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INTRODUZIONE
“Tout homme étant présumé innocent jusqu’à ce qu’il ait été déclaré coupable, s’il est jugé indispensable de l’arrêter, toute rigueur qui ne serait pas nécessaire pour s’assurer de sa personne, doit être sévèrement réprimée par la Loi”.
Sono passati più di duecento anni dall’approvazione di questo principio, contenuto nell’art. IX della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata in Francia e tuttavia il tema della tutela della libertà personale e dell’uso eccessivo della carcerazione preventiva, è sempre sotto i riflettori.
Nonostante i tempi e le legislazioni cambino, sembra che qualsiasi sforzo si faccia per aumentare gli standard di garanzia del processo penale, non si riesca a fare in modo che la fase applicativa della misura cautelare risponda appieno ai caratteri della giurisdizionalità, permanendo, peraltro, come sostenuto da autorevoli giuristi, la tendenza alla attuazione dell’equazione inquisitoria: imputato uguale detenuto, con vanificazione del significato di diversi principi fondamentali, tra cui, in primis, la presunzione di non colpevolezza, che rappresenta l’ideale cartina di torna sole per verificare il tasso di garantismo presente in un determinato sistema processuale.
La presunzione di non colpevolezza riflette, invero, una concezione del processo ancorata ai valori dell’individuo e della legalità e assurge al ruolo di principio informatore al quale si legano logicamente le più significative garanzie poste a presidio dell’equo processo: il diritto di difesa, il contradditorio e la stessa terzietà del giudice.
Affinché si possa privare della libertà un soggetto presunto innocente non basta, l’intervento di un giudice, occorrendo una decisione che
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abbia i caratteri sostanziali, oltre che formali, della giurisdizione, nella consapevolezza che per salvaguardare i diritti della persona sottoposta alle indagini occorra preoccuparsi della individuazione di meccanismi volti a tutelare non soltanto la pretesa alla restituzione della libertà, ma anche a impedirne la limitazione. Più precisamente, sarebbe opportuno un rafforzamento del contraddittorio in fase applicativa, il quale giova non solo alla difesa e all’imputato, ma anche al sistema giudiziario nel suo complesso. Esso può essere utile a implementare il ricorso a misure alternative alla detenzione, permettendo, ad esempio, di dare concreta attuazione ad un istituto rimasto solo sulla carta: il braccialetto elettronico. Con ricadute positive sul problema del sovraffollamento delle carceri, che oggi rischiano il collasso anche a causa della presenza, per soli pochi giorni, di detenuti in attesa di giudizio. Va detto, che dalla Relazione della commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza dello scorso anno, emerge un quadro non rassicurante delle condizioni in cui attualmente versa il sistema penitenziario italiano, alle quali non pare eccessivo riferirsi in termini di emergenza nazionale, sono drammaticamente evidenziate da due indicatori, il primo dei quali è costituito dal dato sull’entità della popolazione detenuta, la cui consistenza numerica non accenna a diminuire in modo apprezzabile, nonostante alcuni recenti segnali in controtendenza; il secondo, dal numero dei suicidi e dei tentativi di suicidio avvenuti tra le mura del carcere, sintomo inequivocabile di una situazione di insostenibile sofferenza umana e di un degrado complessivo. La commissione ritiene che tale situazione rende in radice vana ogni possibilità di indirizzare l’esecuzione penale a quel fine rieducativo che, per vincolo costituzionale, deve connotarla e sta esponendo da tempo a gravi
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responsabilità il nostro Paese per la violazione dei diritti fondamentali da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 Cedu, il quale stabilisce “che nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti”.
L’idea che occorra un irrobustimento in chiave difensiva dei presupposti applicativi delle misure cautelari, e che sia opportuno rafforzare l’attuazione del contraddittorio nel procedimento di emanazione dei provvedimenti restrittivi, sembra infatti trovare fondamento oltre che negli articoli 13, 24, comma 2, e 27, comma 2, della Costituzione, proprio nell’art. 111 Cost., il quale, nell’enunciare i principi del giusto processo, non può che riferirsi anche ad una materia come quella relativa alle restrizioni della libertà personale.
Uno dei principali ambiti da esplorare in tema di applicazione delle misure cautelari personali concerne l’individuazione di criteri utili alla scelta di quella maggiormente idonea, tra le tante annoverate, a tutelare le esigenze concretamente esistenti. Sono varie, infatti, le soluzioni cautelari contemplate dal sistema processuale; esse seguono una progressione restrittiva crescente, che le declina come fossero i gradini di una scala, al cui vertice è collocata la custodia cautelare in carcere.
La pluralità di misure coercitive previste, peraltro, sottintende la volontà del legislatore di modulare la risposta cautelare a seconda della qualità e quantità dei pericoli effettivi che occorre tutelare.
I profili connessi alla scelta cautelare sono, inoltre, particolarmente problematici e complessi; sia per la molteplicità dei versanti coinvolti, sia per l’articolazione delle questioni sottese all’esatta dose restrittiva;
si deve poi sottolineare la peculiarità delle valutazioni astratte e delle prognosi future che la caratterizzano.
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In Italia, a fronte del concatenarsi di eventi delittuosi di grave impatto sulla collettività, grazie anche alle spinte mediatiche miranti ad ossessionare l’opinione pubblica, il Legislatore, avvalendosi della decretazione d’urgenza, ha recentemente introdotto meccanismi di automatica applicazione della più aspra delle cautele personali: la custodia in carcere. Ciò è avvenuto con la modifica dell’art. 275, 3°
co., c.p.p., in base al quale “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3- quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bis, 1°co., 600 ter, escluso il 4° co., e 600-quinquies c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli artt.
609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate”.
Si è verificato, allora, un potenziamento della disciplina speciale per le fattispecie di reato di maggior allarme sociale, inserito in un contesto politico-sociale di “emergenza”. La riproposizione di tali controriforme normative, foriere dell’instaurazione di un regime di quasi obbligatorietà della custodia cautelare in carcere, ha subito la censura da parte della dottrina maggioritaria, la quale ha ravvisato in tale contegno normativo il tentativo di introdurre, in via surrettizia, deprecabili forme di cattura obbligatoria, che sebbene legate alla commissione di reati ritenuti di particolare gravità, pertanto suggestive e di grande impatto mediatico, appaiono però confliggenti con il contenuto dell’art. 27, 2° co., Cost., a tenore del quale risulterebbe preferibile, al contrario, riservare la valutazione in ordine
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all’adeguatezza del presidio cautelare, alla discrezionalità del giudicante.
La norma denunciata è stata oggetto di plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale, nella parte in cui prefigura una presunzione assoluta anziché relativa di adeguatezza della sola custodia preventiva in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per una seri di delitti.
Vale la pena riportare un significativo passaggio della sentenza n. 265 del 2010: “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (…). Per quanto odiosi e riprovevoli i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti sono spesso meramente individuali, e tali per le loro connotazioni da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura (…). Tantomeno infine la presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti. Proprio questa per contro è la convinzione che traspare dai lavori parlamentari relativi alla novella del 2009 e che ha portato ad attribuire carattere emergenziale all’esigenza di precludere l’applicazione di misure cautelari attenuate nei confronti degli
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indiziati di delitti di tipo sessuale. (…) non è dubitabile, in effetti, che il Legislatore possa e debba rendersi interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza”.
In effetti, ciò che vulnera i principi costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”; di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria, atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario, non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa l’ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.
Tutto ciò sembra ascrivere questo ormai stabile orientamento ad una vera e propria dottrina che promette di fissare un (felice, ed auspicabile) punto di non ritorno: un assetto che muove dal primato della libertà personale per affermarla come risorsa solo eccezionalmente attingibile in fase cautelare, sottoponendo ogni presunzione legale, in questo ambito, ad una indagine ancora più
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rigorosa, e riaffermando, al contempo, una distinzione tra coercizione cautelare e pena.
Dalla produzione alluvionale della Consulta sulle presunzione in materia cautelare è emersa, non solo, una perentoria riaffermazione del principio del “minimo sacrificio necessario” e, parallelamente, la giustificazione del carcere solo (e davvero) in chiave di extrema ratio ma anche, il ruolo stesso della Corte, più vigile nei compiti di tutela dei diritti fondamentali, e circospetta nei confronti del legislatore.