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Sequestro, confisca, procedure concorsuali. Creditori, terzi, giudici civili e penali, di merito e di legittimità. Istruzioni per l’uso dopo le Sezioni Unite penali - Judicium

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FABIO SANTANGELI

Sequestro, confisca, procedure concorsuali. Creditori, terzi, giudici civili e penali, di merito e di legittimità. Istruzioni per l’uso dopo le Sezioni Unite

penali.

1. Premessa.

Una recente pronuncia delle sezioni unite penali – la n. 11170 del 25/09/2014, depositata il 17/03/20151 – ha deciso sul rapporto tra il sequestro e la confisca di cui agli art. 19, comma 2, e 53 d.lgs. 231 del 2001 e una contemporanea procedura fallimentare2.

E’ una decisione che incide su profili che, di fatto, oggi hanno una notevole importanza economica e sociale.

Una sentenza, anche solo sotto un profilo strettamente giuridico può essere commentata in più modi; ad esempio 1) se ne può ricavare la disciplina, da applicare alle fattispecie simili; 2) oppure se ne possono anche analizzare le ragioni giuridiche, valutare i risultati sotto il profilo delle conseguenze economiche e sociali, della sostenibilità della decisione presa, della rispondenza a principi generali e costituzionali; 3) si può provare a valutare la sentenza all’interno di un percorso giurisprudenziale nomofilattico, ipotizzarne prognosticamente le conseguenze, ed a suggerire se necessario rimedi, anche sotto un profilo ordinamentale, e soluzioni de iure condendo, specie se in materie magmatiche in cui una evoluzione normativa è in concreto ipotizzabile.

Ogni spazio di riflessione, naturalmente, è in parte connesso agli altri.

Intendo dedicare alcune non esaustive riflessioni ai profili che ho delineato.

1 La pronunzia è commentata anche da RIVERDITI M., Le Sezioni unite individuano il punto di equilibrio tra confisca ex d.lgs. 231 e vincolo imposto dal fallimento sui beni del fallito, in www.penalecontemporaneo.it.

2 La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni Unite è la seguente: “Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell’art. 19, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest'ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)”.

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2 2. La disciplina.

Questa, in sintesi, la vicenda processuale riassunta e sfociata nella pronunzia oggi in commento.

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna, con ordinanza, disponeva, in danno di due società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, di somme di danaro ai sensi degli artt. 19 e 53 del decreto legislativo n. 231 del 2001.

Il Tribunale del riesame di Bologna annullava i decreti di sequestro preventivo.

Tali decisioni, su ricorso del Pubblico Ministero, venivano, però, annullate dalla Corte di cassazione, per erronea applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, essendo stato ritenuto configurabile nella vicenda, insieme all'interesse delle persone fisiche indagate al conseguimento di benefici personali, un concorrente vantaggio dell'ente determinato dall'incremento artificioso del capitale, e per non aver considerato la c.d. confisca in funzione di riequilibrio di cui all'art. 6, comma 5, del Decreto n. 231 del 2001, consentita anche in caso di esclusione di responsabilità amministrativa dell'ente.

Pochi giorni prima della decisione della Cassazione le due società venivano ammesse al concordato preventivo.

Il Tribunale del riesame di Bologna, quale giudice di rinvio, ripristinava il sequestro preventivo in danno delle due società ritenendo irrilevante l'ammissione delle stesse al concordato preventivo ed il conseguente mutamento delle imputazioni a carico degli organi apicali delle stesse.

Successivamente le due società venivano dichiarate fallite dal Tribunale di Bologna ed il Pubblico Ministero precisava di nuovo le imputazioni a carico degli indagati organi apicali delle società, ai quali veniva contestata la violazione dell’art. 223, comma 2, n. 1, della legge fall..

Le ordinanze di ripristino del sequestro preventivo emesse dal Tribunale del riesame venivano impugnate, con ricorso per cassazione, dalle curatele delle due società fallite, le quali presentavano anche una istanza al G.i.p. del Tribunale di Bologna di revoca del sequestro.

La Seconda Sezione penale della Corte di cassazione, con due pronunzie, rigettava i ricorsi, ritenendo infondati i motivi concernenti la pretesa insussistenza del profitto confiscabile.

Prima di queste due ultime decisione della Cassazione, il g.i.p. di Bologna accoglieva l’istanza di revoca del sequestro proposta dalle curatele, ritenendo gli effetti del sequestro comunque garantiti dalla procedura fallimentare, demandando inoltre agli organi del fallimento l’accertamento della possibile mancanza di buona fede dei creditori insinuati.

Il tribunale di Bologna, adito quale giudice d’appello, invece accoglieva l’impugnazione riaffermando la validità del sequestro.

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Le sezioni unite penali, investite della complessa questione, dettano infine due principi espressi di diritto, negando la legittimazione ad agire del curatore, e l’onere per i terzi di buona fede di agire presso il giudice penale.

Per giungere a tali soluzioni, però, si occupano, prima, di definire l’interpretazione degli art. 19 e 53 d. lgs 231 del 2001; poi, dei rapporti di tali misure con concorrenti procedure fallimentari.

Ecco dunque l’iter decisionale analiticamente ricostruito.

2. 1. Le statuizioni espresse.

Quanto all’interpretazione degli art. 19 e 53 d. lgs. n. 231 del 2001.

a) Le Sezioni Unite Penali, con la pronunzia in commento, premettono una indicazione sulla portata delle misure sanzionatorie in oggetto: il sequestro e la confisca ex art. 19 possono essere disposti solo in relazione a fattispecie di reato incluse nel catalogo di legge dei reati presupposto ex art. 2.

Si precisa che nelle ipotesi di reato complesso, i cui elementi costitutivi sono composti anche ma non esclusivamente dagli illeciti inseriti nei reati presupposto di cui al d.lgs. 231 del 2001, la fattispecie non può essere frazionata.

Affermano poi che:

b) Il sequestro previsto dall’art. 53 è funzionalmente connesso alla confisca di cui al primo ed al secondo comma dell’art. 19 d.lgs. n.231 del 2001, e partecipa della stessa disciplina.

c) La confisca di cui all’art. 19 è una vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma; assume la fisionomia di uno strumento diretto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato presupposto, i cui effetti economici sono andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per ottenere un profitto geneticamente illecito.

d) La confisca del prezzo o del profitto del reato viene disposta con sentenza dal giudice della cognizione penale.

e) I beni che possono essere restituiti al danneggiato dal reato non vanno confiscati.

f) Vanno inoltre fatti salvi “i diritti acquistati dai terzi in buona fede” su beni sottoposti a sequestro e confisca; per terzi, si intendono solo i titolari del diritto di proprietà, o di altri diritti reali, acquisito su beni mobili o immobili.

Non anche terzi titolari di diritto di credito; non anche i creditori della società colpita dalle misure penali.

g) È il giudice penale della cognizione che dovrà escludere dalla sottoposizione a sequestro o confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquistato diritti in buona fede.

h) Il terzo titolare di un diritto può tuttavia rivolgersi anche al giudice dell’esecuzione penale, se il giudice della cognizione non abbia provveduto sul punto.

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2.2 Sui rapporti tra gli artt. 19 e 53 e le procedure concorsuali.

La sentenza prosegue analizzando i rapporti della disciplina così individuata con il fallimento della società i cui beni siano interessati da provvedimenti di sequestro o confisca.

La fattispecie presa in esame dalla Corte di cassazione è la seguente: nel corso del procedimento penale (che ha già condotto al sequestro) e teso ad accertare la responsabilità dell’ente, quest’ultimo viene dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura concorsuale (non viene dunque direttamente in esame l’ipotesi inversa, ovvero che durante una procedura fallimentare si inizi un procedimento su alcuni reati per cui è previsto il sequestro e la confisca ex art. 19 e 53; e neanche la ulteriormente diversa fattispecie in cui sia già concluso il processo penale con la confisca, e solo dopo si pronunci il fallimento della società).

La cassazione a sezioni unite penali assume che:

i) Il fallimento della società non determina l’estinzione dell’illecito previsto dal d. lgs. n. 231 del 2001.

l) Sui beni dell’ente sono compatibili e possono coesistere due vincoli, il sequestro (o la confisca) insieme al vincolo apposto sui beni del fallito dalla procedura concorsuale.

m) Il custode giudiziario, nominato ai sensi dell’art. 53 d.lgs. 231 del 2001, consentirà l’utilizzo e la gestione dei beni aziendali al curatore fallimentare;

“il curatore, che tra i suoi compiti ha anche quello di preservare il patrimonio societario, gestirà lo stesso secondo le norme previste dalla legge fallimentare”.

n) La compatibilità dei due vincoli è confermata anche dall’art. 27, comma 2, d. lgs. 231/2001, che dispone che i crediti dello Stato che derivano dagli illeciti amministrativi dell’ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato, e che la sanzione pecuniaria va equiparata alla pena pecuniaria: “Ciò significa che se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per fare valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede”.

o) I diritti del terzo acquisiti in buona fede su un bene confiscato potranno essere fatti valere (dopo la sentenza definitiva di condanna dell’ente) solo davanti al giudice dell’esecuzione penale, che dovrà verificare sia la titolarità che l’acquisizione in buona fede. Il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, è il seguente: “la verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale, e non al giudice fallimentare”.

p) La buona fede del terzo titolare di un diritto reale su beni mobili o immobili del fallito non è presunta, e non si raggiunge se non si sono rispettate doverose regole di cautela; il giudice penale dovrà necessariamente

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accertare quale sia la titolarità dei beni e quali modalità di acquisizione da parte dei terzi, per valutare se apporre o no il vincolo della confisca; il terzo, che si proclama estraneo al reato, “deve, soddisfacendo l’onere di allegazione, fare emergere la regolarità del suo titolo di acquisto e la buona fede che soggettivamente lo caratterizzava”.

q) Il curatore fallimentare non ha legittimazione ad agire, né interesse concreto giuridicamente tutelabile ad opporsi ai provvedimenti del giudice penale di sequestro o confisca. Con riguardo al sequestro, questa affermazione rappresenta il primo principio di diritto espressamente affermato dalle Sezioni Unite.

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Sembra pertanto potersi ricavare la seguente disciplina, in estrema sintesi.

Nelle ipotesi in cui dopo l’emanazione di un provvedimento di confisca o sequestro ex art. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001 sopravvenga il fallimento dell’ente, sui beni sequestrati della società coesistono entrambi i vincoli del sequestro ed eventualmente poi della confisca, ed il vincolo del fallimento; la procedura fallimentare, in tali ipotesi, dovrebbe procedere comunque senza intoppi, occuparsi della gestione, e provvedere alla liquidazione dell’attivo ed all’accertamento del passivo.

Allo Stato compete l’onere di insinuarsi al passivo del fallimento per fare valere il proprio diritto di credito, con rango privilegiato ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 231 del 2001, e di partecipare ai riparti del fallimento.

I terzi acquirenti di buona fede titolari di diritti reali su beni mobili o immobili di proprietà della società fallita, se oggetto di sequestro o confisca, debbono invece agire davanti al giudice penale per ottenere tutela.

Il curatore, dunque, non ha interesse ad agire davanti al giudice penale per chiedere la revoca dei provvedimenti penali, perché questi non creano alcun danno alla procedura fallimentare, che continua fino al suo esito finale pur in presenza delle misure penali.

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2.3 Le statuizioni non espresse ma ricavabili dalla pronuncia delle sezioni unite.

La sentenza delle Sezioni Unite Penali non si occupa di tanti altri aspetti indispensabili per definire i rapporti tra sequestro e confisca ex art. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001; si può tentare di ricavarli per così fornire una nuova disciplina esaustiva.

Le soluzioni per così dire “integrative”, tuttavia, non sono nella più parte dei casi obbligate.

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Proporrò quelle che prediligo, proponendo soluzioni in sintonia con le indicazioni della recente decisione ma anche con la necessità di costruire un sistema che venga incontro alle esigenze anche costituzionali di garantire la durata ragionevole del processo, e non rendere troppo gravoso l’esercizio del diritto di difesa.

In primo luogo, le regole dettate dalle Sezioni Unite Penali sembrano applicabili non solo alle ipotesi in cui il fallimento intervenga dopo l’emissione del sequestro penale, ma anche nel caso in cui invece al fallimento segua l’emissione della misura cautelare penale.

Nell’analisi del comportamento degli organi della curatela fallimentare, si tratta di puntualizzarne il comportamento nei confronti della domanda di insinuazione al passivo presentata dallo Stato in seguito a sequestro o confisca. Secondo la normativa fallimentare, solo i crediti accertati dalle sentenze passate in giudicato “prima” della dichiarazione di fallimento devono essere automaticamente ammessi, mentre andranno ammessi con riserva ex art. 96 comma 3 l.f. i crediti accertati dalle sentenze già rese prima della dichiarazione di fallimento, ma non ancora passate in giudicato.

Rimangono invece escluse tutte le altre fattispecie, che devono passare per la cognizione del giudice delegato, secondo la regola di cui all’art. 52 l.f. che prevede che ogni credito debba essere accertato con le forme dell’accertamento del passivo “salvo diverse disposizioni della legge”. Ma l’esclusività del giudizio di verifica si estende fino al limite della giurisdizione del giudice civile ordinario; quando la cognizione sia riservata a diverse giurisdizioni (quella tributaria, la amministrativa, appunto la giurisdizione penale), il giudice delegato dovrà solo valutare l’opponibilità della pretesa al fallimento, e dopo ammettere al passivo se la pronunzia sia già passata in giudicato, ammettendo invece con riserva se l’accertamento avanti alle altre giurisdizioni non sia ancora definitivo.

Sempre in tema di accertamento del passivo e dei diritti reali di terzi, va rammentato che le Sezioni Unite Penali hanno riservata al giudice penale la cognizione esclusiva per la tutela dei diritti acquisiti in buona fede dai terzi titolari di diritti reali su beni mobili o immobili, così interpretando l’art. 19 d.lgs. 231 del 2001; ed è davanti al giudice penale, pertanto, che quel terzo dovrà fare valere le proprie ragioni. Se ne possono desumere coerenti conseguenze quanto all’applicabilità dell’art. 103 l.f.; in questa ipotesi, ritengo che il giudice delegato, che dovrà comunque essere necessariamente in tale forma adito per eliminare il vincolo del fallimento sul bene, si limiterà, essendo la cognizione riservata alla giurisdizione penale, a provvedere in conformità se il giudice penale ha già deciso, ammettendo invece con riserva se il giudice penale non ha ancora reso un provvedimento definitivo. Così ritenendo si evita che il terzo di buona fede debba sottoporsi a due diversi giudizi (con potenziali profili di incostituzionalità per lesione del principio di economia dei giudizi e di lesione del diritto di difesa perché troppo

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“faticoso”) per ottenere la consegna o il rilascio di un bene; con una differenziazione quanto all’onere della prova, posto che le limitazioni di cui all’art. 621 c.p.c. sono riservate al giudizio di cui all’art. 103 l.f., e dunque non si applicano per i giudizi di rivendica e restituzione fatti valere avanti al giudice penale3.

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Gli organi della curatela, tuttavia, all’infuori delle precisazioni che ho già effettuato, dovranno procedere autonomamente e senza interferenze, pur nella concorrenza dei due vincoli (quello fallimentare e quello penale) sui beni, alla comune attività di individuazione, ricognizione, liquidazione dell’attivo.

Le Sezioni Unite Penali hanno negato la legittimazione del curatore ad agire per ottenere la revoca del sequestro penale. Il presupposto del diniego espresso delle sezioni unite penali è però che compete agli organi del fallimento la gestione dei beni oggetto del duplice vincolo, che debbono pertanto essere immediatamente restituiti o consegnati dai soggetti incaricati dall’autorità penali che li possedessero.

Ma che succede se il giudice del sequestro non dispone spontaneamente la restituzione dei beni alla curatela, perché li amministri? A chi si deve rivolgere la parte interessata?

Su tale questione, purtroppo, le Sezioni Unite non prendono, però, posizione, rimanendo così il dubbio in ordine alla individuazione dell’organo – il pubblico ministero o, diversamente, l’organo giudicante competente sulle istanze cautelari in fase di indagine o quello competente per il merito – a cui il soggetto interessato dovrà presentare, eventualmente in applicazione analogica dell’art. 321 c.p.p., la relativa richiesta.

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Quanto alla fase di liquidazione dell’attivo da parte del curatore fallimentare, poi, una volta eseguita la vendita di un bene e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato al fallimento dovrà verosimilmente agire ai sensi dell’art.

108 l.f., ordinando con decreto la cancellazione di ogni vincolo, ivi inclusi quelli eventualmente apposti dall’autorità penale. Il che potrebbe giustificarsi quantomeno per ragioni di speditezza e di economicità della procedura.

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3 E ciò tenuto conto che l’oggetto del processo di cui all’art. 19 d.lgs. 231 del 2001 è effettivamente diverso dal giudizio di cui all’art. 103 l.f., che è semplicemente teso con provvedimento finale a carattere endoprocessuale non all’accertamento di diritti, ma solo all’accertamento della illegittimità della sottoposizione di certi beni all’espropriazione fallimentare.

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8 Questo, dunque, il quadro che oggi si ricava.

Che, poi, la lettura delle Sezioni Unite Penali sia o no condivisibile è altro discorso, che ci accingiamo a affrontare.

Come altro discorso è pronosticare se la visione offerta dalle Sezioni Unite penali sarà confermata dalla giurisprudenza successiva; anche di questo, ci occuperemo più avanti.

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3. Sono le soluzioni indicate dalle Sezioni Unite penali condivisibili?

Ma, dunque, le soluzioni indicate dalle Sezioni Unite penali, sono condivisibili?

Un tema importante, questo, essenziale ancor più quando i soggetti chiamati ad eventualmente applicare le disposizioni sono molteplici, sia in sede civile che penale, e la stessa portata delle ratio ricavate appare controvertibile.

La sentenza detta una serie continua di precetti consequenziali.

Tranne sporadiche eccezioni, interviene su molti temi oggetto di soluzioni in dottrina e giurisprudenza diverse e talora addirittura antitetiche; è, questo, un fatto incontrovertibile.

Probabilmente è allora un esercizio certo possibile ridiscutere ogni singolo assunto, alla luce delle contrarie posizioni espresse; solo l’esigenza di contenere questo scritto in uno spazio circoscritto, anzi, può giustificare una rinuncia ad un’analisi altrimenti doverosa.

In argomento, voglio dunque suggerire solo alcuni spunti di riflessione quanto a due soli tra i tanti temi della decisione; il rapporto tra il diritto del creditore di buona fede della società fallita e le ragioni dello Stato-Erario, e poi la sostenibilità della soluzione proposta nella distribuzione di competenze tra organi del fallimento e giudice penale (riservando ad un successivo paragrafo ulteriori considerazioni su alcuni temi di taglio prevalentemente fallimentare).

A mio avviso, il punto centrale di ogni riflessione in argomento attiene ad una scelta di fondo: il rapporto tra il diritto del creditore del fallimento e lo Stato che dispone la confisca. Chi, ovverosia, debba soddisfarsi prima sul ricavato della liquidazione della società fallita.

E qui, francamente, l’errore è del legislatore; una decisione simile non può e non deve essere riservata in via interpretativa alla giurisprudenza, ma deve essere presa, in scienza e coscienza, dal parlamento, come è stato fatto per l’analogo problema per le direttive antimafia.

Qualunque soluzione ricavata in giurisprudenza sarà discussa e discutibile;

così, anche la soluzione sul punto adottata dalle Sezioni Unite penali, che oggi, a differenza di ieri, propendono per la prevalenza tout court delle ragioni dello Stato (ai fini di questa riflessione, che poi queste ragioni vengano valorizzate dalla liquidazione e ripartizione fallimentare piuttosto che direttamente dal giudice penale conta assai poco).

E, tuttavia, il ragionamento adottato dalle Sezioni Unite Penali sul punto non mi persuade; le Sezioni Unite negano espressamente la necessità di

“contemperare le differenti, e per molti aspetti ritenute contrastanti, esigenze della tutela penale e dei legittimi diritti dei creditori”4, di cui precedenti decisioni a sezioni unite avevano invece ritenuto doversi fare carico;

4 Pag. 15 della sentenza in commento.

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ritenendo che invece tutto possa risolversi esclusivamente nell’attenta analisi,

“nella sua lettera e nella sua logica”, dell’art. 19.

A) Le Sezioni Unite ravvisano nella confisca di cui all’art. 19 d.lgs. 231 del 2001 uno strumento “volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti - appunto economici - sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire un profitto geneticamente illecito”5.

Ne richiamano poi la natura principale e obbligatoria, con una confutazione della opposta tesi6 che ritiene non obbligatoria la confisca nella fattispecie di cui all’art. 19 comma 2°, facendo leva sul termine “può”, che per precedenti decisioni avrebbe lasciato un margine di discrezionalità al giudice penale: le sezioni unite in commento ne offrono una differente lettura esegetica, riferendo invece il verbo “alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile”.

Aggiungono una considerazione di ordine sistematico, ritenendo che, posta la connotazione sanzionatoria della confisca, dovrebbe essere naturale la consecuzione alla responsabilità dell’ente; e ciò alla luce della finalità della confisca, vale a dire il ristabilimento dell’“equilibrio economico alterato dal reato, finalità che verrebbe frustrata dall’interpretazione in discussione, risultando favoriti gli enti più capaci di alienare e/o dissimulare i beni, e, comunque, i proventi illecitamente acquisiti”.

L’argomento non persuade.

Il ragionamento si fonda su una lettura esegetica del termine “può” di cui all’art. 19 comma 2 certo plausibile, ma ne più ne meno della soluzione opposta prospettata. Meno convincente ancora, poi, a me pare l’argomento

“sistematico”; per una parte si fonda in pratica sull’incapacità del giudice penale di smascherare eventuali condotte dissimulatorie dell’ente, e francamente è anche difficile commentare. Per un’altra parte fa riferimento alla necessità di garantire la natura sanzionatoria della confisca, tesa a colpire il comportamento dell’ente ed a evitare che esso possa trarre infine comunque un beneficio dalla condotta scorretta; ma la soluzione proposta dalle differenti opinioni ovviamente non conduce affatto a frustare queste sacrosante esigenze, ma solo a salvaguardare i diritti dei creditori di buona fede solo se e quando la finalità della confisca, ovvero evitare un ingiusto arricchimento dell’ente, sia già diversamente esclusa, come appunto nel caso del fallimento dell’ente.

B) Acquisita la natura obbligatoria della confisca ex art. 19, comma 2, per equivalente, le Sezioni Unite Penali in commento passano poi ad un punto centrale nella giurisprudenza precedente, oggetto di soluzioni opposte, ovvero

5 Pag. 16 della sentenza in commento.

6 Cass. pen., Sez. V, 8 luglio 2008 n. 33425.

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la portata della clausola di salvaguardia che all’art. 19 dispone la salvezza dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede. Le Sezioni Unite analizzano la disposizione nella parte della pronunzia che si occupa dell’interpretazione dell’art. 19 in via generale, prima di analizzarne i rapporti con l’eventuale fallimento dell’ente (e con i creditori del fallimento), e così osservano: “La logica evidente del legislatore è che gli enti resisi responsabili di illeciti amministrativi derivanti da reato debbano essere perseguiti e puniti con la confisca degli illeciti proventi al fine di ristabilire il turbato equilibrio economico, ma che ciò non possa e non debba avvenire in pregiudizio di terzi che siano titolari di diritti acquisiti in buona fede sui beni oggetto di sequestro e confisca. Si tratta, pertanto, di diritti acquisiti dai terzi sui beni provento dell'illecito - "la confisca del prezzo o del profitto del reato" -, non estendendosi la confisca al patrimonio dell'impresa alla stregua di una pena patrimoniale; l'espressione letterale usata dal legislatore e la logica del sistema, che vuole salvaguardare, dal sequestro prima e dalla confisca poi, provvedimenti che intendono ristabilire l'ordine economico turbato dalla illecita attività dell'ente, soltanto i diritti dei terzi gravanti sui beni oggetto dell'apprensione da parte dello Stato, rendono certi che salvaguardato è il diritto di proprietà del terzo acquisito in buona fede, oltre agli altri diritti reali insistenti sui predetti beni, mobili o immobili che siano. Del resto la norma non parla di salvaguardia dei diritti di credito eventualmente vantati da terzi proprio perché si intendono salvaguardare soltanto i beni, che seppure siano provento di illecito, appartengano - "cose appartenenti", secondo l'espressione usata dall'art. 240, terzo comma, cod. pen. - a terzi estranei al reato, o meglio all'illecito commesso dall'ente”7.

L’assunto per le sezioni unite penali si applica anche per i creditori del fallimento, che non possono agire con la clausola di salvaguardia di cui all’art. 19: la peculiarità, notevole, che si ricava dalla sentenza è la prevalenza della liquidazione in sede fallimentare. Le Sezioni Unite precisano che: “Una tale ricostruzione degli istituti del sequestro/confisca di cui all’art. 19 D.Lgs.

n. 231 del 2001, e della procedura fallimentare, e della ritenuta compatibilità della apposizione dei due vincoli sugli stessi beni, trova conforto anche nella disposizione dell'art. 27, comma 2, del citato decreto, secondo la quale "i crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell'ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine la sanzione pecuniaria si intende equiparata alla pena pecuniaria". Ciò significa che se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede. Come ha spiegato la giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n.

7 Pag. 19 e 20 della sentenza in commento.

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44824 del 2012, Magiste International s.a., cit.), la disposizione dell'art. 27 citato, infatti, "non può non riferirsi anche all'azione endo-fallimentare, che costituisce la forma prevalente di fruizione dell'azione esecutiva indirizzata agli imprenditori collettivi"8.

Dunque, la confisca prevale sui diritti dei creditori in buona fede della società9.

Anche questa lettura offerta dalle sezioni unite penali nella sentenza in commento non mi persuade.

Sorprende il richiamo alle “cose appartenenti” di cui all’art. 240 c.p.; proprio la diversa scelta semantica operata dall’art. 19, semmai, dovrebbe indurre ad optare appunto per differenti soluzioni ermeneutiche.

Ed infatti la lettera dell’art. 19, nella clausola di salvaguardia “sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede”, non deve certo essere necessariamente intesa come limitata ai diritti reali, ben potendo anzi fare riferimento anche ai diritto di credito che si hanno verso la società fallita di cui tutti o alcuni beni sono oggetto di confisca.

Anche il creditore in buona fede contrae con una società, ed appare logico tutelare (oltre all’interesse pubblico dell’Erario con la confisca) anche questa posizione incolpevole, avendo cura insieme di assicurarsi, naturalmente, che sia insieme perseguita anche la finalità della confisca, ovvero impedire che la società possa avere un vantaggio nonostante il comportamento sanzionato, ritornando direttamente o indirettamente in possesso dei beni che hanno costituito il prodotto o il profitto del reato. Ovvero proprio il compito che l’art. 19 affida al giudice penale in via generale, laddove il giudice deve appunto tutelare il terzo avendo contemporaneamente cura che attraverso esso non possa celarsi un interesse indiretto della società: con una ulteriore opportuna riflessione quando la società sia dichiarata fallita; fattispecie in cui, eccettuato l’eventuale rischio (di vendite fittizie o) della restituzione alla società di nuovo in bonis delle sopravvenienze attive quando il fallimento sia chiuso con l’integrale soddisfazione dei creditori, la società perderà al termine della procedura fallimentare la proprietà di tutti i beni, cosicché anche senza la confisca la finalità di sanzionare l’ente colpevole sarà comunque raggiunto (e la confisca manterrà la sua funzione solo nel caso di residuo attivo al termine della liquidazione e distribuzione concorsuale, che potrebbe comunque essere sottoposto a confisca).

8 Pag. 24 della sentenza in commento.

9 Anche se, va detto, la seguente frase rinvenibile a pag. 30 della sentenza delle sezioni unite potrebbe fare ritenere diversamente: “è assai dubbio che il curatore fallimentare possa avere un interesse concreto giuridicamente tutelabile ad opporsi ai provvedimenti di sequestro e confisca, perché la massa fallimentare, la cui integrità il curatore è tenuto a garantire, non subisce alcun pregiudizio da tali provvedimenti, in quanto lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura”.

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Il tema, ovviamente è stato attentamente analizzato da quel corposo filone della giurisprudenza penale che ha ritenuto doveroso per il giudice confrontare le esigenze di confiscabilità dei beni e quelle attinenti ai diritti di soggetti terzi in buona fede, tra i quali vanno inclusi i creditori ammessi alla procedura fallimentare10. Proprio le Sezioni unite Penali avevano in una precedente decisione affermato che “è consentito il sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza di un'impresa dichiarata fallita, a condizione che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare”11.

D’altro canto, altre decisioni della Suprema Corte hanno all’opposto ritenuto, pur apoditticamente, che “il denaro provento del delitto, stante la natura sanzionatoria della misura, è naturalmente destinato all’Erario e questo interesse pubblico prevale su quello dei creditori”12.

Cosa aggiunge, e cosa toglie, la decisione in commento delle Sezioni Unite (che nella parte iniziale della sentenza riporta diligentemente le varie opinioni), alle riflessioni ora richiamate? Nulla. Le sezioni unite in pratica si limitano a decidere senza prendere per nulla in considerazione le diverse posizioni espresse da una parte significativa della giurisprudenza; non ho una particolare predilezione per le cd. sentenze-trattato, ma francamente serbare un simile silenzio su tematiche centrali è, francamente, quasi offensivo per le riflessioni e gli sforzi fino ad oggi operati. E, forse, non è neanche il miglior viatico per le sorti della nuova pronuncia.

Ciò, del resto, ad ammettere che la fattispecie vada regolata, come ritengono le sezioni unite penali, solo sulla base di una interpretazione dell’art. 19 d.lgs.

231 del 2001, e non considerando che sarebbe poi tutto da dimostrare perché non debba invece essere doveroso valutare insieme anche la legge fallimentare e le disposizioni sui beni della società fallita (ad esempio, le disposizioni di cui agli artt. 51 e 168 l.f., che escludono la procedibilità delle azioni cautelari ed esecutive durante il fallimento), invece di optare, sic et simpliciter, per la prevalenza della disciplina penale.

C) Le sezioni unite affrontano infine il tema dell’applicabilità delle differenti regole dettate dal legislatore in tema di legislazione sulla prevenzione antimafia, che riserverebbe al giudice fallimentare l’accertamento dei diritti del terzo, e soprattutto tutelerebbe i terzi creditori in buona fede della società

10 Cass. pen., sez. V, 5 dicembre 2013, n. 48804; Cass. pen., Sez. V, 8 luglio 2008 n. 33425.

11 Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951.

12 Cass. pen., sez II, 27 giugno 2012, n. 39840.

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fallita. Se ne nega l’utilizzabilità: “L'applicazione della disciplina dettata in tema di misure di prevenzione, la quale, secondo le ricorrenti, prevede che il profitto del reato è comunque destinato alla soddisfazione dei creditori e che alla verifica dei crediti provvede in ogni caso il giudice delegato al fallimento, in materia di confisca ex art. 19 d.lgs n. 231 del 2001, in pendenza di procedura fallimentare sollecitata dalle ricorrenti non è possibile per assenza dei presupposti che legittimano il ricorso alla interpretazione analogica. Ciò sia perché si tratta di istituti differenti nelle finalità e nelle modalità applicative, dovendosi, peraltro, ravvisare un carattere di specialità della disciplina del procedimento di prevenzione (vedi Sez. 2, n. 10471 del 12/02/2014…), sia perché, come si è dimostrato nei paragrafi precedenti, non è ravvisabile una vera e propria lacuna normativa colmabile attraverso l'interpretazione analogica in materia di sequestro/confisca ex art. 19 d.lgs n.

231 del 2001, e rapporti di tale istituto con la procedura fallimentare”13. Anche queste affermazioni mi lasciano incerto.

Mi lascia dubbioso l’affermazione della possibilità di ricavare semplicemente dall’art. 19 i rapporti tra la confisca e la procedura fallimentare, così da escludere una riflessione più completa; l’art. 19 non si occupa affatto direttamente di questa particolare ma assai comune fattispecie, e pertanto non sembra potersi escludere l’opportunità di spingersi a valutare fattispecie simili per valutare l’applicabilità di quelle disposizioni per colmare un vuoto normativo.

Ma più ancora; in ipotesi di incertezza oggettiva sul contenuto e la portata dell’art. 19 e su tutela dei terzi creditori, riterrei anzi comunque necessario procedere ad una interpretazione sistematica, che non può prescindere dalle successive disposizioni su temi similari, e che comprendono anche le disposizioni antimafia, che, su tematiche più delicate in cui è più giustificabile la retrocessione dei diritti dei terzi creditori in buona fede, pur tuttavia li salvano.

E che manifestano ulteriormente come la tutela dei creditori di buona fede rappresenti l’espressione di un principio generale dell’ordinamento, che certo può essere ed è diversamente declinata, ma che appare nelle sue linee generali imprescindibile.

Concludo questa riflessione sul tema dei rapporti tra la tutela del creditore in buona fede della società fallita e la tutela dello Stato-erario, ripetendo quanto ho già scritto, che cioè una decisione simile non può e non deve essere riservata in via interpretativa alla giurisprudenza, ma deve essere presa, in scienza e coscienza, dal parlamento, come è stato fatto per le direttive antimafia.

E confermo che qualunque soluzione ricavata in giurisprudenza sarà discussa e discutibile; ma, al termine dell’analisi sul punto, confermo altresì

13 Pag. 26 della sentenza in commento.

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l’insoddisfazione per una decisione tanto attesa che elude di “parlar chiaro”

sulle proprie ragioni, ovvero: perché preferire le ragioni di “far cassa” dello Stato-Erario, quando appare per il resto francamente evidente che tutto (o quasi) induce invece a tutelare il diritto del creditore di buona fede, quando la sua tutela non avvantaggia anche solo indirettamente la società (o i soci della) fallita colpevole dei reati presupposto sanzionati con la confisca?

Allo stesso modo, non mi convince un altro caposaldo della decisione delle sezioni unite penali, sotto il profilo della ricostruzione della fattispecie con una sorta di singolare commistione tra attività riservate al giudice penale (la tutela dei terzi titolari di diritti reali) ed agli organi del fallimento, cui sono demandate le altre attività.

Si tratta di una lettura alquanto innovativa, rispetto a precedenti ricostruzioni che alternativamente tendono ad affidare le attività ad un solo organo giurisdizionale; sia esso il giudice penale oppure gli organi della curatela fallimentare.

E, come si è visto, la nuova visione, obiettivamente, comporta non pochi problemi applicativi (che francamente sarebbe stato opportuno evitare), offrendo delle soluzioni che ben potrebbero non essere seguite.

4. Una prognosi: le soluzioni dettate dalle Sezioni Unite penali saranno rispettate o potrebbero essere messe in discussione dalla giurisprudenza successiva civile e penale?

Un altro argomento di riflessione che voglio affrontare attiene al “successo” o no che la pronuncia delle Sezioni Unite Penali è destinata ad ottenere tra gli operatori pratici. Detti operatori si adegueranno alle indicazioni ivi espresse, o invece si continuerà a navigare a vista, in una evoluzione giurisprudenziale non ancora matura per sedimentarsi?

Ora, non è naturalmente questa la sede per affrontare il tema della portata del precedente giudiziale nel nostro ordinamento, né sotto un profilo generale, e neppure quanto alla diversa portata di una decisione delle Sezioni Unite.

E tuttavia, a volere semplificare, accanto alla innegabile e potente portata autoritativa in sé di una simile pronuncia, rimane da analizzare comunque la portata persuasiva della decisione.

Anche se proveniente dalle Sezioni Unite, la portata persuasiva “pura” della pronuncia in esame non appare a prima lettura, francamente, di grande peso.

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Una piena valutazione della persuasività della pronuncia richiede un’analisi di fondo di tutti i vari passaggi logici della stessa, che in questo contributo ho scelto di evitare, se non per le considerazioni critiche espresse nel paragrafo precedente.

Più in generale, tuttavia, della sentenza delle Sezioni Unite sorprende la scelta di fondo di “liquidare” in poche battute contrarie opinioni, talora addirittura composte da precedenti delle stesse Sezioni unite penali. L’apprezzabilità per la sintesi (in alcuni casi forse obbligata per evitare la sentenza-trattato) si accompagna ad una scelta narrativa che non sembra preoccuparsi vieppiù di

“convincere”, quanto di imporre-proporre una ricostruzione da applicare più per atto di fede-forza che per adesione ragionata.

Ciò non appare un buon viatico per il “successo” della nuova decisione; ancor di più, nella fattispecie che ci occupa, perché, come adesso analizzeremo, la questione dei rapporti tra artt. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001 e il fallimento dell’ente soggetto a tali misure può condurre anche all’emersione di tali problematiche davanti agli organi della curatela, con decisioni dunque non del giudice penale, ma del giudice civile, anche in Cassazione, laddove l’efficacia autoritativa di un precedente penale è nei fatti almeno parzialmente ridimensionata. Sul punto, anzi, è verosimile che la portata persuasiva pura per un giudice civile di questa sentenza penale sarà ulteriormente penalizzata alla luce di alcune imprecisioni in cui le Sezioni Unite Penali nella decisione in commento incappano nel trattare i profili di natura strettamente concorsuale-fallimentare della vicenda. Così, ad esempio, con riferimento all’osservazione delle Sezioni Unite Penali secondo cui “il curatore non è titolare di alcun diritto sui beni, avendo esclusivamente compiti gestionali e mirati al soddisfacimento dei creditori…, e non può agire in rappresentanza dei creditori”14; quando invece, ovviamente, tra gli interessi pubblici cui il curatore è chiamato ad assolvere si stagliano, come centrali, proprio gli interessi dei creditori, con la conseguenziale possibilità, anzi meglio l’onere, per il curatore di agire anche in rappresentanza dei diritti del creditore.

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Desidero ancora riflettere su un punto a mio avviso importante, e cioè sulla individuazione della parte della decisione a Sezioni Unite che, poi, dovrebbe essere assistita, o maggiormente assistita, dalla portata persuasiva

“autoritativa” del precedente giudiziale.

In argomento va richiamata subito l’indicazione del principio di diritto espresso dalle sezioni unite; la sentenza, espressamente, distingue i due principi di diritto che da essa discendono, e che sono così declinati: “Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il

14 Pag. 30 della sentenza in commento.

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provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001.

La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare”.

Se con riferimento ad essi è configurabile una forte portata autoritativa, la riflessione è più complessa relativamente alla ricostruzione dei rapporti tra l’art. 19 d.lgs. 231 del 2001 e le procedure fallimentari quando l’ente sia dichiarato fallito: sotto questo profilo, sempre senza volere indugiare in considerazioni di carattere generale sulla portata del precedente, è però corretto segnalare che, nella decisione oggi in commento, la ricostruzione dell’istituto e le molteplici regole che le Sezioni Unite ricavano dalla ricostruzione dell’istituto non possono, ritengo, qualificarsi come dei meri obiter dicta. Si tratta di profili in alcuni casi direttamente pregiudiziali al principio di diritto poi espresso, e comunque in altre ipotesi strettamente connessi alle riflessioni operate, che chiaramente manifestano la volontà delle Sezioni Unite di procedere ad una ricognizione generale, che è ben possibile sia intesa dalle Sezioni Unite come una lettura da imporre, che come tale di fatto assume una forte portata autoritativa, anche se, e non è naturalmente indifferente, una sezione semplice della Cassazione penale, che dovesse decidere di distaccarsi dai principi di diritto formulati dalle Sezioni Unite, ben potrebbe farlo, a differenza di quanto previsto per il processo civile15, senza la necessità di rimettere la questione alle Sezioni Unite16.

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La portata persuasiva della pronunzia delle Sezioni Unite Penali è dunque dubbia.

In argomento, è poi possibile precisare meglio la riflessione distinguendo tra la forza di convincimento per il giudice penale, ed invece quella per il giudice civile.

Le controversie che dovessero iniziare davanti al giudice penale, naturalmente, saranno risolte da un giudice i cui provvedimenti saranno comunque infine oggetto di impugnazione avanti alla Cassazione penale.

Così, ad esempio, se il curatore, nonostante il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite penali, insistesse nel richiedere al giudice penale la revoca

15 L’art. 374, comma 3, c.p.c. prevede, invero, che: “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.

16 L’art. 618 c.p.p. si limita, invero, a stabilire che: “Se una sezione della corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite”.

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del sequestro, la decisione sarà comunque oggetto di riesame avanti alla cassazione penale, che, è probabile, confermerebbe le sezioni unite.

La ricostruzione dell’istituto di cui all’art. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001 offerta dalle Sezioni Unite penali potrebbe tuttavia essere oggetto di considerazione anche davanti al giudice civile, in particolare sovente davanti al tribunale fallimentare, ed in tali ipotesi sarà ancora più difficile prevederne il grado di persuasività, sia nelle fasi del giudizio di merito che nell’eventuale giudizio di legittimità, che si terrà tuttavia davanti alle sezioni civili della Corte di cassazione. Ed anche nelle ipotesi in cui dovesse decidersi di assegnarne la competenza alle sezioni unite civili, esse sarebbero diversamente formate da giudici appartenenti alle sezioni civili della suprema corte, e non alle sezioni penali; con una riduzione comunque dell’efficacia autoritativa esercitata dalle sezioni unite penali.

Sono, del resto, varie le ipotesi che potrebbero condurre ad una pronuncia su questi temi di un giudice civile e conseguentemente della cassazione civile.

Così, ad esempio, gli organi del fallimento potrebbero essere interessati dalla domanda di insinuazione al passivo del creditore Stato-Erario derivante da confisca; e ad esempio il creditore chirografario del fallimento, o con un grado di privilegio inferiore allo Stato-erario, potrebbe contestarne l’ammissione al passivo, e fare una impugnazione allo stato passivo ex art. 98 o 99 l.f., che dopo il primo grado davanti al tribunale fallimentare, potrebbe rapidamente giungere in cassazione.

Potrebbe essere lo stesso Stato-Erario a dovere reagire, se fosse il curatore e poi il tribunale fallimentare a non seguire il ragionamento delle sezioni unite penali, rigettando la domanda di insinuazione al passivo dello Stato erario.

5. Riflessioni de iure condendo. L’indispensabilità della possibilità di prevedere la devoluzione, per ipotesi particolari, dalla sezione semplice della Corte di cassazione a Sezioni Unite composte da giudici sia delle sezioni civili che delle sezioni penali.

La pronuncia delle Sezioni Unite Penali da cui originano queste riflessioni attiene dunque a tematiche che involgono questioni tanto civilistiche che penalistiche; questioni che possono sfociare in pronunzie di entrambe le giurisdizioni. Questo accade anche in altre ipotesi; così, ad esempio, questo succede per la definizione e le conseguenze dell’usura; fenomeno che può essere lamentato in sede civile anche ai fini di cui all’art. 1815 c.c., ma anche in sede penale per ottenere la condanna ai sensi dell’art. 644 c.p..

E’ tuttavia spesso in queste fattispecie sarebbe più che mai opportuna una lettura univoca della corte di cassazione; nel nostro ordinamento invece, la

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Suprema Corte pronuncerà in sede civile o penale, a seconda del tipo di procedimento iniziato.

Si rende necessario, allora, modificare de iure condendo le regole del giudizio di cassazione, e prevedere in via normativa, nelle ipotesi di contrasti reali o potenziali tra la cassazione civile e la cassazione penale, che il presidente della corte di cassazione debba caratterizzare la composizione delle sezioni unite in modo rappresentativo sia delle sezioni civili che di quelle penali.

6. Riflessioni de iure condendo. Sulla necessità di disciplinare a livello normativo il rapporto tra i provvedimenti di cui agli art. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001 e le procedure concorsuali-fallimentari.

Concludo queste riflessioni ripetendo un concetto che ho già espresso: il tema dei rapporti tra la tutela del creditore in buona fede della società fallita e la tutela dello Stato-erario, e più in generale tra il processo di sequestro e confisca ai sensi degli artt. 19 e 53 d.lgs. 231 del 2001 e le procedure concorsuali non può e non deve oggi essere riservato in via interpretativa alla giurisprudenza, ma deve essere affrontato, in scienza e coscienza, dal Parlamento, come è stato fatto con il c.d. codice antimafia che ha normato il rapporto tra le misure di prevenzione dettate per una serie di reati e i procedimenti concorsual-fallimentari, laddove per le misure del sequestro e della confisca si assiste tendenzialmente alla sottrazione dei beni alla massa attiva fallimentare, si disciplina in via unitaria la fase dell’accertamento del passivo, si tutela tendenzialmente tanto la posizione dei titolari di diritti reali acquisiti in buona fede, che quella dei creditori in buona fede della società sottoposta a procedure concorsual-fallimentari se i beni, o alcuni di essi, siano colpiti da sequestro o confisca17.

Ritengo, poi, che sarebbe opportuno procedere a coerenziare le discipline, che pure ben potrebbero, nelle soluzioni normative, essere motivatamente differenziate, alla luce della non identità delle fattispecie; non identità che consentirebbe anche una parzialmente diversa regolamentazione senza incorrere in alcuna potenziale censura di incostituzionalità per ingiustificato differente trattamento.

17 Cfr. BOZZA G., L’esclusività dell’accertamento del passivo, in JORIO A. – SASSANI B., Trattato delle procedure concorsuali, II, Il fallimento. Effetti – Stato passivo, Milano, 2014, 682 ss..

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