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CAPITOLO II RISVOLTI POLITICI DELL’ORAZIONE PRO CLUENTIO Cenni introduttivi. Si è sostenuto da varie parti

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CAPITOLO II

RISVOLTI POLITICI DELL’ORAZIONE PRO CLUENTIO

Cenni introduttivi.

Si è sostenuto da varie parti1 che la Pro Cluentio rispetto ad altre arringhe ciceroniane, sia tra quelle più spoglie di intenzioni politiche. Al contrario è innegabile che tale orazione presenti aspetti interessanti anche sotto quest’ottica. Alcuni passi di tale discorso sono molto indicativi.

In particolare dal §1502 dell’orazione troviamo una serie di implicazioni, di prese di posizione più o meno nette da parte dell’oratore che spaziano dalla sua palese propensione verso l’ordo equester, all’approvazione incondizionata della Lex Aurelia del 70 a.C., fino all’ergersi a difensore dell’ordine e dello stato contro ogni forma di distruttiva demagogia. Osserva a questo proposito il Narducci: “Nel suo discorso, egli

poté cogliere l’occasione di fare, sia pure indirettamente, l’elogio della nuova legge giudiziaria ormai in vigore, contrapponendola a quella di Silla, che aveva reso possibili gli abusi del tribunale di Giunio: grazie alla rinnovata composizione delle giurie, sono venuti a mancare alcuni tra i più gravi motivi di sospetto nei confronti dei membri dell’ordine senatorio. Parimenti l’oratore, proteso a costruire di sé quell’immagine di affidabile “uomo d’ordine” che avrebbe contribuito, pochi anni dopo, a spianargli la strada verso il consolato, attacca a più riprese gli eccessi della demagogia tribunizia di Quinctio”3. In quest’ottica il Narducci ritrova anche i motivi che hanno spinto Cicerone ad acconsentire alla stessa difesa di Cluentio. Afferma infatti: “ad accettare la causa, Cicerone sarà stato indotto anche dal desiderio di

1

Cfr, ad esempio, G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op.cit. e P. Boyancé, (introduction di P. Boyancé), Ciceron, Discours. Tome VIII. Pour Cluentius, op.cit., p. 41.

2 A partire da tale paragrafo alcuni studiosi ritengono che venga inaugurata una vera e propria “sezione politica” dell’orazione. Leggiamo a questo proposito le considerazioni di E. Narducci (E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone,

Difesa di Cluentio, op.cit., p.259, nota 343): “la sezione che si va a inaugurare ha un significato squisitamente politico, come dimostrerà l’ampio uso di riferimenti storici. Cicerone mira a tener ben distinte le posizioni di cavalieri e senatori, rifiutando la logica promossa dalla difesa riguardo alla necessità di sottomettere entrambi gli ordini alla stessa giurisdizione….”.

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garantire l’appoggio dei Larinati influenti alla propria carriera politica.”4. È bene ricordare infatti che nell’anno 66 a.C.5 l’oratore ricopriva la pretura ed aspirava al consolato che avrebbe poi ottenuto nel 63 a.C.: aveva quindi bisogno in quel momento di tutti gli appoggi possibili. In buona sostanza, l’atteggiamento assunto da Cicerone6 riflette perfettamente il modus agendi dell’uomo politico romano la cui azione si svolgeva in una fitta rete di relazioni sociali che spaziavano dall’aperta simpatia verso una o più classi sociali7, ai legami personali di amicizia8, ai rapporti clientelari, e a quelli di “vicinitas”9.

Cercheremo, nelle pagine seguenti, di mettere in luce e di approfondire tutti questi elementi, in vario modo rappresentati nella Pro Cluentio, soffermando la nostra attenzione su ognuno di essi.

I legami di Cicerone con l’ordo equester e l’elogio della legge in generale.

Il primo aspetto politicamente rilevante che si scorge è certamente quello rappresentato dai legami personali di Cicerone con il potente ordo equester il cui peso nella vita politica romana, divenuto sempre più preponderante a partire soprattutto dalla fine della seconda guerra Punica, era dovuto soprattutto alle sue molteplici attività in campo economico10. Il Keaveney sottolinea proprio questo aspetto: “Una minaccia più durevole al potere dei senatori fu un’eredità lasciata a

Roma da G. Gracco: la politicizzazione degli equites (cavalieri). Questa classe era

4 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.10. 5 Anno nel quale appunto, come abbiamo già visto, viene pronunciata l’orazione 6 E non solo nei passi succitati, ma in tutto il corso dell’orazione.

7

Come la netta predilezione dimostrata da Cicerone nei confronti dell’ordo equester alla quale abbiamo già fatto accenno.

8 Si vedano a questo proposito le frequenti espressioni usate dall’oratore in tutto il corso dell’arringa, quali, ad esempio, “familiari meo” (Cic., Cluent. 42, 118), “amantibus mei” (Cic., Cluent. 17, 50); “hominis (…) necessarii et amici mei”

(Cic., Cluent. 28, 78).

9 Si vedano, ad esempio, i motivi che hanno indotto Cicerone ad accettare la difesa di Scamandro, su sollecitazione degli abitanti del Municipio di Alatri: Cic., Cluent. 17, 49 e 17, 50.

10 Giulio Giannelli (G. Giannelli, Trattato di storia romana, op. cit., p. 343) in una felice espressione di sintesi, così delinea il ritratto del potente ordo equester: “Accanto a questo (qui il Giannelli si riferisce al Senato) cominciava però

a farsi potente l’«ordine equestre», cioè quella categoria di cittadini ricchi che i censori segnavano nelle liste di coloro che avevano il diritto (e, al tempo stesso, il privilegio) di prestare il servizio militare in cavalleria. Di questi «cavalieri» (equites), provenienti in genere da famiglie di bassa condizione e arricchitisi rapidamente coi commerci, con le forniture di guerra, con gli appalti dei lavori pubblici, e delle imposte, in Italia e nelle province, andava sempre crescendo il numero e la potenza”.

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seconda per dignità, dopo il Senato, e molti dei suoi componenti erano banchieri, prestatori di danaro, esattori delle imposte e appaltatori”11.

Una classe sociale dunque con la quale a Roma tutte le forze politiche erano ormai costrette a misurarsi, come nota anche il Talamanca: “La più importante eredità di

Gaio Gracco, fu il coinvolgimento degli equites nella vita pubblica: tutti i gruppi nobiliari furono costretti a fare i conti con questa nuova realtà”12.

Il peso politico di questa classe diventerà nel tempo determinante. Pensiamo, ad esempio, al potere derivato dal controllo delle giurie delle quaestiones perpetuae voluto da G. Gracco13 o, in epoca successiva, alle pressioni esercitate dai cavalieri nei due conflitti, rispettivamente contro Giugurta14 e contro Mitridate IV re del Ponto15. Con particolare riferimento a quest’ultimo conflitto, il Talamanca sottolinea come il peso avuto dai cavalieri in questa vicenda16, risultò il fattore scatenante di un eccezionale evento storico: in seguito al voto dell’Assemblea della Plebe voluto fortemente dagli equites e da altre forze politiche, con il quale venne trasferita a G. Mario la direzione delle operazioni belliche contro Mitridate, Silla, al quale era già stata affidata la direzione della campagna militare, nell’anno 88 a.C. “rispondendo

alle illegalità commesse a suo danno con un altro atto illegale e fino allora inaudito, entrò in Roma alla testa del suo esercito in armi ... ”17.

11

A. Keaveney, Silla, op. cit., p. 11.

12 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., pp. 316.

13 A. Keaveney (Silla, op. cit., p. 11 e sgg.) così si esprime a proposito dell’enorme potere politico ed economico assunto dagli equites a partire da G. Gracco: “Attorno a questo periodo a Roma cominciò lentamente a svilupparsi un

sistema di tribunali penali permanenti e Gracco li mise sotto il controllo degli equites. Ciò significava che qualsiasi senatore che urtava i loro interessi era passibile di condanna da parte di un tribunale di questo genere. Particolarmente importante era il tribunale che giudicava i casi di res repetundae (estorsione). Dato il tipo di attività svolta dagli equites, questi avevano inevitabilmente interesse a sfruttare le provincie. Dato che il tribunale era controllato da loro, essi potevano fare impunemente i loro comodi, perché sarebbe stato veramente coraggioso quel governatore che si fosse intromesso, sapendo che al proprio ritorno a Roma avrebbe dovuto rispondere dell’accusa, infondata, di aver defraudato i propri governati, cosa che gli avrebbe fruttato l’esilio. In tal modo, quindi anche il controllo del Senato sulle province venne ad essere scalzato …”.

14

In Africa si era rivelato determinante il peso degli equites, ansiosi di tutelare i loro interessi commerciali in quelle zone, nel pretendere che G. Mario, nel 107 a.C., prendesse la direzione delle operazioni.

15 Per quanto riguarda il conflitto in Oriente, nota giustamente il Talamanca: “I Romani sapevano che la guerra era

inevitabile, e alcuni l’attendevano con impazienza: i cavalieri attivi nella provincia d’Asia che volevano estendere l’area dei loro commerci e dei loro investimenti, i senatori legati agli interessi degli equites; più di tutti, Mario, che aspirava a un nuovo comando per rinverdire i suoi allori di condottiero”. Cfr: M.Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 323.

16 Vicenda che proprio per le analogie che presenta è stata giustamente paragonata a quella della guerra giugurtina (Cfr.

M.Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 324.

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E’ soprattutto nei passi compresi fra i §§ 149 e 158 della Pro Cluentio che l’Arpinate assume posizioni politiche particolarmente nette a favore dell’ordo equester. Secondo la testimonianza ciceroniana esisteva all’interno del testo normativo della Lex

Cornelia de sicariis et veneficiis una particolare clausola18 che prevedeva, a favore dei Cavalieri, un’eccezione consistente nella disapplicazione delle prescrizioni relative al reato di corruzione giudiziaria, nella fattispecie per il delitto che si concretizzava in un “coire” o in un “convenire” allo scopo di ottenere la condanna di qualcuno in un processo penale: “quo quis iudicio publico condemnaretur”19. Nel sottolineare che a tale dettato legislativo, restavano comunque ancora vincolate altre classi sociali come, ad esempio i senatori o i magistrati in carica, l’oratore giustifica pienamente l’esistenza di questa eccezione a favore degli equites ed anzi ne ribadisce la piena legittimità dell’applicazione. Conferma inoltre il suo personale impegno20 e la sua completa disponibilità nel ricorrere, anche in futuro, a tale eccezione21 ogni qual volta un soggetto non vincolato a questa legge – “qui lege non teneatur”22- richiederà in merito la sua competenza tecnica ed il suo aiuto come patrono - “si is uti

me defensore voluerit”23- . E se da una parte Cicerone non si rifiuta di valutare in futuro l’opportunità di estendere questa giurisdizione a tutti gli ordini24 dall’altra, almeno per il momento, afferma con forza l’obbligo del rispetto della legge in vigore25, perché è solo tale rispetto che garantisce la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini: “Legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus”26.

18 Il Pugliese (Aspetti giuridici della pro Cluentio di Cicerone, a cura di G. Pugliese, op. cit., p. 175) nel mettere giustamente in risalto l’importanza di questa clausola dal punto di vista storico-giuridico, rileva altresì come Cicerone costituisca per noi a riguardo l’unica fonte dell’esistenza della stessa: “Si tratta di una clausola della Lex Cornelia de

sicariis et veneficiis, che non ci è altrimenti nota e che arricchisce le nostre conoscenze su questa legge fondamentale del sistema delle quaestiones. La sua rilevanza, del resto, non è limitata al diritto penale, ma si estende a quello costituzionale, in quanto illumina la diversità di posizione giuridica dei senatori rispetto ai cavalieri”.

19

Cic., Cluent. 54, 148.

20 Cic., Cluent. 57, 158: “Sed hoc polliceor omnibus”.

21 Cic., Cluent. 57, 158: “et omni me defensione usurum esse legis”. 22 Cic., Cluent. 57, 158.

23

Cic., Cluent. 57, 158

24 Cic., Cluent. 56, 155: “Quae si vobis condicio placet, omnes id agamus, ut haec quam primum in omnis ordines

quaestio perferatur”.

25 Cic., Cluent. 53, 146: “tu mihi concedas necesse est multo esse indignius in ea civitate quae legibus contineatur,

discedi ab legibus” e ancora Cluent. 57, 155: “a legibus non recedamus…”.

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L’Arpinate, quindi, politicamente fedele alla sua “immagine di affidabile uomo di

ordine”27, di incrollabile baluardo contro ogni possibile minaccia per la repubblica, svolge questo lungo elogio della legge intesa, da un lato, come un vincolo all’interno dello Stato28, dall’altro come la base di ogni privilegio, diritto, libertà e della stessa incolumità dei cittadini: “(…) quoniam omnia commoda nostra, iura, libertatem,

salutem denique legibus obtinemus”29.

E’ molto interessante notare come dal punto di vista giuridico, ma forse ancora di più da quello sociale e politico, questo elogio della legge come fonte di giustizia – “fons

aequitatis”30 - all’interno dello Stato, nasca proprio dall’esigenza dell’oratore di giustificare una almeno apparente ingiustizia operata dalla stessa, id est l’eccezione a favore dei Cavalieri contenuta nella Lex Cornelia de sicariis et veneficiis.

Ecco quindi balzare agli occhi il Cicerone uomo politico alla continua ricerca di alleanze da una parte e desideroso nel contempo di non offendere la suscettibilità di nessuna parte sociale dall’altra. Se è vero infatti che una prima lettura di questa clausola favorirebbe gli equites a scapito di altre classi sociali31, è pur vero che l’Arpinate trovandosi a giustificare questa palese sperequazione della legge, riesce a trovare una giustificazione politica e “morale” della presenza di tale eccezione nel testo legislativo. Cicerone, assumendo una posizione che non scontenta al contempo gli altri ordines che a tale norma rimangono assoggettati, fa notare infatti come l’eccezione presente nella Lex Cornelia de sicariis et veneficiis non sia altro che la conseguenza di quel generale principio di correttezza, peraltro sostenuto già dagli antenati con grande senso di giustizia e di imparzialità, in forza del quale i cittadini che nello stato traggono i maggiori benefici devono, di conseguenza, sostenerne anche gli obblighi ad essi correlati32.

D’altra parte, gli equites, fa notare Cicerone, benché già di alto prestigio, pur potendo, se solo lo avessero voluto, salire fino al gradino più elevato della gerarchia

27 Cfr. supra nota 3.

28 Cic., Cluent. 53, 146: “Hoc enim vinculum est huius dignitatis qua fruimur in re publica”. 29 Cic., Cluent. 57, 155.

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Cic., Cluent. 53, 146

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sociale, si sono invece da sempre tenuti lontano dalla vita politica rinunciando così a raggiungere i massimi onori e rifiutando ogni tipo di carica pubblica. I Cavalieri infatti, continua l’Arpinate, pur rendendosi conto dei privilegi e dello splendore che avrebbe comportato tale condizione, ma consapevoli altresì di non poterne sopportare il peso, si sono da sempre ritenuti paghi dello stile di vita che era già stato proprio dei loro padri, preferendo così un’esistenza tranquilla e pacifica33. Conclude pertanto Cicerone: “iniquum esse eos qui honorum ornamenta propter periculorum

multitudinem praetermisissent populi beneficiis esse privatos, iudiciorum novorum periculis non carere”34, riconfermando con queste parole la piena legittimità del dettato legislativo che rinuncia ad assoggettare i Cavalieri a questo tipo di giurisdizione ed evidenziando al contempo l’equità della disposizione che impone invece ad altre categorie di cittadini, come senatori e magistrati, che hanno raggiunto i massimi livelli nello Stato35 l’obbligo di sostenere proporzionalmente anche maggiori responsabilità a livello sociale, politico, giuridico e militare36. Sono interessanti a questo proposito le riflessioni di G. Pugliese che, attraverso un’analisi più strettamente giuridica del testo della Pro Cluentio, mette in luce una ratio storica della presenza di questa limitazione della applicabilità del testo legislativo de quo37. 32 Cic., Cluent. 56, 154: “quibus in rebus cum summa recte factis maiores nostri praemia tum plura peccatis pericula

proposita esse voluerunt”.

33 Queste sono le parole di Cicerone a riguardo: “ornamenta, quae dignitas; quae se non contempsisse, sed ordine suo

patrumque suorum contentos fuisse et vitam illam tranquillam et quietam, remotam a procellis invidiarum et huiusce modi iudiciorum sequi maluisse” (Cic., Cluent. 56, 153).

34 Cic., Cluent. 56, 154

35 E ricavano da questa elevata posizione sociale grandissimi onori e benefici che Cicerone enumera puntualmente:“(…)

locus, auctoritas, domi splendor, apud exteras nationes nomen et gratia, toga praetexta, sella curulis, insigna, fasces, exercitus, imperia, provinciae (…)”(Cic., Cluent. 56, 154).

36 “Senatorem hoc queri non posse, propterea quod ea condicione proposita petere coepisset, quodque permulta essent ornamenta quibus eam mitigare molestiam posset” (Cic., Cluent. 56, 154).

37

Il Pugliese (Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op. cit., p.43-44) afferma: “Cicerone dice infatti che essa si riconnette a una lex Sempronia fatta emanare da C. Gracco nel

123 a.C.; ed è noto che questi, oltre a volere rafforzare le garanzie degli individui contro gli arbitrii dei magistrati, seguì una politica nettamente antisenatoria. La lex Sempronia, d’altro canto, perdette una parte considerevole della sua rilevanza, quando, poco dopo, ad opera dello stesso Gracco, i cavalieri furono introdotti nelle giurie accanto (o la posto dei) senatori; ma essa non venne abrogata, né per converso estesa ai cavalieri. Il tentativo anzi compiuto qualche decennio dopo, nel quadro di un’organica ricomposizione delle giurie, da Livio Druso di rendere i cavalieri, aventi funzione di giudici, responsabili per corruzione urtò, come ci informa ancora Cicerone, contro la resistenza accanita diquest’ordine. Quando poi Silla, redigendo la lex de sicariis et veneficiis, vi incluse, sul modello della lex Sempronia, la norma di cui parliamo, egli non potè assoggettarvi di cavalieri, nonostante il suo orientamento politico esattamente opposto a quello di C. Gracco, poiché aveva escluso i cavalieri dalle funzioni giudiziarie. Solo nel 70 a.C., con la lex Aurelia che riammise i cavalieri nelle liste dei giudici, il problema di una più larga sfera di applicazione della norma suddetta si sarebbe potuto porre. Ma in realtà questo allargamento non si ebbe, né prima del processo contro Cluentio, né, a quanto consta, successivamente per il rimanente scorcio del periodo repubblicano”.

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L’attacco contro la demagogia e l’elogio della nuova legge giudiziaria.

È stato affermato da più parti che questa aperta simpatia di Cicerone nei confronti dei Cavalieri sia stata determinata soprattutto dal suo desiderio di crearsi all’interno di questa influente categoria un solido appoggio per la sua futura candidatura al consolato38. Dobbiamo però fare attenzione a non interpretare questi legami

dell’Arpinate con l’ordo equester in maniera troppo semplicistica esaurendoli nella mera ricerca da parte dell’oratore di un sostegno per il prosieguo del proprio cursus

honorum.

Secondo il Pugliese tale atteggiamento è da ricondursi infatti non solo al perseguimento di un interesse personale, ma deve essere letto anche nell’ottica più ampia della realizzazione dell’ambizioso programma politico ciceroniano teso ad “unire cavalieri e senatori in un unico blocco d’ordine, che sbarri la via ai

rivoluzionari e nello stesso tempo impedisca la formazione di poteri personali simili a quello di Silla...."39, id est la concordia ordinum: l’intesa fra i due maggiori gruppi

dello stato, senatori e cavalieri.

L’Arpinate si propone così come l’uomo capace di costruire un equilibrio all’interno delle varie forze politiche e di rappresentare un’ancora di salvezza per la Repubblica al di là di ogni possibile divergenza.

Ed in questa ricerca di un accordo fra i vari ordini dello stato, intesse le lodi del nuovo clima politico nel quale egli si trova ora ad operare: “Neque me paenitet hoc

potius tempore quam illo causam A.Cluenti defendere; causa enim manet eadem, quae mutari nullo modo potest, temporis iniquitas atque invidia recessit, ut quod in tempore mali fuit nihil obsit, quod in causa boni fuit prosit”40 e coglie “l’occasione di

fare, sia pure indirettamente, l’elogio della nuova legge giudiziaria ormai in vigore41, contrapponendola a quella di Silla, che aveva reso possibili gli abusi del tribunale di

38 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.9.

39 G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op. cit., p.7

40

Cic., Cluent. 29, 80.

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Giunio”42. Allo stesso modo, “attacca a più riprese gli eccessi della demagogia tribunizia di Quinzio”43 che conducono invece ad una sicura rovina dello stato.

È soprattutto nel campo giudiziario che Cicerone sottolinea la differenza fra gli eventi di un passato più o meno recente, nel quale i processi erano viziati da un clima di

invidia e di violenza44 e la situazione attuale molto più serena e tranquilla, nella quale quegli stessi processi possono svolgersi non solo nella massima serenità e sicurezza, ma anche e, soprattutto, con assoluta imparzialità e secondo giustizia. Illuminante in merito è il confronto operato dall’oratore tra il procedimento condotto dal tribuno della plebe L. Quinctio contro G. Giunio, nel 74 a.C., e quello recente a carico di Fausto Silla45.

Nel primo caso Cicerone mette in luce l’estrema violenza di questo processo nel corso del quale il dibattimento era divenuto quasi uno spettacolo teatrale 46 ed il clima di assoluta illegalità che non solo impediva all’accusato di prendere la parola, ma anche solo di alzarsi in piedi47.

Al contrario, nel caso della accusa mossa in tempi recenti nei confronti di Fausto Silla, l’oratore sottolinea con estrema soddisfazione che tale incriminazione non era stata neppure seguita da un processo48. La ratio di questa diversa procedura, continua Cicerone, è da collegarsi non al fatto che l’accusato fosse considerato al di sopra della legge, ma perché, essendo l’accusatore un tribuno della plebe - “accusante tribuno

plebis”49 -, era stato giudicato che tale dibattimento non potesse svolgersi secondo garanzie di imparzialità50, sebbene questa volta il tribuno “accusante”, a detta dello stesso Arpinate, a differenza di L. Quinctio 51 fosse un uomo “modestus, pudens, non

42 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.10. 43 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.10.

44Cic., Cluent. 34, 93: “Quia tum in causa nihil erat praeter invidiam, errorem suspicionem contiones cotidianas

sediziose ac populariter concitatas”,

45 Fausto Silla, figlio del famoso dittatore e della quarta moglie Cecilia Metella, accusato di trovarsi indebitamente in possesso di somme provenienti dall’erario statale, destinate dal padre alla realizzazione di opere pubbliche (Cic.,

Cluent. 34, 94).

46

Cic., Cluent. 34, 93: “Gradus illi Aurelii, tum novi, quasi pro theatro illi iudicio aedificati videbantur”. 47 Cic., Cluent. 34, 93: “non modo dicendi ab reo, sed ne surgendi quidem potestas erat”.

48 Fausto Silla infatti riuscì effettivamente in tale frangente a sottrarsi al processo. 49 Cic., Cluent. 34, 94.

50

Cic., Cluent. 34, 94: “(…) conditione aequa disceptari posse non putaverunt”. 51 Cic., Cluent. 34, 94: “acerbus, criminosus, popularis homo ac turbulentus”.

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modo non seditiosus, sed etiam seditiosis adversarius,”52 e la situazione attuale si presentasse tranquilla e calma: “tempus hoc tranquillum atque pacatum”53. Quindi due modi di operare diametralmente opposti, sebbene relativi a due procedimenti molto simili fra loro: sia nell’uno che nell’altro caso si trattava infatti di un pubblico processo penale di competenza di una quaestio perpetua ed in entrambe le occasioni l’accusatore era un tribunus plebis, ma mentre nel primo caso non si erano tenute in alcun conto la legge e la giustizia, nel secondo ci si era preoccupati invece di garantire la massima imparzialità e di assicurare ogni tipo di garanzia giuridica a favore dell’accusato.

Questo nuovo clima di legalità e di sicurezza unito alla rinnovata composizione delle giurie54 che aveva permesso il decadere di ogni possibilità di abuso da parte delle stesse, in precedenza formate da soli senatori55 e di conseguenza l’allontanamento di ogni sospetto di corruzione che in passato gravava pesantemente su questi ultimi56 facendo dichiarare a Cicerone al tempo del processo di Verre: “Inveteravit enim iam

opinio perniciosa rei publicae vobisque periculosa, quae non modo apud nos sed apud exteras nationes omnium sermone, percrebuit his iudiciis quae nunc sunt pecuniosium hominem, quamvis sit nocens, neminen posse damnari”57, può far ora esclamare all’oratore: “Optimis hercule temporibus, tum cum homines se non

iactatione populari, sed dignitate atque innocentia tuebantur”58. Ed in questo panegirico del tempo presente non poteva mancare da parte dell’Arpinate un appello indiretto alla giuria che in quel momento lo ascolta affinché giudichi con equità e saggezza: “nedum his temporibus, his moribus, his magistratibus sine vestra

52 Cic., Cluent. 34, 94.

53 Cic., Cluent. 34, 94.

54 Composte ora, come già accennato, in base alla Lex Aurelia del 70 a.C. 55

Come stabilito dalla legislazione sillana, nella fattispecie dalla Lex Cornelia iudiciaria dell’81 a.C

56 Sospetti che, a detta degli storici erano fondati. Sono attestati infatti casi in cui le giurie senatorie si erano lasciate corrompere da ambedue le parti in causa. A questo proposito Narducci (E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa

di Cluentio, op.cit., p.14), commentando il caso del giudice C. Elio Peto Staieno, personaggio molto noto nel mondo

giudiziario per la sua grande avidità, sul quale gravava il sospetto che, nel 74 a.C., in qualità di membro della giuria del

iudicium Iunianum, avesse ricevuto denaro sia dall’accusa (Cluentio) che dall’accusato (Oppianico), sospetto che

Cicerone cerca in ogni modo di riversare unicamente su Oppianico, afferma: “In realtà è probabile che i giudici

avessero accettato denaro da entrambe le parti, tale era il grado di corruzione”.

57

Cic., In Verrem I, 1 58 Cic., Cluent. 35, 95.

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sapientia ac sine iudiciorum remediis salvi esse possimus”59, significando con queste parole che anche le leggi migliori non sono in grado di tutelare adeguatamente i cittadini se non sono supportate dalla saggezza dei giudici che sono tenuti ad applicarle, “Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices (…)”60.

In quest’ottica di difesa della legalità capace di riunire sotto la propria egida le energie migliori dello Stato, l’oratore scaglia quindi violente invettive contro ogni forma di demagogia intesa come una forza negativa e distruttiva, suscitata da uomini senza scrupoli e tesa unicamente, mediante lo sfruttamento degli umori della folla volubile e opportunamente pilotata, a provocare azioni turbolente tendenti a destabilizzare la Repubblica. Nella Pro Cluentio è il tribuno della plebe L. Quinctio il rappresentante di questa “vis tribunicia”61, tanto più pericolosa, quanto più estranea ad ogni controllo e proprio per questo, molto difficile da combattere una volta innescata. È in virtù di queste considerazioni che l’oratore al §2, nell’esordio dell’orazione, afferma che sarà per lui molto più difficoltoso ed impegnativo riuscire a dissipare la cattiva fama, “l’invidia iam inveterata”62, sorta intorno a Cluentio da voci di piazza e per questo più adatta, “accommodatior”63, ad assemblee sediziose e turbolente64, piuttosto che arrivare a scagionare il suo cliente da un’accusa formale65 che, se pur grave e pericolosa, è strettamente pertinente ad un tribunale all’uopo istituito dalla legge: “quae propria est iudici vestri et legitimae veneficii

quaestionis”66.

Cicerone e l’aristocrazia provinciale: i motivi della difesa di Cluentio.

“Con una larghezza di vedute rara fra i romani del suo tempo, egli (Cicerone)

proclamò che la difesa del sistema repubblicano dipendeva ormai non solo dai due

59 Cic., Cluent. 34, 94. 60 Cic., Cluent. 53, 146. 61 Cic., Cluent. 35, 95. 62 Cic., Cluent. 1, 1. 63 Cic., Cluent. 1, 2.

64 Cic., Cluent. 1, 2: “contionibus seditiose concitatis”. 65

Quella di avvelenamento. 66 Cic., Cluent. 1, 2.

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ordini privilegiati, ma anche dai piccoli proprietari sparsi nei municipi della penisola, dai piccoli commercianti, dagli stessi liberti”67.

Questa attenzione di Cicerone verso la realtà municipale, dalla quale egli stesso proveniva, traspare non di rado dai passi della Pro Cluentio.

Abbiamo una conferma di quanto sopra quando soffermiamo la nostra attenzione sui legami personali dell’oratore con i membri più eminenti dell’aristocrazia locale del municipio di Larino, legami che Cicerone, uomo politico teso alla continua ricerca di sostegni per il prosieguo del suo cursus honorum, non poteva trascurare.

A detta dell’Arpinate sarebbero state proprio le pressioni esercitate da questi

municipes a convincerlo ad assumere la difesa del loro stimato concittadino, l’eques romanus Aulo Cluentio Abito. Nella peroratio, la parte finale del discorso, l’oratore

fornisce un elenco di tutti i Larinati più influenti venuti a sostenere, direttamente in tribunale con la propria presenza, oppure attraverso una testimonianza giurata, l’innocenza di Abito: “Itaque eis eum verbis publice laudant tu non solum

testimonium suum iudicumque significent, verum etiam curam ac dolorem”68. In aggiunta a questo Cicerone sottolinea, con parole di notevole efficacia patetica e cariche di commozione, che gli stessi magistrati del municipio si sono mossi in favore di Cluentio decretandogli un pubblico elogio69.

Secondo J.T.Kirby70 in questo passo l’Arpinate opera una interessante variazione sul tema della miseratio71, in quanto l’effetto retorico della stessa è reso più complesso ed articolato dal fatto che la delegazione di Larino ha prestato anche una testimonianza giurata, cosa questa che ha contribuito a conferirle un tono più ufficiale e solenne del solito senza che l’efficacia patetica dell’insieme ne sia stata in alcun modo compromessa. Per Cicerone, un appoggio politico importante dunque, quello assicurato dai membri dell’aristocrazia di Larino a tal punto che l’oratore non ha

67 M. Talamanca, Lineamenti di storia del Diritto Romano, op.cit., p. 350. 68

Cic., Cluent. 69, 196.

69 Cic., Cluent. 69, 197: “Ex lacrimis horum iudices existimare potestis omnis haec decuriones decrevisse lacrimantis”. 70 J. T. Kirby, The rhetoric of Cicero's Pro Cluentio, Amsterdam 1990, p. 38.

71 Ovvero la consuetudine di presentare ai giudici, durante i processi, per suscitarne la pietà, l’imputato avvilito e sofferente e tutti quelli intervenuti in suo soccorso per l’occasione – figli, genitori concittadini – parimenti affranti e prostrati per la sorte del loro caro.

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esitato ad accoglierne le preghiere quando si è trattato di assumere la difesa del loro illustre concittadino.

Che quest’ultimo fosse un importante personaggio di quella comunità, senza dubbio appartenente al ceto dirigente, si deduce, per esempio, dalla parte sostenuta da quest’ultimo nella controversia sorta in quel municipio relativamente allo status giuridico dei cosiddetti “Martiales”72,personaggi sui quali ci soffermeremo più

diffusamente nel prossimo capitolo di questo lavoro. A proposito di questa vicenda l’Arpinate sottolinea come il suo assistito, proprio in virtù della stima di cui godeva presso i suoi concittadini, era stato scelto dagli stessi, quale loro rappresentante,

patronus, per difendere gli interessi di Larino a Roma73.

Cicerone e l’aristocrazia provinciale: il sostegno di Oppianico il giovane:

Nonostante abbia accettato la difesa di Cluentio, Cicerone da buon avvocato e da buon politico, esponendosi al rischio di assumere un atteggiamento quasi contraddittorio, non tralascia, nel corso dell’arringa, di curare le buone relazioni con la parte avversa rappresentata da Oppianico il giovane, l’accusatore , il delator

nominis, del suo cliente. Cercando di stabilire il più possibile il confine tra i suoi

sentimenti personali e i doveri che la causa gli impone, Cicerone, rivolgendosi, durante il dibattimento, direttamente a quest’ultimo, tiene a precisare che tutte le affermazioni spiacevoli che riporterà a proposito del padre le riferirà sempre ed esclusivamente, perché obbligato dalla causa che deve sostenere e non perché animato da risentimento personale verso di lui74 aggiungendo inoltre che non mancheranno in futuro le occasioni per favorirlo in un qualche modo: “Etenim tibi si

in praesentia satis facere non potuero, tamen multae mihi ad satis faciendum reliquo

72 Cicerone (Cluent. 15, 43-44) descrive questi personaggi come una sorta di schiavi pubblici presenti a Larino che nominalmente servivano il dio Marte, in pratica dipendevano dalla comunità larinate. Questa vicenda vide Oppianico, apertamente sostenitore in un regolare processo, della libertà di questi ultimi, in contrasto con Cluentio e con il resto dei

Municipes. Fu proprio lo stesso Cluentio che, in tale occasione, su incarico dei Larinati, sostenne a Roma la causa della

loro schiavitù.

73 Sede istituzionale per la discussione di tutte le cause che avevano ad oggetto lo status giuridico di una persona. 74

Cic., Cluent. 4, 10: “Abs te peto, Oppianice, ut me invitum de patris tui causa dicere existimes, adductum fide atque

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tempore facultates dabuntur: Cluentio nisi nunc satis fecero, postea mihi satis faciendi potestas non erit”75 .

Viene spontaneo paragonare tali affermazioni a quelle formulate dallo stesso oratore al §139 dove l’Arpinate, sviluppando tutta una sua elaborata teoria in merito alla deontologia professionale dell’avvocato romano, argomento del quale ci occuperemo fra poco in modo più approfondito, insiste ancora sul concetto che le dichiarazioni espresse dagli avvocati durante i dibattimenti non rispecchiano assolutamente le convinzioni personali degli stessi, ma sono suggerite esclusivamente dal contesto storico e politico in cui vengono alla luce ed influenzate dalle cause che in quel momento vengono dibattute.

Cicerone e l’aristocrazia provinciale: i rapporti di “vicinitas”.

In questa stessa ottica di ricerca di amicizie e di appoggi, deve essere letto il passo della Pro Cluentio nel quale Cicerone sottolinea l’importanza delle relazioni di

vicinitas, ovvero di buon vicinato, con gli Aletrinates76, relazioni che nel mondo romano costituivano una sorta di legame morale di reciproco aiuto ed assistenza. L’oratore, sottolineando “l’impegno e la partecipazione profusi nell’interesse dei

vicini”77 con “un linguaggio ricco di spessore affettivo”78, afferma che sono stati proprio i vincoli di vicinitas e i rapporti personali di amicizia con molti aletrinati79 che lo spinsero ad assumere in passato la difesa del liberto Scamandro80 accusato allora proprio dal suo attuale cliente, Cluentio, di tentato avvelenamento nei propri confronti. È per questo che l’oratore, notevolmente imbarazzato da questa vicenda

75

Cic., Cluent. 4, 10.

76 Abitanti del municipio di Alatri (l’antica Aletrium). Cicerone parla qui di vicinato perché tale comunità, collocata nel territorio degli Ernici, qualche miglio a nord della Via Latina, era situata non lontano (circa sedici miglia a sud-est) da Arpino, città natale dell’oratore.

77

E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.114-115, nota 103.

78 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p. 114-115, nota 103. Leggiamo a questo proposito le parole dello stesso Cicerone (Cic., Cluent. 17, 50): “Ego, qui neque illis talibus viris ac tam amantibus mei

rem possem ullam negare (…) pollicitus eis sum me omnia quae vellent esse facturum”.

79

Cic., Cluent. 17, 49: “quod mihi cum Aletrinatibus vicinitatem et cum plerisque eorum magnum usum esse sciebat,

frequentes eos ad domum adduxit”.

80 Il liberto Scamandro come il suo patrono, C. Fabricio, apparteneva al Municipio di Alatri. Secondo la versione di Cicerone, sarebbe stato lo stesso Fabricio che, accompagnato da una delegazione di aletrinati, tra i quali molti amici personali dell’Arpinate, si sarebbe recato personalmente a casa dell’oratore per pregarlo di assumere la difesa di Scamandro

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che lo aveva visto opporsi in passato proprio all’uomo del quale ora sostiene la difesa, tiene a ribadire che fu solo per assecondare le preghiere di quei municipes, desiderosi di salvaguardare la dignità del loro concittadino C. Fabricio81 (il quale dalla condanna del proprio liberto avrebbe avuto tutto da perdere) che accettò di difendere Scamandro, uomo di dubbia reputazione, in una causa che, come ammette lo stesso Cicerone, era già quasi perduta fin dall’inizio: “qui quamquam de homine

sicut necesse erat existimabant, tamen, quod erat ex eodem municipio, suae dignitatis esse arbitrabantur eum quibus rebus possent defendere; idque a me ut facerem et ut causam Scamandri susciperem petebant, in qua causa patroni omne periculum continebatur”82.

La reputazione dell’avvocato romano.

“Difficilior ei ratio in iudicio Cluentiano fuit, cum Scamandrum necesse haberet

dicere nocentem, cuius egerat causam. Verum id elegantissime cum eorum a quibus ad se perductus esset precibus, tum etiam adulescentia sua excusat, detracturus alioqui plurimum auctoritatis sibi, in causa praesertim suspecta, si eum se esse qui temere nocentis reos susciperet fateretur”83.

È proprio attraverso i passi della Pro Cluentio sui quali ci siamo appena soffermati84 che Quintiliano intravede un aspetto molto interessante tipico del mondo romano: la convinzione dell’avvocato difensore che l’assumere la difesa di un soggetto nell’opinione comune giudicato già colpevole – “qui quamquam de homine sicut

necesse erat existimabant”85 - potesse in qualche modo intaccare anche la dignità e

l’onorabilità dell’avvocato stesso che ne avesse assunto il patrocinio. Così Cicerone, se da una parte è costretto ad ammettere che accettò di difendere Scamandro pur

81

G. Fabricio era infatti patrono di Scamandro. 82 Cic., Cluent. 17, 49.

83 Quintiliano, Inst. Orat. 11, 1, 74. Diamo di seguito la traduzione del passo citato nel testo: “Più difficoltosa fu la strada seguita (da Cicerone) nella difesa di Cluenzio, dovendo dichiarare colpevole Scamandro, di cui aveva sostenuto la causa. Ma questo fece con grande garbo, portando a scusante e le preghiere di coloro che avevano accompagnato il reo da lui e la propria giovanile età, sapendosi destinato, altrimenti a venir colpito nella sua dignità, se per una causa particolarmente ambigua avesse ammesso di essere uno che, inconsideratamente, accettava la difesa di uomini veramente colpevoli”.

84

I §§ 49 e sgg. relativi al processo a carico di Scamandro, nei quali Cicerone cerca di giustificare a posteriori la sua decisione di assumere la difesa di quest’ultimo.

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valutando la posizione di quest’ultimo già molto grave fin dall’inizio, dall’altra, però, tiene a sottolineare, quasi a scusare il suo comportamento, che né lui, né gli stessi Aletrinati che lo avevano pregato di assumere tale incarico, avrebbero mai pensato che quell’accusa fosse davvero così grave ed acclarata: “neque illud crimen tantum

ac tam manifestum esse arbitrarer sicut ne illi quidem ipsi qui mihi tum illam causam commendabant arbitrabantur”86.

Cicerone quindi, proprio per scongiurare il pericolo di una possibile perdita della propria dignità e rispettabilità di avvocato agli occhi dell’opinione pubblica, porta come attenuante le preghiere e la grande amicizia nei confronti degli Aletrinati e, come si legge subito dopo al § 51, anche la sua giovane età87. L’oratore, operando un rovesciamento a suo favore di questa incresciosa situazione, precisa infatti che, essendo allora molto giovane, costituiva per lui motivo di vanto anche il solo fatto di non essere venuto meno in una situazione pressoché disperata nei suoi doveri di patrono verso un uomo che rischiava una condanna capitale: “illi aetati qua tum eram

solere laudi dari, etiam si in minus firmis causis hominum periculis non defuissem…”88.

Ai §§56 e seguenti dedicati al processo che Cluentio aveva intentato successivamente anche contro C. Fabricio, patrono di Scamandro89, Cicerone riprende il discorso relativo alla reputazione dell’avvocato. In questo caso l’oratore, sebbene non abbia avuto alcuna parte nella difesa di questo personaggio, approfitta comunque di questo episodio per tornare, sia pure indirettamente, a difendere la condotta tenuta a proposito di Scamandro. Cicerone afferma che il caso di Fabricio era talmente disperato, che lo stesso accusato, sentendosi già quasi condannato, visto appunto il verdetto sfavorevole emesso a carico del suo liberto, non solo non se la sentì, come era avvenuto per Scamandro, di condurre a casa sua i vicini di Alatri nell’intento di convincerlo ad assumere anche la propria difesa, ma che neppure in seguito poté servirsi dei propri concittadini come difensori, o tantomeno come testimoni a proprio

85 Cic., Cluent. 17, 49.

86 Cic., Cluent. 17, 50. 87

Nel 74 a.C., anno della discussione della causa di Scamandro, l’oratore aveva infatti 32 anni. 88 Cic., Cluent. 17, 51

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favore: “Hic tum Fabricius non modo ad me meos vicinos et amicos Aletrinates non

adduxit, sed ipse eis neque defensoribus uti postea neque laudatoribus potuit”90.

Nell’intento di dissipare definitivamente ogni ombra incombente sulla propria reputazione di avvocato, l’Arpinate conclude affermando che, mentre la difesa, sebbene disperata. di Scamandro rappresentava allora, se non altro, un gesto di umanità ora, al contrario, un eventuale intervento a favore di C. Fabricio sarebbe apparso soltanto un atto sfrontato e impudente: “rem enim integram hominis non

alieni quamvis suspiciosam defendere humanitatis esse putabamus, iudicatam labefactare conari impudentiae”91. Ecco per quale motivo lo stesso C. Fabricio, spinto dalla disperazione, sarà costretto a ricorrere, in mancanza di meglio, alla difesa offerta da due maldestri avvocati, i fratelli Cepasii92 che, a detta di Cicerone, da questa causa non solo non avevano nulla da perdere riguardo alla propria reputazione di patroni, ma che anzi ritenevano un onore qualunque possibilità venisse loro offerta di sostenere una difesa in tribunale: “homines industrios atque eo animo ut

quaecumque dicendi potestas esset data in honore atque in beneficio ponerent”93.

Con una felice espressione di sintesi, l’Arpinate conclude il discorso paragonando la situazione in cui versa una persona affetta da una gravissima malattia a quella in cui incorre un soggetto accusato di delitto capitale e con poche speranze di vincere la causa: con la sola differenza che mentre nel primo caso si andrà alla ricerca del medico più illustre e capace, nel secondo, al contrario, ci si dovrà accontentare dell’avvocato più inetto e sconosciuto94, proprio perché mentre un medico, nel curare un ammalato, sebbene in gravissime condizioni, esplicita solamente la propria competenza tecnica un avvocato invece, nell’assumere una difesa senza speranza, mette in gioco anche la propria reputazione e onorabilità.

89

In quanto ritenuto al pari del suo liberto, complice di Oppianico di tentato avvelenamento nei suoi confronti. 90 Cic., Cluent. 20, 56.

91 Cic., Cluent. 20, 57.

92 Cic., Cluent. 20, 57: “Itaque tum ille inopia et necessitate coactus in causa eius modi ad Caepasios fratres

confugit”.

93 Cic., Cluent. 20, 57.

94 Cic., Cluent. 21, 57: “Iam hoc prope iniquissime comparatum est quod in morbis corporis, ut quisque est

difficillimus, ita medicus nobilissimus atque optimus quaeritur, in periculis capitis, ut quaeque causa difficillima est, ita deterrimus obscurissimusque patronus adhibetur; nisi forte hoc causae est, quod medici nihil praeter artificium, oratores etiam auctoritatem praestare debent”.

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La deontologia professionale dell’avvocato romano.

“Sed errat vehementer si quis in orationibus nostris, quas in iudiciis habuimus,

auctoritates nostras consignatas se habere arbitratur; omnes enim illae causarum ac temporum sunt, non hominum ipsorum aut patronorum. Nam si causae ipsae pro se loqui possent, nemo adhiberet oratorem: nunc adhibemur ut ea dicamus, non quae nostra auctoritate constituantur, sed quae ex re ipsa causaque ducantur”95.

Con queste parole Cicerone “enuncia un principio deontologico fondamentale”96, manifestando le proprie idee in merito al codice di comportamento dell’avvocato romano, altro interessantissimo argomento che insieme a quello della reputazione emerge fra le righe della Pro Cluentio e, come quest’ultimo, strettamente legato alla carriera politica dell’Arpinate. A Roma, infatti, l’oratore era prima di tutto un uomo politico e i suoi discorsi rappresentavano spesso il trampolino di lancio per il prosieguo del suo cursus honorum. Del fatto che la condotta tenuta in veste di avvocato poteva arrivare ad influenzare anche l’immagine pubblica di un personaggio, costringendolo a dover da una parte difendere la propria reputazione eventualmente messa a rischio dal patrocinio di una causa dubbia e dall’altra a giustificare affermazioni e dichiarazioni espresse in precedenza, troviamo conferma in molti passi della Pro Cluentio.

Sotto questo profilo il Pugliese afferma: “l’ultimo, ma non il meno interessante, fra

gli aspetti della Pro Cluentio, che devono essere messi in rilievo, è quella specie di deontologia dell’avvocato, che Cicerone è indotto a delineare per sfuggire alla forza delle obbiezioni desumibili, e in realtà desunte, da quanto egli aveva affermato e sostenuto in precedenza”97. Il Pugliese si riferisce qui al fatto che T. Attio, avvocato della parte avversa, aveva in più occasioni, durante il processo contro Cluentio, obbligato Cicerone a giustificare alcuni suoi comportamenti ed affermazioni

95 Cic., Cluent. 50, 139.

96 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p. 242, nota 312. 97

G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op. cit., p.46.

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precedentemente posti in essere in palese contraddizione con la sua attuale linea di difesa.

Del processo contro Scamandro intentato a questo personaggio proprio dal suo attuale cliente, Cluentio, allora in veste di accusatore, abbiamo già avuto modo di parlare in precedenza.

Ma non era questo il solo precedente che poteva mettere in imbarazzo Cicerone: molto più temibili infatti, perché sfavorevoli ad Abito, erano alcune sue affermazioni contenute in due sue famosissime orazioni del passato, quella contro Verre e quella a favore di Cecina, nelle quali, a più riprese, l’Arpinate aveva espresso giudizi poco lusinghieri a proposito del iudicium Iunianumi98.

In particolare nella prima orazione contro Verre egli aveva menzionato M. Caesonius come il solo giudice del iudicium Iunianum che aveva avuto il coraggio di opporsi e di denunciare pubblicamente “turpissimum illud facinus”99, vale a dire il verdetto frutto di corruzione emesso da quel tribunale e, ancora, nello stesso discorso100 aveva affermato che fra i giudici estratti a sorte da Verre, allora pretore urbano, ve ne era uno in particolare che aveva ricevuto denaro sia dall’accusato101, per dividerlo fra i giudici, ma cosa più grave anche dall’accusatore102 e aveva votato in seguito per la condanna dell’imputato. Basta leggere la descrizione che Cicerone offre di Staieno103 nella Pro Cluentio per capire che il giudice corrotto da ambedue le parti in causa era proprio quest’ultimo.

Continuiamo ora con le altre affermazioni contraddittorie pronunciate dall’oratore in precedenti occasioni. Nella seconda verrina104 Cicerone, nell’affermare che Verre si era lasciato corrompere sia dall’accusato che dall’accusatore, lo paragona proprio a

98I giudizi negativi erano stati espressi da Cicerone sia in relazione ad alcuni giudici che avevano fatto parte di quella giuria, sia in merito ad alcune procedure seguite nella scelta dei giurati.

99

Cic., In Verr.1, 29. Vale la pena qui di riportare l‘intera frase espressa da Cicerone in quell‘occasione: “cum iudex in Iuniano consilio fuisset, turpissimum illud facinus non solum graviter tulit, sed etiam in medium protulit”.

100 Cic., In Verr.1, 39: „(…) quod inventus est senator qui, cum iudex esset, in eodem iudicio et ab reo pecuniam

acciperet quam iudicibus divideret, et ab accusatore ut reum condemnaret“.

101

Che ricordiamo essere stato l’attuale presunta vittima di Cluentio, ovvero il patrigno di quest’ultimo, Statio Abbio Oppianico.

102 Nella fattispecie Cluentio stesso.

103 Per un ritratto di questo personaggio cfr. supra, nota 56. 104

Cic., In Verr II, 2, 79: “Quem mihi tu Bulbum, quem Staienum?Quod unquam huiusce modi monstrum aut

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Staieno e a Bulbo, altro giudice del processo contro Oppianico. Nel corso di questa seconda arringa l’Arpinate ha modo ancora di affermare che nell’espletazione della procedura dell’estrazione a sorte105 dei giudici supplenti106 del iudicium Iunianum effettuata da G. Giunio, iudex quaestionis, sotto il controllo di Verre, pretore urbano, era stata commessa una falsificazione mediante la cancellazione e l’inserimento di nuovi nomi nel registro dei giurati107.

Infine l’ultima e forse più imbarazzante affermazione la troviamo contenuta nella Pro

Caecina108 nel passo in cui l’oratore descrive proprio uno di questi giudici supplenti, ovvero Fidiculanio Falcula, come un giurato ignobile e corrotto. Questo fatto non sarebbe poi così grave se proprio la successiva assoluzione di Falcula dall’accusa di corruzione109 non avesse costituito per Cicerone uno dei capisaldi della linea di difesa adottata nei confronti di Cluentio.

Queste erano dunque le scomode affermazioni di fronte alle quali Cicerone venne messo di fronte dalla parte avversa durante il processo a carico di Abito con le quali, in sostanza, o per un motivo o per un altro, aveva dato per scontato che il iudicium

Iunianum, del quale ora difendeva la legalità e la correttezza della procedura, fosse

stato viziato di corruzione. Spinto pertanto dalla necessità di dover spiegare tale divergenza di idee, l’Arpinate enuncia la propria teoria secondo la quale le opinioni espresse dagli avvocati durante i dibattimenti giudiziari non costituiscono l’espressione genuina del loro pensiero, bensì dipendono dalle cause e dalle situazioni che le hanno originate. Ne consegue quindi, continua l’oratore, che se le cause durante i dibattimenti potessero parlare direttamente, nessuno ricorrerebbe più agli

105 Tale procedura era stata stabilita dalla legislazione sillana che aveva dato facoltà alle due parti di un processo di respingere, attraverso una “reiectio iudicum” le persone che dovevano comporre la giuria del tribunale (consilium

quaestionis). Successivamente i membri eletti che nel corso del processo fossero costretti a lasciare vacante il loro

posto, venivano sostituiti mediante un nuovo sorteggio: la cosiddetta subsortitio. 106 Cic., In Verr. II, 2, 157-158: “Nam de subsortitione illa Iuniana iudicum nihil dico”.

107 Vale la pena di riportare le incisive parole di Cicerone (In Verr. II, 2, 158) con le quali l’oratore descrive Verre come un uomo avvezzo, durante l’espletamento degli incarichi pubblici a lui assegnati, a commettere ogni genere di falsificazioni di pubblici registri: “Hoc modo iste sibi et saluti suae prospicere didicit referendo in tabulas et privatas

et publicas quod gestum non esset, tollendo quod esset, et semper aliquid demendo, mutando, interpolando“.

108 Cic. Caecin. 10, 28. 109

Accusa mossa a questo personaggio in seguito alla sua presenza come giudice supplente nella giuria dell’iudicium

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avvocati che ne sono i semplici portavoce: “(…) Nam si causae ipsae pro se loqui

possent, nemo adhiberet oratorem ”110.

“Ego autem illa recitata esse non moleste fero; neque enim ab illo tempore, quod tum

erat neque ab ea causa quae tum agebatur aliena fuerunt neque mihi quicquam oneris suscepi, cum ita dixi, quo minus honeste hanc causam et libere possem defendere (…)”111 dichiara Cicerone con una solenne affermazione della propria libertà di espressione e di pensiero. Ritiene quindi legittimo aver in passato manifestato opinioni contrastanti, purché le stesse al momento attuale non gli siano di ostacolo alla causa che sta trattando.

Secondo il Pugliese questa teoria enunciata da Cicerone “costituisce il corollario

degli insegnamenti da secoli formulati dagli scrittori di retorica e trova riscontro quotidiano sia agli esercizi fatti svolgere ai futuri oratori, sia nella pratica forense. Essa, in quanto rivendicava la libertà dell’avvocato di scoprire ed illustrare tutti gli argomenti….corrisponde alle vedute più moderne circa il diritto di essere difesi e di difendere. Ed è certo che questo diritto comporta per l’avvocato, non solo quello di ricostruire i fatti… come meglio giova al proprio cliente, ma anche quello di ricostruire diversamente gli stessi fatti e di trarre da essi diversi argomenti, se in una nuova causa…….meglio giovino al nuovo cliente”112, seguito dal Narducci, che generalizzando ulteriormente tale concetto, ritiene addirittura che queste parole di Cicerone gettino le basi ed istituiscano “la morale degli avvocati di ogni tempo”113 . Il Narducci cita pertanto l’aneddoto relativo ad un grande penalista italiano del Novecento al quale fu obiettato, durante lo svolgimento di un processo, “che egli

stava sostenendo una tesi in contraddizione con quella enunciata in un suo lavoro scientifico; e il maestro replicò che quando scriveva faceva il professore, mentre in quel momento stava svolgendo il ruolo di avvocato”114. Questa diversificazione di

110 Cic., Cluent. 50, 139.

111

Cic., Cluent. 51, 142.

112 G. Pugliese, Introduzione, in Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op. cit., p.49.

113 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op. cit., p.39. 114

E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op. cit., p.32. Questo aspetto viene approfondito anche da V. Giuffrè, Notazioni storico-giuridiche sulla “pro Cluentio", in atti del convegno nazionale «Pro Cluentio» di

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ruoli è sottolineata anche da Cicerone quando precisa di non aver riportato in alcuna delle sue precedenti affermazioni né un fatto accertato, né di aver deposto in qualità di testimone115, stando così a significare che quelle parole erano allora il frutto di un giudizio personale116. Sottolinea anzi che proprio il ruolo di accusatore che in quel momento rivestiva gli imponeva prima di tutto di sollecitare con frasi ad effetto gli animi del popolo e dei giudici, anziché indurlo ad affermare una verità basata sui dei fatti accertati117. Trovandosi pertanto in quel frangente a parlare della corruzione dei tribunali preferì quindi appoggiarsi ad una voce diffusa che non ad un suo personale giudizio118 vedendosi costretto, di conseguenza, a non trascurare una vicenda che aveva destato tanto clamore presso l’opinione pubblica:“(…) istam rem, quae tam

populariter esset agitata, praeterire non potui”119.

Cicerone, quindi, “costretto ad una sorta di palinodia”120 non ritratta le posizioni assunte in passato. Anzi, con arguzia quasi a voler sdrammatizzare l’accaduto, cerca di trattare “tutta la questione in maniera semiseria”121. Così le famose Verrine, tappa

fondamentale per la sua carriera politica, diventano un discorso imprecisato e quasi dimenticato dal suo stesso autore: “Recitavit ex oratione nescio qua Attius, quam

meam esse dicebat”122. “Un’affettazione di modestia, volta a strappare un sorriso

all’uditorio”123 volutamente ostentata da Cicerone che comunque non manca di ribadire ancora una volta: “proinde quasi ego non ab initio huius defensionis dixerim

Marco Tullio Cicerone: Larino, 4-5 dicembre 1992, a cura dell'Amministrazione Comunale di Larino, Larino 1997 (ma 1998), p.84.

115 Cic., Cluent. 50, 139: “Ego vero, si quid eius modi dixi, neque cognitum commemoravi neque pro testimonio dixi”. 116 Cic., Cluent. 50, 139: “illa oratio potius temporis mei quam iudicia et auctoritatis fuit”.

117 Cic., Cluent. 50, 139: “Cum enim accusarem, et mihi initio proposuissem ut animos et populi Romani et iudicum

commoverem ”.

118 Cic., Cluent. 50, 139: “cumque omnes offensiones iudiciorum non ex mea opinione sed ex hominum rumore

proferrem”.

119 Cic., Cluent. 50, 139. 120

E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, Milano 2004, p.30. Sull’argomento è interessante citare anche il lavoro di E. Narducci, Relativismo dell’avvocato, probabilismo del filosofo. Interpretazione di alcuni aspetti

dell’opera di Cicerone a partire da “Pro Cluentio”139, in Atti del convegno nazionale «Pro Cluentio» di Marco Tullio

Cicerone: Larino, 4-5 dicembre 1992, a cura dell'Amministrazione Comunale di Larino, Larino 1997 (ma 1998). pp. 107 e sgg.

121 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.31.

122 Cic., Cluent. 50, 138: “Est etiam reliqua permagna auctoritas, quam ego turpiter paene praeterii; mea enim esse

dicitur. Recitavit ex oratione nescio qua Attius, quam meam esse dicebat, cohortationem quandam iudicum ad honeste iudicandum et commemorationem cum aliorum iudiciorum quae probata non essent, tum illius ipsius iudicii Iuniani”.

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invidiosum illud iudicium fuisse, aut, cum de infamia iudiciorum disputarem, potuerim illud quod tam populare esset illo tempore praeterire”124.

Cicerone cercando “con successo di trasformare in un elemento di forza l’originaria

debolezza della sua posizione”125, arriva pertanto ad affermare che, in ogni caso, nessuno potrebbe ora fargli una colpa se al tempo del processo contro Verre condivise l’opinione popolare, non essendo in quell’occasione ancora a conoscenza della verità sulla questione de qua126. Tuttavia “il rischio di essere, sia pure a torto

(secondo i suddetti criteri), colto in contraddizione rimane grande per un oratore; e Cicerone se ne rende benissimo conto”127 e “per rendere meglio accettabili le proprie

asserzioni cerca di ritrovarne dei precedenti in analoghi atteggiamenti dei maestri della sua gioventù, Antonio e Crasso”128. Di questi due oratori129 ricorda in particolare che il primo pubblicava malvolentieri i discorsi pronunciati in passato, proprio per il timore che eventuali lettori potessero scorgere possibili contraddizioni tra la sua condotta attuale e quella precedentemente tenuta. Del secondo invece sottolinea l’arguzia e l’ironia, doti di cui puntualmente si serviva ogni qual volta i suoi avversari cercavano di metterlo in difficoltà durante i processi evidenziando le possibili incoerenze presenti nelle sue affermazioni.

Concludo con queste riflessioni di Nino Marinone che nel commentare la divergenza di opinioni sostenute da Cicerone nel processo contro Verre rispetto a quelle presenti nell’arringa in difesa di Cluentio, afferma: “Questa posizione intermedia provocò

naturalmente qualche sensibile disparità di sentimenti, che egli (Cicerone) giustificava con le necessità del suo mestiere di avvocato, rifiutandosi di assumersene la responsabilità” e ancora “Certo è difficile distinguere il pensiero genuino dell’oratore tra le esigenze impostegli dal suo ufficio di avvocato e la

124 Cic., Cluent. 50, 138.

125 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.32. Si veda anche J. T.Kirby, The rhetoric of

Cicero's Pro Cluentio, op.cit., p. 31 e sgg.

126

Cic., Cluent. 51, 142: “Quod si velim confiteri me causam A.Cluenti nunc cognosse, antea fuisse in illa opinione

populari, quis tandem id possit reprehendere?”.

127 G.Pugliese, Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Aulo Cluenzio Abito, a cura di G. Pugliese, op.cit., p.48. 128 E. Narducci – M. Fucecchi, Cicerone, Difesa di Cluentio, op.cit., p.33 e cfr. Cic., Cluent. 50, 140; 51, 141-142. 129

Questi due oratori erano particolarmente stimati da Cicerone. L’Arpinate infatti sceglierà proprio tali personaggi come gli interlocutori principali del “De oratore”, la sua grande opera sull’eloquenza in forma dialogica

(23)

necessità di salvaguardare la verosimiglianza della finzione di un secondo dibattito”130.

130 N. Marinone – L. Fiocchi (Introduzione di N, Marinone, Traduzione e note di L. Fiocchi e N. Marinone), Cicerone,

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