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Terzo mondo e ragion di stato di Luce Fabbri

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Academic year: 2022

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rivista anarchica anno 16 nr. 136 aprile 1986

Terzo mondo e ragion di stato

di Luce Fabbri

La politica di difesa del potere in quanto tale, cioè la ragion di stato, è un fattore permanente di distorsione della storia. Con questa tesi il socialista elvetico Jean Ziegler ha scritto un libro quasi anarchico. Una nuova ottica nell'affrontare la questione del Terzo Mondo.

È uscito recentemente, in Francia, un libro di grande

importanza, che, se avrà l'eco ch'io credo che meriti, dovrebbe spostare di 180° l'angolo visuale della storiografia del secolo XX, tutta imperniata, indipendentemente dal colore politico degli autori, sui rapporti di produzione. Si tratta di uno studio sistematico della storia del movimento operaio e del socialismo dal punto di vista dei loro rapporti con la ragion di Stato. L'autore è un ginevrino che ha già al suo attivo molti libri di sociologia e alcuni studi importanti sul cosiddetto Terzo Mondo e specialmente sull'Africa. Si chiama Jean Ziegler e il libro a cui mi riferisco ha il titolo significativo di Vive le pouvoir! (Editions du Seuil, Paris, Novembre 1985).

Scritto da un socialista ch'è stato 16 anni deputato di Ginevra al Parlamento della Confederazione Elvetica, e che rimpiange i tempi in cui la Seconda lnternazionale era veramente un organismo basato sulla solidarietà, questo libro è, nelle sue conclusioni - lo voglia o no l'autore - un libro anarchico.

Comincia col situarsi in diametrale antitesi con quello di Régis Debray (in quel momento consigliere di Mitterand), La puissance et les rèves (Paris, Gallimard, 1984) che, dichiarando inoperanti la solidarietà internazionale, il disarmo,

l'arbitraggio, presenta come unica via di salvezza un

nazionalismo rigido, fondato "realisticamente" sulla ragion di Stato.

Per Ziegler, invece, la ragion di Stato, cioè la politica di difesa del potere in quanto tale, indipendentemente dalla classe sociale ai cui interessi obbedisce il governo di turno, è fattore permanente di distorsione della storia: si basa sul

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mantenimento della disuguaglianza e sul regime economico della scarsità quando nel mondo ci sarebbe da mangiare per tutti (e questo è vero tanto in regime di capitalismo privato quanto in quello di capitalismo statale). E le cose s'aggravano:

"i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri" (p. 18). "Tanto le democrazie occidentali quanto gli stati totalitari dell'Est si nutrono del sangue dei popoli poveri.

Praticano il genocidio per indifferenza" (p. 19).

La potenza dello Stato si basa dappertutto su un consenso che aumenta in proporzione diretta dell'accrescersi

dell'insicurezza di fronte alla minaccia della guerra atomica e dell'inquinamento (che l'autore chiama la "vetrificazione del pianeta").

Il movimento operaio, il socialismo, che nel secolo scorso e in parte di questo, fino al 1920, opponevano alla ragion di Stato le ragioni della solidarietà fra gli oppressi, oggi, da questo punto di vista, sono in agonia.

Nelle democrazie occidentali, la parola "socialismo" è tabù.

Tutti i mesi, il primo ministro del governo socialista francese si rivolge ai suoi concittadini attraverso una trasmissione televisiva che ha per titolo "Parlons France". Sua

preoccupazione principale: non pronunciare a nessun prezzo la parola "socialismo"! (...) il partito socialdemocratico tedesco (SPD) ha condotto la sua ultima campagna elettorale

nazionale sul tema unico: "Più libertà"; la parola aborrita,

"socialismo", non ha figurato in nessun manifesto. Ottobre 1985: elezioni parlamentari a Ginevra. Slogan scelto dai socialisti: "Viva Ginevra!" (p. 25).

L'autore ripone ora tutte le sue speranze nei movimenti di liberazione del Terzo Mondo, ch'egli conosce, sembrerebbe, piuttosto da una prospettiva africana... Sulle sue affermazioni riguardanti l'America Latina ci sarebbe molto da dire. Ma lasciamo per la fine l'esame delle ombre di questo libro così luminoso.

Il banco di prova del socialismo dei socialisti europei è la questione coloniale. E il socialismo non supera la prova:

quand'era lontano dal potere ha combattuto il colonialismo sul piano della solidarietà popolare; ora ch'è al governo in vari paesi, non si oppone al neocolonialismo e si sente

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solidale con le rispettive classi borghesi per uno sfruttamento a distanza su scala nazionale.

L'autore racconta una sua visita, fatta nel 1984, al piccolo poverissimo stato africano di Burkina-Faso (Alto Volta), francofono. I socialisti locali, nel 1981, avevano esultato alla notizia della vittoria di Mitterand: erano sicuri che il

socialismo al potere avrebbe "smantellato l'apparato locale dei servizi segreti francesi che, nella maggior parte dell'Africa francofona mantiene al potere gli uomini più corrotti. Il governo di sinistra avrebbe modificato gli accordi militari, abolito il patto coloniale, fatto aprire le prigioni" (p.29). Tutte queste speranze erano state profondamente deluse.

Quando l'autore ha riportato a Parigi la protesta dei dirigenti socialisti di Burkina, ha ricevuto dai funzionari del Ministero degli Esteri la risposta che il piano di ricostruzione nazionale dei socialisti di quel piccolo stato era eccellente, ma che la Francia non poteva appoggiarlo per l'opposizione del presidente della Costa d'Avorio e di quello di Gabon, due degli uomini più corrotti dell'Africa francofona, ma preziosissimi alleati della politica estera francese in quel continente, specialmente nel campo economico. Quando uno di quei socialisti andrà a Parigi per avere spiegazioni, non otterrà udienza.

"Portatore alle sue origini d'immense speranze di liberazione dell'uomo, il movimento operaio europeo è divenuto,

attraverso la sua graduale sottomissione alla ragion di Stato (e il suo proprio egoismo corporativo), il più sicuro appoggio del progetto imperialista e uno dei nemici più feroci dei popoli del terzo mondo".

"La chiusura reciproca, oggi, dei due movimenti sociali più potenti del nostro XX secolo, il movimento d'emancipazione dei popoli asserviti del terzo mondo e il movimento operaio degli stati industriali, si traduce in una doppia catastrofe: il lento riassorbimento della forza rivoluzionaria del

movimento operaio da parte della ragion di Stato nei paesi industriali, e il frazionamento fino alla liquidazione del potente movimento d'emancipazione in altrettante

rivendicazioni nazionaliste particolari. Oggi, la periferia del mondo industriale è costellata d'una moltitudine di Stati, spesso d'estrema fragilità, incapaci di rompere la divisione internazionale del lavoro, il patto coloniale e le leggi del saccheggio internazionale che annullano le loro ricchezze e

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distruggono la vita dei loro popoli. Al centro, la coscienza della solidarietà fra tutti gli oppressi della terra di cui il movimento operaio era portatore è stata assorbita, aspirata, ingoiata dalla ragion di Stato. E questa ragion di Stato è una ragione nazionale, imperialista, brutale e cinica" (p . 32).

Tutto il libro è la documentazione particolareggiata,

diacronica e sincronica, di questa visione d'insieme. L'autore conosce bene, dal di dentro, la storia del socialismo francese, di quello tedesco e svizzero, la storia dell'Africa in questo secolo. L'analisi del riassorbimento dell'esperienza di

Mitterand da parte dell'apparato statale francese è potente ed è seguita da un lungo sguardo retrospettivo sui movimenti d'emancipazione del secolo scorso a partire dalla Grande Rivoluzione.

L'originalità del libro sta, tra l'altro, nell'importanza che dà al problema coloniale nella storia del movimento operaio.

L'esame delle discussioni che precedettero le decisioni anti- imperialiste al congresso di Stuttgart del 1907 è

interessantissimo.

La prima frattura dell'internazionalismo socialista si produsse quando scoppiò, nel 1914, la prima guerra mondiale e i

socialisti francesi e tedeschi, che sembravano pronti a scatenare lo sciopero generale per impedire il conflitto,

quando questo venne dichiarato, furono presi dall'ubriacatura nazionalista e appoggiarono i loro rispettivi governi. Le

conseguenze di questa presa di posizione furono gravissime e l'autore le analizza con acume, specialmente sul terreno coloniale.

A partire da qui, secondo me, il valore del libro diminuisce, per un errore di impostazione, ovvio per dei libertari, legato alla posizione ideologica dell'autore. Parlando della

rivoluzione russa e tutto pieno di simpatia per Lenin, egli fa cominciare la controrivoluzione, il dominio della ragion di Stato in Russia con la morte di quest'ultimo e il governo di Stalin. Di conseguenza attribuisce una grande importanza alla perdita dell'autonomia della repubblica di Georgia (1921), schiacciata dall'esercito rosso, attribuita all'impossibilità da parte di Lenin di controllare tutto (sarebbe la prima

manifestazione della ragion di Stato in Russia dopo la rivoluzione), e non parla neppure dell'Ucraina né di Kronstadt.

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Allo stesso modo ignora la ragion di stato sovietica in seno alla rivoluzione spagnola e, più tardi, nella rivoluzione cubana, benché consideri una tragedia il totalitarismo staliniano e post-staliniano nei paesi dell'Est. Egli separa stranamente i partiti comunisti in lotta nel cosiddetto Terzo Mondo per "l'emancipazione nazionale" dalla ragion di stato che impera (e lo dimostra) in Russia e nei suoi satelliti dell'Est europeo. C'è qui una gran lacuna da riempire.

Questo di Ziegler è un libro da completare e ne vale la pena.

Vale la pena anche rettificarne gli errori e le inesattezze, giacché è soprattutto prezioso come studio storico di straordinaria densità.

L'errore principale è anche un'ingiustizia. Nel catalogo dei partiti socialisti che si sono lasciati ingoiare dall'impulso di pazzia nazionale collettiva nel 1914 e 1915, Ziegler mette anche il partito socialista italiano, che invece, com'è noto, conservò la sua coerenza ed espulse la corrente interventista capeggiata da Mussolini (vedi pp. 193, 194, 197, 219). Non ha molta importanza che Ziegler faccia di Serrati - di cui racconta una coraggiosa discussione con Lenin - un anarco-sindacalista (p. 234). Invece è necessario fermarsi su quel che dice quando parla dei pochi socialisti che si opposero alla guerra: "un piccolo nucleo di militanti resta fedele alla ragione della solidarietà, grida nella notte, cerca di spezzare il cerchio infernale del fanatismo nazionalista e del massacro fra proletari. Invano.

Questo piccolo gruppo d'uomini e di donne fonderà, finito il gran macello, la Terza lnternazionale operaia" (p. 194). Ora, può essere che i militanti di vari paesi che, in Russia, furono materialmente i fondatori della Terza Internazionale siano stati tutti contrari alla guerra, ma i combattenti per la pace nel 1914-'15 non erano certamente tutti lì né concordi e, d'altra parte, quanti interventisti come Marcel Cachin, fra i primi aderenti alla Terza Internazionale nell'Europa occidentale!

Non bisogna dimenticare che fu Marcel Cachin a portare a Mussolini i danari del governo Francese che gli permisero di fondare l'interventista Popolo d'Italia.

Il libro ritrova nelle conclusioni la forza che anima la sua prima parte.

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"La logica dello Stato è la logica della rivalità, della

regressione, del conflitto; la logica della solidarietà è quella della costruzione in comune, della complementarietà, della reciprocità delle relazioni fra gli uomini. Durante tutto il XIX secolo e una buona parte del XX, il movimento operaio internazionale era all'avanguardia della lotta antistatale (...) Oggi, tale movimento è praticamente scomparso dalla scena internazionale (...) Inserito nella macchina dello Stato,

partecipe della sua gestione, ne riproduce la razionalità (...) Avendo perso la ragione della solidarietà e respinto ogni progetto storico autonomo, non è più un portatore di speranza, di destino, d'un qualsiasi desiderio d'un mondo

"diverso". Praticando ogni giorno un'opaca riproduzione della ragion di Stato, assicura al sistema capitalista mondiale la sua onnipotenza e i suoi profitti" (p. 277).

Prosegue Ziegler sostenendo che, malgrado tutto, i valori che prima erano affidati al movimento operaio non sono caduchi e si trovano ora in mano di piccoli gruppi, d'"utopisti". La ragione solidale, opposta alla ragion di Stato, è oggi "errante".

L'autore l'affida ancora al proletariato. Ci sono, secondo lui, tre proletariati: uno è dato dal terzo Mondo, la cui salvezza dipende dall'alleanza delle sue forze operaie con i movimenti sociali potenti degli stati industriali. C'è poi il sub-proletariato di questi ultimi, gli emarginati, i carcerati, gli esseri d'ombra che non si vedono, il quarto mondo. E poi c'è un terzo

proletariato, più difficile da definire: sono i ribelli che non sopportano più il sistema, che tentano di cambiarlo, che per il momento si sentono schiacciati dalla ragion di stato, dispersi come sono in "gruppuscoli"...

"Il proletario è l'uomo che non ha da perdere altro che le sue catene. Come posso pretendere che un ribelle dello stato democratico e industriale non abbia niente da perdere,

quando tutto il mio libro non fa che enumerare i privilegi che gli procura l'ordine attuale nel mondo? Il proletariato di questo terzo tipo soffre d'una miseria differente da quella che vivono gli esseri del terzo e del quarto mondo(...) Questi dissidenti, proletari del terzo tipo, darebbero tutti i loro privilegi perché questo mondo cambi radicalmente"...

"Il fronte del rifiuto, questo invisibile partito della

rivoluzione, fraternità degli esseri in stato di rottura, riunisce oggi tutti gli uomini, tutte le donne, d'Occidente, d'Oriente, del Sud, del Nord, di qualunque rendita, nazione o razza, che non sopportano più (...) un ordine che presenta come naturali,

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universali e necessarie le ricchezze rapidamente crescenti di qualcuno e il deperimento continuo della maggioranza (...).

Tale dissidenza non tende a prendere il potere, ma a

distruggere ogni potere che uomini esercitano su altri uomini (...) Ogni potere è destinato ad essere vinto: il potere dello Stato; il potere della famiglia; il potere dei padroni; dei capomastri;

dei gerenti innalzati al loro trono da un partito; il potere della scienza, della cultura gerarchica, che gli uni producono e gli altri consumano. Il fronte del rifiuto (...) non produce nessun modello di società ideale. Vuol liberare la libertà nell'uomo, dare il via a una storia umana. In questo ideale non formulato risiede una forza potenziale immensa. Come forza sociale è da costruire. Tale, la nostra missione" (pp. 280-282).

Conclusione troppo ottimista, forse, per un libro

disperatamente pessimista. Il potere non è destinato ad essere vinto. Nemmeno dentro ciascuno di noi è mai vinto del tutto e la lotta contro di lui non si può trascurare neppure un momento senza rischiare d'essere sopraffatti. L'ottimismo - relativo - non può venire da ciò che si prevede succederà, ma dalla nostra volontà di fare e dalla nostra facoltà di

convincimento.

Ci sarebbe, per ultimo, da osservare che, a quel movimento da costruire non mancano precedenti storici che l'avvalorino e che non tutto è da scoprire in quel campo, a cominciare da Proudhon e da Bakunin per arrivare, attraverso la tradizione libertaria spagnola che ha "costruito" qualcosa e non s'è arresa (altro che in un fuggevole momento) alla ragion di stato, fino ai nostri giorni in qui qualcosa è pur rimasto del vecchio movimento anarchico e qualcosa sta maturando nelle correnti non-conformiste "d'alternativa" un po' dappertutto. Ziegler vede solo quest'ultime.

Ma il riconoscimento e la dimostrazione esauriente del carattere centrale di questa lotta necessaria contro il potere costituisce il valore di questo studio onesto, sincero e profondo.

http://www.arivista.org/index.php?nr=136&pag=136_11.html&key=Luce%20Fabbri

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