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Terzo Mondo e oltre. Intervista a Carmelo Strano.

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Academic year: 2022

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Terzo Mondo e oltre.

Intervista a Carmelo Strano.

Dopo la grande e ben riuscita mostra dei Figurini ritrovati di Sironi, Marsala, ad un anno di distanza, lancia un’altra sfida artistico-culturale al mondo intero e si fa portatrice di un messaggio che, a ben pensarci, potrebbe risolvere tanti mali delle società post-moderne.

Ma se proprio a Marsala questo e altro, in campo artistico, si è fatto, il merito è – e va detto, perché bisogna riconoscerlo – dell’Ente Mostra di Pittura “Città di Marsala” che, grazie alla lungimiranza del suo presidente, dotto Francesco Perrone, e ad un Consiglio di amministrazione efficiente e sensibile non solo al problema dell’arte in sé, ma a quello che essa ha rappresentato per l’uomo di ogni tempo, si è rivelato un punto di richiamo fermo per gli artisti e un centro propulsore di arte di levatura internazionale. Basti dire che nell’arco di un trentennio ha dato vita ad una pinacoteca d’arte contemporanea tra le più ricche e certamente una delle più belle d’Italia.

La mostra di quest’anno ha per titolo: «Terzo Mondo e oltre»

e, a prima vista, potrebbe sembrare ambiziosa, ma non lo è, per il messaggio, di cui accennavamo, che se non ha niente di particolare, ha il pregio di scuotere sensibilmente la nostra suscettibilità di uomini del Duemila.

I repentini capovolgimenti politico-sociali dei Paesi dell’Est. la crisi esistenziale della vecchia Europa che non vive di altro se non di uno sfrenato edonistico consumismo, l’esodo da un continente ad un altro di gente in cerca di migliori condizioni di vita, lasciano pensare a imprevedibili risvolti che negli anni a venire potrebbero mettere in forse l’esistenza stessa del nostro pianeta.

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L’uomo dei Paesi ricchi sa bene questo, e molto potrebbe fare per scongiurare ciò, se alla sua oculata esperienza di millenni abbinasse quella di altri popoli più giovani – nessuno escluso – meno assodata, ma non per questo meno interessante. Nei Paesi emarginati, del Terzo Mondo, si vive in modo genuino, spiritualmente meglio di quanto si pensi, e si sente la natura con i rumori, i palpiti, i colori che il mondo industrializzato ormai disconosce. Proprio dai Paesi poveri ci giunge questo messaggio che non è retorico – come spesso siamo abituati a sentire («ritorno all’Umanesimo»,

«Nuovo Umanesimo»), e poi si specula anche in questo – , ma insegnamento di vita, comportamento degno dell’essere uomini.

La mostra di Marsala ha una grande importanza che non è soltanto artistica, perché l’arte è un mezzo e non il fine;

l’obiettivo che si prefigge è additare la strada del vero recupero culturale e riportare, così facendo, l’uomo alle sue radici, alla terra, di cui non può fare a meno, perché ad essa porta il suo cordone ombelicale. L’evento artistico acquista, allora, una valenza altamente culturale e non ha altri interessi se non quello di riportare alla vita da cui stiamo sempre più allontanandoci.

I Paesi del Terzo Mondo, da questo punto di vista, hanno molto da insegnare ai Paesi ricchi e, in un periodo di apertura politica e di crollo delle ideologie come il nostro, sono nelle condizioni di farlo, perché, rivitalizzando quanto negli ultimi c’é di buono, pongono un rimedio al vuoto profondo causato dall’assenza di valori fermi e duraturi.

La semplicità del modo di dire, la genuinità, di cui questi popoli del Terzo Mondo si fanno portatori (il materiale e le tecniche usate dagli artisti che li rappresentano ne sono larga testimonianza), lontane anni luci dal Primo, esercitano un fascino inesprimibile e fanno riflettere. L’umile legno, la semplice pietra, tutto ciò, insomma, che la provvida natura dispensa da sempre agli uomini, sanno in modo mirabile ricondurre a quel senso di umanità che diversamente sembra

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impossibile recuperare.

A conforto di queste brevi considerazioni, abbiamo voluto intervistare il curatore della mostra, il prof. Carmelo Strano, che altre volte si è interessato dell’argomento.

Professore, qual è il movente della mostra?

«La mostra ha come obiettivo la ricerca artistica dei Paesi del Terzo Mondo. Non ci sono motivi politici, e la molla che ci spinge è prettamente culturale, in quanto vuole, al di là del colore e di ogni condizionamento economico, avvicinare veramente i popoli. La mostra, anzi, ha l’ambizione di andare oltre i limiti geografici del Terzo Mondo, nel senso che vuole anche chiamare in causa Paesi che non sono economicamente del Terzo Mondo,bensì lontani geograficamente da quei Paesi considerati “centri”. Paesi lontani come l’Australia, l’Oceania, la Nuova Zelanda, ad esempio. Terzo Mondo e oltre, quindi! La motivazione è ideologica, non politica. La mostra tende a creare un’osmosi fra tutti i Paesi del mondo».

Quali messaggi e quali insegnamenti potranno venirci da artisti del Terzo Mondo? Quali sono i vantaggi per la cultura e l’arte?

«Tantissimi. E sono proprio questi possibili vantaggi che in un certo senso hanno fatto nascere !’idea della mostra. Una volta che sono caduti i grandi blocchi, l’umanità cammina su processi comunicativi sempre più aperti al dialogo, indipendentemente dalla condizione economico-geografica. I Paesi ricchi, presi come sono dall’industrializzazione e dai processi produttivi, hanno messo da parte la natura. Ecco, dal T e r z o M o n d o p u ò a r r i v a r e q u e s t o c o n t r i b u t o d i rivitalizzazione, che innanzitutto dovrà ripristinare il rapporto tra natura e cultura, uno scambio che avvantaggerà molto l’arte, la quale ritornerà ad essere genuina espressione dell’umàna sensibilità. Sicché l’arte e la natura tenderanno a valorizzare l’uomo e si faranno portatrici di nuovi valori che niente hanno di effimero e di passeggero».

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In un suo articolo sulla rivista «D’Ars», Lei parla della fine della divisione del mondo culturale tra centro e periferia.

Marsala e la Sicilia con la mostra che Lei sta preparando, per conto dell’Ente Mostra, restano periferie oppure, sia pure per un momento, assurgono al ruolo di centro di cultura mondiale?

«Il cosiddetto centro languisce in un circuito microelettrico senza via d’uscita, perché ha perso quello slancio da cui veniva caratterizzato. Marsala ha avuto sempre l’ambizione di farsi indicare come porta del Mediterraneo. D’altronde, dai tempi più remoti, ha avuto rapporti economico-culturali, di scambio, con civiltà molto evolute. Adesso, vuole riprendersi questo ruolo e, dal momento che abbiamo coinvolto ambasciate, artisti, giornali, televisioni, Marsala si pone come simbolo al mondo intero, anche per l’attenzione che sta suscitando nei vari ambienti, da quelli politici a quelli artistico- culturali. Può sembrare un paradosso, ma non lo è; Marsala, o la Sicilia, di cui Marsala è simbolo, comunemente considerata periferia, in realtà è centro. Non commercialmente, intendiamoci, perché Parigi, Milano, Londra, o New York, ad esempio, detengono sempre l’egemonia in fatto di denaro. Ma fa cambiare aspetto il problema culturale. La periferia ha dimostrato di avere più sensibilità, più apertura; è più dinamica ed è portatrice di nuove idee». A dir la verità, queste ultime frasi del professor Strano ci fanno piacere.

Abituati come siamo ad essere tacciati di provincialismo, a questo punto, vorremmo che provinciali lo fossimo veramente, anche se temo che i mass-media abbiano fatto opera di omogeneizzazione tale da far perdere la spontaneità e la genuinità proprie della gente che vive lontano dalle grandi città. Comunque, fondamentalmente vero è che la città è amorfa e che manca di calore umano. Non così è nei piccoli centri di periferia, dove la gente si conosce e si stima non per l’utile che se ne può ricavare, ma per il rapporto di amicizia che si è con essa instaurato. La spinta di vitalità che viene dal Terzo Mondo deve indurre i Paesi occidentali ad accettare il confronto, se vogliono recuperare la loro umanità. La mostra di Marsala vuole segnare il punto di inizio di questa apertura

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alla disponibilità, indispensabile per costruire le basi di un mondo migliore dove l’uomo, abolita ogni differenziazione culturale e in sintonia con l’ambiente che lo circonda, coopererà con gli altri, vivendo degnamente la sua vita.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 42.

Il teatro di Ionesco

L’11 maggio del 1950, al Théatre des Noctambules di Parigi, veniva rappresentata per la prima volta La Cantatrice chauve di Eugenio Ionesco, con la regia di Nicolas Bataille. Fu un grande avvenimento o, meglio, quella data segnò l’inizio di un teatro nuovo che venne designato con diverse etichette. Noi non entriamo nel merito della questione, perché almeno per il momento non ci interessa o, se ci interesserà, in rapporto a quello che è l’oggetto del nostro discorso.

La Cantatrice chauve, che ininterrottamente da allora viene rappresentata a Parigi e nel mondo, ha in sé la tematica del teatro di Ionesco, con la conseguente rottura con il teatro tradizionale e con il teatro engagé di Brecht e di Sartre.

Ionesco, pur mettendo al centro del suo discorso l’uomo, non presenta dei caratteri o degli eroi, non lancia dei messaggi;

egli porta sulla scena ciò che è stato da sempre trascurato e nemmeno minimamente preso in considerazione: la banalità che è nella nostra esistenza, lo spirito di contraddizione che è in noi, la messa in discussione del linguaggio. E su queste linee, anche se con diverse sfumature, si muoveranno i nuovi drammaturghi (Beckett, Schéhadé, Genet, Pichette, lo stesso Adamov).

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Ionesco definì questo suo modo di fare teatro «anti-teatro», volendo rimanere dentro il teatro, sebbene gli altri lo abbiano etichettato come «teatro dell’assurdo» per la novità con cui affronta i problemi esistenziali, difficilmente riconducibili nell’ottica del teatro tradizionale, e per la libertà stessa con cui vengono trattati, rompendo con la staticità di quel teatro.

Certo, influì sul «nuovo teatro» la situazione creatasi in conseguenza alle due grandi guerre, con le distruzioni e con le assurdità che esse, più che mai, evidenziavano, mentre era facile rendersi conto come le manifestazioni artistiche non solo non rappresentavano la realtà, ma la travisavano, contribuendo così a disorientare ancor più gli uomini che, usciti da quelle catastrofi – siamo negli anni Cinquanta -, erano già entrati nel clima della cosiddetta guerra fredda. E se il disagio era generalizzato, tanto più veniva vissuto dagli intellettuali che volevano pure trovare un modo per esternare la realtà senza falsarla: quella realtà che cadeva sotto i loro occhi e quella che interiormente stavano vivendo.

Alcuni (Brecht, Sartre, Camus e altri) portavano avanti nelle loro opere un discorso politicamente impegnato, ma, volendo mandare dei messaggi, per forza di cose dovevano risultare di parte, perdendo così di vista, nella sua essenza, l’uomo.

Ionesco e i nuovi drammaturghi vanno contro questo tipo di teatro, presentando la realtà com’è, amara, spesso banale, eppure reale specchio dell’umana esistenza. In essi non c’è altra pretesa che questa: dire le cose come stanno. senza alcuna presunzione, non nascondendo niente. Ma, appunto perché sono «verità elementari», scuotono l’uomo in tutto il suo essere e lo fanno riflettere.

*

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Il teatro è, per Ionesco, un campo aperto ove tutto è possibile rappresentare, anche ciò che sembra non avere né testa né coda, come avviene nella Cantatrice chauve, dove gli Smith dicono frasi senza senso, ripetitive e contraddittorie.

La Cantatrice chauve, che Ionesco sottotitola: Anti-pièce.

proprio perché si diversifica dal teatro tradizionale. trae la sua linfa da un eserciziario per l’apprendimento della lingua inglese. È l’occasione perché Ionesco vada contro il linguaggio convenzionale, vuoto e insignificante(1). Si accorge che quelle frasi accostate tra loro producono uno strano effetto. come di chi parla tanto per parlare. per cui la comprensione risulta incomprensibile e astratta. Al di là di tutto questo, ecco che subentra. però. il lato comico del discorso: e se il pubblico alla prima rappresentazione rimase frastornato, ne uscì anche divertito per la comicità che involontariamente è alla base della pièce.

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: C’è una cosa che non capisco. Perché nella necrologia, che il giornale riporta, si dà sempre l’età della persona deceduta e mai quella dei neonati? È un non senso.

LA SIGNORA SMITH: Io non me lo sono mai chiesto! Un altro momento di silenzio. L’orologio suona sette volte. Silenzio.

L’orologio suona tre volte. Silenzio. L’orologio non suona affatto.

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: Ecco, è scritto che Bobby Watson è morto.

LA SIGNORA SMITH: Mio Dio, poveretto, quando è morto?

IL SIGNOR SMITH: Perché ti meravigli? Lo sapevi bene. È morto due anni fa. Ti ricordi, siamo stati al suo seppellimento, un anno e mezzo fa.

LA SIGNORA SMITH: Certo che mi ricordo. Mi sono ricordata subito, ma non capisco perché tu stesso sei rimasto

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meravigliato ad apprenderlo dal giornale.

IL SIGNOR SMITH: Non era sul giornale. Sono già tre anni che si è parlato del suo decesso. Me lo sono ricordato per associazione di idee(2).

Già questo colloquiare è buffo e insignificante. Così è tutta la pièce che si svolge in un interno, con protagonisti gli Smith, appunto, e un’altra coppia, i Martin, affiancati dalla governante Mary e dal Capitano dei pompieri.

Niente di particolare nella scenografia, vivificata, però, da un inconsueto movimento che mette in risalto i personaggi e, soprattutto, il loro dialogare e il dialogo in genere, causa continua di malintesi. Sotto accusa è la borghesia emergente negli anni Cinquanta, conformista, ricca soltanto di frasi fatte e di pretese che ne tradiscono le origini e la vuotaggine.

La pièce, che è un atto unico, consta di undici scene; non narra una storia, ma mette assieme stati d’animo diversi che, intensificati, sfociano nella comicità, come avevamo accennato sopra. Comunque, è una comicità che, se sulle prime fa ridere, lascia subito l’amaro in bocca e i suoi effetti sono altamente drammatici. Questo perché il teatro di Ionesco non è staccato dalla realtà, ma vive di essa. Il senso di angoscia, di insoddisfazione, che è nell’uomo, viene tradito dalle parole che lo intensificano ancora di più, dando a tutto l’insieme una progressione drammatica inaspettata. È, questo, un punto d’arrivo della poetica di Ionesco, ma è anche un punto di contatto con l’arte di Pirandello, che proprio sul comico aveva poggiato le premesse dell’umorismo che sta alla base del suo teatro.

* * *

Il teatro di Ionesco è una parodia del linguaggio e del modo

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di fare medio-borghese.

La Cantatrice chauve è il primo tentativo bene riuscito, anche se all’inizio fece parlare molto di sé. D’altronde, il pubblico e la critica non erano abituati a questo genere di teatro, e dovette passare parecchio tempo prima di uscire fuori dalla tradizionale ottica teatrale. E se qui, in questa prima pièce, il linguaggio, messo sotto accusa per la banalità e per la ripetitività (si veda, ad esempio, la scena IV, dove i coniugi Martin scoprono dopo un lungo scambio di battute di e s s e r e m a r i t o e m o g l i e ) s u b i s c e d i t a n t o i n t a n t o un’accelerazione che alla fine esplode con quel .Non di qua, ma di là, non di qua, ma di là, non di qua… “, nelle opere che seguiranno, come ne La Leçon, c’è un’intensificazione dell’azione, anche se poi essa ripresenterà, seguendo una struttura circolare, la scena dell’inizio. Così, a chiusura della Cantatrice, avremo i Martin che ripetono la stessa scena di apertura degli Smith, mentre nella Leçon, il Professore, dopo avere ucciso, si prepara a uccidere ancora.

L’attenzione dell’autore non è rivolta al carattere dei personaggi, ma al vissuto quotidiano, monotono eppure pieno di imprevisti, vuoto e amaramente deludente, capace solo di farci consapevoli dell’assurdità della nostra esistenza. Per questo acquistano importanza nel suo teatro quegli elementi che erano stati da sempre trascurati: gli oggetti, la luce, il silenzio, le decorazioni. Essi rappresentano la materializzazione e il vuoto dell’uomo moderno, la sua mancanza d’identità. Anche le didascalie, che già in Pirandello avevano assunto un ruolo non indilTerente per la comprensione e per la rappresentazione delle sue commedie, hanno una fondamentale importanza. E se il testo molto spesso è scarno e si limita all’essenziale, esse fanno scendere nel particolare e calare nella realtà che l’autore vuole evidenziare. Dietro questa esigenza c’è la preoccupazione (comune a tutti gli autori, del resto) che la propria opera non venga travisata e rispecchi i sentimenti e le tensioni che sono alle sue origini.

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Con Les Chaises Ionesco rappresenta sulla scena la solitudine, la mancanza di identità, gli oggetti. ricorrendo a una sorta di accelerazione che dice quanto è deprimente la vita. Le sedie che si moltiplicano a dismisura sottolineano la materialità invadente, il vuoto, l’assenza, che sono nell’uomo di oggi. Nei due vecchi protagonisti c’è tanta nostalgia per la vita che fu. ma manca loro lo slancio che li faccia uscire dallo stato di torpore angoscioso in cui sono caduti.

IL VECCHIO: Sono le 6 del pomeriggio… È già notte. Ti ricordi, un tempo. non era così; era ancora giorno alle 9 di sera. alle lO. a mezzanotte!

LA VECCHIA: È pur vero. che memoria!

IL VECCHIO: È cambiato tutto.

LA VECCHIA: Perché, secondo te?

IL VECCHIO: Non so, Semiramide, mia cacca… Può darsi, perché più si va, più ci si affonda. A causa della terra che gira, gira, gira, gira…

LA VECCHIA: Gira, gira. tesoruccio mio… (Silenzio,) Ah! Sì, sei certamente un gran saggio. Sei molto dotato, tesoro.

Avresti potuto essere presidente capo, re capo, o anche dottore capo, maresciallo capo, se avessi voluto, se avessi avuto un po’ d’ambizione nella vita…

IL VECCHIO: A cosa ci sarebbe servito? Avremmo vissuto un po’

meglio… e poi. abbiamo una posizione. sono maresciallo lo stesso. d’alloggio. visto che sono portinaio.

LA VECCHIA (accarezza il Vecchio come si carezza un bambino):

Tesoruccio mio, mio piccolo…

IL VECCHIO: Mi annoio molto.

LA VECCHIA: Eri più allegro, quando guardavi l’acqua… Per distrarci, fingi come l’altra sera.

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IL VECCHIO: Fingi tu, tocca a te.

LA VECCHIA Tocca a te.

IL VECCHIO: A te.

LA VECCHIA: A te.

IL VECCHIO: A te.

LA VECCHIA: A te.

IL VECCHIO: Bevi il tuo tè, Semiramide. Non c’è tè, evidentemente (3)

Un senso di nostalgia che fa cadere nella delusione e nella più stupida banalità. Ora che la parola non è più capace di esprimere la realtà della nostra esistenza, prendono corpo gli oggetti che proliferano, marcando ancor più uno stato di disagio che non solo deprime, ma spinge all’annullamento e alla morte. E i due vecchi si uccideranno nella vana attesa di qualcuno che li avrebbe dovuto sollevare e farli uscire dalla confusione mentale in cui erano caduti. Solo all’ultimo appare il tanto atteso Oratore che, però, è sordo e muto, e non riesce a comunicare dinanzi a quell’assenza-presenza rappresentata dalle sedie vuote.

*

* *

L’Oratore delle Chaises, atteso dai due vecchi e dalla moltitudine di “invisibili”, non parla perché sordomuto; nella Cantatrice chauve assistiamo a qualcosa di simile: non c’è nella pièce nessuna che sia calva e che canti. Nell’una e nell’altra Ionesco si serve degli oggetti e del linguaggio per provocarci. E ci riesce magnificamente bene, perché spinge chiunque alla riflessione, mette chiunque dinanzi a queste assurdità che, poi, tali non sono, se consideriamo che esse sono la parte meno apparente di noi; quella a cui diamo meno

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ascolto, eppure reale, anche se si tratta di un realismo che cozza con l’assurdo.

Dietro all’apparente sperimentalismo teatrale c’è nell’opera di Ionesco un bisogno di ricerca che lo accompagnò per tutta la vita. Questo suo bisogno nasce dalla presa di coscienza dell’uomo che, uscito da due guerre nefaste, ha perso la fiducia nei valori e cerca con disperazione una nuova identità. Adesso l’uomo Ionesco vuole fare piena luce attorno a sé o, per lo meno, vuole attaccarsi a una speranza che gli prospetti l’uscita da questo vicolo cieco. Ionesco che era andato contro il teatro impegnato, ora dà un senso alla sua ricerca, volendo riscoprire i veri sentimenti e aprire un varco in un mondo che non conosca violenze e soprusi(4).

Già in Jacques ou la Soumission c’è un attacco diretto contro il conformismo dilagante, ma meglio ancora in Rhinocéros, dove l’allusione a ogni tipo di fanatismo è più marcata e il conformismo è paragonato a una sorta di malattia sociale dilagante che contagia persino gli insospettabili.

BÉRENGER: Riflettete, vediamo, vi rendete ben conto che abbiamo una filosofta che questi animali non hanno, un irreprensibile sistema di valori. Secoli di civiltà l’hanno consolidato…

JEAN, sempre nel bagno: Demoliamo tutto, staremo meglio.

BÉRENGER: Non vi prendo sul serio. Scherzate, e fate poesia.

JEAN: Brrr… Barrisce appena.

BÉRENGER: Non sapevo che foste poeta.

JEAN. esce dal bagno: Brrr… Barrisce di nuovo.

BÉRENGER: Vi conosco molto bene per credere che questo sia il vostro intimo pensiero. Perché, lo sapete molto bene che io, l’uomo…

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JEAN, interrompendolo: L’uomo… Non pronunciate più questa parola!

BÉRENGER: Voglio dire l’essere umano, l’umanesimo…

JEAN: L’umanesimo è superato! Siete un vecchio sentimentale ridicolo. Entra nel bagno.

BÉRENGER: Alla fine, nonostante tutto, lo spirito…

JEAN, dal bagno: Cliché! Mi raccontate sciocchezze.

BÉRENGER: Sciocchezze!

J E A N , d a l b a g n o , c o n u n a v o c e m o l t o r a u c a difficilmente comprensibile: Assolutamente.

BÉRENGER: Sono meravigliato di intendervi dire ciò, mio caro Jean. Perdete la testa? Dunque, amereste essere rinoceronte?

JEAN: Perché no! Non ho i vostri pregiudizi (5) .

Bérenger, questo personaggio positivo che tante altre volte incontriamo in Ionesco, farà una gran fatica a imporsi e a rimanere integro nella sua personalità. Quando l’aberrazione di alcuni diviene di tanti, l’anormalità entra nella norma, mentre, al contrario, il normale sembrerà agli occhi di tutti un anormale e tale verrà considerato. Come Bérenger e quanti, come lui, vanno contro il conformismo di massa che mortifica l’uomo nella sua dignità.

Giustamente Martin Esslin(6) ha colto nel segno il teatro di Ionesco quando dice che l’apparente assurdità della vita gli serve da pretesto per la sua ricerca sull’uomo e sulla società tendente a riscoprire quei valori elementari indispensabili per la nostra esistenza. In effetti Ionesco si indirizza verso questa riscoperta e ricerca la via per ridare all’uomo la serenità perduta. Jean, il protagonista di La Soif et la Faim, tende verso una vita migliore; Bérenger di Le Roi se meurt, dopo tanto soffrire, acquista consapevolezza e si rende

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finalmente conto del senso vero della vita.

L’assurdo, di cui molto si parla, a proposito di Ionesco, va contro l’effimero e vuole consolidare certezze durature. Per questo, va scartata l’etichetta di assurdo; meglio parlare di anti-teatro, come Ionesco stesso preferisce, dal momento che, magari in forma diversa e non rinunciando al teatro, affronta la realtà, quella che tocca più da vicino l’uomo e il suo essere profondo.

*

* *

Claude Abastado scrive: «Tutto il suo teatro è una esplorazione dell’inconscio, concepito come la fonte del pensiero e dell’azione e, nello stesso tempo, come la realtà psichica comune a tutti gli individui(7)•. L’affermazione coglie nel segno il teatro di Ionesco che la conferma ne L’Impromptu de l’Alma(8). La morte, l’aspirazione a un mondo migliore nell’aldilà e le relative incertezze sono alla base di questo teatro, anche se con tutta la buona volontà dell’autore la sua ricerca e il tentativo di dare una risposta ai perché rimangono elusi; e l’uomo Ionesco, come Jean di Le Piéton de l’air , perde quello slancio che lo aveva fatto sperare in bene, ma non demorde dal credere in un qualcosa di più duraturo.

Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata. Il re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, cominciano a impossessarsi di lui, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando verrà, non chiederà mai il permesso.

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MARGHERITA: Non ne vale la pena. È irreversibile(9) .

L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge a imboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del destino.

Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita.

MARGHERITA: È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le s p a l l e . ) N o n h a n n o c h e q u e s t o i n b o c c a e l a lacrima all’occhio. Che abitudine (lOl.

Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là

della stessa morte. Perché, allora, Ionesco ha scritto questa pièce? Sentiamolo:

« Sono partito da un’angoscia… Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale. di meno viscerale, cioè, di più logico. qualcosa più alla superficie della coscienza […l. Ero stato ammalato e avevo avuto molta paura (11) ••

Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inavvertito e impassibile, acuisce ancora di più il disagio e

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travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È a l l o r a c h e l ’ u o m o r i c o n o s c e i s u o i l i m i t i e c a d e nell’angoscia.

A ragione, G. Dumar dice: « È questa angoscia fontamentale, esistenziale. che fa da soggetto al Roi se meurt. Mai Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere -per-la- morte. come la descrive la filosofia pessimista. da Schopenhauer a Sartre (12) ‘. Ed è questa, in effetti. la constatazione che un lettore attento farebbe, se si soffermasse soltanto su Le Roi se meurt una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere-per-il-mondo”

che è “essere-per-la-

*

* *

Così come circolare è la struttura di certe pièce, anche la drammaturgia ioneschiana segue una forma circolare. Ionesco era partito parodiando il linguaggio e mettendo in caricatura la società borghese. per condannare con Tueur sans gages e Rhinocéros le aberrazioni del totalitarismo dilagante in quegli anni, specie in Romania, il suo Paese, e per constatare (La Soif et la Faim. Le Roi se meurt) l’impossibilità per l’uomo di uscire dal vicolo cieco della sua esistenza. Deluso.

non potendosi elevare perché la ricerca non ha gli sbocchi sperati, l’uomo Ionesco ritorna alla sua fase iniziale, quella pessimista de La Cantatrice chauve. de Les Chaises e de La Leçon. Perché?

La vita – dice Ionesco, a proposito de La Vase – è un continuo retrocedere. un imbrattarsi di fango. un andare verso il basso(l3). Così. in Jeux de massacre. in Macbeii e in Cefonnidable bordello egli affronta ancora il tema della depravazione collettiva. degli orrori delle guerre. dello spargimento di sangue dettato dal desiderio di prevalere sugli altri e di dominare.

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La disarticolazione del linguaggio. la sua ripetitività. le allusioni e i luoghi comuni rendono ancor più deludente e mortificante l’esistenza che non ha altra alternativa, altro scampo. se non la lucida consapevolezza delle leggi che la sovrastano. del male che incombe su tutto.

MACBETT: Eccola tutta nuova. (Rimette la spada nel fodero.

beve il boccale di vino, mentre l’Attendente esce di scena da sinistra.) No, nessun rimorso, essendo stati traditori. Non ho .fatto che ubbidire agli ordini del mio sovrano. servIZIO imposto. (Posando 11 boccale:) Molto buono, questo vino. Non risento più la stanchezza. Andiamo.

(Guarda verso il fondo.) Ecco Banco. Hé! Come va?l14)

Gli orrori, i misfatti delle guerre ancora una volta giustificati e voluti da ordini superiori, come in ogni tempo e in tutte le guerre: e basta la motivazione di un ordine imposto per mettere a tacere la coscienza e affogare nel vino il rimorso! Cambiano i tempi. ma l’uomo è sempre lo stesso!

*

* *

Il teatro di Ionesco, che è un’amara riflessione sulla vita e sull’uomo, a giusta ragione, è teatro totale, nel senso che alla sua base non c’è l’uomo in sé, e inserito in un contesto sociale, ma qual è nel suo intimo, nella sua essenza e, come tale, ha veramente dell’universale. Sta qui, senza bisogno di cercare altrove, la riuscita di questo teatro che, sulle prime non fa avvertire il suo peso, ma a poco a poco attrae a sé e conquista.

A proposito di Ionesco, si è parlato di nuovo Umanesimo. Il suo teatro valorizza l’uomo e tutto ciò che in bene è capace di fare, allontanando il male che pende sulla sua testa come la spada di Dàmocle. Un nuovo Umanesimo, questo di Ionesco, che, da una parte, mette in guardia l’uomo dagli odierni

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pericoli (invadente materializzazione che non gli lascia alcuno spazio e lo fa cadere nella più nera solitudine, il p r e v a l e r e d i i d e o l o g i e c h e v a n i f i c a n o o g n i s u o sforzo piuttosto che innalzarlo , per cui è portato ad ammalarsi di rinocerontite – vedi Rhinocéros -, con il conseguente abbandono sfrenato a ogni eccesso), dall’altra, tende verso la ricerca di valori e verità che la dilagante materialità ha fatto dimenticare ( l’amore, il senso dell’amicizia, il dialogo, la spiritualità propria dell’uomo, l’accettazione della vita, l’ineluttabilità della morte).

Il bello di questo teatro è che il suo autore non indica in q u a l c h e m o d o i l s u o a s s u n t o , m a p r o c e d e , a l m e n o apparentemente. senza fissi obiettivi, per cui il lettore, o lo spettatore, viene preso alla sprovvista, come quando incosciamente trovatosi immerso in un sogno e, volendone poi tirare le fila, fa difficoltà a raccapezzarsi. Ionesco è consapevole di questo(15), per cui l’azione scenica risulta molto movimentata, ricca di spunti e di contraddizioni che dicono quanto è imprevedibile la vita, mentre i personaggi non sono tutto, perché – come dicevamo – un ruolo determinante lo assolvono le luci, il silenzio, i rumori, la stessa contraddittorietà del dialogo. Quello che conta per Ionesco, e per i nuovi drammaturghi in genere, è comunicare (16), riuscire a comunicare agli altri il mondo di cui siamo un riflesso, non necessariamente ricorrendo alla parola, ma a tutte quelle manifestazioni ed espedienti che avvicinano meglio alla realtà.

Fuori da ogni convenzionalismo, il teatro di Ionesco è soprattutto un teatro di ricerca , e quello a cui si rivolge è il mondo nel senso lato del termine. Per questo, Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità. È auspicabile che molti si accostino alla sua opera, che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità.

Salvatore Vecchio

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1) E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallirnard, 1966, pag. 253.

(2) E. Ionesco,. La Cantatrice chauve, in “Théatre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 12:

«MONSIEUR SMITH, toujours avec son journal: il y a une chose que je ne comprends pas. Pourquoi à la rubrique de l’état civil, dans le journal,donne-t-on toyjours l’age des personnes décédées et jamais celui des nouveau-nés? C’est un non-sens.

Madame SMITH: Je ne me le suis jamais demendé!

Un autre moment de silence. La pendule sonne sept fois.

Silence. La pendule sonne trois fois. Silence. La pendule ne sonne aucune fois.

MONSIEUR SMITH, toujours dans son journal: Tiens, c’est écrit que Bobby Watson est mort.

MADAME SMITH: Mon Dieu, le pauvre, quand est-ce qu’il est mort?

MONSIEUR SMITH: Pourquoi prends-tu cet air étonné? Tu le savais bien. Il est mort il y a deux ans. Tu te rappelles, on a été à son enterrement, il y a un an et demi.

MADAME SMITH: Bien sùr que je me rappelle. Je me suis rappe/é tout de suite, mais je ne comprends pas pourquoi toi-mème tu as été si étonné de voir ça sur le journal.

MONSIEUR SMITH: ça n’y était pas sur le Journal. Il y a déjà trois ans qu’on a parlé de son décès. Je m’en suis souvenu par association d’idées! »

(3) Ivi, pagg.142-143:

l.E VIEUX: Il est 6 heures de l’après-midL .. Ilfait dejà nuit. Th te rappelles,jadis, ce n’était pas ainsi; ilfaisait encorejour à 9 heures du soir, à lO heures, à minuit.

IA V1EILLE: C’est pourtant vrai. quelle mémoire!

LE VIEUX: ça a bien changé.

IA V1EILLE: Pourquoi done, selon toi?

LE VIEUX: Je ne sais pas, Sémiramis, ma crotte… Peut- etre parce que plus on va, plus on s’enfonee. C’est à cause de la terre qui toume, toume, toume, toume…

IA VIEILLE: Toume, tourne, mon petit chau… (Silence,) Ah! ou~

tu es certenement un grand savant. Th es très doué, mon chau. Th aurais pu etre président chef, roi chef, ou mème docteur chef, maréchal chef, si tu avais voulu, si tu avais eu un peu d’ambition dans la vie…

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LE V1EUX: A quoi cela nous aurait-il servi? On n’en aurait pas m i e u x v é c u … e t p u i s , n o u s a v o n s u n e s i t u a t i o n , j e suis maréchal tout de mème, des logis, puL’>que je suis coneierge.

IA VIEILLE (elle caresse le Vicux comme on caresse un enfant):

Mon petit chau, mon mignon…

LE VIEUX: Je m’ennuie beaucoup.

IA VIEILLE: Th était plus gai, quand tu regardais l’eau… Pour nous distraire, fais semblant comme l’autre soir.

LE VIEUX: Fais semblant toi-mème, c’est ton tour.

IA V1EILLE: C’est ton tour.

LE VIEUX: Ton tour.

IA V1EILLE: Ton tour.

LE VIEUX: Ton tour.

IA V1EILLE: Ton tour.

LE VIEUX: Bois ton thé, Sémiramis. Il n’y a pas de thé, évidemment.

(4) Per una maggiore comprensione di lonesco e del suo teatro, di grande utilità è Notes et contre-notes, citato e, in particolare, il saggio che apre il libro: L’auteur et ses problèmes, pagg. 11-43.

(5) E. Ionesco, in “Théàtre comp1et”, pag. 601:

BÉRENGER: Réfléchissez, voyons, vous vous rendez bien compte que nous avons une philosophie que ces animaux n’ont pas, un s y s t è m e d e v a l e u r s i r r e m p l a ç a b l e . D e s s i è c l e s d e civilisation humaine l’ont bati!…

JEAN: toujours dans la salle de bains: Démolissons tout cela, on s’en portera mieux.

BÉRENGER: Je ne vous prends pas au sérieux. Vous plaisantez, vous failes de la poesie.

JEAN: Brrr… Il barrit presque.

BÉRENGER: Je ne savais pas que vous éliez poète.

JEAN, il sort de la salle de bains: Brrr. .. Il barrit de nouveau.

BÉRENGER: Je vous connais lrop bien pour croire que c’est là volre pensée profonde. Car, vous le savez aussi bien que mo~ l’homme…

JEAN, l’interrompant: L’homme… Ne prononcez plus ce motI HÉRENGEH: Je veux dire l’etre humain, l’humanisme…

JEAN: L’humanisme est. périrné! Vous éles un vieux sentimental

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ridicule. Il entre dans la salle de bains. ÉRENGER: EnJìn, tout dc meme, l’esprit…

JEAN, dans la salle dc bains: Des Clichés! Vous me mcontez cles betL’ies!

HÉRENGER: Des betL’ies!

J E A N , d e l a s a l l e d c b a i n s , d ’ u n e v o i x t r è s rauque dilTicilement compréhensible: Absolument.

HÉRENGEH: Je suL‘i élonné de vous entendre dire cela, mon cherJean! Perdez-vous la let.e? Enfìn. aimeriez-vous elre rhinocéros?

JEAN: Pourquoi pas! Je n’ai pas vos préjugés.

( 6 ) M . E s s l i n , L e t h é à t . r e d e l ’ a b s u r d e , P a r i s , Buchet/Chastel. 1963.

(7) «Tout son théiìtre est une exploration de l’inconscicnt, conçu comme la surce de la pensée et de l’action, et, en meme temps, commc la realité psychique commune à tous les individus» (C. Abastado, Ionesco, l’ans, Bordas, 1971, pa~.

246).

(8) E. lonesco, in “Théatre complet”, cit., pag. 465: «Le théatre est, pour moi, la projection sur scene du monde du dedans: c’est dans mes reves, dans mes angoisses, dans mes désirs obscurs, dans mes contradictions interieures que, pour ma part, je me réserve le droit de prendre cette matière théatrale ‘.

(9) lvi, pag. 741:

-MARGHERlTE: Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible ‘.

(lO) Iv~ pago 741:

« MARGI IERITE: C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules.) lls n’om que ça à la bouche et la larrne à l’oea. Quelles moeurs! -.

(lI) C. Bonnefoy, Emratiens avec Ionesco, Paris, Bclfond, 1966, pago 90: « Je suls parti d’une angolsse… Cette angoisse était trés simple, trés claire. Elle a été ressentie d’une façon molns irrationelle, moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de la conscience […]. Je venais d’ctre malade et j’avais eu très peur ‘.

(12) G. Dumar, Frère, a.raut mourir- Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Obsevateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103. morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio. ma fa pensare nei suoi ultimi

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scritti (“La quete intennittente”. “Maximilien Kolbe”) a una concezione più rasserenante della vita.

(13) M. C. Hubcrt, Eugène Ionesco, l’aris, Seui\, 1990. Pago 260: • Ce qui se passe dans In Vase, c’est ce qui se passe dans la vie, dans notre viCo Nous avons l’impression – c’est un blasfèmel – que Dicu a une volonté d’involution. Pour moi, je trouve qu’il est tout à fait illogique, non nature!, anormal, pathologique qu’au lieu dc nous épanouir, à mesurc qUe nous avançons dans l’age, nous nous dégradions. La vie devrait étre un épanouissement, une évolution favorable et non pas une involution ‘.

(14) E. Ionesco, in “Théatre complet”, cit., pag.lD48: • MAC13E1T: La voilà toute neuve. (Il remet san épée dans le fourreau, boit la cruchc dc vin, tandis quc l’ordonnancc sort de scéne par la gauche.) Non, pas de remords, puisque c’était cles traitres. Je n’aifait qu’obéir aux ordres de mon souverain. Service commandé. (l’osant la cruche:) Très bon, ce vino Je ne ressens plus

(15) Cfr. nota 8, pag. 12.

(16) E. Ioncsco, Notes et contre-nDles, cit., pag. 197.

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 8-14.

Il profumo della vita e altro

Dino D’Erice, pseudonimo di Dino Grammatico, politico e pubblicista, fondatore di numerose riviste, scrittore di storia regionale siciliana, poeta.

Pubblichiamo dall’ultimo suo libro, Il verde sulle pietre, alcune poesie in cui è facile cogliere i temi cari a Dino D’Erice, riconducibili tutti all’amore per la vita, che è sacrificio, lavoro, tradizione, terra (specie quando si tratta

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della sua Sicilia), ricordo.

Dino D’Erice, col saputo dosaggio del verso che gli è proprio, partecipa al lettore questa ricchezza di sentimenti e lo apre all’ascolto di ciò che si porta dentro, in un momento in cui tutto sa di frenetico e di passiva accettazione nel nome del più deleterio conformismo.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 44.

Il mio paese

Sono nato in un paese di cui conservo solo il ricordo. Vi passai la mia infanzia, e me ne allontanai quando cominciai a guardarmi attorno, scoprendo il mondo con occhi non più bambini.

Cosa potrei allora dire del mio paese, se non quello che mi porto dentro e mi appartiene?

Sorge su un’altura e guarda il mare. Una volta, dalle parti più alte, ad occhio nudo si saranno viste entrare nelle rade le navi pirata ammainanti bandiera bianca, ché non credo i pirati abbiano usato qui le scimitarre o i tromboni.

A strapiombo sul mare sorgeva il castello fatto costruire nel 1358 da Federico III Chiaramonte, conte di Modica, a cui questa terra apparteneva. Un maniero imprendibile, utilizzato come deposito di grano e roccaforte in caso di emergenza. Il visitatore l’avrebbe potuto ancora ammirare, se il tempo, le incurie e l’ignoranza degli uomini (queste ultime superano di gran lunga il primo nella loro opera di distruzione) non

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l’avessero reso un immenso cumulo di macerie, utile ricovero per i delinquenti o, nel casocmigliore, improvvisato ovile.

Ricordo che il maestro delle elementari – un uomo di mezza età, serio, poco colloquiale con noi ragazzi, ma umanamente buono (anche a volerlo citare, non ricordo il nome) – parlando delle origini del mio paese, diceva che sul posto dove venne fondato sorgevano tante palme e da esse prese il nome.

Contadini robusti, armati di accette, asce e picconi, vennero dalle vicine terre di Licata, e ci fu lavoro per tutti e per diverse stagioni. A testimoniare ciò quella brava gente lasciò una palma che, a sfida del tempo radicalmente mutato e degli uomini. resistendo, ancora svetta in cìelo i suoi rami, sicuro riparo dei passerotti. Vanno lì nella bella stagione a nidificare.

Contadini d’una volta su cui si poteva contare, e con pochi grilli per la testa, che tramandavano ai figli i lavori, ed erano gratificati e edificati dai loro signori, ché non credo ci siano paesi che vantano santi, beati e uomini di chiesa quanti il mio.

A fondare il mio paese furono due gemelli, Carlo e Giulio Tomasi, due sant’uomini all’antica che avevano a cuore il bene degli altri e praticavano le virtù come massime di vita a cui sempre bisogna guardare se si vuole la misericordia divina dalla nostra parte. Sta di fatto che Carlo rinunciò di lì a poco al ducato per vestire l’abito talare, e divenne teologo e servo di Dio. Al posto suo subentrò il fratello Giulio, II duca di Palma e I principe di Lampedusa. Carlo lasciò che il fratello continuasse la sua opera e che Giulio sposasse persino la sua ex fidanzata, Rosalia Traina, baronessa di Torretta e di Falconieri.

Il mio paese allora doveva essere costituito da poche casupole di coloni che sorgevano attorno al palazzo ducale. Ma ben presto Giulio Tomasi si diede alla costruzione di chiese e

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monasteri, seguendo i consigli che gli venivano da più parti.

Innanzitutto quelli del fratello Carlo che, dal monastero dei padri teatini di Palermo, dove s’era rinchiuso, insisteva perché si adoperasse a fare del bene al prossimo e, con opere più che con parole, tenesse viva la fede evangelica tra la gente. E poi quelli della moglie, Rosalia Traina, che di lì a qualche anno si sarebbe fatta suora.

Giulio I Tomasi di Lampedusa finì per cedere il palazzo ducale che divenne monastero benedettino e se ne fece costruire un altro dove passò i suoi giorni nella preghiera e in opere di bene.

Il duca santo – così da allora cominciarono a chiamarlo – era un uomo tutto cuore che non si faceva sfuggire la pratica della carità che, anzi, programmava e curava di

persona, vestendo gli ignudi e sfamando gli affamati. Anche lui si era votato interamente a Dio, dopo che aveva visto farsi monache le quattro figlie e la moglie, da cui consensualmente nel 1661 si era diviso, volendo «vivere in celibato per il rimanente della loro vita».

Da una famiglia così pia e serafica chiunque si sarebbe aspettato un santo, e il santo c’è stato nella persona di Giuseppe Maria (nato nel 1649), figlio del duca Giulio e della baronessa Rosalia Traina.

Seguendo le orme dello zio Carlo, Giuseppe Maria Tomasi abbandonò ogni cosa e si fece religioso, entrando nel monastero dei padri teatini, a Palermo. E di qui a qualche anno andò a Roma per continuare gli studi di filosofia e teologia.

Chi volesse rendergli visita, trovandosi a Roma, può portarsi nella chiesa di S. Andrea della Valle. Qui in una cappelletta della fiancata destra riposano i suoi resti mortali.

Non saprei descrivere quale fu la mia impressione andando la

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prima volta a rendere omaggio ad un si grande concittadino. So soltanto che sembrava come chi, dormendo, è in balia di un piacevole sogno, e la sua espressione è serena, soffusa di gioiosa dolcezza.

A volte mi chiedo dove siano andati a finire la santità e il timore di Dio degli antichi miei concittadini, ora che il paese è noto e conosciuto esclusivamente per i fatti e i misfatti che vi succedono. Chissà, forse per una rivalsa delle forze demoniache che nei tempi passati non avevano mai avuto il sopravvento o, forse. per la confusione che nella gente c’è tra ciò che è bene e ciò che è male. Ma, intanto, spesso si sconfessa la ragione e si rifiutano certe norme del vivere civile.

Il paese della mia infanzia differisce di molto dall’odierno

«Comune d’Europa», come recita la scritta turistica postavi all’entrata. Ora non lo riconosco più, e mi sento un estraneo tutte le volte che vi ritorno. Certo, lo starne lontano ha influito parecchio. Le cose vengono guardate da angolature diverse, e l’uomo è portato a elaborarle criticamente e a confrontarsi con gli altri, uscendo dal suo piccolo e curando i contatti, indispensabili in una società in continuo cammino come la nostra. Aumentate le sollecitazioni, crescono gli interessi e, vuoi o no, sei portato ad arricchirti culturalmente. Al contrario, quando non ci sono stimoli, tutto rimane fermo, e non c’è niente che contribuisca a farti uscire dal chiuso in cui ti sei cacciato, e vi rimani come farfalla che non sa allontanarsi da una lampadina accesa.

Eppure qualcosa è cambiata al mio paese. C’è il passeggio, e dal primo pomeriggio fino a sera, una marea di giovani attraversa in lungo e in largo corso G. B. Odierna. Certo, l’evoluzione arriva anche qui, dove in passato bisognava stare attenti a guardare una donna. Subito veniva chiamato in causa l’onore e allora scattavano i ragionamenti chiarificatori e le scuse. Altri tempi, quando, per lo meno, si chiacchierava e tutto finiva lì, bevendo del buon vino sopra i discorsi che si

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protraevano fino a notte. Ora che il progresso ha mandato in soffitta l’onore, non c’è motivo alcuno di ragionare. E chi sbaglia. paga, perché la giustizia. al mio paese, non sta (nemmeno a parole) nei tribunali.

Il progresso ne ha fatta di strada! Ci sono al mio paese le vigili, e si fanno sentire, coi loro fischietti, anche se nessuno le tiene in considerazione. E, per chi viene da fuori, è un rischio guidare. Gli stop, i divieti, i sensi unici non sono rispettati, e chiunque ha dalla parte sua la ragione.

Ricordo che in uno dei miei sporadici ritorni. dettati più che altro da dovere filiale, una persona, solo perché non le diedi la precedenza, avendo la mia destra libera, mi guardò con due occhioni così brutti che, a pensarci, mi incutono ancora paura.

C’è il passeggio, ci sono le vigili e ci sono anche i lunghi cortei funebri, occasioni di ritrovo e di chiacchiere che niente hanno da spartire col morto. Ma non c’è una biblioteca pubblica, e manca anche l’ospedale. D’altronde, come si può pretendere di elevare lo spirito, se non c’è la possibilità di curare il corpo?

I ricordi dell’infanzia mi legano al mio paese, e niente esercita in me una così forte attrazione come i luoghi e le persone che, andandomene, vi lasciai.

Persone che non ci sono più restano ferme e vive nella mia memoria, e i luoghi che mi videro bambino mi richiamano con prepotenza, quasi come dire: «Ecco, siamo ancora qui, nonostante. Nonostante le caotiche costruzioni che ci stringono sempre più e ci rendono irriconoscibili, siamo noi, il tuo mondo d’una volta! Vieni, soffermati un po’ con noi:

Via Turati, Convento, Badia, piazza S. Angelo . . . Adesso è come se non ci fossero più bambini, attratti più che mai dalla televisione. Vieni, e resta un po’ con noi».

Eppure mi sento un estraneo, ogni qualvolta tomo al mio paese.

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Quando provo a passare per queste strade e a sostare in queste piazze, è come se non ci fossi mai stato. La gente mi prende di mira, e mi scruta, considerandomi un intruso. Ma quelle piazze e quelle strade mi appartengono e sono là a dire che furono la mia seconda casa e il mio mondo.

Piazza S. Angelo era il ritrovo dei ragazzini di tutto il quartiere. Qui passavamo tutti i giuochi in rassegna, secondo il tempo e la stagione e, come una moda, duravano poco, perché soppiantati da altri. Ma alcuni rimanevano sempre alla ribalta: quello della mosca cieca, dei coy-boy e gli indiani, del nascondino. Ce n’erano altri particolarmente singolari.

Uno consisteva nel catturare più api possibile e liberarle dopo aver attaccato loro un lungo filo alle zampe posteriori.

Chi riusciva a farne volare di più risultava vincitore.

Nelle giornate d’inverno, quando pioveva o l’insistenza del vento non permetteva di stare molto all’aperto. trovavamo riparo in qualche androne, dove – come in un calderone sul fuoco – si raccontava di tutto. Si rientrava in casa a buio inoltrato, dopo che le madri ad uno ad uno chiamavano i propri figli.

Non dimenticherò mai, tra i personaggi di pubblica conoscenza, Sarvaturi. Non so perché lo chiamassero così. anziché Turiddu o Totò, come di solito viene chiamato Salvatore. Era il banditore del mio paese, il giornale cittadino parlante, il divulgatore delle ordinanze municipali o degli avvisi che le autorità davano alla cittadinanza. Sarvaturi, con tamburo e cappello di pubblico ufficiale, si faceva il giro del paese, annunciandosi prima a colpi di grancassa e poi gridando il bando ai quattro venti, in un dialetto infarcito qua e là di vocaboli italianizzati.

Il rullo del tamburo era il richiamo di noi ragazzi che scendevamo subito in campo e, con tutto ciò che poteva servire a far rumore, improvvisavamo un coro. E seguivamo Sarvaturi per tutto il quartiere, fino a quando, stanchi di gridare, non

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tornavamo ciascuno nel posto da dove eravamo venuti.

Sarvaturi era un uomo sui generis: bonaccione, facile allo scherzo ma pronto a montare su tutte le furie! Ed erano guai.

Dovevi dartela subito a gambe, se non volevi buscarti una sassata in testa. Per questo, lo accompagnavamo coi nostri tamburi improvvisati, ma poi dovevamo ascoltarlo in silenzio, se volevamo tenercelo buono.

Spesso Sarvaturi prestava la sua opera a privati che, avendo smarrito un porco, una capra o un tacchino, ricorrevano a lui perché, rendendo pubblico lo smarrimento, qualcuno si facesse avanti e restituisse al padrone l’animale. In cambio era previsto un premio per chi l’avesse trovato, a parte la tariffa prevista per il banditore che, in ogni caso, veniva pagato.

Non ho saputo più niente di Sarvaturi, e non so quale fine abbia fatto. Proverò a chiedere notizie e. state certi, ve ne parlerò qualche altra volta.

È curioso il mio paese. non è vero?

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 33-37

I Sei personaggi in cerca d’autore

Il decennio 1920-1930 segna un periodo fruttuoso del teatro pirandelliano, non tanto per la produzione che è ricca di per sé (dall’esordio poetico del 1889 all’anno della morte,

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avvenuta il 10 dicembre del 1936 a Roma, mentre era intento a completare il mito dei Giganti della montagna), quanto ai risultati a cui perviene.

Mi riferisco alle innovazioni teatrali, compendiate nella trilogia del «teatro nel teatro -, molto interessante sia per i contenuti che per la drammaturgia, destinata, a sua volta, a svecchiare – come dicevo altrove – il teatro in genere che, da ora in poi, si fa portatore delle istanze vive e pressanti dell’uomo del XX secolo, più attento al suo io profondo e non per questo meno insidiato e travagliato dalla quotidianità della vita.

Il teatro, con Pirandello, comincia a interessarsi, quindi, dell’uomo nel senso pieno della parola, coinvolgendo, così, un pubblico più vasto, e più che coprire il tempo libero dei suoi assidui frequentatori, rappresentando i fatti della vita, ora affronta problemi che ognuno si era posto e su cui, però, non si era soffermato abbastanza per la complessità che essi p r e s e n t a n o o , m a g a r i , p u r t e n e n d o l i n e l l a d o v u t a considerazione, gelosamente fa proprie le conclusioni, non ritenendo di esternare agli altri quelle che sono solo sue convinzioni, anche perché la vita di società non può non esigere determinati comportamenti ben consolidati e difficili da demolire.

Pirandello baserà la sua ricerca su un doppio binario: da una parte, sull’introspezione psicologica (con la messa in dubbio di certe acquisizioni), dall’altra, sull’esigenza di aprire nuove vie allo stesso teatro, continuamente mortificato dalla rappresentazione falsificata della realtà. Per forza di cose, ne deriva che questo di Pirandello è un teatro che dà molto spazio alla dialettica, perché, appunto, c’è da parte del nostro autore lo sforzo di portare sulle scene il travaglio esistenziale dell’uomo del suo tempo, e non solo del suo.

Questo modo di fare e di intendere il teatro rientra nel cosiddetto pirandellismo, caricandolo di significato negativo, come dire, cerebrale, aberrante, qualcosa di poco chiaro.

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Certo, gli spettatori e i critici di allora si trovarono in gran difficoltà, non abituati, com’erano, alle innovazioni a cui stavano per essere sottoposti: ma, a distanza di più di mezzo secolo, e dopo gli ismi che hanno messo tutto in discussione e l’utilizzo dei più sofisticati congegni elettronici anche nel campo teatrale, non è più quello l’effetto, e la cosa non fa più impressione.

Pirandello è l’anticipatore e l’iniziatore del teatro contemporaneo. Egli non rappresenta la realtà, perché intende il teatro come finzione, illusione, cioè (ingrandita dall’immaginazione e dalla fantasia), della realtà che ognuno si porta dentro e che vuole venga rappresentata così com’è.

Per questo motivo sia Il Padre che La Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore pretenderanno che siano essi stessi, e non gli altri, a rappresentare il loro dramma per timore di vederlo travisato. E in questo c’è la preoccupazione di Pirandello, e di ogni altro autore, che la sua opera venga male interpretata. Anche perché, in teatro, la realtà fantastica si carica di vita e diviene più vera e reale, in quanto è «realtà immutabile», mentre quella della vita è cangiante e soggetta a diventare illusione. Un esempio Pirandello lo porta nel saggio su L’umorismo, quando fa riferimento a don Abbondio e a Don Quijote. Questi due personaggi, creati dalla fantasia, continueranno a vivere eterna la loro vita, mentre i loro rispettivi autori sono destinati a vivere sempre nell’ombra(l).

Il rapporto arte e vita, attori e personaggi, attori e pubblico, è il motivo che sta alla base della trilogia del

«teatro nel teatro», che include Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1923) e Questa sera si recita a soggetto (1929).

Pirandello, nella Premessa al I vol. di Tutto il teatro (Milano, Mondadori, 1933), scrive: «Ciascuno dei tre lavori raccolti in questo I volume del mio teatro rappresenta personaggi, casi, e passioni che gli son proprii e che non han

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nulla perciò da vedere con quelli dell’altro; ma tutti e tre uniti, quantunque diversissimi, formano come una «trilogia del teatro nel teatro», non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto».

• •

Sei personaggi in cerca d’autore è del 1921 e fu rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma, con la regia di

Dario Niccodemi, il 10 maggio dello stesso anno. Fu un insuccesso, con pubblico e critica disorientati. L’autore dovette aspettare la rappresentazione del 27 settembre, al

Teatro Manzoni di Milano, per cogliere il suo meritato successo.

Sulle prime, le reazioni del pubblico non potevano essere positive: non era abituato ad assistere a una messa in scena – evidentemente in apparenza – disordinata e caotica e, entrando, non poteva non rimanere deluso dinanzi a un palcoscenico in allestimento.

Alcuni attori stanno provando Il giuoco delle parti di Pirandello, quando entrano, uno accanto all’altro, Sei personaggi che chiedono di vedere rappresentato il loro dramma. Sono il Padre, la Madre, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina e il Figlio, che rispettivamente impersonano il

“rimorso”, il “dolore”, la “vendetta”, lo “smarrimento”, la

“tenerezza”, lo “sdegno”. Il Giovinetto e la Bambina sono realizzati solo come presenze, il Padre, la Figliastra e il Figlio come spirito, la Madre come natura.

Tra lo sbalordimento del Capocomico e le contrastanti reazioni

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degli attori, il Padre, a nome di tutti, espone il motivo della loro venuta. «Nati vivi» dalla fantasia del loro autore, che poi si rifiutò di immetterli nel mondo dell’arte, essi sono lì in cerca di un autore che li faccia propri e li rappresenti. Non chiedono altro, anche perché una volta creati h a n n o d i r i t t o a v i v e r e e n e s s u n o p u ò l o r o n e g a r e l’esistenza(2).

Il Capocomico è riluttante, ma l’insistenza del Padre e gli interventi della Figliastra, che fanno intravedere il dramma, lo spingono ad accettare e a ritirarsi coi Personaggi nel suo camerino, interrompendo così le prove e lasciando liberi gli attori.

Il primo tempo si conclude qui. Il palcoscenico resta vuoto, perché gli attori, meravigliati e anche risentiti per la decisione del Capocomico, usciranno a poco a poco tutti di scena.

Qual è il dramma intravisto e ritenuto interessante ai fini di una rappresentazione?

Un uomo, sposato con una donna di umili natali, un po’ per l’incomprensione che c’è tra i due, un po’ per una relazione tra la moglie e il suo segretario, che viene allontanato dal lavoro, non potendo più sopportare lo stato di pena in cui la donna si abbandona, dopo avere dato in balia il figlioletto, la costringe ad andare da quello. Ciò nonostante s’interessa di loro, segue e vede crescere la bambina nata da quella unione (la Figliastra), ma poi ne perderà le tracce, perché la famigliola, per sfuggire agli occhi indiscreti di lui, andrà ad abitare in un altro paese, e non saprà più niente fino a quando, morto il secondo marito, non se li vedrà tutt’e quattro, dato che nel frattempo erano nati altri due figli.

L’incontro sarà fortuito. Nella casa d’appuntamento di Madama Pace, il Padre, senza saperlo e all’ultimo momento, per intervento della Madre, viene a conoscere chi fosse veramente

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la ragazza con cui stava per andare a letto.

La miseria aveva spinto la Madre a lavorare per conto di Madama Pace che, sfruttando la situazione e, all’insaputa della Madre, lamentandosi del lavoro fatto male, garantiva alla Figlia la normale retribuzione, a patto che si prostituisse. E costei aveva accettato per amore della Madre.

La Figliastra, considerando l’uomo l’artefice dei mali della sua famiglia, sfrutta la nuova occasione, e gli chiede continuamente soldi, malvista dal Figlio, ora tornato a vivere col Padre. Ma l’uomo, impietositosi, accoglie in casa la Madre e gli altri figli.

Il Figlio si fa sempre più scontroso, ostinandosi a non riconoscere quella donna che lo aveva allontanato ancora bambino, mentre la Madre s’adopera per distoglierlo da un tale accanimento.

Ma un giorno, mentre lei è in camera del Figlio per attirarlo a sé, la Bambina annega in una vasca e il Giovinetto, avendo già meditato il suicidio, a quella vista, non superando l’angoscia, si uccide con un colpo di pistola. La Figliastra, non potendo in nessun modo perdonare il Figlio, e ritenendo insopportabile, dopo la duplice sciagura, vivere sotto lo stesso tetto di chi odia fortemente, «prenderà il volo», andandosene via di casa.

Questo è, in sintesi, il dramma che i Personaggi si portano dentro ed è questo che vogliono rappresentare. Il secondo tempo è incentrato nel tentativo di questa rappresentazione.

Solo tentativo, però, perché suddivise le scene e attribuite le parti agli attori, i Personaggi non si riconoscono in essi, reali ma non veri, e insistono che siano loro stessi a rappresentare il dramma, senza niente togliere al lavoro degli attori(3). Ne viene fuori una serie di botte e risposte, finché il

Capocomico non richiami tutti al silenzio e alla prosecuzione

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della commedia con la scena di come siano andate le cose in casa di Madama Pace, un personaggio evocato dalla fantasia, di c u i P i r a n d e l l o a n d r à o r g o g l i o s o n e l l a P r e f a z i o n e chiarificatrice, pubblicata nell’edizione mondadoriana del 1925(4). Rivivere quella scena sarà una gran sofferenza per tutti, e spasimo per la Madre che, angosciata, rifarà lo stesso grido di allora, veramente soffrendo il dolore che impersona. Anche qui ognuno dei Personaggi tende a mettere in risalto il proprio sentimento, e tutti si troveranno d’accordo n e l r i c o n o s c e r e n e g l i a t t o r i l ’ i m p o s s i b i l i t à d i rappresentarli.

Il dramma è ormai ben delineato e il Capocomico può ritenersi soddisfatto, tanto che griderà «Sipario! Sipario!», per dire che fissa a questo punto la fine del primo atto, ma è frainteso dal macchinista che calerà subito il sipario.

Pirandello, facendolo passare per un errore, chiude così il secondo tempo. È una delle tante trovate a cui ricorre per non fare pesare troppo il suo teatro che già si era distaccato molto da quello tradizionale. Comunque, è una novità che allora lasciava disorientato il pubblico e che veniva considerata virtuosismo scenico piuttosto che apertura a qualcosa di nuovo e di originale.

Il terzo tempo della commedia vede rappresentato nella sua interezza il dramma dei Sei personaggi che, sebbene delineatosi, era stato semplicemente intravisto. È concertato, però, col Capocomico che le scene vengano raggruppate, sicché, dopo una digressione, a proposito della parola illusione che, s e p e r i l C a p o c o m i c o e p e r g l i A t t o r i n o n è c h e l a rappresentazione della realtà, per i Personaggi è l’unica realtà, e per questo, immutabile, si passa a creare l’ambiente (di sera, un giardino con una piccola vasca da una parte, dove si vedranno la Bambina e la Figliastra, mentre il Giovinetto se ne sta in disparte, vicino allo spezzato d’alberi, dall’altra parte i rimanenti Personaggi e gli Attori) e l’interesse cade sulla scena della Madre con il Figlio, il

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quale, però, si ostina a non volerla fare, sia perché lui non ha fatto alcuna scena, sia perché rimarrà fedele alla volontà dell’autore che così ha voluto. Dietro insistenza del Padre, che vorrebbe costringerlo con la forza, e del Capocomico, il Figlio narra ciò che è avvenuto, passando dal registro dialogico a quello narrativo. E riferisce che, non volendo colloquiare con la Madre, uscito fuori dalla stanza, si accorge che la Bambina era annegata dinanzi agli occhi stupefatti del Giovinetto che, nella disperazione della sua solitudine, si uccide quasi all’istante con una pistola che si era procurata.

Nel trambusto di chi grida: «Finzione», e di altri, come il Padre («Ma che finzione! Realtà, realtà signori! Realtà!»), che la considerano realtà, il Capocomico grida al Macchinista di accendere le luci.

Una storia triste, piccolo-borghese, come tante altre che erano state rappresentate, non interessante fino al punto da essere portata anch’essa sulle scene. Pirandello se n’era reso conto ed è per questo che lascia in abbozzo il dramma, preferendo scrivere solo la commedia dei Sei personaggi che lo vivono ciascuno a suo modo e col proprio sentimento.

La riuscita dei Sei personaggi in cerca d’autore non è tanto nella narrazione- rappresentazione del dramma, quanto nel sentimento che i personaggi vi infondono, vivendolo, sulla scena. La novità, a parte quella drammaturgica, sta qui ed è qui la sua importanza artistica. Finora si era rappresentato ciò che sta alla superficie della vita, l’apparenza della realtà, quale essa sembra (ed è quello che il Nostro si è rifiutato di rappresentare), ma con i Sei personaggi è la realtà stessa che viene alla ribalta, perché i suoi personaggi sono essi stessi la realtà, quella realtà che ciascuno di essi si porta dentro e li rende impazienti(5).

IL PADRE – Prostrato, ma nel pieno del suo vigore, si difende e al tempo stesso confessa la sua debolezza, appellandosi al

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