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Orientamenti giurisprudenziali sul patrocinio a spese dello Stato in materia civile - Judicium

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Francesco P. Luiso

Orientamenti giurisprudenziali

sul patrocinio a spese dello Stato in materia civile (*)

SOMMARIO: 1. Oggetto e limiti dell’indagine; 2. Ambito, presupposti soggettivi e presupposti oggettivi; 3. Condizioni economiche; 4. Istanza di ammissione; 5.

Provvedimento di ammissione; 6. Effetti dell’ammissione; 7. Revoca dell’ammissione; 8. Controlli sui provvedimenti di diniego o revoca dell’ammissione.

§ 1. A quasi dieci anni dall’entrata in vigore del d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115 sulle spese di giustizia, che nella parte terza (articoli da 74 a 145) disciplina il patrocinio a spese dello Stato, è opportuna una panoramica sulle questioni che si sono poste, in questo decennio, all’attenzione della giurisprudenza. Sicuramente l’indagine non ha la pretesa di fornire un quadro completo della materia: e tuttavia altrettanto sicuramente prendere la giurisprudenza come punto di partenza ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione su problemi che sono reali, come è dimostrato dal fatto che hanno dato luogo a controversie.

L’analisi, per ragioni di omogeneità, riguarderà solo la materia civile (in senso lato: quella, per intenderci, di cui al titolo terzo), in quanto la materia penale presenta peculiarità che ne consigliano una trattazione autonoma. Tuttavia, verrà presa in considerazione anche la giurisprudenza relativa al patrocinio in materia penale, tutte le volte in cui da essa possano trarsi spunti ed argomenti utili per affrontare le questioni oggetto della presente indagine.

§ 2. Alla istituzione del patrocinio in materia civile sono dedicati gli artt. 74, comma secondo e 119-120.

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Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, è stato escluso che esso possa applicarsi alla materia stragiudiziale [Cass. 23 novembre 2011 n. 24723, la quale peraltro precisa che “devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè

(*) Relazione tenuta in occasione dell’incontro di studio del C.S.M. del 12 marzo 2012.

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di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la

rappresentanza e la difesa in giudizio (e sulla base di tale presupposto è stato riconosciuto dovuto il compenso per l'assistenza e l'attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo)”; nello stesso senso Trib. Torino 17 febbraio 2006, con riferimento ad una transazione stragiudiziale].

La soluzione, de iure condito, è corretta. Tuttavia queste conclusioni vanno oggi coordinate con le fattispecie di mediazione obbligatoria di cui all’art. 5 del d. lgs. 28 marzo 2010 n. 28. In tali casi, infatti, la fase stragiudiziale è strumentale – per utilizzare le parole di Cass. 2011/24723 – alla prestazione giudiziale, e quindi rientra a pieno titolo nella previsione di cui all’art. 74.

Dal punto di vista soggettivo, il patrocinio è previsto per i cittadini (art. 74, comma secondo) nonché per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo e per l’apolide (art. 119). Lo straniero non regolarmente soggiornante non ha quindi diritto al patrocinio a spese dello Stato [Trib. Trapani 13 marzo 2006]. Spetta al richiedente provare documentalmente l’esistenza dei presupposti del regolare soggiorno [Trib. Milano 18 marzo 2005, che ha negato il patrocinio ad un soggetto privo di documenti]. È sufficiente, peraltro, un titolo di soggiorno temporaneo [Cass. 10 giugno 2011 n. 12744]. Occorre poi precisare che l’art. 142 estende il patrocinio al processo avverso il provvedimento di espulsione del cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea: e ciò a prescindere dall’esistenza delle condizioni reddituali di cui all’art. 76 [Corte cost. 29 dicembre 2004 n. 439].

Sempre dal punto di vista soggettivo, l’art. 119 estende il beneficio del patrocinio agli “enti o associazioni che non perseguono scopi di lucro”. Qui il problema che si pone è se anche per tali enti si richiedano i presupposti reddituali di cui all’art. 76: la soluzione positiva si impone, pena una patente violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Pertanto, gli enti no profit che godano di entrate (per versamento di quote associative o finanziamenti pubblici)

superiori ai limiti di reddito di cui all’art. 76 non hanno diritto all’ammissione al patrocinio [Trib.

Milano 14 dicembre 2004].

Dal punto di vista oggettivo, il patrocinio è riconosciuto quando le ragioni dell’istante risultino

“non manifestamente infondate” (art. 74, comma secondo, e 122). Non risulta che la norma abbia dato luogo a particolari questioni [Corte cost. 17 luglio 2009 n. 220, Giust. Civ. 2009, 2341, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione, sollevata da Trib. Ascoli Piceno 9 ottobre 2008, con la quale si lamentava che fosse possibile l’ammissione al patrocinio anche nelle ipotesi in cui la pretesa fatta valere sia manifestamente infondata. Ha rilevato la Corte che, al contrario, tale valutazione è espressamente prevista dagli artt. 74 e 122]: solo con riferimento al processo esecutivo, si evidenzia una sentenza di merito [Trib. Napoli 23 marzo 2005] la quale precisa che, in materia esecutiva, il presupposto per l'ammissione al gratuito patrocinio è costituito dalla non manifesta inutilità dell'esperimento di detta azione, e pertanto la relativa istanza deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del bene o dei beni del debitore che si intendono

sottoporre ad espropriazione.

Infine, deve ritenersi non vigente in sede civile la disposizione dell’art. 91 il quale, per il patrocinio penale, stabilisce che la presenza di un altro difensore di fiducia fa cessare gli effetti dell’ammissione al patrocinio [Cass. 21 gennaio 2005 n. 1345. Contra Trib. Trapani 9 giugno 2005].

§ 3. Alle condizioni economiche dell’istante per l’ammissione al patrocinio sono dedicati gli artt.

76 e 121.

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La questione più importante che si è posta riguarda la previsione di cui al comma primo, secondo la quale rilevante è il reddito imponibile “risultante dall’ultima dichiarazione”. Nonostante che la disposizione sia chiara, vi è giurisprudenza di merito che ritiene invece rilevante il reddito risultante dall’ultimo anno di imposta maturato, anche se la dichiarazione non sia ancora stata depositata perché il relativo termine non è ancora scaduto [Trib. Alessandria 29 giugno 2010], o addirittura il reddito effettivamente percepito nell’anno in cui la persona è ammessa al

patrocinio [Trib. Prato 4 marzo 2010, Foro it. 2010, I, 1335].

La conclusione non può essere condivisa, non solo perché contraria al tenore delle norma, ma soprattutto perché – fino al momento in cui non viene presentata la dichiarazione ed a maggior ragione nel corso dell’anno di imposta – il reddito ai fini IRPEF non è ancora definito e quindi è impossibile attestarne l’entità.

Vi è poi una pronuncia [Trib. Lucera, ufficio indagini preliminari, 21 aprile 2010] che esclude la rilevanza della indennità di accompagnamento, in quanto si tratta di sussidi destinati a far fronte agli impegni di spesa indispensabili per la persona disabile.

§ 4. All’istanza di ammissione sono dedicati i capi terzo del titolo primo (artt. 78-79) e del titolo quarto (artt. 122-125).

Con riferimento all’art. 79, si è correttamente deciso che l’indicazione dei redditi, di cui alla lettera c) del comma primo, deve indicare specificamente le voci rilevanti ai fini della determinazione del reddito complessivo ai fini dell’art. 76 e non può limitarsi ad una generica attestazione della sussistenza delle condizioni reddituali di cui a detta norma [Trib. Bari 12 novembre 2004, la quale precisa che la dichiarazione deve avere ad oggetto anche i redditi dell’anno in corso: e ciò invece non è corretto, per le ragioni viste dal § precedente].

Si è poi affermato che, ove sia concesso un termine per la presentazione dei documenti relativi ai redditi prodotti all’estero, e tale termine non sia rispettato, deve procedersi alla revoca del patrocinio [Trib. Caltanissetta 11 marzo 2004].

Un problema molto discusso, ma che esula dalla presente indagine, riguarda la fattispecie incriminatrice, di cui all’art. 125, secondo la quale la falsa attestazione della sussistenza o del mantenimento delle condizioni di reddito previste per la concessione del patrocinio è punita con la reclusione e con la multa. Secondo la Corte di cassazione [Cass. s. u. 27 novembre 2008 n. 6591] il reato sussiste anche se l’omissione non avrebbe comunque comportato il superamento della soglia massima di reddito per l'ammissione al beneficio.

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§ 5. Competente per l’ammissione al patrocinio è, in materia civile ed amministrativa, il consiglio dell’ordine del luogo dove pende il processo o del luogo in cui ha sede il giudice competente (nell’ipotesi che il processo debba svolgersi dinanzi alla Corte di cassazione, al Consiglio di Stato o alla Corte dei conti, competente è il consiglio dell’ordine del luogo ove è stato emesso il provvedimento impugnato); in materia tributaria all’ammissione provvede la commissione di cui all’art. 138. Ove l’istanza non sia accolta, essa può essere riproposta al magistrato competente per il merito (art. 126, comma terzo), il quale decide con decreto. Se il processo non è ancora pendente, provvede il capo dell’ufficio, la cui decisione non è soggetta a riesame (ma solo eventualmente a revoca ex art. 136) da parte del giudice singolo o collegio cui la controversia è assegnata [Cass. 15 maggio 2009 n. 11364].

Se il processo di merito pende o penderà innanzi alla Corte di cassazione, competente è il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato [Cass. 2 dicembre 2004 n.

22616].

Lo strumento di controllo nei confronti dell’atto del consiglio dell’ordine che nega l’ammissione è dunque la riproposizione dell’istanza al giudice competente per il merito, e non il ricorso al consiglio nazione forense [Cons. naz. forense 14 ottobre 2008 n. 123].

Dal sistema normativo vigente non risulta che il consiglio dell’ordine sia investito del potere di revocare il beneficio, una volta che esso sia stato concesso, salvo i casi in cui l’ammissione sia condizionata alla presentazione di documentazione integrativa ai sensi degli artt. 79, comma terzo, e 123.

Quanto ai rimedi avverso il provvedimento del giudice che ribadisce il diniego espresso dal consiglio dell’ordine, si rinvia a quanto si dirà in tema di revoca ex art.

136 (infra, § 7).

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§ 6. Gli effetti dell’ammissione sono previsti dagli artt. 82-83 e 131. L’effetto principale è costituito dal pagamento degli onorari (nei quali sono compresi anche i diritti [Trib. Catania 11 dicembre 2003, Giur. merito 2004, 1392]) e spese vive del difensore da parte dello Stato. L’ammissione al patrocinio non esonera invece l’ammesso soccombente dalla condanna alle spese a favore della controparte vittoriosa [Trib. Milano 14 gennaio 2009].

L’ammissione retroagisce alla data della domanda: sono a carico dello Stato, dunque, gli onorari e le spese vive relativi all’attività difensiva compiuta, successivamente al deposito dell’istanza, dal legale nominato dalla parte. Ha rilevato la giurisprudenza che far decorrere gli effetti della delibera di accoglimento dell’istanza dalla sua data di emissione porterebbe a pregiudicare illogicamente i diritti dell'istante per un fatto a lui non addebitabile [Cass. 23 novembre 2011 n.

24729. Nello stesso senso Trib. Napoli 11 marzo 2004, Giur. merito 2004, 1629].

Mentre la norma generale sui compensi (art. 82) si limita a prevedere che essi debbano attestarsi sui valori medi delle tariffe professionali, in materia non penale l’art. 130 stabilisce che gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del giudice ed al consulente tecnico di parte siano ridotti della metà. La norma, che riguarda tutti i compensi e quindi non solo gli onorari ma anche i diritti [Trib. Milano 28 gennaio 2005, Giur. merito 2005, 1922] ha passato positivamente il vaglio di costituzionalità [Corte cost. 18 maggio 2006 n. 201; Corte cost. 29 luglio 2005 n. 350] sollevato con riferimento al diverso regime previsto per il processo penale, nel quale tali dimidiazione non è prevista.

Il compenso al difensore è anticipato dall’erario, insieme alle altre voci previste dall’art. 131, comma quarto. Una serie di ulteriori voci (quelle previste dall’art. 131, secondo e terzo comma) sono invece prenotate a debito. Secondo la definizione contenuta nell’art. 3, lettera n, “prenotazione a debito” è l’annotazione a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero.

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Proprio questa definizione ha fatto sorgere, a proposito degli onorari dovuti al consulente tecnico di parte ed all’ausiliario del giudice, alcuni equivoci dissipati dalla Corte costituzionale, la quale ha chiarito [Corte cost. 10 giugno 2010 n. 203; Corte cost. 12 dicembre 2008 n. 408; Corte cost. 18 luglio 2008 n. 287, Foro it. 2008, I, 2715] che la previsione dell’annotazione a debito è un rimedio residuale e che a costoro spetta comunque il compenso per l’opera prestata.

Fra i compensi spettanti al difensore, non rientrano ovviamente le spese prenotate a debito, poiché esse non costituiscono un esborso da parte sua [Trib. Milano 28 gennaio 2005, Giur. merito 2005, 1922].

Alla liquidazione del compenso procede, al termine di ciascuna fase o grado del processo, il giudice che ha chiuso tale fase o grado: così l’art. 83, comma secondo, applicabile anche ai compensi per il difensore previsti dall’art. 82 [Cass. 9 dicembre 2004 n. 23009; Cass. 2 dicembre 2004 n. 22616]. Si fa eccezione per i compensi relativi al giudizio di cassazione: in tal caso provvedono alternativamente il giudice di rinvio o quello che ha emesso la pronuncia impugnata, a seconda che il ricorso sia accolto o rigettato. Se la Cassazione decide nel merito, la competenza spetta a quello che sarebbe stato il giudice di rinvio ove non vi fosse stata decisione nel merito [Cass. 12 novembre 2010 n. 23007; Cass. 13 maggio 2009 n. 11028]. La soluzione non convince, perché non è dato sapere a priori quale sia il giudice cui la Cassazione avrebbe rinviato la causa, se non avesse deciso nel merito (cfr. art. 393, comma primo, c.p.c.).

È ovvio che la coincidenza fra il giudice che decide la controversia e quello che è competente a liquidare i compensi non comporta che il provvedimento di liquidazione abbia la stessa natura e lo stesso regime della decisione. Come vedremo meglio in seguito (infra, § 8), nonostante sia pronunciato dallo stesso giudice investito del potere decisorio della controversia, il provvedimento di liquidazione dei compensi appartiene alla giurisdizione volontaria.

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Ai sensi dell’art. 133, il provvedimento, che condanna la controparte soccombente al pagamento delle spese, dispone che esso sia eseguito a favore dello Stato. Si tratta di stabilire se tali spese debbano essere quantificate nei modi ordinari, oppure se esse coincidano con quelle liquidate a favore del difensore. L’unica pronuncia che, per quanto risulta, è rintracciabile in materia afferma che la condanna della controparte ha ad oggetto il pagamento delle spese processuali a favore dello Stato in relazione agli esborsi effettivamente sostenuti dall'Amministrazione [Cass. 31 marzo 2011 n.

7504].

§ 7. L’art. 136 prevede che, a certe condizioni, il patrocinio concesso possa essere revocato. Alla revoca provvede sempre il giudice, dinanzi al quale pende il procedimento per cui si è avuta l’ammissione al patrocinio.

La prima fattispecie (comma primo) si applica a tutte le ipotesi di ammissione, da chiunque essa sia disposta, e riguarda il mutamento delle condizioni reddituali rilevanti ai fini dell’ammissione: in tal caso la revoca ha effetto dal momento in cui, nello stesso provvedimento di revoca, si dichiara che tali modificazioni si sono verificate.

Più rilevanti sono i casi di revoca di cui al secondo comma, che possono essere distinti in due sottoipotesi: l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.

Nella prima sottoipotesi rientrano sicuramente tutti i requisiti soggettivi necessari per l’ammissione: così, ad es., in caso di ammissione al beneficio di una s.n.c. [Trib.

Salerno 9 maggio 2008].

Ugualmente, l’ammissione è revocata se si accerta che la condizioni reddituali non erano quelle dichiarate dal richiedente. In questo caso, tuttavia, la revoca deve essere richiesta dall’amministrazione finanziaria: art. 127, comma terzo [Cass. penale, sez.

IV, 13 ottobre 2005 n. 42651, che enuncia un principio estensibile anche alla materia civile].

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Nella seconda sottoipotesi rientra l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. La giurisprudenza ha affermato che non vi è colpa grave nell’aver proposto la domanda ad un giudice incompetente [Cass. 16 settembre 2011 n. 19016]

oppure quando si sia prodotta la cessazione della materia del contendere [Cass. 16 settembre 2011 n. 19015]. Si è invece affermato che sussiste la colpa grave per aver proposto domanda possessoria molto tempo dopo l’anno dall’avvenuto spoglio [App.

Catania 4 marzo 2009, Giur. merito 2009, 1868], oppure per aver chiesto la concessione del termine di grazia e non aver sanato la morosità [Trib. Padova 13 dicembre 2006, Arch. Loc. 2007, 173].

È di tutta evidenza che il presupposto per l’ammissione al beneficio, consistente nella non manifesta infondatezza delle ragioni dell’interessato, in sede di revoca è sostituito della (in)sussistenza della mala fede o colpa grave: in altri termini, in sede di ammissione rileva la non manifesta infondatezza; in sede di revoca rileva l’aver agito in mala fede o colpa grave. Al contrario di quanto ritiene il giudice amministrativo [Tar Lazio Roma 4 marzo 2009 n. 2258; Tar Liguria 14 febbraio 2008 n. 245; Tar Lazio Roma 6 giugno 2007 n. 5244] non è quindi sufficiente verificare la manifesta inammissibilità o infondatezza della domanda per revocare il patrocinio [sulla diversità delle due nozioni Corte cost. 5 marzo 2010 n. 88, Giust. civ. 2010, I, 527; Corte cost. 17 luglio 2009 n. 220, Giust. civ. 2009, I, 2341].

Nelle ipotesi di cui all’art. 136, comma secondo, la revoca ha efficacia retroattiva, ma incide solo sui benefici dell’ammissione e non anche sulla procura conferita al difensore [Cass. 5 marzo 2010 n. 5364].

Dal punto di vista letterale, la revoca di cui all’art. 136, comma secondo, riguarda solo l’ammissione disposta dal consiglio dell’ordine: ma non vi è alcun motivo per escludere che sia revocabile anche l’ammissione disposta dal giudice (in seconda battuta ex art. 126, comma terzo), oppure dalla commissione competente per il processo tributario ex art. 138.

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Restano da esaminare i rimedi avverso la revoca, cui deve essere equiparato il diniego di ammissione da parte del giudice, cui la istanza sia (ri)proposta dopo essere stata rigettata dal consiglio dell’ordine (art. 126, comma terzo). Al contrario di quanto accade in materia penale – ove gli artt. 99 e 112-113 disciplinano i rimedi rispettivamente avverso il rigetto dell’istanza di ammissione e la revoca dell’ammissione già disposta – in materia civile non esiste una espressa disciplina.

Essa va quindi ricostruita secondo i principi e sulla base della (scarsa) giurisprudenza disponibile.

Punto di partenza è la considerazione, già anticipata, per la quale il diniego di ammissione e la revoca (come i provvedimenti di liquidazione) appartengono alla giurisdizione volontaria, e non hanno quindi portata decisoria e definitiva. Nei loro confronti, dunque, è sempre possibile l’esperimento di uno strumento contenzioso, idoneo a garantire il controllo di legalità, costituzionalmente necessario contro tutti gli atti autoritativi.

Secondo la Corte di cassazione [Cass. 23 giugno 2011 n. 13807; Cass. 4 settembre 2009 n. 19203; Cass. 27 maggio 2008 n. 13833], questo strumento è costituito dall’opposizione prevista dall’art. 170 che, come vedremo, introduce un processo di cognizione speciale. Si è ritenuto pertanto non ammissibile il ricorso immediato in Cassazione, per difetto di decisorietà [Cass. 8 novembre 2010 n. 22709] degli atti e provvedimenti opponibili ex art. 170.

La soluzione è da approvare e soprattutto riesce a risolvere il problema che ci eravamo posti: l’individuazione di un procedimento, appartenente alla giurisdizione dichiarativa, ed idoneo quindi a decidere le controversie relative al patrocinio a spese dello Stato.

§ 8. L’ultimo argomento da esaminare attiene al procedimento di opposizione, di cui all’art. 170. L’opposizione, come abbiamo appena visto, può avere ad oggetto non

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solo il decreto di pagamento del compenso, ma anche i provvedimenti di diniego o di revoca della concessione del beneficio.

L’opposizione è uno strumento necessario, che fonda un onere di impugnazione, a fronte del quale non è ammissibile la reiterazione dell’istanza di liquidazione rigettata [Trib. Lucera 1° luglio 2011] né una modifica del decreto di liquidazione già pronunciato [Trib. Roma 8 maggio 2006].

La legittimazione spetta a chi sia in concreto interessato alla modifica del provvedimento opposto: alla parte che veda rigettata la propria istanza di ammissione o revocata l’ammissione già disposta, come pure al difensore della parte ammessa, se egli contesti l’entità delle somme liquidate [Cass. 12 agosto 2011 n. 17247]; nonché naturalmente all’ufficio tributario, tenuto al pagamento in base al provvedimento di liquidazione.

Ovviamente fra i motivi di opposizione non vi possono essere quelli relativi alla ritualità dell’attività compiuta: così, le questioni relative alla utilità e validità della consulenza tecnica non hanno rilievo nel procedimento di liquidazione dei compensi al consulente [Cass. 7 febbraio 2011 n. 3024; Cass. 30 marzo 2006 n. 7499].

Per quanto attiene al procedimento, occorre tener conto che il D. Lgs. 1° settembre 2011 n. 150, all’art. 15, ha stabilito che esso si svolge nelle forme del rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis e ss. c.p.c., con le modifiche previste dall’art. 3 dello stesso D. Lgs.

Per un errore nel coordinamento del suddetto art. 15 del D. Lgs. 150/2011 con l’art. 170, è venuta meno l’individuazione del termine nel quale proporre l’opposizione stessa. Esso era di venti giorni, secondo la originaria previsione dell’art. 170, comma primo, ora sostituito dall’art. 34, comma 17, del D. Lgs.

150/2011. Ci si chiede se tale termine deve ancora considerarsi esistente, ovvero se sia necessario individuarne un altro. Poiché nei processi “impugnatori” ricondotti al rito sommario il termine per reagire in giudizio è di solito determinato in trenta

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giorni, si potrebbe ritenere che tale termine sia applicabile analogicamente anche al procedimento di opposizione ex art. 170.

La necessità di sottoporre l’esperibilità dell’opposizione ad un termine nasce anche dalla considerazione che il c.d. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c. non può applicarsi nel caso di specie, perché l’atto opposto non è un provvedimento decisorio e definitivo [Cass. 6 ottobre 2011 n. 20485].

In ogni caso, quale che sia la soluzione, il termine non decorre che dalla comunicazione del provvedimento nella sua integralità [Cass. 6 ottobre 2011 n.

20485].

La competenza è determinata dall’art. 15, comma secondo, del D. Lgs. 150/2011:

la decisione del ricorso spetta al capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento opposto. Se il provvedimento è emesso dal giudice di pace, il ricorso va proposto al presidente del tribunale. La competenza prevista dall’art. 15, comma secondo, del D. Lgs. 150/2011 è sottratta alla disciplina del foro erariale, trattandosi di competenza territoriale del giudice di prossimità [Cass. 13 dicembre 2011 n. 26791].

Le spese del procedimento di opposizione restano disciplinate dagli artt. 91 e 92 c.p.c. [Cass. 12 agosto 2011 n. 17427]: quindi esse saranno a carico della parte soccombente.

L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile ma ricorribile per cassazione, stante la natura definitiva e decisoria del provvedimento che chiude tale giudizio [Cass. 18 febbraio 2011 n. 4020].

Riferimenti

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