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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

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Academic year: 2021

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Tradizione vuole che l’indisponibilità del credito di imposta costituisca, insieme all’inderogabilità della norma tributaria e alla vincolatezza della funzione impositiva, alle quali è geneticamente legata, uno dei capisaldi della nostra materia.

Tuttavia, negli ultimi decenni, la tenuta di questo principio è stata messa a dura prova da una congerie di istituti che il legislatore, facendosi interprete delle crescenti istanze di ammodernamento del sistema tributario in un’epoca

contraddistinta dall’affermarsi dell’amministrazione per risultati, ha

progressivamente inserito nel tessuto normativo.

Si tratta di strumenti che valorizzano il momento consensuale nella gestione delle varie fasi in cui si snoda l’attuazione del prelievo fiscale, sino al punto di facoltizzare il Fisco a “scendere a patti” con il contribuente, ogniqualvolta le circostanze del caso concreto inducano a ritenere tale approccio più proficuo per le finanze pubbliche, rispetto ad una conduzione prettamente autoritativa del rapporto tra creditore e debitore di imposta, modellata secondo le logiche avversariali tipiche del processo.

È noto, del resto, che in alcune situazioni, nella prassi assai ricorrenti, può essere vantaggioso per l’Amministrazione finanziaria rinunciare ad una porzione della propria pretesa in cambio dell’impegno vincolante, assunto dal debitore, di soddisfare la restante parte in tempi rapidi e certi.

La natura pubblicistica dell’obbligazione tributaria – segnatamente il profilo della sua generale indisponibilità – insieme alla doverosa osservanza del principio di legalità, ha fatto sì che, fino ad oggi, sia stato lo stesso legislatore ad individuare a priori e in astratto le fattispecie nelle quali è “eccezionalmente” consentito a Fisco e contribuenti addivenire ad accordi determinativi (o, più spesso, ri-determinativi) dell’an e del quantum debeatur a titolo di imposta, in

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sostituzione dei tipici provvedimenti autoritativi e unilaterali svolgenti tale funzione.

All’Amministrazione finanziaria spetta invece il compito di ravvisare in concreto la sussistenza delle condizioni legittimanti il ricorso a forme di definizione concordata della pretesa impositiva, e di assolverne gli oneri procedimentali finalizzati a garantire, da un lato, una sufficiente ponderazione delle determinazioni da adottare, attraverso la raccolta e l’analisi degli elementi informativi necessari allo scopo; dall’altro, la trasparenza delle valutazioni effettuate anche in vista dell’eventuale sindacato a posteriori circa la loro correttezza.

Il fattore che rende preferibile l’attuazione consensuale del tributo è l’incertezza, che può manifestarsi sia nella fase propriamente accertativa, volta cioè a far emergere l’effettiva base imponibile alla quale commisurare l’imposta dovuta, sia nella fase squisitamente riscossiva, in cui il credito dell’Erario è già quantificato (talvolta anche in via definitiva) e ad essere dubbia è la sua integrale soddisfazione.

All’incertezza del primo tipo l’ordinamento risponde mettendo a disposizione di contribuenti e Fisco gli istituti deflattivi del contenzioso tributario – accertamento con adesione, reclamo e mediazione, conciliazione giudiziale – così chiamati perché diretti a prevenire l’insorgere di liti o a porre fine a liti già insorte in rapporto all’esistenza e/o all’ammontare del debito di imposta.

L’incertezza legata alla riscossione del credito erariale viene invece contrastata con altri rimedi, sempre di carattere negoziale o “para-negoziale”, ma esperibili soltanto ad iniziativa del privato, in cui l’Amministrazione finanziaria è tenuta a formulare un giudizio prognostico che, anziché appuntarsi sull’esito di eventuali controversie riguardanti propri atti, ha per oggetto il grado di soddisfacimento delle pretese fiscali nel prevedibile quadro di una liquidazione del patrimonio del debitore, sia essa un’impresa in stato di crisi o un altro soggetto sovraindebitato. Giudizio che culmina in una comparazione (o calcolo di convenienza) tra il

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pagamento offerto dal contribuente nell’ambito di un piano di ristrutturazione dei debiti ed il quantum ottenibile dal Fisco allorché il progetto di risanamento della situazione finanziaria del contribuente non incontri l’appoggio dei creditori rappresentanti la maggioranza, oppure l’accordo raggiunto non venga omologato dal Tribunale, spalancando le porte ad una procedura liquidatoria.

Sotto il profilo prettamente dogmatico, che poi è quello che più interessa in questa sede, permane evidente la difficile conciliabilità di tali istituti (tutti) con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, il quale, come visto, comporta l’assoluta impossibilità di concedere abbuoni o sconti di sorta sul versante impositivo.

Ciò, a maggior ragione, con riguardo agli strumenti destinati ad operare nel peculiare stadio della riscossione, in ordine ai quali non possono valere le argomentazioni di consueto addotte per giustificare la legittimità costituzionale degli istituti con finalità deflattiva del contenzioso tributario.

Ebbene, è proprio allo scopo di dimostrare la conformità alla Carta fondamentale della transazione fiscale che si sono registrati i maggiori sforzi dottrinali, i quali, seppur singolarmente caratterizzati dalle più variegate sfumature, sembrano essere riconducibili a tre opzioni ermeneutiche di fondo468.

Per un verso, si è inteso enfatizzare la circostanza che l’istituto troverebbe luogo in una fase (quella più propriamente esattiva) caratterizzata non già all’accertamento dell’effettiva idoneità contributiva del singolo (invero elemento tipico del procedimento accertativo), quanto e piuttosto dalla concreta soddisfacibilità di una pretesa già certa in tutti i suoi elementi. Sicché, in una condizione di fatto in cui tale soddisfacibilità – giusta lo stato di insolvenza manifestato dal contribuente-debitore – appare difficilmente perseguibile, sarebbe concessa una lettura “attenuata” del principio medesimo al fine di consentire un’incisione non solo su sanzioni ed interessi ma, anche e soprattutto, sull’imposta dovuta.

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Per altro verso, si è tentato di individuarne una copertura costituzionale a sé stante, tale per cui il pagamento falcidiato può essere concepito come il frutto di un bilanciamento di opposti interessi degni della massima tutela da parte dell’ordinamento.

In questo senso, il referente è stato individuato nell’art. 97 Cost. e, più nello specifico, nei principi di efficienza e buon andamento della Pubblica Amministrazione da esso enucleabili. Cosicché, nel momento in cui la proposta transattiva viene formulata, si dovrebbe contemperare l’interesse pubblico all’attuazione del prelievo fiscale, nell’ammontare determinato in base alle leggi di imposta e conforme alla capacità contributiva manifestata dal singolo, da un lato, con il principio di economicità dell’agire amministrativo, dall’altro.

Il risultato di questo bilanciamento è sintetizzabile nell’interesse alla pronta e sicura riscossione delle imposte e dei relativi accessori, anche se in misura parziale, qualora il Fisco (o, in sua vece e nei casi previsti, l’autorità giudiziaria) ritenga, a conclusione di un’adeguata istruttoria, che il pagamento offerto dal debitore consenta la percezione delle entrate tributarie con margini di maggiore convenienza e certezza rispetto ai possibili esiti delle procedure esecutive individuali e collettive.

La ponderazione è dunque fra l’alternativa di conseguire in modo affidabile e pianificato la parziale soddisfazione del credito tributario, e quella di mantenere intatta la pretesa erariale soffrendo i rischi di mancata o minore soddisfazione – particolarmente elevati, giusta lo stato di crisi finanziaria in cui versa il contribuente – in un eventuale scenario liquidatorio.

Per altro verso ancora, in un’ottica assai più pragmatica, si è tentato di valorizzare il carattere endoconcorsuale dell’istituto, nel senso di porre l’attenzione sulla sua inclusione all’interno delle procedure di soluzione concordata della crisi d’impresa e, quindi, sui naturali effetti scaturenti da queste ultime. Seguendo tale impostazione, tramite lo strumento transattivo, l’Amministrazione finanziaria non rinuncerebbe ad una propria pretesa, ma

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prenderebbe semplicemente atto dell’incapienza del contribuente-debitore, a fronte della quale potrebbe acconsentire a forme di pagamento ridotte.

In un simile contesto, dunque, si sostiene come avrebbe poco senso invocare il principio di indisponibilità in relazione a somme in concreto comunque non riscuotibili: la decisione del Fisco di rinunciare alla riscossione dell’intero credito, ancorché non contestato, e di “accontentarsi” di un importo inferiore, ma pur sempre più elevato di quello che percepirebbe in caso di fallimento dell’impresa debitrice, anziché essere espressione di una volontà realmente abdicativa, si osserva, è di fatto una scelta obbligata: non essendo, infatti, l’Agenzia delle entrate in una posizione di certezza relativamente al soddisfacimento del proprio credito (ma, al contrario, essendo certa l’impossibilità di un suo recupero integrale), l’eventuale voto adesivo o l’assenso prestato alla proposta di transazione fiscale non implicherebbe una rinuncia effettiva alla pretesa impositiva.

Per quanto le ricostruzioni sino ad ora prospettate appaiano meritevoli della più alta considerazione, non può comunque essere sottaciuto come continui a permanere un certo imbarazzo nel riconoscere, da un lato, il ruolo centrale del principio di indisponibilità nella dinamica del fenomeno impositivo, dall’altro, nell’affermare la legittimità costituzionale di un istituto che, comunque la si pensi, consente di incidere sulla misura dell’imposta dovuta e, quindi e in definitiva, sulle regole di riparto dei carichi pubblici prefigurate in astratto dal legislatore fiscale in attuazione del principio di capacità contributiva.

A ciò si può obiettare che, qualora non si addivenisse alla transazione fiscale pur sussistendone i presupposti, l’Erario incamererebbe una quota di imposta inferiore o addirittura nulla, contribuendo con la propria rigidità ad aggravare gli effetti della sperequazione fiscale prodotta dall’insolvenza dell’impresa, giacché le somme rifiutate in sede transattiva si tradurrebbero in una minor entrata cui lo Stato dovrebbe verosimilmente sopperire con un inasprimento del prelievo a carico dell’intera collettività.

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La Corte costituzionale, investita della questione di costituzionalità dell’art.

182-ter l.fall. sotto il profilo dell’ipotizzata violazione dell’art. 53 Cost., si è astenuta

dallo sposare una delle linee argomentative appena enunciate, preferendo tagliare corto: per il giudice delle leggi, la transazione fiscale costituisce “un’eccezionale deroga stabilita dal legislatore al tradizionale principio di indisponibilità della pretesa tributaria”. Ergo, nei soli casi in cui è ammesso il ricorso a tale istituto, il credito d’imposta si spoglierebbe della consueta veste indisponibile per divenire un diritto “negoziabile”, una situazione giuridica soggettiva di vantaggio a cui il titolare può (deve) rinunciare in presenza di comprovate ragioni di opportunità e convenienza.

A me pare che tanto basti per ribaltare l’antico paradigma dell’indisponibilità e prendere finalmente atto della natura intrinsecamente disponibile del credito tributario, il quale, d’altra parte, non può essere considerato ontologicamente irrinunciabile, come si è cercato di dimostrare nel primo capitolo.

Il che, ovviamente, non significa legittimare forme di arbitrio nella determinazione della prestazione d’imposta: affermare la disponibilità del tributo, assumendo quale indice dimostrativo l’esistenza, all’interno del nostro ordinamento, di numerosi istituti, come quello in esame, manifestanti il favor legislativo per la concreta riscossione di un importo parziale del credito erariale rispetto alla conservazione di una titolarità, spesso solo teorica, dell’ammontare totale del credito stesso, non vuol dire rinnegare il rilievo e la funzione pubblicistica dell’obbligazione tributaria, ma anzi esaltare quel rilievo e quella funzione che, altrimenti, nei particolari contesti applicativi degli istituti suddetti finirebbero per essere frustrati nella sostanza, in nome di una solo apparente e formalistica attuazione delle regole di riparto sottese alle norme tributarie.

Non è un caso che la transazione fiscale sia destinata ad intervenire in situazioni, evidentemente patologiche ma ahimè assai frequenti, in cui l’impossibilità oggettiva di riscuotere integralmente e subito il credito erariale – circostanza attestata da un professionista indipendente e riscontrata dall’Amministrazione

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finanziaria o, in sua vece, dall’autorità giurisdizionale competente – giustifica l’accettazione di un pagamento sì falcidiato o dilazionato, ma pur sempre più satisfattivo delle altre opzioni concretamente praticabili, secondo il tradizionale criterio di scelta del “male minore”.

Una disponibilità, quella che connota il credito tributario, che possiamo quindi qualificare come “controllata” o “condizionata” – per distinguerla dalla disponibilità piena che caratterizza la maggior parte dei diritti patrimoniali – subordinata com’è alla sussistenza di precisi presupposti economici e giuridici e al rispetto di fondamentali presidi di legalità e ponderatezza delle decisioni assunte dalla Pubblica Amministrazione.

Del resto, una delle peculiarità del rapporto obbligatorio d’imposta risiede in questo, che il creditore-Erario, in quanto ente pubblico e collettivo, non può permettersi il lusso di agire contro il proprio interesse (rectius, l’interesse generale della cui cura è investito), e con modalità estemporanee, ossia svincolate da sequele procedimentali predefinite dalla legge per far sì che il provvedimento risultante sia espressivo di una volontà il più possibile coerente ai fini di interesse pubblico perseguiti.

Lo spazio di manovra lasciato agli organi di amministrazione attiva dipende dalla maggiore o minore propensione dei governanti a riporre fiducia nella capacità dell’apparato burocratico di riferimento – nel nostro caso, principalmente, l’Agenzia delle entrate – di assicurare adeguati standard di imparzialità (intesa come uniformità di comportamento delle articolazioni organizzative perifiche) ed equilibrio nella soluzione delle problematiche valutative proprie della funzione assegnata.

Da questo punto di vista, la recente evoluzione della disciplina in tema di trattamento dei crediti tributari nell’ambito delle soluzioni concordate della crisi d’impresa – laddove sembra mondare definitivamente il giudizio di accoglibilità della proposta transattiva da imperscrutabili connotazioni di carattere socioeconomico, la cui indeterminatezza contribuiva ad ingessare i già di per sé

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complessi processi valutativi della domanda – fa registrare un deciso passo in avanti nella direzione della semplificazione della relativa attività istruttoria, dal momento che, oggi, i termini del confronto sono chiaramente delineati (pagamento proposto versus soddisfazione ottenibile in caso di liquidazione dei beni del debitore). Al contempo però, ritengo che sia stato compiuto qualche passo indietro sul piano dell’equità e dell’effettiva tutela del credito erariale, nella misura in cui la perentorietà del dato normativo riformato sembra escludere dal giudizio qualsiasi altra considerazione, legata, ad esempio, alla condotta fiscale tenuta dal debitore prima e durante l’insorgenza della crisi.

Si tratta a mio avviso di un aspetto che non è stato tenuto nella dovuta attenzione dal legislatore, ma che attiene alla prevenzione e al contrasto di probabili fenomeni di ricorso abusivo al rimedio della transazione fiscale, onde evitare che quest’ultima, anziché rappresentare uno mezzo di gestione efficiente del rapporto d’imposta nell’interesse di entrambe le parti, si trasformi in una chance di esdebitazione strumentale, un involontario incentivo all’omissione dei versamenti fiscali come forma estrema di autofinanziamento improprio nelle imprese in crisi di liquidità469.

Occorre prendere atto che una verifica siffatta, da condurre “caso per caso”, al fine di quantificare, ad esempio, la quota del debito tributario infalcidiabile, non

469 Il rischio è paventato anche da ATTARDI, C., op. ult. cit., par. 8, ma già il C.N.D.C.E.C.,

nel proprio documento del dicembre 2015, denominato “Il contributo del CNDCEC alla riforma della crisi di impresa – profili tributari”, aveva segnalato il pericolo che, proprio in vista della possibilità di godere di una riduzione del debito in sede di transazione fiscale, il debitore, anteriormente alla richiesta di accesso alla procedura concordataria, potesse essere indotto a tenere una condotta abusiva, finalizzata a preferire in maniera costante il pagamento degli altri creditori (fornitori e banche) rispetto all’Erario, oltre quanto strettamente necessario per finanziare temporaneamente, ancorché impropriamente, la propria impresa in crisi.

Per arginare questo fenomeno, l’organo rappresentativo dei dottori commercialisti ed esperti contabili aveva suggerito di mantenere l’obbligo della soddisfazione integrale del debito Iva se e nella misura in cui tale passività non avesse avuto origine da una scelta momentanea, di fatto obbligata, del debitore, bensì fosse stata il frutto di una pratica consolidata e volutamente reiterata al precipuo scopo di utilizzare l’attivo patrimoniale per soddisfare creditori diversi dall’Erario, in danno di quest’ultimo.

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solo non è stata prevista dalla disciplina positiva, ma deve addirittura ritenersi preclusa dall’attuale formulazione dell’art. 182-ter, stante l’enunciazione tassativa dei criteri da seguire per la valutazione delle proposte di trattamento dei crediti fiscali, rispetto ai quali nessun rilievo assumono le cause genetiche dell’indebitamento verso l’Erario.

La conclusione che è dato trarne, in chiave sistematica, è nel senso di ripensamento della tradizionale concezione del principio di capacità contributiva. In altri termini, l’attitudine alla contribuzione dichiarata dal contribuente o determinata dall’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento, fanno entrambe riferimento ad un unico orizzonte temporale che, per le imposte periodiche collegate ad un presupposto di durata, è costituito dal c.d. “periodo di imposta”.

Mano a mano che il versamento del tributo si allontana da questo periodo diviene sempre più probabile che la forza economica originariamente espressa dal presupposto venga meno o subisca comunque un mutamento in conseguenza di eventi sopravvenuti (del resto è impensabile che un evasore accantoni diligentemente quanto necessario per pagare le imposte evase nell’eventualità e nel momento in cui gli vengano richieste).

Proprio come una fotografia, che esposta all’usura del tempo sbiadisce, perdendo poco a poco la capacità di rappresentare il soggetto col primitivo nitore, specie se mal conservata, può accadere che il contribuente, a distanza di anni dalla compiuta evasione, non sia obiettivamente in grado di estinguere integralmente i propri debiti poiché il frutto dell’illecito risparmio di imposta è andato disperso o è stato reinvestito nell’attività d’impresa senza però reintegrare quella provvista patrimoniale sufficiente a soddisfare le “vecchie” obbligazioni tributarie rimaste inadempiute.

In un simile scenario, che poi è quello che caratterizza molte imprese in crisi finanziaria, ammettere la falcidia dei crediti fiscali fino alla concorrenza del l’importo non più recuperabile neppure in prospettiva liquidatoria, significa

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scindere su due piani temporali il parametro costituzionale dell’imposizione fiscale: il momento impositivo, in cui viene realizzato il presupposto di fatto del tributo, ed un secondo momento che potremmo chiamare “contributivo”, in cui il prelievo trova concreta attuazione mediante l’effettivo depauperamento delle disponibilità economiche del debitore.

Un sistema tributario equo ed efficiente dovrebbe tendere a ridurre il più possibile l’intervallo di tempo che separa questi due momenti in modo da minimizzare il rischio di perdite di gettito sia nel breve che nel medio-lungo periodo.

Interventi più tempestivi degli organi di controllo e delle autorità addette alla riscossione, unitamente all’affinamento di strumenti giuridici, in parte già esistenti, volti a rendere corresponsabili degli omessi versamenti di imposta le persone fisiche che amministrano di fatto le società pesantemente indebitate con il Fisco, potrebbe scongiurare l’incancrenimento di molte situazioni di dissesto aziendale in cui sono spesso i creditori istituzionali ad uscire con le ossa rotte. Come sovente accade, però, si è preferito intervenire a valle del problema autorizzando le Agenzie fiscali – e, talvolta, in caso di loro inerzia o di rifiuto infondato, l’autorità giudiziaria – a stralciare i crediti tributari di fatto inesigibili vantati nei confronti di qualsiasi imprenditore in crisi che dimostri, relazione di un professionista “indipendente” alla mano, la preferibilità di una soluzione transattiva in luogo della liquidazione dell’azienda, senza minimamente considerare se il sacrificio imposto alla collettività sia controbilanciato da adeguate garanzie di meritevolezza del soggetto economico e dalla ragionevole aspettativa di ricadute positive del salvataggio dell’impresa sul benessere comune. Viene allora da chiedersi se l’attuale ordinamento possegga al suo interno gli anticorpi necessari per evitare che un’opportunità di rilancio di imprese incolpevolmente in crisi si riduca ad un comodo escamotage ad uso e consumo di operatori disonesti, al fine di sottrarsi all’adempimento del dovere solidaristico di

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partecipare alla copertura alle spese collettive in ragione della capacità contributiva originariamente espressa.

La risposta, al momento, non può che essere negativa, ma l’auspicio è, come sempre, che la prassi applicativa degli istituti comportanti una falcidia dei crediti fiscali sappia smussare gli angoli, ancora troppo appuntiti, di una normativa che benché già ampiamente rimaneggiata, ha tutta l’aria di dover essere rivista.

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