romana.

45 Nell’età del Bronzo l’allevamento del maiale incide scarsamente nell’economia di sussistenza. Nel caso ad esempio dell’area etrusca (BARTOLONI1997), le percentuali di resti di suini si addirano normalmente intorno al 20

%, contro un 45% di ovicaprini e un 30 % di bovini. Nel caso del Monte Ingino siamo invece nell’irdine del 33%, contro un 48% do ivi caprini e appena un 11% di bovini.

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frammenti e a un numero di 16 individui. L’unico caso sia pur lontanamente paragonabile a quello del Monte Ingino è quello del Colle dei Cappuccini di Ancona, dove però i 68 frammenti pertinenti a canidi sono giustificati dall’alta percentuale di cacciagione, il 38% circa, attestata nell’insediamento46: i frammenti pertinenti a specie selvatiche dell’insediamento eugubino ammontano invece ad una percentuale inferiore al 3% in totale.

Anche la quantità di frammenti ceramici che lo scavo ha restituito è molto elevata, più di 42.000, di cui la maggioranza pertinenti allo scarico vero e proprio. Dallo stesso viene anche la quasi totalità dei frammenti pertinenti ad oggetti metallici, in percentuali estremamente elevate rispetto ad altri siti coevi.

Il deposito di Monte Ansciano47 presenta caratteristiche del tutto simili al precedente, sia a livello di percentuali della fauna, che di pratiche di macellazione. Il sito, occupato a partire dal 1100 a.C. circa e apparentemente abbandonato intorno al 950 a.C., ha anch’esso restituito, sebbene in proporzioni notevolmente inferiori a quelle del sito dell’Ingino, una cospicua quantità di frammenti ossei (circa 12.000) e ceramici. Questa volta lo scarico è in rapporto, oltre che con opere di terrazzamento, con un grande fondo di capanna a pianta ovale, di 15x5 m circa.

Nel caso di Monte Ansciano, la presenza di una consistente fase di età arcaica48, con continuità di frequentazione fino all’età imperiale, potrebbe avere danneggiato gli strati risalenti alla prima età del Ferro: il ritrovamento di una fibula di IX-VIII sec. a.C. sembra, infatti, contraddire l’ipotizzato abbandono del sito entro il 950 a.C. circa.

Anche ammettendo che la cima dei due monti possano essere funzionali ad uno stanziamento legato alla transumanza49, le caratteristiche di questi siti fanno escludere non solo che si tratti di scarichi di accampamenti stagionali, ma anche che si tratti di insediamenti per scopi abitativi.

Tutto porta piuttosto a credere che i siti, almeno a partire dal Bronzo Finale, fossero utilizzati come luoghi di culto, secondo una tipologia ben esemplificata dai siti di altura marchigiani, per molti versi analoghi, di Monte Primo di Pioraco50 e di Monte Croce Guardia di Arcevia51. Solo questa interpretazione può rendere ragione dell’atipicità degli scarichi del Monte Ingino e del Monte Ansciano, giustificando la macellazione di animali giovani e lattanti, insieme all’alta percentuale di suini52e alla scarsezza di attestazioni a livello della flora.

In questo senso va anche letta la presenza di un grosso numero di canidi, che almeno a partire dall’età del Ferro si trovano generalmente associati a contesti cultuali e il cui uso per scopi sacrificali è direttamente attestato nella stessa Gubbio dai rituali delle Tavole53. A questo

46WILKENS1990, pp. 327 ss.

47MALONE-STODDART1994, pp. 99 ss.

48STODDART-WHITLEY1988; MALONE-STODDART1994, pp. 145 ss.

49La stessa percentuale di suini aveva già fatto attribuire il sito dell’Ingino ad una continuità sedentaria piuttosto che transumante: cfr. BARKER1987, pp. 277 ss.

50Cfr. § su Monte Primo di Prioraco.

51LOLLINI1979, pp. 179 ss.

52L’alta percentuale di suini e la loro macellazione in età molto giovane trova confronto nel sito dell’età del Bronzo di Sorgenti della Nova, interpretabile anch’esso come luogo di culto: cfr. BARTOLONI1977 pp. 93 ss.

53Per un’analisi delle attestazioni archeologiche e letterarie del sacrificio di cani, si veda: GIANFERRARI 1995, pp.

127 ss.

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proposito, un caso interessante, perché vicino all’orizzonte cronologico dei siti eugubini, è rappresentato dal rinvenimento dei resti di un cane, con chiare tracce di macellazione, a Luni sul Mignone, in rapporto ad una grande capanna di epoca protovillanoviana54. Le dimensioni dell’edificio (9x18 m), su cui in epoca alto-medievale viene significativamente impiantata una cappella cristiana, fanno sospettare un suo utilizzo a scopi cultuali e risultano straordinariamente vicine a quelle della capanna isolata sulla cima del Monte Ansciano. L’esistenza già in epoca così antica di vere e proprie strutture di tipo templare anche in Umbria è del resto fortemente probabile, come testimonia il rinvenimento di una capanna isolata, risalente alla tarda età del Bronzo, al di sotto del sacello arcaico sull’arce dell’abitato preromano di Gualdo Tadino55. Sull’interpretazione in senso cultuale convergono, nel caso del Monte Ingino, anche alcuni elementi estremamente significativi, come il ritrovamento di due fibule intenzionalmente piegate e di tre frammenti di figurine zoomorfe in argilla (fig. 7)56. Dagli strati dello scarico proviene anche lo scheletro di un bambino, morto tra i cinque e i sei anni di età e deposto senza una fossa vera e propria. Il dato potrebbe suggerire pratiche sacrificali attestate soprattutto nel Neolitico e nella prima età dei metalli ma note sporadicamente anche per orizzonti cronologici più tardi.

Si può ipotizzare che il Monte Ingino e il Monte Ansciano dovettero assommare sia funzioni difensive data la loro visuale, che cultuali.

Sulle pendici degli stessi monti Ingino e Ansciano lo scavo dei siti di Vescovado e di S.

Agostino ha evidenziato una situazione radicalmente diversa. La frequentazione sembra essersi estesa tra la tarda età del Bronzo e la prima età del Ferro57. I due siti, accomunati dall’analoga collocazione a mezza costa, che li differenzia dai sovrastanti insediamenti d’altura, hanno restituito evidenze soltanto a livello della flora (cereali), associate nel caso del sito di S. Agostino a vere e proprie strutture abitative.

La grande vicinanza tra i quattro siti rende difficilmente sostenibile l’interpretazione datane dagli archeologi inglesi responsabili dello scavo, che si tratti, cioè, di centri indipendenti, appartenenti a comunità dedite le une (quelle dell’Ingino e dell’Ansciano) alla pastorizia, le altre (quelle di Vescovado e di S. Agostino) allo sfruttamento agricolo della valle58. Le sovrapposizioni dei rispettivi territori sono tali da escludere che si tratti di centri autonomi l’uno dall’altro, né possono essere attribuiti a periodi di frequentazione diversi poiché nei casi del Monte Ingino e del Monte Ansciano i rinvenimenti permettono di ricostruire una continuità di frequentazione estremamente lunga, tale da sovrapporsi integralmente a quella di Vescovado e di Sant’Agostino.

La giusta interpretazione del popolamento del bacino eugubino in questa fase va allora cercata nell’ottica di un’articolazione dei sistemi insediativi, alla luce della quale leggere le stesse

54HELLSTRÖM1975, pp. 77 ss.

55STEFANI1935, pp. 155 ss.; BONOMIPONZI1996B; BONOMIPONZI INEAA (II suppl.), s.v. Umbria.

56FLAVELL, C. MALONE, S. STODDART1987, pp 313 ss.; MALONE-STODDART1994, p. 126. Fugurine raffiguranti animali, analoghe per tipologie a quelle eugubine, sono piuttosto comuni in area marchigiana, in contesti del Bronzo Finale.

57Vescovado: BRANCONI-MANCONI; 1982-83; MANCONI1994. S. Agostino: MALONE-STODDART1994, pp. 101 ss.

Il materiale dei due siti è attualmente in corso di studio.

58Sull’integrazione delle diverse attività produttive in quest’epoca, cfr. PERONI1989, 112 ss.

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specializzazioni dei singoli siti, da interpretare non tanto sul piano semplicemente economico quanto su quello funzionale.

I due centri egemoni si presentano come veri e propri populi preurbani aggregati intorno alle rispettive arces, la cui vocazione è confermata dagli stessi santuari che troveranno posto su entrambe le cime a partire dall’epoca arcaica e che vanno interpretati in termini di vera e propria continuità di culto: non a caso, per quanto riguarda i depositi del Monte Ansciano, la fase dell’età del Bronzo e quella arcaica si presentano, in termini di evidenza della fauna e di pratiche di macellazione, estremamente simili.

Il VI secolo a Gubbio rappresenta un momento fondamentale per la strutturazione della città, momento che è testimoniato anche dalla creazione di due santuari di tipo italico sulle vette dei monti Ingino e Ansciano in diretto rapporto con l’abitato umbro da collocare, verosimilmente, sulle pendici degli stessi monti.

La funzione cultuale del Monte Ingino in quest’epoca è attestata da un unico ritrovamento: un bronzetto votivo di tipo arcaico (fig. 6) di ambiente umbro-settentrionale, raffigurante probabilmente Giove59. Il dato è estremamente significativo soprattutto se messo in rapporto con la funzione cultuale precedente. La riconsacrazione del luogo di culto in età arcaica è dunque un fatto che può darsi praticamente per certo. Analoga e meglio documentata è la vicenda del vicino Monte Ansciano. Sulla cima di quest’ultimo, il deposito dell’età del Bronzo viene sigillato nel corso del VI sec. a.C. da una piattaforma in scaglie di pietra su cui sono state rinvenute alcune decine di bronzetti schematici (fig. 8) sia maschili che femminili60. Il materiale attesta una continuità di frequentazione che arriva fino all’età imperiale. La piattaforma che sigilla in modo quasi rituale gli strati precedenti costituisce un elemento estremamente significativo. Essa rappresenta la prova materiale di una vera e propria rifondazione del luogo di culto.

2.4 San Pietro in Vigneto presso Gubbio, unica attestazione di una statua di Cupra

Di estremo interesse, sempre nell’ottica dei percorsi transregionali, è anche il santuario di Mars Cyprius situato a circa a 16 km a sud di Gubbio in loc. S. Pietro in Vigneto, sulla riva destra del fiume Chiascio. Gli scavi, effettuati nel 1781, identificarono un sacello dedicato a Marte Cyiprio di cui venne recuperata la statua di culto. L’unica documentazione della scoperta, è costituita dalla testimonianza del Ranghiasci61, che costituisce la preziosa documentazione dei ritrovamenti effettuati, tutti andati successivamente dispersi al di fuori di una statua marmorea e di un’epigrafe.

59SCHIPPA1987, pp. 93 ss.

60STODDART-WHITLEY1988, pp. 379 ss; MALONE-STODDART1994, pp. 145 ss.

61 Nobile erudito e antiquario eugubino che parteciò alla scoperta del luogo di culto e ne lascia un libello con la descrizione.

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L’edificio templare, che sembra aver avuto dimensioni piuttosto ridotte62, fu smantellato per la costruzione dell’eremo di San Pietro in Vigneto, per la cui chiesa furono in parte utilizzati materiali di spoglio63.

Il tempio originario, collocato al confine tra i distretti iguvino e tadinate lungo l’importante arteria transregionale diretta al valico appenninico di Fossato, risale senza dubbio ad età ellenistica come testimoniano due statue in terracotta (ora disperse) risalenti all’inizio del II sec.

a.C. ed identificabili con i più antichi simulacri di culto. Raffiguravano un guerriero armato di corazza, certamente Marte, e una figura femminile da identificare verosimilmente con Cupra, il cui culto nel santuario è attestato dal particolare epiteto di Cyprius associato alla divinità principale. Risalente alla seconda metà del I sec. d.C. è un’epigrafe menzionante la ricostruzione dell’edificio a cura di L. Iavoleno Apulo.

Lo scavo restituì, oltre a numerose lucerne, frammenti ceramici e monete romane di età imperiale. Tra queste, un esemplare dell’epoca di Giustiniano fornisce il termine cronologico più basso della frequentazione del sito.

2.4.1 Le tre figure di divinità: Marte Cyprio e Cupra?

La statua marmorea (fig. 9), unica conservata, raffigura un Marte loricato e barbato, stante, con lancia nella destra e scudo a sinistra. La testa è coperta da un elmo con alto cimiero sostenuto da una sfinge alata. La corazza presenta, a leggero rilievo sulla parte frontale, un candelabro con ai lati due grifi affrontati. La statua riprende il tipo di Marte Ultore e trova confronto diretto nel Marte del Museo Capitolino, di epoca flavia64. L’esemplare iguvino andrà attribuito allo stesso periodo. Il plinto su cui poggia la statua reca l’iscrizione65:

L. IAVOLENVS APVLVS VOTVM SOLVIT L.M.

Lo stesso personaggio è ricordato nell’epigrafe su lastra marmorea rinvenuta in frammenti durante lo scavo (fig.10)66:

[MAR]TI CYPRIO

[L. I]ANVOLENVS APVLVS SIGNVM MARMOREVM EX VOTO POSVIT ET AEDEM VETUSTATE CON[LAPSAM]

REFECIT ADIECTO PRONAO ET CO[LVMNIS]

62Il Ranghiasci parla di un edificio lungo 24 piedi, pari a circa 7 metri, ma è impossibile precisare quali punti di riferimento abbia utilizzato, dato che delle strutture restavano, a detta sua, scarsissimi resti.

63La chiesa è certamente anteriore al 1296, anno in cui risulta attestata per la prima volta: SELLA1950, n. 2489.

64MASSARO1941, pp. 391 ss.; VERMEULE1959, n. 78; MATTEINICHIARI1995, n. 622.

65CIL XI 5806.

66CIL XI 5805.

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L’iscrizione, evidentemente coeva alla statua, attesta la totale ricostruzione dell’aedes da parte di un certo L. Iavolenus Apulus, altrimenti ignoto, il quale fa aggiungere alla struttura anche il pronao e le colonne. Il tempio, che in origine doveva avere una struttura piuttosto semplice, è dunque sicuramente anteriore all’epoca flavia. L’espressione «vetustate conlapsam» suggerisce anzi una data abbastanza più alta, impressione confermata in pieno dall’analisi delle statuette fittili di cui fortunatamente il Ranghiasci ci ha lasciato il disegno (fig. 11).

Il primo esemplare, alto circa 50 cm, fu rinvenuto mancante delle braccia e di gran parte della gamba destra. Raffigura, sul plinto, un personaggio maschile imberbe loricato e apparentemente a capo scoperto67. Il secondo esemplare, alto circa 45 cm e anch’esso privo di braccia, rappresenta una figura femminile panneggiata, con il capo coronato da un diadema lanceolato da cui scende il velo a coprire le spalle68. Le due statuette si dimostrano assolutamente omogenee a livello stilistico, come evidenziano i tratti del volto e soprattutto la capigliatura in entrambi i casi scriminata al centro e disposta in bande striate orizzontalmente.

L’esemplare maschile trova un puntualissimo confronto iconografico con il cosiddetto «Marte»

di Todi69. Simile è la postura di entrambe le figure, sia nella ponderazione che nella posizione delle braccia, che anche nell’esemplare iguvino dovevano presentarsi la sinistra leggermente sollevata e la destra protesa in avanti. Ugualmente coincidenti sono i tratti del volto in entrambi i casi sbarbato. Di particolare interesse è il trattamento dei capelli, conformati a lunghe ciocche ricadenti ai lati del volto davanti alle orecchie.

Impressionante è l’analogia soprattutto del dettaglio antiquario dell’armamento. Fatta eccezione per l’elmo e gli spallacci, apparentemente assenti nell’esemplare iguvino, le due armature risultano assolutamente identiche. La parte superiore, a lamelle verticali, che nel «Marte» sono notate in maniera analitica, nell’esemplare iguvino si presentano rese impressionisticamente con fitte serie di incisioni verticali. La parte inferiore è in entrambi i casi del tipo a pteryges, dai quali fuoriesce il panneggio della corta tunica70. Interessantissima è la comune notazione della cintura che chiudeva alla vita la corazza a lamelle nel «Marte», apparentemente liscia nella statuetta.

Il dato antiquario della corazza costituisce un prezioso elemento di datazione per la nostra statua.

Il tipo, noto in ambito etrusco a partire dalla fine del VI sec. a.C., sembra caratteristico soprattutto del periodo che va dalla metà del V a tutto il IV sec. a.C., con andamenti che non scendono comunque al di sotto del II sec. a.C. Questa datazione può essere ulteriormente precisata sulla base dei confronti istituibili per la figura femminile. L’iconografia della figura è

67Ranghiasci fornisce per la statua le dimensioni, 2 palmi e 2 once, ed una descrizione: «egli è qui figurato con giovane aspetto, convenevole alla fortezza di quel nume, con nuda testa come vediamo in altri simulacri del

medesimo Marte avere usati gli Etrusci, va cinto di lorica guarnita di doppio ornamento fimbriato, il quale avverte il Buonarroti, esser Proprio parimenti degli Etrusci, non meno, che le crepeide chiuse di cui è calzato».

68Ancora Ranghiasci: «questo si fa vedere con grave, e maestoso volto, avendo in testa un diadema radiato, dietro cui scende un velo sulle spalle, è vestito di una tunica fino ai piedi, sopra la quale porta il manto, che dalla spalla destra giunge alle ginocchia ripiegato sulla sinistra, ed ha parimente all’etrusca i calcei chiusi». Altezza 1 palmo e 11 once.

69Per cui RONCALLI1973.

70In questo senso è verosimilmente da leggere quello che Ranghiasci interpreta come una seconda fascia di fimbrie.

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caratteristica di una serie di ex-voto, soprattutto bronzei, riferibili ad una produzione tipica del periodo tra il III e il II sec. a.C.71Elementi comuni sono il lungo chitone panneggiato sulla spalla sinistra e intorno alla vita, il diadema a elementi lanceolati, rappresentati in genere da foglie.

Allo stesso ambito cronologico rimanda anche il già sottolineato trattamento della capigliatura, comune ad entrambe le statuette e che ritroviamo in esempi «alti» quali le terrecotte di Ariccia e del frontone di via S. Gregorio a Roma72. I confronti per i nostri due esemplari rimandano dunque concordemente ad un periodo compreso tra il III e il II secolo a.C. A favore di questa datazione, non ulteriormente precisabile, sta anche lo stesso materiale degli esemplari iguvini:

l’uso della terracotta è elemento che di per sé spinge in favore di una datazione anteriore alla fine del II sec. a.C., in considerazione del sensibile calo dell’uso di votivi fittili a partire dalla metà dello stesso secolo73.

Lo stesso argomento si dimostra di particolare interesse nella valutazione della funzione delle due statue ceramiche. Come è noto, l’ambiente umbro rientra, dal punto di vista dei complessi votivi, nell’area del tipo «italico», caratterizzato da ex-voto bronzei74. La presenza di due statue fittili in un santuario collocato nel cuore del territorio iguvino, in un’area al di fuori della presenza coloniale romana, desta qualche perplessità.

Si affaccia l’ipotesi che nelle due figure non vadano riconosciuti ex-voto, ma le stesse statue di culto della più antica fase del tempio. A favore di questa ipotesi stanno anche le dimensioni delle due statue, che, pure se non eccezionali, superano di molto la media degli ex-voto sia bronzei che fittili. Si può allora meglio intendere forse l’assoluta identità stilistica dei due pezzi, prodotti dalla stessa officina ad hoc per il tempio, e la fortunosa coincidenza che essi costituiscano, insieme al simulacro marmoreo, gli unici elementi sopravvissuti all’abbandono del luogo di culto. In questo modo risulterebbe chiarita anche la particolare puntualizzazione presente nella dedica di Iavolenus Apulus, che specifica di aver donato un signum marmoreum. L’indicazione del materiale della statua, altrimenti ridondante, doveva servire ad evitare confusioni con altri signa evidentemente non di marmo. È del resto proprio questa dedica l’unico dato in nostro possesso che faccia luce sulla divinità del santuario che conferma la presenza di un culto doppio, maschile e femminile, quale è quello presupposto dalla presenza di due simulacri.

L’ex-voto, come sottolinea il testo, è dedicato a Mars Cyprius, che deve ragionevolmente ritenersi la divinità o una delle divinità venerate nel santuario. La vexata quaestio dell’interpretazione di questo teonimo, divide gli studiosi tra coloro che collegano Cyprius a (Aphrodite) Cypris/Cypria e coloro che lo collegano all’umbra Cupra75. La prima interpretazione, basata sulla grafia stessa dell’epiteto iguvino, non tiene conto della possibilità

71Puntuale il confronto con gli esemplari di Todi: FALCONIAMORELLI1977, p. 178 s. (tav. XCIII a-f). Cfr. anche gli esemplari da Bolsena, da Orvieto, da Nemi, e da Carsoli. Vicini per il tipo di diadema sono alcuni esemplari in terracotta dalla Vinaccia a Cerveteri; questa tipologia di ex-voto rimanda a prototipi magno greci della seconda metà del IV sec. a.C. Il tipo è genericamente collegato, sulla base dei contesti, ad un «agrarische Fruchtbarkeitskult».

72Roma Mediorepubblicana 1973, nn. 473-477; STRAZZULLA1993, pp. 317 ss.

73Cfr. PENSABENE, RIZZO, ROGHI, TALAMO1980.

74COMELLA1981, pp. 717ss.

75MASSARO1941, pp. 391 ss. Sulla dea Cupra confronta l’attenta analisi in CALDERINI2001, pp. 45 ss.

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che quest’ultima possa essere frutto di un’assimilazione secondaria di un’originaria Cupra, in considerazione dell’epoca della dedica, di piena età imperiale e successiva di almeno due secoli alla nascita dei luoghi di culto. A questo proposito è opportuno sottolineare come la particolare struttura del teonimo, rientri in una tipologia diffusa in ambito italico ed attestata anche nelle Tavole Iguvine76. Questo aspetto può confermare l’alta antichità del teonimo, la cui forma potrebbe però anche non essere quella originaria.

In realtà, come ha ben visto Coarelli77, l’alternativa tra le due opzioni costituisce in parte un falso problema. La natura di Cupra, divinità di carattere emporico, rende estremamente verosimile che la sua assimilazione all’Aphrodite/Astarte di Cipro sia originaria e alla base stessa del teonimo umbro. La stessa notizia di Strabone78, che collega Cupra a Hera/Uni, conferma l’ipotesi, alla luce del rapporto tra la Uni di Pyrgi e l’Astarte cipriota79. È lo stesso geografo che, attestando l’origine etrusca del culto, fornisce la soluzione del problema: in quanto divinità «straniera» in Umbria, il teonimo Cupra andrà letto come interpretatio umbra del nome originario della divinità. È evidente che questo nome può essere soltanto quello di (Aphrodite/Astarte) Cypria, che le genti locali avranno trovato assonante con l’epicorio ciprum sabine bonum della nota glossa varroniana80 e che il particolarissimo epiteto del Marte iguvino finisce, forse inconsciamente, per recuperare.

Una conferma di questa ricostruzione è data da un interessante testo epigrafico proveniente da Massa Fermana, nell’entroterra di Fermo81. L’epigrafe, purtroppo mutila e attualmente dispersa recita:

CVRRAE [ OPSEQUE [ POSVERV [

Il plurale posuerunt suggerisce di interpretare il nome femminile delle prime due righe come il teonimo della divinità oggetto della dedica, che può essere integrabile unicamente come Cupra Opsequens, ipotizzando senza troppe forzature un errore di lettura in Curra, per altro un apax, per Cupra.

Se il particolarissimo appellativo, documentato unicamente in associazione a Fortuna e Venere, conferma il già ipotizzato ambito funzionale della dea umbra, la dedica, oltre a restituire un’ulteriore attestazione del culto, permette di focalizzare tempi e modi della sua diffusione in area umbro-picena. Massa Fermana, collocata a pochissima distanza da Cupra Marittima, è ubicata a ridosso dei centri antichi di Firmum e di Falerio, entrambi probabili candidati per la

76PROSDOCIMI1989, pp. 484 ss.

77Da ultimo: COARELLI1996B, p. 3 ss.

78STRAB. V 4, 2. sul santuario di Crupra Marittima come fondazione etrusca, cfr. COLONNA1985, pp. 101 ss.

79Cfr. COARELLI1988, pp. 205 ss.

80VARR. l.l. V 159. Sul teonimo umbro cfr. ROCCA1996, pp. 82 ss.

81CIL XI 5501, cfr. CALDERINI2001, p. 51 s.

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provenienza originale della dedica. Siamo dunque nell’area dell’enclave villanoviana di Fermo82, la cui arcaicissima etruschicità permette di leggere sotto nuova luce l’attribuzione straboniana del santuario di Cupra Marittima, probabile emporio di tale comunità83, agli Etruschi.

Se dunque la funzione emporica dei santuari di Cupra (fig. 12) venne sfruttata, tra il VI e V sec.

a.C., ovvero dall’espansione commerciale verso le aree appenninica ed adriatica gestita dai centri dell’Etruria interna, la sua strutturazione originaria va forse fatta risalire abbastanza più indietro, all’epoca dell’espansione villanoviana. A questa facies del resto è anche attribuibile il particolarissimo toponimo di Falerio, che non può non rimandare, tramite il confronto con il paleonimo Falerii, ad un’area molto vicina, geograficamente e culturalmente a quella etrusca84. Il toponimo si spiega unicamente come portato dalla presenza stanziale di genti parlanti etrusco85, che nell’area in questione è documentabile solo per una fase di IX/VIII sec. a.C.

La divinità del santuario iguvino è dunque un Marte «di Cupra», denominazione che allude di per sé all’esistenza di un culto doppio. Se è giusta la valutazione delle due statuette fittili come simulacri, l’idea di vedere nella figura femminile la rappresentazione di Cupra risulta estremamente seducente. La perdita delle braccia, e dunque di eventuali attributi caratterizzanti, impedisce purtroppo di instaurare confronti sicuri. L’aspetto generale della figura, comunque, rimanda ad una divinità matronale, natura questa che è rispecchiata proprio dall’epiteto mater che accompagna Cupra nei testi epigrafici di Colfiorito e di Fossato di Vico, uniche attestazioni dirette del suo culto86. L’unico attributo superstite, costituito dal diadema lanceolato, risulta troppo poco leggibile nel disegno del Ranghiasci, e del resto la diffusione del tipo in rapporto alla già analizzata classe di ex-voto ellenistici non costituisce un indizio per la sua interpretazione. La scarsa leggibilità dell’esemplare non impedisce comunque di avvicinare in via ipotetica il diadema della statua iguvina a quello che corona frequentemente proprio le immagini etrusche di Uni87, confronto che potrebbe confermare la stessa notizia straboniana sull’origine della divinità umbra.

La collocazione eccentrica del tempio di Mars Cyprius nell’ambito del territorio iguvino ne fa un tipico santuario di confine, natura questa che spiega probabilmente la presenza di un culto di Marte, ma che non ne esaurisce le caratteristiche. Il tempio è infatti collocato in strettissimo rapporto topografico con il percorso viario transappenninico centrato sul fiume Chiascio, che collega la Valle Umbra all’Adriatico e direttamente ad Ancona, emporio per eccellenza della costa adriatica. La natura emporica di Cupra ben si adatta a questo tipo di collocazione: sotto questo aspetto, la collocazione «portuale» della Cupra di Crupra Marittima trova il suo

82Da ultimo BALDELLI1996, pp. 15 ss.

83 A questo Proposito c’è da chiedersi se lo stesso enigmatico etnico «Phalessaioi», che identifica in Eudosso di Cnido (steph. Byz., s.v. Phelessaioi) una popolazione stanziata sulla costa adriatica tra Umbria e Iapigia, non vada letta come forma correlata Proprio all’etnico «Falisci» (per una differente interpretazione COLONNA1999, 10).

84In questo senso già COLONNA1985.

85Più cauto in questa prospettiva PERONI1992, pp. 13 ss.

86ROCCA1996, 11 e 13.

87Su cui COLONNAin LIMC, s.v. Uni.

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corrispettivo nei suoi luoghi di culto umbri in corrispondenza dei passi appenninici di Colfiorito e di Fossato di Vico88, luoghi di transito obbligati per i traffici transappenninici.

Il cardine appenninico dell’arteria formata dal Chiascio è costituito proprio dal passo di Fossato.

Il tempio di S. Pietro in Vigneto sembra allora costituire la controparte iguvina di questo sistema, cui corrisponde specularmente sul versante piceno il probabile luogo di culto di Cupra Montana:

il sito del santuario va localizzato verosimilmente in loc. Poggio Cupro, proprio lungo il percorso di fondovalle. Questa arteria si presenta dunque come una vera e propria «via di Cupra», lungo la quale sono rintracciabili almeno altri tre santuari dell’analoga funzione emporica. Sul versante umbro della stessa via, ad Assisi, è, infatti, attestato almeno dal II sec. a.C. il particolarissimo culto di Arenta89, divinità dietro cui si cela proprio l’Aphrodite/Astarte cipriota e che nel centro umbro è probabilmente assimilata alla stessa Cupra90. Sul suo ramo adriatico, il percorso termina ad un bivio che conduce, ad un lato ad Ancona, sede di un famoso Aphrodision91, e dall’altro a Fanum Fortunae, centro che nel nome stesso tradisce la presenza di un culto che gli esempi

«tirrenici» di Roma, Antium e Praeneste dimostrano di natura assolutamente analoga92.

2.5 Umbertide. Il santuario d’altura di Monte Acuto

Il distretto di Umbertide, esteso a cavallo del corso del Tevere, rientra nell’antichità all’interno del territorio di Perugia e ne costituisce le estreme propaggini settentrionali. In età preromana l’area appare punteggiata da una serie di insediamenti fortificati di altura, destinati a un capillare controllo del territorio. Tra questi spicca il sito di Monte Acuto (926 m s.l.m.) che fa parte di una serie di rilievi montuosi nella parte nord-occidentale dell’Umbria alla destra del Tevere (fig. 13).

Monte Acuto sovrasta la zona circostante di Fratta, domina il fiume Tevere e dalla cima, guardando verso ovest, si vede il lago Trasimeno, mentre volgendosi ad est si domina la catena degli Appennini. Monte Acuto, insieme a Monte Tezio, fin dall’antichità, hanno svolto funzione di controllo del confine umbro con il mondo etrusco e di dominio delle vie fluviali.

Monte Acuto e Monte Tezio si contrappongono tra loro per altezza, questi fanno entrambi parte di una catena calcarea avente stessa direzione ed andamento di quella appenninica. I due monti hanno cime nude ed arrotondate, mentre il territorio circostante è formato da alture con fianchi ripidi e rocciosi, ma coperte di boschi.

Le cime di entrambi i monti sono interessate dalla presenza di un semplice sistema difensivo con vallo ed aggere, di forma ellissoidale, costruito a pietrame. Le difese sorgono sull’estremo

88Per il santuario di Colfiorito si veda CIOTTI1963, pp. 99 ss; per quello di Fossato di Vico STEFANI1940, pp. 335 ss.

89FORNI1987, n. 1.

90COARELLI1994, pp. 119 ss; COARELLI1995, pp. 199 ss.

91CATULL. XXXVI; IUVEN. IV, 40.

92Sul sistema di aphrodisia lungo la costa tirrenica, letti attraverso le varie interpretationes locali, cfr. COARELLI 1994.

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