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ERGASTOLO E MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE

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Academic year: 2021

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Introduzione

A seguito della totale abolizione della pena di morte, l’ergastolo rappresenta la massima pena prevista dal nostro ordinamento. In quanto succedaneo della pena di morte, esso nasce per punire quei delitti considerati talmente gravi, da doverne escludere per sempre dalla società, il colpevole. Posto al vertice della scala edittale penale, in esso si condensano tutte le problematicità e tutte le dispute sul finalismo punitivo che qualsiasi pena si porta dietro. Il tema è affascinante e critico e ha trovato centralità con l’entrata in vigore della nostra Costituzione, che, all’art. 27 3°co, stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Già in sede di Assemblea Costituente il finalismo rieducativo faticò ad essere accolto e a trovare quella formulazione, che oggi conosciamo. E una volta sancito in Costituzione faticò ancora ad affermarsi a livello interpretativo e giurisprudenziale1. Lo stesso fu in un primo momento svilito, interpretato come mera emenda interiore del reo, e come obiettivo confinato al momento successivo e collaterale dell’esecuzione. In questa accezione si poteva giustificare una pena a carattere comunque eliminativo quale l’ergastolo2. Solo successivamente il finalismo rieducativo inizia ad essere valorizzato e concepito come recupero sociale del reo, da perseguire già a partire dalla previsione astratta della pena. Tra ascesa e svilimento dell’ideale rieducativo si colloca l’ergastolo. Esso è pena che può giustificarsi alla luce delle teorie della retribuzione che prendono in considerazione solo il male commesso guardando al passato; può ancora giustificarsi alla luce delle teorie della prevenzione che giustificano la pena in considerazione dell’utilità che può derivarne dall’esecuzione, ma come si giustifica

1Cfr. G. Fiandaca, Commento all'art 27, 3º comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Bologna, Zanichelli, 1991.

2Cfr. sent. Cost. 264 del 1974.

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nell’ottica della rieducazione?

Se per ergastolo si intende una pena destinata realmente a non finire mai, che elimina per sempre il condannato dal consorzio sociale, senza dargli nemmeno la speranza di recuperare, un giorno, la libertà, esso risulta indubbiamente inconciliabile con tale finalità. Ma l’ergastolo ha conosciuto una serie di modifiche, che hanno cambiato il significato della perpetuità, e che lo hanno in qualche modo sempre più avvicinato, quanto a caratteristiche, alle pene temporanee. Questo non vuol dire accreditare il luogo comune secondo cui l’ergastolo, in Italia, non esisterebbe più.

L’ergastolo è una realtà: esso consegue ad una ventina di ipotesi delittuose che si aggiungono a quelle previste dalle leggi militari di guerra e per le quali era prevista, un tempo, la pena di morte. I condannati che stanno espiando questa pena, esistono, e sono oltre 1600 e in generale, nel corso del tempo, si è registrato un aumento del numero di ergastolani più che proporzionale rispetto all’aumento generale della popolazione detenuta3. Dunque parlare di ergastolo, non è affrontare una questione ormai superata.

Anzi il tema è riemerso “violentemente” nel 2006 quando in Francia, dieci detenuti del carcere di Clairvaux, condannati all’ergastolo, hanno chiesto con una lettera spedita alla “France Presse” il <<ristabilimento effettivo della pena di morte>> per loro stessi.

“Noi, i murati vivi”, scrivono, non ce la facciamo più a vivere <<senza alcuna prospettiva reale di liberazione>>. Quindi <<preferiamo farla finita una volta per tutte piuttosto che crepare a fuoco lento, senza alcuna speranza nel domani dopo ben più di vent’anni di miserie assolute>>. L’iniziativa è stata quindi imitata da circa trecento detenuti italiani che, hanno provocatoriamente chiesto al Presidente della Repubblica, che il loro ergastolo fosse tramutato in pena di morte.

3 I dati sono consultabili in Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato - Sezione statistica.

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La convinzione che tale pena non esisterebbe più nasce dal fatto che essa non ha più le caratteristiche con cui è venuta alla luce: ne è stato mitigato il regime esecutivo, e sono state eliminate molte delle preclusioni un tempo previste per gli ergastolani. A partire dal 1962, infatti, la pena perpetua non è più ineludibilmente tale: il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale, potendo così contare su una reale prospettiva di recupero e di ritorno in società, prospettiva che è condizione necessaria (controverso se sufficiente) per una pena che voglia perseguire una finalità rieducativa. Questa è l’unica tra le finalità della pena ad essere costituzionalizzata e per tanto non può mai essere totalmente sacrificata, nemmeno in presenza del crimine più efferato. L’ergastolano inoltre può sin da subito essere ammesso al lavoro all’aperto e può accedere, ai permessi premio, alla semilibertà, ottenere le riduzioni pena ai fini dell’ottenimento della liberazione condizionale secondo le tempistiche e i presupposti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario. Quest’ultima, costituisce un altro passo fondamentale sulla strada dell’umanizzazione della pena e dell’attuazione del finalismo rieducativo: la riforma dell’ordinamento penitenziario, non solo ha reso la fase esecutiva della detenzione più consona alle esigenze fondamentali del condannato ma ha altresì contemplato un novero ampio di misure alternative alla detenzione le quali risultano applicabili anche a pene detentive di lunga durata sul presupposto che, in fase esecutiva, le singole situazioni carcerarie devono essere seguite nella loro progressiva evoluzione, preparando in tal modo, attraverso la graduale concessione di più ampi spazi di libertà, il definitivo rientro del condannato all’interno della società. Sulla stessa scia si collocano la legge Gozzini del 1986 nonché tutta una serie di pronunce della Corte Costituzionale che, nel mantenere l’ergastolo e nel salvarne la legittimità, hanno contribuito a eliminarne gli aspetti più critici. Questa trasformazione in senso garantista dei connotati originari della massima

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pena, nonché il referendum popolare che, nel 1981, sottoponendo la questione abrogazione/mantenimento ergastolo alla popolazione, ha confermato la forte legittimazione democratica di cui lo stesso gode, ha finito in qualche modo per porre in secondo piano le opinioni che nel periodo antecedente, sostenevano a gran voce la necessità di abolire la pena perpetua. Anzi, al contrario, negli anni Novanta, si registra una vera e propria inversione di tendenza. Le stragi mafiose con cui quel decennio si aprì, resero necessario l’intervento dello Stato, che doveva dimostrarsi capace di rispondere agli attacchi inferti dal crimine organizzato. Questa necessità si tradurrà in una legislazione d’emergenza etichettata come

<<controriforma carceraria4>>, in quanto vera e propria inversione di rotta rispetto ai presupposti e agli obiettivi con cui la legge penitenziaria prima, e la legge Gozzini poi, erano venute alla luce. Il sistema dell’esecuzione viene riformato infatti, in senso restrittivo, prevedendo un regime differenziato e più severo per gli autori di determinati delitti, tutti più o meno riconducibili alla criminalità organizzata (anche se nel tempo, il novero dei reati subirà estese interpolazioni). In questo quadro si colloca l’introduzione di quella che viene considerata la <<norma simbolo>> di questi interventi: l’art. 4-bis ord. penit. La disposizione, prevede una serie di preclusioni e restrizioni, all’accesso alle misure alternative alla detenzione, per quanti si sono macchiati di uno dei delitti dalla stessa indicata. In particolare al primo comma si inseriscono i delitti assolutamente ostativi: delitti per i quali cioè, l’accesso a tali misure è assolutamente precluso a meno di una collaborazione del reo con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit. Questo si traduce, per un condannato all’ergastolo, nella reviviscenza di una perpetuità che torna ad essere realmente tale. Si parla di “ergastolo ostativo”: una figura di ergastolo che condanna davvero a perpetuità in mancanza di una collaborazione

4 Ad es. G.Mosconi, La controriforma carceraria in <<Dei delitti e delle pene>>,1991.

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processuale (che deve però essere esigibile) con la giustizia. Non sono mancati anche su questo fronte pronunce della Corte costituzionale, soprattutto in tema di collaborazione impossibile, irrilevante e quindi inesegibile, al fine di cercare di ricondurre la disciplina nell’alveo della costituzionalità. Ma se ciò sia bastato si può mettere in dubbio. Nella trattazione che segue si darà atto di queste due tendenze, o meglio di questo

“doppio binario”: da un lato, quello relativo all’ergastolo comune, con le sue trasformazioni, attenuazioni e giustificazioni nel corso del tempo, dall’altro, quello dell’ergastolo (ostativo) conseguente a reati di stampo mafioso e assimilati. Nell’uno e nell’altro caso ci sono stati e ci sono molti nodi da sciogliere, e non sono mancate proposte e prospettive di un superamento, giustificate su vari fronti. Certo è che alla luce della nostra Costituzione sarebbe certamente illegittima una pena che non lasci al condannato alcuna prospettiva di recupero. Avere la possibilità di poter accedere alle misure alternative solo collaborando con la giustizia, essendo nelle condizioni per farlo, può essere in tal senso sufficiente? Il dubbio è stato sollevato e si vedrà qual è stata la risposta della Corte Costituzionale che, nel 2003, è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del regime ex art. 4-bis per un condannato all’ergastolo.

La partita non è chiusa, ed anzi è stata di recente riaperta da un arbitro d’eccezione: la Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Nel Luglio del 2013 infatti, i giudici di Strasburgo nella composizione più autorevole, per la prima volta, hanno dichiarato contrario all’art. 3 della CEDU, che bandisce la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, un particolare tipo d’ergastolo, previsto nel Regno Unito e noto come Whole life sentence without parole, traducibile come ergastolo effettivo. La Corte ribalta il suo precedente leading case in tema d’ergastolo facendo leva sui due pilastri della dignità umana e della finalità rieducativa della pena.

Questa pronuncia rende più che mai attuale il tema e torna a riaccendere il

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dibattito su ergastolo, finalità della pena, dignità umana. E c’è di più: stanti i rapporti tra la Corte di Strasburgo e le Corti nazionali e gli obblighi che per l’Italia derivano dall’appartenenza al Consiglio d’Europa e stante, ancora e soprattutto, il parallelismo tra ergastolo effettivo inglese ed ergastolo ostativo italiano, la pronuncia impone, più che una riflessione sul tema, un ripensamento e un intervento da parte del legislatore.

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CAPITOLO I

L’ERGASTOLO: ORIGINE ED EVOLUZIONE STORICA

1.1 La pena dell’ergastolo

L’ergastolo è da un punto di vista prettamente oggettivo una pena. In particolare è una delle pene principali previste dall’articolo 17 del nostro Codice penale per i delitti. Le pene principali sono quelle che ex art 20 c.p.

sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna e alle quali è affidato il compito di comunicare il messaggio politico criminale del sistema penale.

L’efficienza del sistema rispetto agli scopi preventivi che gli competono, infatti, solo in minima parte dipende dalle pene accessorie, per quanto ineluttabili. La percezione dei contenuti della risposta ordinamentale al crimine consegue proprio dall’inflizione delle pene principali5.

Privazione della libertà personale e perpetuità fanno dell’ergastolo, a seguito della totale abolizione della pena di morte, la pena più grave del nostro ordinamento nonché la più discussa sia da un punto di vista di politica criminale, sia dal punto di vista della legittimità costituzionale. La sua definizione è contenuta all’art 22 del Codice penale a norma del quale

“La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli istituti a ciò destinati6, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno.

Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto7.”

5Come rilevato da G. De Francesco in Le conseguenze sanzionatorie del reato << Trattato teorico pratico >>, Torino, Giappichelli, 2011.

6Il testo originario parlava di stabilimenti.

7La Corte cost. con sent. 28-04-1994, n.168 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di

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L’ergastolo si distinguerebbe quindi dalle altre pene detentive (reclusione ed arresto) per il fatto di essere una pena perpetua da scontarsi in appositi stabilimenti penitenziari e per l’essere caratterizzata da un particolare contenuto: obbligo del lavoro e isolamento notturno.

C’è da precisare sin da ora, che il dato dell’esecuzione in stabilimenti separati ha una scarsa significatività in un sistema, come il nostro, in perenne emergenza. Gli istituti penitenziari si distinguono infatti attualmente in case di arresto e case di reclusione ed è in queste ultime che l’ergastolo viene eseguito. Per quanto concerne invece il contenuto, l’isolamento notturno è ormai anacronistico, se si pone mente al fatto che l’attuale art. 6 l.354/75 prevede che i locali destinati al pernottamento dei condannati a pene che prevedono l’isolamento notturno (tutte e tre le pene detentive) consistono in camere dotate di uno o più posti. Nella pratica questo equivale a dire che nessuno sconta la sua pena in una cella singola8. Rimangono allora come dati qualificanti, la perpetuità (comunque svilitasi nel tempo) da un lato, e l’obbligo del lavoro dall’altro. E sono proprio questi due, gli aspetti da cui partire per percorrere a ritroso la storia dell’ergastolo.

1.2 Le origini dell’ergastolo

E’ difficile rintracciare dell’ergastolo, così come oggi lo intendiamo, un mitico e ideale antecedente storico, che ne ricalchi in modo uniforme l’attuale conformazione. Più semplice è partire allora dai singoli tratti distintivi: la perpetuità da un lato, la restrizione della libertà personale con

tale articolo <<nella parte in cui non esclude l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore non imputabile>>.

8F.Palazzo, C.E.Paliero, Le conseguenze sanzionatorie del reato in cit. <<Trattato teorico pratico>>, Torino, Giappichelli, 2011.

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l’obbligo del lavoro, dall’altro.

E’ infatti proprio quest’ultimo l’aspetto che dall’antichità viene collegato al significato con cui la parola ergastolo è venuta alla luce.

Presso i romani l’ergastolum era il locale, per lo più sotterraneo, nel quale venivano rinchiusi, incatenati, gli schiavi adibiti ai lavori agricoli: era quindi un luogo di lavoro forzato in cui il proprietario privato teneva, a scopo punitivo, in catene, gli schiavi ritenuti pigri e infedeli o ribelli e incorreggibili. L’ergastolo si poneva in tal senso a fianco delle altre pene di lavoro coatto come l’opus publicum o l’opus metalli.

Già durante l’epoca medioevale non si assiste più all’inflizione di tali condanne in ragione della mancanza di un’organizzazione statale cui le stesse potessero essere utili.

Più tardi i lavori forzati vennero ripristinati, prima nella forma della condanna alle galere e poi, in età moderna, nella forma dei lavori pubblici.

L’antico termine ‘ergastolo’ veniva impiegato per indicare il luogo della pena, lo stabilimento adibito alla reclusione dei condannati e all’esecuzione dei lavori di pubblica utilità.

In questa accezione esso poteva avere durata variabile, con un minimo di un anno e non possedeva perciò, il carattere della perpetuità.

L’ergastolo viene concepito come pena perpetua per la prima volta durante il medioevo quando il termine veniva usato per indicare il carcere caratterizzato dalla segregazione perpetua e questa volta non dal lavoro, ma dall’ozio forzato. Con questo significato la parola si può trovare in alcune fonti canoniche quali un canone del Concilio di Toledo del 675 e uno del Concilio di Trebur dell’895: in base al primo i sacerdoti che avevano emesso o eseguito condanne a morte o a mutilazione, per il secondo i religiosi o le religiose che erano venuti meno al voto di castità, erano rinchiusi in "ergastula" a far penitenza delle loro colpe per il resto della loro vita, avendo come unico conforto la comunione in punto di morte.

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La concezione stessa del carcere come pena era un’eccezione: per quella romana e per quella germanica il carcere serviva di regola solo come custodia.

Il carcere come pena rappresentò a lungo una peculiarità della Chiesa nell’ambito della quale si giustificava in quanto strumento per ottenere l’emendazione dei colpevoli evitando, al tempo stesso, l’inflizione, vietata, di pene cruente agli ecclesiastici. Di ciò dà conferma Giulio Chiari, giudice milanese, nella sua Pratica Criminalis: << la pena del carcere perpetuo non è in uso presso i laici, loro avevano mezzi più sbrigativi: la mannaia, la forca, lo squarciamento [...]. L’ergastolo, invece, come segregazione perpetua a pane e acqua, in qualche convento sperduto, era una specialità che la Chiesa usava allorché non riteneva necessario condannare un eretico al rogo >>.

Ancora nei secoli del rinascimento giuridico e del diritto comune l'uso del carcere come pena costituì, per gli ordinamenti secolari, un'eccezione.

Ancora di più lo era l’uso del carcere a vita tanto è vero che i giureconsulti consideravano i casi di condanna a pena perpetua fuori dall'ordinario, eccetto che per il diritto canonico, e aggiungevano, probabilmente con una punta di ipocrisia, che la condanna di un uomo libero al carcere a vita sarebbe equivalsa ad una sua riduzione in schiavitù.

Gli esempi di statuti e legislazioni particolari in cui si prevede il carcere a vita sono pochi. Essi si riferivano per lo più a delitti sessuali, a delitti politici o ad altri delitti che, per ragioni contingenti, apparivano meritevoli di punizione più rigorosa. Questo orientamento ostile alla pena del carcere a vita era condiviso anche nel resto d’ Europa: infatti le condanne all’ergastolo, seppur presenti e talvolta numerose, spesso derivavano dall’esercizio di un potere arbitrario e non dall’applicazione di una pena regolarmente prevista. Alcuni giureconsulti dell'antico regime, affermavano che la pena del carcere perpetuo non andava eseguita nelle prigioni vere e

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proprie, ma in fortezze o castelli e per le donne in determinati conventi, e ciò al fine di salvare il principio romano della prigione come luogo di custodia e non di pena.

A partire dal XVIII secolo, le antiche remore sull’ergastolo iniziarono a vacillare in ragione della spinta riformatrice per l’abolizione della pena di morte: il carcere a vita era destinato a sostituire la pena capitale, a diventarne il surrogato. Il termine passò quindi a indicare la pena e non più, come in passato, il luogo d’esecuzione della stessa. In questa accezione lo utilizzò Pietro Leopoldo nella sua riforma criminale del 1786: egli nell’abolire la pena di morte, sostituì l’estremo supplizio per gli uomini con la pena dei pubblici lavori a vita e per le donne con l’ergastolo parimenti a vita.

Anche Cesare Beccaria, affermò, nel Dei delitti e delle pene, che l'ergastolo poteva essere adottato dal legislatore come una pena sostitutiva della pena di morte, perché più efficace in quanto più lunga e dolorosa da scontare9. L'ergastolo, osserva Beccaria, <<è più crudele della morte perché è più molesto, più duro, più lungo da scontare, con l'ergastolo la pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento come la morte: è proprio questa perpetuità la sua forza ammonitrice ed esemplare. Molto meglio allora, poiché la pena di morte non è né utile né giusta, condannare alla “schiavitù perpetua”. Il terrore della morte può essere attenuato ed addolcito dalla religione, la pena dell'ergastolo impegna per tutta la vita:

l'esempio è doloroso per chi lo subisce ed esemplare per quanti stanno a guardare>>.

Fu durante l’epoca dei lumi, in concomitanza con la piena realizzazione e affermazione della pena detentiva, che l’ergastolo assunse la sua configurazione moderna.

Nella maggior parte degli ordinamenti esso iniziò a frapporsi tra i due

9 v. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 2012.

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estremi della pena capitale e delle pene temporanee con l’unica rilevante eccezione del Codice penale francese del 28 settembre 1791 che aveva abolito le pene perpetue, perché aberranti, e che all'art. 8 aveva previsto subito dopo la pena di morte, la pena dei ferri fino a ventiquattro anni.

La ragione di questa eccezione era vista nel fatto che le sanzioni penali, almeno per la parte più sensibile della dottrina del tempo, non dovevano limitarsi a retribuire ed intimidire, ma dovevano possedere anche i carattere dell’umanità e dell’idoneità ad emendare il reo; caratteri che risultavano a giudizio di molti, addirittura più estranei alla pena perpetua che a quella capitale. Se così si affermava in astratto, ogni sanzione finiva però in concreto col privilegiare il momento retributivo e general-preventivo: il carattere eliminativo delle pene perpetue era inconciliabile con qualsiasi intento rieducativo. Infatti seppur alcuni giuristi rilevavano, sin da allora, come l’ergastolo fosse una pena desocializzante e diseducativa, prospettando la necessità di introdurre dei correttivi che rispondessero ai fini dell’attuale liberazione condizionale, il terreno non era ancora fertile perché simili idee potessero affermarsi. Segregazione, silenzio, lavoro coatto, anche se protratti per tutta la vita del reo, venivano considerati idonei a ottenere la rieducazione interiore. Nel secolo XIX quindi, in linea di massima, i condannati a pena perpetua che avessero tenuto una buona condotta potevano riacquistare la libertà unicamente attraverso un provvedimento clemenziale di natura individuale quale, ad esempio, la grazia.10

10Sulle origini storiche dell’ergastolo si vedano P.Fiorelli, Ergastolo, Premessa storica in

<< Enciclopedia del diritto>>, Vol. XV, Giuffrè,1966, pag. 223; A. Salvati, Profilo giuridico dell’ergastolo in <<amministrazione in cammino>>; R.Perotti, L’ergastolo è ancora una pena perpetua? Appunti giuridici e sociologici sulla pena dell’ergastolo in

<<L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità>>.

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1.3 L’ergastolo nel codice Zanardelli

L'istituto dell'ergastolo venne introdotto nell’ordinamento italiano dal Codice penale del 1889 pur essendo già presente nel Codice toscano (artt.13 e 15 modificati dal decreto 10 gennaio 1860), nel Codice penale del regno delle due Sicilie del 1819 (artt.3 e 7) e nel Codice criminale estense del 1855 (artt.10 e 16).

In quel periodo l’ergastolo godeva di un consenso quasi unanime in quanto l’abolizione della pena capitale operata dal codice Zanardelli stesso, esigeva che la pena destinata a sostituirla svolgesse la propria funzione retributiva e general-preventiva in modo certo. Abolita la pena di morte l’ergastolo doveva cioè rappresentarne in un certo qual modo il surrogato. Doveva essere una pena severa da infliggere a soggetti che, avendo commesso i gravi delitti precedentemente puniti con la pena di morte o i lavori forzati, erano ritenuti in linea di massima incorreggibili. Nella rigida solitudine conseguente alla condanna all’ergastolo si vedeva un influsso benefico sull’emenda del reo, e si considerava la segregazione come un freno al contagio criminale. Peraltro, la correzione del reo restava, all’epoca, un mero “accessorio della pena”.

I reati per i quali era prevista l’applicazione dell'ergastolo erano: attentato contro l'integrità, l'indipendenza o l'unità dello Stato (art. 104);

macchinazioni dirette a promuovere ostilità o guerre contro lo Stato italiano, ovvero a favorire le operazioni militari di uno Stato in guerra con lo Stato italiano, con intento raggiunto (art. 106); attentato contro il Re, la Regina, il Principe ereditario, o il reggente durante la reggenza (art. 117); parricidio (art. 366, n. 1); omicidio con premeditazione (art. 336, n. 2); omicidio per solo impulso di brutale malvagità, ovvero con gravi sevizie (art. 366, n. 5);

omicidio col mezzo dell'incendio, inondazione, sommersione o altro dei delitti contro l'incolumità pubblica (art. 366, n. 4); omicidio per preparare,

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facilitare o consumare un altro reato, benché questo non sia avvenuto (art.

366, n. 5); omicidio commesso immediatamente dopo un altro reato, per assicurarne il profitto o per non essersi potuto conseguire l'intento propostosi ovvero per occultare il reato o sopprimere le tracce o le prove, o altrimenti per procurare l'impunità a sé o ad altri (art. 366, n. 6).

La pena ex art.11 era eseguita in speciali stabilimenti denominati

“ergastoli”, dove il condannato per i primi sette anni, o dodici in caso di concorso di reati, rimaneva in cella in regime di segregazione continua con l’obbligo al lavoro. Decorso tale periodo, l’ergastolano veniva ammesso al lavoro insieme agli altri condannati con l’obbligo del silenzio e con la segregazione notturna. Nel caso in cui l’ergastolano fosse stato dichiarato responsabile di un altro delitto veniva sottoposto a un nuovo periodo di segregazione in cella che a seconda la gravità del nuovo reato poteva estendersi da un minimo di sei mesi a tutta la vita. La condanna all'ergastolo comportava come ulteriori conseguenze atte a incrementarne la portata afflittiva: la pubblicazione speciale della sentenza di condanna (articolo 43);

l'interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 31); l'interdizione legale, la perdita della patria potestà, dell'autorità maritale, della capacità di testare e la nullità del testamento fatto prima della condanna (articolo 33).

L’unica possibilità per il condannato di riacquistare la libertà era data dalla concessione della grazia sovrana. Venivano riconosciute anche le circostanze attenuanti generiche che permettevano la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione di trent’anni.

Merita di essere segnalato il fatto che il codice Zanardelli prevedeva per gli imputati di età fra i quattordici ed i diciotto anni, la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione da dodici a venti anni, ed all’art 56, per gli imputati di età fra i diciotto ed i ventuno anni, la sostituzione con la reclusione da venticinque a trent’anni11.

11A.Salvati, cit. Profilo giuridico dell’ergastolo in <<amministrazione in cammino>>;

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Nonostante la rivoluzione penalistica, dati i tempi, fosse evidente, la condizione dell’ergastolano, risultante dal regolamento carcerario del 1891, era estremamente afflittiva.

Il condannato, appena giungeva allo stabilimento, era sottoposto alla visita medica, dopo la quale gli erano tagliati i capelli, gli era rasa la barba e gli era fatto indossare l'abito dello stabilimento (art. 228). Il vestiario, uguale per tutti i condannati, si componeva di pantaloni e giacca o camicia a righe irregolari color bianco e marrone, cravatta marrone e berretto. Il colore della prima fascia del berretto e del colletto della giacca o della camicia per gli uomini, quello delle cuffie per le donne e quello delle stoffe per i numeri di matricola, serviva di distintivo per le pene, ed era nero per i condannati all'ergastolo.

Gli ergastolani, dopo il periodo di segregazione continua, potevano andare al passeggio in comune, durante il quale dovevano osservare la regola del silenzio e camminare in fila uno dopo l'altro alla distanza che veniva loro ordinata. Non potevano né uscire dalla fila, né fermarsi o sedersi senza avere ottenuto il permesso dagli agenti di custodia; tale permesso doveva essere chiesto alzando la mano (art. 247). I condannati all'ergastolo non potevano essere addetti ai servizi domestici prima di avere scontato venti anni di pena (art. 279). Il prezzo integrale del lavoro da loro compiuto si divideva in decimi ed erano loro assegnati 3/10 a titolo di gratificazione (art. 287).

Durante il periodo della segregazione cellulare continua, potevano avere un colloquio l'anno e, compiuto questo periodo, ne potevano avere uno ogni sei mesi (art. 305); potevano scrivere una lettera ogni quattro mesi (art.

317).

Terminato di scontare il periodo di segregazione cellulare continua e passati

R.Perotti, cit. L’ergastolo è ancora una pena perpetua? Appunti giuridici e sociologici sulla pena dell’ergastolo in <<L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità>>.

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quindi alla segregazione notturna, i condannati all'ergastolo, come gli altri detenuti, erano divisi in tre classi: di prova, ordinaria e di merito, distinte le une dalle altre per mezzo di un galloncino colorato (giallo, verde o bianco) cucito nella manica (art. 367). Nella classe di prova dovevano rimanere otto anni o sedici se recidivi (art. 378); quando passavano alla classe di merito ed avevano scontato non meno di venti anni di pena, potevano essere proposti per la grazia (art. 387). Potevano essere proposti anche prima quei condannati che avessero compiuto azioni coraggiose o prestato servizi lodevoli (art. 388).

I condannati, che, dopo avere scontato la massima pena disciplinare, avevano commesso gravi mancanze (art. 344 e 459), erano rinchiusi in una casa di rigore ma i condannati all'ergastolo non potevano esservi trasferiti se non dopo scontato il periodo della segregazione cellulare continua. In queste case di rigore i condannati erano divisi in tre classi: di punizione, di prova e di riabilitazione. Nelle prime due erano sottoposti alla segregazione cellulare continua con obbligo del lavoro. Nella classe di prova gli ergastolani non potevano scrivere che una lettera ogni sei mesi e fare acquisto di sopravvitto solo due giorni la settimana non spendendo più di venti centesimi alla volta.

Solo al di fuori di tutte queste restrizioni speciali, i condannati all'ergastolo erano soggetti alle norme disciplinari e al trattamento comune a tutti i detenuti, disciplinati dal Regolamento del 1891.

1.4 Il codice Rocco

Nonostante la sostanziale modernità del codice Zanardelli, nel 1925 iniziò la riforma per un nuovo codice penale. Una tale esigenza si spiegava con la crisi dei valori liberali che avevano caratterizzato le codificazioni ottocentesche, con l’avanzare dei totalitarismi in tutta Europa e con

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l’aumento della criminalità a seguito del primo conflitto mondiale.

Nel 1930 venne pubblicato il testo del codice Rocco, il quale entrerà in vigore il 1° Luglio 1931. Tale codice si caratterizzava per un incremento delle fattispecie incriminatrici e per un notevole inasprimento sanzionatorio: reintroduzione della pena di morte, aumento nel minimo e nel massimo delle pene edittali, crescita delle ipotesi di circostanze aggravanti e simmetrica abolizione delle circostanze attenuanti generiche, notevole aggravamento di pena in caso di recidiva.

Il ripristino della pena di morte per i più gravi delitti contro la personalità dello Stato e la vita dei cittadini, con il conseguente inasprimento delle funzioni retributiva e general-preventiva, consentì al legislatore fascista di attenuare alcuni aspetti del trattamento riservato ai condannati alla pena perpetua. Si soppresse ad esempio l’isolamento diurno e si dispose per il condannato all’ergastolo che avesse scontato almeno tre anni di pena, l’ammissione al lavoro all’aperto.

Ai sensi del Regolamento penitenziario di cui al Regio Decreto n. 787 del 1931, gli stabilimenti nei quali si scontava la pena perpetua erano sempre gli ergastoli, che avevano carattere di stabilimenti di pena ordinari. La pena era scontata negli stabilimenti speciali denominati "Ergastoli per delinquenti abituali, professionali o per tendenza", qualora si fosse trattato di condannati che fossero stati dichiarati tali (art. 24 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Il condannato sottoposto all'isolamento continuo doveva essere frequentemente visitato dal direttore, dal medico e dal cappellano (art. 205 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Se il condannato era colpito da infermità psichica e non fosse applicabile l'art. 148 del Codice penale ( in tema di differimento dell’esecuzione) o la norma contenuta nell'art. 106 del Regolamento, l'isolamento poteva essere sospeso per ordine della Direzione generale degli stabilimenti di prevenzione (art. 206 del Regolamento per gli

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istituti di prevenzione e di pena); ovvero poteva essere escluso o ridotto tramite Grazia, perché in tal modo veniva condonata “parzialmente” la pena (art. 174 del Codice penale). Questo condono, sostanzialmente, equivaleva al condono delle pene concorrenti che determinavano l'isolamento continuo (art. 184 del Codice penale). Terminato l'eventuale periodo di segregazione continua in cella, il condannato all'ergastolo era ammesso di diritto alla vita in comune. A ciò faceva eccezione il reo che dovesse essere assegnato, per misura disciplinare, con ordine di servizio del giudice di sorveglianza, a

"una casa di punizione", nella quale era assoggettato ad un primo periodo di isolamento continuo, che normalmente non poteva superare tre mesi. Se il condannato persisteva nella sua condotta, l'isolamento era continuato e il giudice di sorveglianza ne poteva ordinare il trasferimento ad una "casa di rigore", o ad una casa per "minorati fisici o psichici" ovvero ad un manicomio giudiziale (artt. 232, 233, 234 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena).

Solo l'istituto della Grazia poteva estinguere o commutare la pena perpetua.

L’ art. 201 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena stabiliva, infatti: "Il condannato all'ergastolo, dopo aver scontato venti anni di pena, può essere proposto per la concessione della Grazia quando, per la condotta tenuta e per le prove date di attaccamento al lavoro, sia giudicato meritevole di particolare attenzione"12.

1.5 L’avvento della Costituzione

A partire dal 1948 l’impostazione autoritaria del codice Rocco, figlio della cultura fascista, dovrà confrontarsi con la Costituzione repubblicana, e con i principi e valori liberali in essa sanciti. La carta costituzionale, frutto

12Salvati A., ibidem; R.Perotti, ibidem.

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dell’incontro di diverse ideologie e di inevitabili compromessi, trovò il suo baricentro proprio nella cultura antifascista. Posta al vertice delle fonti del diritto, essa ha fornito la cornice al cui interno devono muoversi tutte le altre fonti, imponendo l’eliminazione di tutte quelle che con essa si pongono in insanabile contrasto.

Il diritto penale, incidendo sui beni e diritti fondamentali della persona, rappresentò il terreno maggiormente toccato dall’azione di rimodellamento imposta dalla Costituzione. E il codice Rocco, anche se ad oggi non ancora integralmente sostituito, rese necessari continui aggiustamenti.

Per quanto concerne l’ergastolo, esso ha determinato fin da subito, un intenso dibattito, tanto in sede parlamentare quanto in sede dottrinale, con riflessi giurisprudenziali sull'opportunità politica e sull'ammissibilità giuridica dello stesso nell'ambito dell'ordinamento costituzionale.

Per quanto concerne l’ammissibilità giuridica, la questione si è incentrata sulla compatibilità della pena dell’ergastolo, perpetua per definizione, con i principi sanciti dal terzo comma dell’art.27 Cost. secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Il problema della compatibilità dell'ergastolo con la Costituzione si pose d'altronde, già in sede di Assemblea Costituente, nella discussione che si svolse per l'approvazione di quello che divenne poi l'art. 27 della Costituzione. Da un lato, infatti, si volevano rimuovere gli aspetti inumani e lesivi della dignità umana che caratterizzavano il regime carcerario, dall’altro però sebbene l’obiettivo fosse condiviso si formarono ugualmente, e già allora, opinioni contrapposte.

Il principio della tendenziale finalità rieducativa della pena ha faticato ad affermarsi soprattutto per la volontà di conservare il carattere tradizionale della pena quale strumento di ripristino dell’ordine violato con funzione retributiva e satisfattoria. Interessante è un emendamento proposto e

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discusso in seno all’Adunanza plenaria della Commissione per la Costituzione (commissione dei 75) dai deputati Nobile e Terracini. Secondo questo emendamento le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società. Ma soprattutto ciò che preme rilevare è la previsione secondo la quale <<le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni>>. L’on.Terracini rilevava il contrasto tra finalità rieducativa ed eccessiva durata della pena osservando che, pur partendo dal presupposto che l’essenza della pena criminale risiede nella esigenza di difesa sociale,

<<bisogna dire schiettamente che le pene sono una ritorsione della società di fronte al delitto e togliere quel velame moralistico di cui si vorrebbero coprire; tuttavia, se si vuole seriamente parlare di finalità rieducativa, occorrerà che le pene non superino un certo limite>>. Diversamente <<non soltanto cessa la finalità rieducativa, ma al contrario sono fonte di un processo di abbrutimento progressivo>>. L’emendamento non fu approvato. L’on. Cevolotto osservò in proposito che già la Sottocommissione, non aveva ritenuto che il problema, pur rilevante, fosse materia di Costituzione, al pari di quanto sostenuto per l’ergastolo. Moro, dichiarandosi contrario all’emendamento, evidenziava la difficoltà teorica e pratica di comporre il contrasto tra esigenze di difesa e finalità rieducative, avvertendo che <<non si risolve in sede di legislazione penale un problema umano di questa portata>>.

Particolarmente interessanti sono altre considerazioni degli onorevoli Terracini e Nobile che, per quanto relative alla diversa tematica della pena di morte, si legano in modo evidente ad aspetti nodali dell’ergastolo. I due deputati prospettarono la possibilità di mantenere la pena di morte

<<eccezionalmente, nei casi di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione>>. Paolo Rossi, contrario all’emendamento, rilevò come

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fossero proprio i delitti che sollevano la pubblica indignazione a determinare gli errori giudiziari a causa del clima che si creava sotto l’urgenza di restaurare l’ordine giuridico violato. Inoltre <<dal punto di vista preventivo, tutte le statistiche dimostravano che i delitti gravissimi o immorali non erano affatto influenzati dalla pena di morte, ma bensì da circostanze storiche e politiche, che non avevano niente a che fare col diritto13>>. Questa è un’argomentazione che traslata nel dibattito odierno, viene spesso utilizzata dai fautori della teoria abolizionista. L’ergastolo cioè, non avrebbe alcuna efficacia deterrente in quanto non vi sono prove di una sua utilità in tal senso. A questa obiezione replica chi al contrario ritiene che una tale contestazione, e cioè che l’ergastolo non abbia un’efficacia dissuasiva superiore a quella di una pena temporanea, resta opinabile come tutte quelle argomentate su un dato problematico quale l’operatività dell’intimidazione general- preventiva14.

Comunque, i contrasti all’interno della Commissione per la Costituente fra coloro che concepivano la pena in chiave prevalentemente retributiva o, all’opposto, rieducativa, ebbero come risultato una formulazione definitiva nel terzo comma dell’art.27 che, combinato con l’art.25 della Costituzione, pose in modo inequivocabile i principi di afflittività, di umanizzazione e di finalismo rieducativo della pena. Talune delle pene previste dal codice del 1930 dovevano dunque essere abolite o riplasmate alla luce dei principi insiti nella Costituzione. Restava tuttavia aperto il problema dell’eterogeneità delle funzioni della pena e della loro reale conciliabilità.

Se fino ad allora la pena perpetua si conciliava con la concezione etico-

13Gli aspetti fondamentali del dibattito sulle funzioni della pena tenutosi in Assemblea costituente sono riportati da F.S.Fortuna, La pena dell’ergastolo nella Costituzione e nel pensiero di Aldo Moro, in Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Roma, Ediesse,2009, pag. 23 e ss.

14T.Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in <<Rivista italiana di Diritto e procedura penale>>, 1992, pag. 449.

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retributiva propria della Scuola classica, non poteva dirsi in contrasto, per altro verso, nemmeno con le teorie di stampo positivista che, pur ponendo in risalto la funzione rieducativa, finivano con l’ammettere il solo scopo di neutralizzazione, qualora fosse postulata l’incorreggibilità del condannato.

Ma nel momento in cui la Costituzione assegna alle pene il fine di rieducare il colpevole attraverso un trattamento non contrario al senso di umanità, l’ergastolo è posto, per la prima volta, di fronte ad un’alternativa: o questo, attraverso la modifica delle modalità di trattamento riusciva ad armonizzarsi anche con la finalità rieducativa, oppure era destinato ad essere cancellato dall’ordinamento.

1.5.1 Le opinioni dottrinarie

In seno all’assemblea costituente non mancarono voci contrarie al mantenimento della pena perpetua. Prevalse peraltro la soluzione di costituzionalizzare esplicitamente solo il divieto di pena di morte e di fissare i connotati costituzionali della pena, lasciando poi in concreto al legislatore ordinario, alla dottrina e alla giurisprudenza il compito di stabilire se la pena dell’ergastolo fosse o meno compatibile con quei parametri, tenuto conto della sua concreta disciplina, delle acquisizioni culturali dell’epoca, dello sviluppo della dottrina dei diritti umani15.

Molti giuristi sottolineavano il carattere socialmente eliminativo dell’ergastolo in quanto pena destinata a segregare per sempre un soggetto dal consorzio umano. L’ergastolo, figlio della concezione retributiva della pena esprime un’altissima esigenza di giustizia, ma talmente alta da non poter essere assunta a fondamento giustificativo della pena a meno di non rischiare derive assolutistiche e autoritarie del sistema in un ambito tanto

15S.Senese, Per l’abolizione dell’ergastolo. Relazione al Senato della Repubblica, in cit.

<<Contro L’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona>>, Roma, Ediesse, 2009, pag. 61 e ss.

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delicato come quello in cui si esercita il potere di punire incidendo sulla libertà personale.

Corrispettivamente, sempre nella dottrina degli anni Cinquanta, non mancò chi si schierò a favore dell’ergastolo legittimandone la previsione alla luce del richiamo ai principi kantiani e con una rivalutazione della funzione retributiva della pena che, nella sua accezione assoluta, esalta e giustifica le massime pene. Si tentò di salvare la pena perpetua, ritenuta indispensabile per ragioni di retribuzione e di prevenzione generale, con una duplice operazione. In primo luogo si cercò di limitare la portata del terzo comma dell’art.27 Cost. attribuendogli la natura di norma programmatica. Tale tesi fu però contrastata dalla più autorevole dottrina che sottolineò l’efficacia precettiva immediata delle norme programmatiche che, come quella in questione, avessero un contenuto univoco. Anche la giurisprudenza finì col riconoscere che l’illegittimità costituzionale di una norma potesse derivare dalla sua inconciliabilità con le norme programmatiche quando esse, per la loro concretezza, vincolassero immediatamente il legislatore. Ma si replicava come benché la norma potesse essere considerata come precettiva, essa attenesse esclusivamente al trattamento da riservare al detenuto durante l’espiazione della pena e avrebbe pertanto interessato il diritto penitenziario e non il diritto penale16.

In secondo luogo si cercò di dimostrare come anche l’ergastolo potesse tendere alla rieducazione, purché essa fosse intesa come rieducazione interiore. Tra l’altro, questa parte della dottrina, criticava il fatto di voler assegnare alla pena la sola finalità rieducativa ponendo in evidenza come il problema della pena non fosse solo il problema del reo ma anche della vittima, delle altre vittime potenziali e dell’intera società. Questo non avrebbe voluto dire attribuire automaticamente alla pena una finalità vendicativa o fare del condannato uno strumento per conseguire gli

16 F.Cigolini, Sull’abolizione della pena dell’ergastolo, <<Rivista penale>>, 1958.

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obbiettivi dell’ordinamento. Senza negare o svalutare la finalità rieducativa si voleva mettere in evidenza come anche senza il perseguimento di quest’ultima, la sanzione penale avrebbe mantenuto comunque la sua ragion d’essere17.

Il dibattito sulla legittimità costituzionale dell'ergastolo proseguì, nonostante la relazione al progetto preliminare del Codice penale del 1949 e quella del 1956 della Commissione ministeriale di studio per la riforma del codice penale affermarono che la pena dell'ergastolo non potesse essere eliminata dal codice poiché una volta soppressa la pena di morte, essa rappresentava la necessaria maggiore sanzione per le più gravi manifestazioni di criminalità.

Una parte della dottrina in particolare, richiamandosi al principio contenuto nell'art. 27 della Costituzione, osservò che la pena detentiva perpetua a carattere eliminativo non potesse raggiungere, né conseguire il fine che il nostro legislatore, dopo la promulgazione della Costituzione, aveva assegnato alla pena. Questa era intesa non solo come mezzo per ristabilire l'ordine violato e come intimidazione nei confronti di futuri eventuali delinquenti, trattenuti dal violare la norma proprio per timore della sanzione, ma anche e soprattutto come mezzo per ottenere la rieducazione del reo. Questo ultimo fine, proprio del sistema punitivo, non poteva essere conseguito da una pena che, come l'ergastolo, presentava un carattere perpetuo. Si ritenne poi, che l'istituto della grazia, unico strumento di attenuazione della pena dell'ergastolo in quel determinato periodo storico, non togliesse a questa pena il carattere eliminativo e, quindi, quello non rieducativo insito nella pena dell'ergastolo quale era quella regolata dal codice del 1930.

17 Si veda F.Cigolini, <<Ibidem>>.

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1.5.2 La presa di posizione della giurisprudenza di legittimità

Contro questa vasta ed autorevole dottrina si espresse però la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, con l'ordinanza del 16 giugno 1956. Nel caso di specie, si faceva ricorso contro una decisione della Corte d'assise d'appello di Perugia con la quale si era comminata la massima pena.

Quest’ultima veniva ritenuta dalla difesa dell'imputato in contrasto con l'art.

27 della Costituzione nelle sue locuzioni "le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" e "devono tendere alla rieducazione del condannato". La Cassazione ritenne la questione

"manifestamente infondata" e sottrasse alla Corte Costituzionale, appena istituita, il giudizio sulla stessa. La decisione di "manifesta infondatezza" si fondò sulla presunta "inconsistenza" della questione, posta, sempre ad avviso della corte, <<quale pretestuoso espediente di difesa>>.

Le sezioni unite ridimensionarono la portata del principio rieducativo riducendolo a una concezione essenzialmente intimistica. Lo stesso venne privato di qualsivoglia dimensione sociale per essere interpretato come redenzione morale del reo. Inoltre la rieducazione non venne collegata ai tipi di pena previsti, all’astratta previsione legislativa, ma venne confinata a un momento successivo e collaterale, quello del trattamento penitenziario.

La Suprema corte affermò infatti, in primo luogo, che nessun riferimento, esplicito o implicito, era contenuto nell'art. 27 della Costituzione, il quale si limitava soltanto a statuire che "le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Basandosi sulla regola ermeneutica "ubi lex voluit dixit", la Corte ritenne che la Costituzione non avesse espressamente escluso la pena dell'ergastolo, a differenza di quella di morte, allorché nell'art. 27 sanciva: "Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge di guerra".

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La decisione fece anche riferimento all'istituto della grazia e precisò, che l'art. 27 della Costituzione nel secondo inciso del terzo comma, a proposito della rieducazione, si fosse riferito ad una "tendenza" che la pena doveva avere. Tale tendenza, sempre ad avviso della Corte, doveva essere attribuita non tanto alla finalità delle pene, quanto alla loro esecuzione. Al fine di promuovere la tendenza all'emenda, bisognava eliminare gli ostacoli che potessero frapporsi alla rieducazione nel corso dell'espiazione di qualunque tipo di pena. Sempre secondo la Suprema corte, il fatto che l'art. 27 della Costituzione fosse attinente al regime penitenziario e non ai tipi di pene, confermava come l'unica pena da escludere dall'ordinamento fosse quella di morte, in quanto quest’ultima sarebbe l’unica sanzione già di per sé contrastante con la tendenza alla rieducazione.

Dalla sentenza discendevano quindi come corollari una concezione della rieducazione intesa come “catarsi”, “redenzione morale”, la quale poteva dirsi realizzata in presenza di un qualsiasi miglioramento morale del reo, dal momento che il recupero sociale non è detto che sia sempre possibile in concreto. La Cassazione finiva quindi col formulare in astratto un giudizio prognostico di irrecuperabilità dell’ergastolano.

Già allora, la decisione non sopì il dibattito sull’ergastolo. Molteplici furono le reazioni a quest'ordinanza: innanzitutto si criticò il fatto che la Cassazione avesse sottratto il giudizio sull'eccezione d'incostituzionalità della pena dell'ergastolo alla Corte Costituzionale, la quale avrebbe deciso se la questione fosse o non fosse stata fondata; detta conclusione sarebbe stata quindi motivazione di una sentenza della Consulta, non di un'ordinanza di rigetto della Cassazione18.

Nel merito, fu ribadito dal Dall'Ora che limitare la rieducazione del reo alla sua mera emenda "morale", voleva dire essere convinti che le carceri

18 A. Dall’Ora, L’Ergastolo e la Costituzione in << Rivista italiana di diritto penale>>, 1956.

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<<siano rette da sacerdoti o precettori>>19. Fu quindi considerato ipocrita parlare di catarsi quando la pena (non solo quella dell'ergastolo) era eseguita in istituti sovraffollati, nella più totale promiscuità e, a dispetto dello stesso obbligo del lavoro, nell'ozio più devastante. In concreto, fu auspicato un'estensione dell'istituto della liberazione condizionale anche al condannato all'ergastolo ed una giurisdizionalizzazione della procedura della concessione della grazia.

La dottrina vedeva, nell'estensione del beneficio della liberazione condizionale ai condannati all'ergastolo, il mezzo per armonizzare con le nuove istanze sollevate dalla Costituzione la pena perpetua, ritenuta tuttavia ancora indispensabile perché rispondente in misura elevata ai fini della prevenzione generale e a quelle funzioni di prevenzione speciale differenti dalla rieducazione. Il finalismo rieducativo sancito dalla Costituzione faticava ad affermarsi. Così Giovanni Fiandaca commentava infatti il principio contenuto nell'art. 27, 3º comma della Costituzione: <<Proprio perché innovativo e di segno decisamente progressista, questo principio ha subito una vicenda tormentata sul triplice versante della sua ricezione giurisprudenziale, dottrinale e legislativa. A parte i margini (inevitabili?) di perdurante ambiguità insiti nell'idea stessa di rieducazione, è un fatto incontestabile che le prime interpretazioni del principio hanno avuto come obiettivo di contenere il più possibile la portata innovativa, in modo da collocarlo in una prospettiva di continuità rispetto all'ordinamento precedente. Da questo punto di vista, è dato registrare (soprattutto in dottrina) un'evoluzione interpretativa pressoché corrispondente al crescente peso esercitato dalle forze politiche progressiste, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. Una corrispondenza analoga è, a maggior ragione, rinvenibile sul piano dell'attuazione legislativa del principio rieducativo, e ciò rispetto sia ai traguardi raggiunti, sia alle

19 ID, ibidem.

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battute d'arresto. Peraltro, la tradizionale lettura riduttiva della disposizione non ha per molto tempo, consentito di cogliere tutte le possibili implicazioni del principio di rieducazione, quale fondamentale criterio di politica criminale: la consapevolezza che una norma come quella di cui all'art. 27 3º comma non esaurisce il suo raggio d'azione entro lo spazio dell'esecuzione della pena, ma incide già sul piano della struttura del reato, comincia a farsi strada in seno alla nostra dottrina soltanto a partire dai primi anni settanta20>>.

Ed è infatti a partire dagli anni Settanta che la “questione ergastolo” inizia a caricarsi di nuovi spunti e argomentazioni. Essa sarà affrontata più volte, sotto diversi aspetti, dalla Corte Costituzionale. Il dibattito continuerà, ma in termini diversi da quelli originari, in quanto diverso, sarà il quadro normativo di riferimento. Interverrà la legge sull’ordinamento penitenziario, passaggio cruciale nell’evoluzione dell’ergastolo: con essa cambierà il ruolo del diritto penitenziario e muterà il concetto stesso di esecuzione penale. Vi saranno importanti pronunce della Corte Costituzionale che esalteranno la finalità rieducativa nella sua dimensione sociale e che, contestualmente agli interventi legislativi, incideranno sulla disciplina e sull’esecuzione dell’ergastolo, al punto da mutarne completamente l’originaria architettura.

20G.Fiandaca, Commento all'art 27, 3º comma della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Bologna, Zanichelli, 1991.

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CAPITOLO II

DISCIPLINA ED ESECUZIONE DELLA PENA DELL’ERGASTOLO

2.1 L’evoluzione dell’ergastolo

La perpetuità, caratteristica principale dell’ergastolo, ha reso questa pena la più discussa e problematica. Essa è un intreccio di antico e moderno nonché una pena, come ha osservato Ferrajoli, qualitativamente diversa dalla pena della reclusione: la perpetuità della pena detentiva, il suo non finire mai, cambia infatti radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con sé stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro21.

Fino al 1962, anno nel quale per la prima volta si darà anche agli ergastolani la possibilità di accedere alla liberazione condizionale, era una pena totalmente eliminativa che nasceva con l’intento di escludere per sempre il condannato dalla società per esigenze di prevenzione generale, difesa sociale, retribuzione, neutralizzazione. Rieducazione del condannato ed ergastolo apparivano così in contraddizione. La lettura dell’art 27 comma 3 Cost. che identifica la rieducazione con il reinserimento sociale, era inconciliabile con l’ergastolo in quanto la pena perpetua, privava il detenuto di qualsiasi speranza di reinserirsi nel consorzio sociale ed appariva perciò inadeguata rispetto alla costituzionale finalità rieducativa, oltre che, disumana22. Nel tempo diversi interventi legislativi e giurisprudenziali

21L.Ferrajoli, Ergastolo e diritti fondamentali in <<Dei delitti e delle pene>>, 1992, pag.

79 e ss.

22G. De Francesco, cit. Conseguenze sanzionatorie del reato in <<Trattato teorico pratico>>, Torino, Giappichelli, 2011.

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