CAPITOLO 1‐INTRODUZIONE
1.1 SCHIZOFRENIA
1.1.1 Profilo clinico
I sintomi clinici della schizofrenia di solito iniziano a fine adolescenza o all'inizio dell'età adulta. Sono generalmente raggruppati in tre grandi categorie: sintomi "positivi" o "negativi" basati sugli effetti patologici delle normali funzioni, e "disturbi cognitivi". Nel corso del tempo, sintomi positivi e negativi tendono ad essere episodici ed a variare di intensità.Sintomi positivi
Questi includono i sintomi che sono considerati esagerazioni o distorsioni delle normali funzioni: psicosi, false credenze (deliri, il 90% di incidenza in tutti i soggetti), la percezione di qualcosa, quando non esiste nulla di fatto nel campo della percezione (allucinazioni, 50% di incidenza), e comportamenti bizzarri [1].
Sintomi negativi
I sintomi negativi sono deficit nei quali fondamentalmente le emozioni sono o indebolite o del tutto carenti, tra cui: appiattimento affettivo, anedonia (incapacità di provare piacere da normali attività), apatia (perdita di interesse e di motivazione), ritiro sociale, ed alogia (parlato in diminuzione). Hanno una precoce e piu' sottile insorgenza, e sono meno episodici dei sintomi psicotici.
Sintomi cognitive
La schizofrenia può comprendere disturbi cognitivi, generalmente per l'attenzione e la concentrazione, di apprendimento e di memoria, di velocità psicomotoria (ad esempio, la reazione prolungata nel tempo), e di esecuzione di lavori (ad esempio, formulare ed avviare progetti, pensiero astratto, e risoluzione di problemi).
La schizofrenia è un disturbo psicotico devastante perché distrugge il funzionamento sociale e l'occupabilità dei pazienti. Sintomi negativi e deficit cognitivi sono generalmente i meccanismi disabilitativi della schizofrenia.
Un paziente potrebbe non avere più la capacità di concentrarsi e di ottenere piacere dal lavoro, dallo studio o dalle attività di svago. Inoltre, la schizofrenia può aggravare ulteriormente l'isolamento sociale, la depressione ed aumentare il rischio di suicidi.
1.1.2 Eziologia
La schizofrenia è una patologia multiforme e si manifesta con fattori sia genetici sia ambientali. Molti studi sui gemelli e sull'adozione hanno suggerito importanti influenze genetiche sulla patogenesi della schizofrenia, tuttavia, una concordanza MZ di circa il 50% [2] ha anche indicato il coinvolgimento di fattori ambientali. Gli studi rivelano che la schizofrenia è una malattia genetica complessa, simile a diabete e cancro, attribuendo le cause non ad un solo gene, in altre parole, si tratta di una malattia poligenica.Inoltre, ci sono fattori ambientali che contribuiscono presumibilmente alla comparsa della malattia. Le vulnerabilità possono predisporre l'individuo al disturbo, mentre i fattori di stress ambientale possono potenzialmente modulare (trigger) l'espressione dei sintomi in soggetti vulnerabili.
Nella schizofrenia, la vulnerabilità può includere la predisposizione genetica, complicazioni nel parto, e infezioni virali del sistema nervoso centrale.
Eventi di vita stressanti (per esempio, essere stato licenziato dal lavoro, porre fine ad un rapporto, o esporsi in un nuovo ambiente) e fattori di stress biologico (ad esempio, abuso di sostanze) può esacerbare la malattia innescando la comparsa o la recrudescenza dei sintomi. Tuttavia, i meccanismi di protezione di coping (capacità di fronteggiare problemi) possono salvaguardare le persone vulnerabili, indebolendo o eliminando i sintomi.
1.1.3 Patogenesi
Nonostante i numerosi studi di istologia, neurochimica, neuroimaging, e gli studi di espressione dei geni e delle proteine, la comunità biomedica deve ancora definire il profilo neuropatologico per la schizofrenia. Tuttavia, diverse importanti scoperte sulla schizofrenia possono contribuire ad interventi medici. Inizialmente sono stati diretti verso la manipolazione farmacologica; successivamente progressi sono stati fatti con la scoperta genetica di marcatori biologici utilizzando strategie di genomica e proteomica che hanno portato alla definizione della schizofrenia come di una malattia del SNC e non di origine psicosomatica.
Allo stato attuale, la comunità medica ha familiarità con alterazioni patologiche della dopamina (DA), serotonina, acetilcolina (ACh), e sistemi di glutammato. Studi sull’uso di sostanze che inducono psicosi (ad esempio, le anfetamine) hanno rivelato una maggiore ricaptazione della DA [3]. Questi risultati hanno avviato l'ipotesi di iperattività negli stati di trasmissione della DA nella schizofrenia, forse in risposta allo stress. Il cervello è essenzialmente troppo sensibile (iperattivo) agli stimoli e non riesce a regolare correttamente la sua risposta attraverso i normali meccanismi inibitori. Per spiegare potenzialmente i sintomi negativi, alcuni studi di imaging del cervello hanno rivelato nella corteccia prefrontale (PFC) [4,5], un deficit regionale nella neurotrasmissione della DA[6].
Il panorama attuale delle ipotesi si riferisce ad una iperattività dopaminergica subcorticale e ad una ipoattività neurotrasmissionale corticale associate rispettivamente ai sintomi positivi e negativi. Tuttavia, la teoria è contestabile , ad esempio, l'inibizione totale di DA non fa completamente mitigare i sintomi positivi della schizofrenia [7], suggerendo così la presenza di ulteriori disturbi patologici.
Recenti studi di genomica e proteomica si sono allontanati da un modello puramente riferito ad una interruzione di DA dirigendosi verso quello dello stress ossidativo e della patologia sinaptica, che può causare una disregolazione di diversi neurotrasmettitori e portare ad una apoptosi neuronale [8] . Sono state identificate presunte suscettibilità nei geni e nei loro prodotti: neuregulina‐
1 (NRG1), dysbindin (DTNBP1), regolatore della proteina G segnalazione 4 (RGS4), catecol‐O‐metiltransferasi (COMT), deidrogenasi prolina (PRODH) e (DISC1) [9]. Tuttavia, ci sono problemi di applicabilità clinica legati alla specificità diagnostica [10] ed alla dimensione lieve dell' effetto [11].
1.1.4 Diagnosi
Data la mancanza di una diagnosi oggettiva, i medici indagano i comportamenti anomali, accertando i fattori di rischio e registrando un profilo di personalità. Il clinico ascolta il paziente e stabilisce un ambiente confortevole per ottenere informazioni pertinenti.
Manuali di classificazione diagnostica come America Psychiatric association's Diagnostic e Statistical Manual of mental disorder (DSM) permettono alla comunità internazionale biomedica di utilizzare criteri d’inclusione ed esclusione sulla base di potenziali deviazioni dal normale funzionamento psicologico.
In realtà, essi non servono esplicitamente a dare indicazioni circa un’eziologia particolare o una patologia, piuttosto, più ragionevolmente servono a classificare i disturbi partendo da vari profili. I manuali offrono essenzialmente alcuni standard per la definizione dei sintomi e per la diagnosi differenziale. Tuttavia, possono creare false percezioni.
1.1.5 Criteri attuali
Attuali criteri diagnostici del DSM per la schizofrenia riguardano almeno un mese di sintomi attivi (almeno uno tra deliri bizzarri o allucinazioni uditive, o due o più tra sintomi positivi e / o negativi) e sei mesi di disfunzione sociale / professionale . I pazienti possono avere brevi reazioni psicotiche da uno a sei mesi che assomigliano alla schizofrenia, ma che in realtà sono note come disordine schizofreniforme, che tende a non ripresentarsi. Le diagnosi, comunque, possono infatti essere legate a disturbi dell'umore con caratteristiche psicotiche.
Oltre ai principi di inclusione, il DSM prevede alcune linee guida di esclusione per i disturbi dell'umore primario con caratteristiche psicotiche (ad esempio, la
depressione unipolare o bipolare) e di psicosi indotta dalle proprietà fisiologiche di una condizione medica generale o derivante da sostanze chimiche.
1.1.6 Classificazione
L'attuale sistema di classificazione della schizofrenia, come per altri disturbi psichiatrici, deriva dall'osservazione da parte del medico dei comportamenti gravi. Di conseguenza, è piuttosto imprecisa e non è necessariamente associata con una patologia genetica.
Riconoscendo il rapporto imperfetto tra genotipo e fenotipo in psichiatria, Gould e Gottesman [12] hanno previsto la scoperta di endofenotipi in grado di migliorare studi genetici. Sono stati identificati Cinque criteri per un endofenotipo: 1) associazione ad una patologia 2) ereditarietà 3) stato indipendente (indipendentemente dall'attività della malattia) 4) ereditarietà con la malattia nelle famiglie
5) endofenotipo identificato in probandi si trova in parenti non affetti ,con un tasso più elevato rispetto alla popolazione generale.
Dato lo spettro dei circuiti neuronali implicati, una malattia complessa come la schizofrenia è presumibilmente composta da endofenotipi multipli. Sono stati effettuati studi che utilizzano questo approccio per creare sottotipi più omogenei, piuttosto che alterare semplicemente le osservazioni di definizione.
Per esempio, la working memory è considerata un endofenotipo nella schizofrenia [13]. Sono stati trovati nella popolazione pazienti schizofrenici che avevano un significativo disturbo nella working memory e ciò ha dimostrato che era un deficit parzialmente ereditabile. Alcuni dati ( Bowden et al. [14]) hanno inoltre indicato la possibilità che ci sia un sottogruppo di schizofrenia basato sull'età, utilizzando dati di espressione genica da linfociti del sangue periferico. Applicando questa modalità per morte, durata della malattia, farmaci, uso di droghe, abuso di alcool ,fumo, e rischio genetico relativo, sono state ottenute informazioni preziose.
1.1.7 Diagnosi differenziale
Lo sviluppo di biomarcatori in grado di differenziare la diagnosi sarebbe un risultato fondamentale in medicina. Nella pratica clinica, è essenziale per scoprire le basi della psicosi, scoprire l'eziologia e la patologia, e quindi progettare e implementare l'approccio di gestione clinica.
Nei pazienti che presentano disturbi comportamentali e / o attuazione di essi, può essere frettolosamente ed erroneamente considerata una patologia psichiatrica, quando in realtà i sintomi psicotici derivano da una condizione medica generale o da un abuso di sostanze. Inoltre, i disturbi dell'umore sono difficili da differenziare dalla schizofrenia. L’abuso cronico di sostanze psicoattive, come le anfetamine e la cocaina, possono stimolare la neurotrasmissione della dopamina e dare allucinazioni e deliri. Nei consumatori di fenciclidina (PCP) si possono verificare stati di psicosi, agitazione, e comportamenti violenti [15].
Quando gli studi di proteomica implicano due gruppi di tests (schizofrenia e controllo) i loro risultati di pattern di espressione dei biomarcatori possono presentare alterazioni simili nei disturbi correlati. Ciò è particolarmente pertinente per i disturbi con sintomi derivanti da un’eziologia comune. Per esempio, gli studi sul siero nella schizophrenia che isolano marker infiammatori possono avere risultati simili a disordini associate ad infiammazione (per esempio, in riferimento alla diagnosi differenziale, disturbo bipolare, Il morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, trauma cranico, e tumori cerebrali). Esaminando campioni di pazienti con disturbi comuni ed endofenotipi esclusivi si ottiene una migliore visione di ogni componente del disordine, e del fattore che il clinico tratterà.
Campioni biologici provenienti da individui con schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo depressivo maggiore, e controlli normali vengono esaminati da profili proteici. In ogni gruppo di malati, vengono definite delle sub‐popolazioni sulla base di valutazioni individuali di ogni endofenotipo. La previsione della classe di appartenenza può identificare picchi di proteine che discriminano i vari gruppi in base alla classificazione della malattia. Tuttavia, l'analisi con l' endofenotipo può rivelare marcatori che meglio relazionano la disfunzione endofenotipica e
quindi il trattamento finale.
La schizofrenia è una patologia debilitante che merita un’indagine proteomica. Una ricerca mostra che su PubMed, dei 7.987 articoli sul tema della proteomica, solo 19 corrispondono alla schizofrenia. Per quanto riguarda i risultati limitati già ottenuti, e in previsione di ulteriori studi che utilizzano un campione più grande, con strumentazione selettiva, e controlli di qualità, il problema sta nel tradurre i dati in strumenti clinicamente utili. La ricerca traslazionale fonde scienza di base e ricerca clinica per ottenere un ottimale beneficio terapeutico. Nel processo clinico della schizofrenia le strategie della proteomica si sposano con le discipline della medicina, con esse dobbiamo comprendere il profilo della malattia, eziologia, patogenesi, le strategie cliniche diagnostiche, ed infine la gestione. In ogni campo medico, la proteomica ha un unico e rivoluzionario ruolo.
1.2 PROTEOMICA E SCHIZOFRENIA: STATO DELL’ARTE
Nonostante i notevoli sforzi, c'è ancora una mancanza di modelli animali per disturbi psichiatrici. Per SCZ, per esempio, è difficile che un modello animale rifletta la condizione umana. Questo è una delle ragioni principali che guida i ricercatori all'analisi post‐mortem dei tessuti del cervello umano e di fluidi di pazienti SCZ e BPD. Il principale obiettivo di questi studi umani è una migliore comprensione della la fisiopatologia di tali disturbi, nonché l'identificazione dei candidati biomarcatori e nuovi potenziali target. Infatti, l’analisi proteomica ha identificato con successo componenti di percorsi molecolari coinvolti nei disturbi psichiatrici, dimostrando così le potenzialità di questi metodi in questo campo di ricerca. In particolare per la schizofrenia la patogenesi e l’eziologia non sono ancora chiarite. Il cambiamento dell’espressione di alcune proteine potrebbe essere associato alla presenza della malattia o ad alcuni elementi clinici che corrispondono alla fase acuta di malattia, a sostegno di questa ipotesi esistono scarsi dati di letteratura. Huang et al. (16), hanno analizzato il liquido cerebrospinale e il profilo proteomico in Patients Prodromal for Psychosis (PPP), mostrando che dal 36% al 29% di pazienti con PPP mostrano uno specifico profilo metabolico/proteomico. Comunque, la disregolazione biochimica
mostrata nei pazienti PPP e` al momento in grado di discriminare quali di questi pazienti andranno incontro ad una psicosi cronica. Livelli sierici dei marcatori infiammatori sTNRF1 e sTNRF2 sono stati riscontrati piu` elevati in pazienti schizofrenici cronici ricoverati rispetto ai controlli, anche se non e` stata riscontrata una correlazione con la gravità della sintomatologia (17). Dietrich‐ Muszalska and Olas (18) hanno dimostrato che la proteina collagen‐stimulated platelet aggregation era significativamente più bassa nei pazienti schizofrenici rispetto ai controlli sani. In un altro studio (19), l’attività dell’enzima piastrinico antiossidativo superossido dismutasi (SOD) e il livello del thiobarbituric acid reactive species (TBARS) e` stato misurato come indicatore di stress ossidativo. I risultati suggeriscono una rafforzata generazione di reactive oxygen species e un’ attivita` significativamente più bassa dell’enzima SOD in pazienti schizofrenici confrontati con controlli sani. La lunghezza del telomero nei linfociti del sangue periferico (PBL) di individui con schizofrenia, è stato osservato essere significativamente ridotto. In uno studio di follow‐up, Porton et al (20) quantificò l’attività dell’enzima telomerasi in PBL riscontrandone una significativa diminuzione nei pazienti schizofrenici rispetto ai controlli sani. In uno studio recente, una proteina corrispondente al gruppo delle alpha‐defensine fu capace di discriminare pazienti schizofrenici con minimo trattamento farmacologico da controlli sani, all’interno di T‐cells lisate (21). Inoltre, il sangue di 21 gemelli monozigoti discordanti per schizofrenia e 8 paia di gemelli sani venne analizzato tramite l’ELISA riguardo all’espressione di alpha‐defensine. Sia gli affetti che i soggetti sani risultarono avere una significativa elevazione dei livelli dell’alpha‐ defensina quando confrontati con la coppia dei gemelli sani. In conclusione, i dati appaiono intriganti ma non conclusivi. Oltre alla necessita` di replicare i risultati su campioni numerosi, a nostra opinione, la disponibilità di controlli psichiatrici con altre diagnosi cosi` come la disponibilità di due diversi campioni di pazienti con disturbi dello spettro psicotico in diverse fasi della malattia, potrebbe aiutare a discriminare aspetti specifici della patologia.
1.3 SCHIZOFRENIA E METABOLOMICA
all'individuazione di percorsi biochimici e di conseguenza hanno fornito qualche indicazione sui metaboliti associati. La quantificazione di metaboliti con approcci diversi in grado di fornire un quadro più completo di attività cerebrale puo’ essere utile per la comprensione dei processi biochimici, nonché un mezzo per fornire una fonte di biomarcatori non su base proteica. L'analisi mirata dei metaboliti è stata utilizzata funzionalmente per convalidare le modifiche dell’espressione proteica. Da quando sono stati trovati gli enzimi chiave della glicolisi espressi in maniera differenziale nel talamo SCZ, sono stati misurati i livelli di piruvato e NADPH usando un semplice test enzimatico che ha confermato di ciò [22]. L'avvento di high‐resolution proton nuclear magnetic resonance spectroscopy (1H‐NMR) ha fornito un mezzo di analisi multiplexing di metaboliti fornendo una maggiore precisione e un’ efficienza più elevata. 1H‐ NMR è stato utilizzato per osservare gli effetti di una serie di farmaci psicotropi sui metaboliti cerebrali di ratto e sono state rilevate differenze significative per quanto riguarda i livelli di N‐acetilaspartato (NAA) [23]. Inoltre, è stata utilizzata (HPLC) per quantificare le differenze significative nelle poliammine putrescina e spermidina nell’ ansia elevata(HAB) e bassa (LAB) negli estratti di tessuto cerebrale [24]. Dal momento che tutti i metodi di profiling molecolare descritti qui hanno i loro punti di forza e di debolezza, l'uso combinato di due o più di questi sarebbe meglio per massimizzare la copertura delle vie molecolari rilevanti quali quelle descritte da Salim et al. [25] nella caratterizzazione delle differenze del proteoma che si verificano durante la differenziazione di cellule precursori neurali o applicato nel l’ analisi del proteoma del talamo dei SCZ rispetto ai controlli sani Martins de Souza et al. [22].
1.4 LA PROTEOMICA
Il termine proteoma indica tutte le proteine espresse da un genoma: da qui la proteomica puo` essere definita come lo studio di tutte le proteine espresse in un dato organismo, tessuto o cellula (26).
La proteomica originariamente si era focalizzata sull’identificazione di proteine e sulle differenze tra coppie di campioni derivati da diversi tessuti o condizioni, ma
si e` poi estesa a definire gli aspetti strutturali e funzionali delle proteine su larga scala.
L’analisi diretta delle proteine presenti in una cellula offre vantaggi che vanno oltre quelli ottenuti dall’approccio genomico, in quanto gli studi sul genoma non danno informazioni precise sui livelli delle proteine nella cellula e non possono rilevare le possibili modificazioni post‐traduzionali che determinano la funzione delle proteine e che risultano particolarmente importanti nella trasduzione del segnale (spesso i segnali sono trasmessi proprio da modificazioni post‐ traduzionali delle proteine come la fosforilazione) (27,28).
Il proteoma e` infatti un’entita` dinamica poiche le cellule di uno stesso organo esprimono proteine differenti ed anche lo stesso tipo di cellule in condizioni diverse (eta`, malattia, ambiente) esprime proteine diverse (26).
Esistono 2 aree principali in questo campo:
• la proteomica funzionale: permette la caratterizzazione dell’attivita`, delle interazioni e della presenza di modificazioni post‐traduzionali delle proteine, per la descrizione a livello molecolare dei meccanismi cellulari;
• la proteomica profiling: fornisce la descrizione dell’intero proteoma di una cellula, organismo o tessuto.
A causa della diversita` delle proteine, e` emerso un range vario di tecnologie proteomiche che integrano metodi biologici, chimici ed analitici: la principale tecnologia utilizzata e` la spettrometria di massa (MS), accoppiata con metodi di separazione delle proteine (29).
La MS e` una tecnica altamente sensibile e versatile per lo studio delle proteine: e` utilizzata per quantificare le proteine e per determinarne sequenza, massa e informazioni strutturali (in particolare modificazioni post‐traduzionali, come glicosilazioni o fosforilazioni) (30).
Il successo nell’identificazione della proteina, comunque, dipende dalla preparazione del campione e dal tipo di spettrometro di massa utilizzato.
La combinazione della MS, per l’identificazione proteica, con l’elettroforesi bidimensionale (2‐DE), come tecnica separativa ad alto potere risolutivo, e` il metodo classico e piu` utilizzato (31).
Negli ultimi anni la proteomica, grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche di spettrometria di massa e alla disponibilita` di sequenze genomiche, e` progredita con crescente interesse nel mondo scientifico: al momento e` usata come un moderno strumento nella scoperta di farmaci, per la determinazione di processi biochimici implicati nelle malattie, per monitorare processi cellulari, per caratterizzare sia i livelli di espressione che le modifiche post‐trasduzionali delle proteine, per ricercare differenze tra fluidi biologici o cellule di soggetti sani e malati e per identificare markers di una malattia e possibili candidati per l’intervento terapeutico.
1.4.1 Proteomica funzionale
La proteomica funzionale e` un metodo per identificare specifiche protein in una cellula, organismo o tessuto che subiscono cambiamenti nei livelli di espressione, nella localizzazione o modificazioni in risposta a specifiche condizioni biologiche. Lo scopo non e` quello di identificare ogni proteina nel campione, ma piuttosto di caratterizzare un piccolo numero di proteine che sono implicate nella questione biologica studiata.Le metodiche di proteomica funzionale risultano adatte allo studio ed al monitoraggio delle vie di trasduzione del segnale: la strategia e` basata sulla selettiva attivazione di una specifica risposta cellulare attraverso la stimolazione dei recettori di membrana di interesse e sull’osservazione dello specifico network di proteine intracellulare attivato (27,28).
Inoltre le metodiche di proteomica funzionale risultano particolarmente adatte allo studio ed allo sviluppo di nuovi farmaci, rendendo possibile il monitoraggio di eventuali cambiamenti nel pattern proteico di cellule, tessuti o organismi in seguito a trattamenti con farmaci e la scoperta di nuove proteine chiave in determinate patologie, come target per nuovi farmaci o biomarkers per la diagnosi di malattie.
Si sta sviluppando poi la strategia del proteome mining, processo basato sullo screening di vasti gruppi di composti chimici contro un proteoma per identificare interazioni farmaco‐proteina altamente selettive; questo metodo
rende possibile lo screening di librerie di composti per protein target e da` informazioni sulla specificita` dei composti (32).
Cambiamenti nel profilo delle proteine durante gli eventi di segnale o dopo esposizione a farmaci possono essere monitorati con l’elettroforesi bidimensionale (33), rivelando alterazioni nei livelli di espressione, nella fosforilazione, nelle modificazioni post‐traduzionali e nei processi proteolitici delle proteine (34).
Negli ultimi anni molti studi sono stati condotti su fibroblasti, adipociti, linfociti, astrociti ed altri tipi cellulari, attivando o inibendo specifiche vie di trasduzione del segnale: la metodica piu` diffusa prevede, dopo la stimolazione con un ligando specifico, l’uso della 2‐DE e del Western Blot per la visualizzazione (35). Ulteriori informazioni sulle proteine di interesse, appartenenti alla via di segnale in esame, si ottengono poi tramite l’identificazione degli spot con le metodiche di MS (36).
1.4.2 Elettroforesi bidimensionale
L'elettroforesi bidimensionale (2‐DE) e` il metodo “classico” e maggiormente usato per separare, visualizzare, quantificare ed identificare centinaia di proteine a seconda del loro punto isoelettrico e peso molecolare, in un singolo gel, partendo da campioni di complesse miscele proteiche estratte da cellule, tessuti o altri campioni biologici. In proteomica sono stati messi a punto protocolli per l’identificazione degli spot su 2‐DE gel con la matrix‐assisted laser desorption/ionization time of flight mass spectrometry MALDI come metodi di routine (37). Questa tecnica, introdotta nel 1975 da O’Farrel e Klose, separa le protein in due step distinti (Fig.2): 1) la prima dimensione, Iso‐Elettro Focusing (IEF), separa le proteine secondo il loro punto isoelettrico (pI); per questo passaggio e` stata importante l’introduzione, alla fine degli anni ’80, delle strip di gel a gradiente di pH immobilizzato (IPG strip), che hanno aumentato notevolmente la risoluzione e la
riproducibilita` degli esperimenti;
2) la seconda dimensione, l’elettroforesi su gel di poliacrilammide (SDS‐PAGE), separa le proteine secondo il peso molecolare (PM).
Con questa tecnica si possono separare migliaia di proteine, anche quelle che differiscono per un solo amminoacido o per piccole differenze di pI e/o PM, ed ogni spot ottenuto corrisponde ad una singola specie proteica. Per una buona elettroforesi bidimensionale e` essenziale un’appropriata preparazione dei campioni: il processo dovra` risultare in una complete solubilizzazione, disaggregazione, denaturazione e riduzione delle protein del campione.
Per la strategia di preparazione dei campioni e` importante considerare lo scopo dello studio, infatti step addizionali possono aumentare la qualita` del risultato finale, ma portano anche alla perdita di proteine (38).
1.4.3 Prima dimensione
L’IEF e` un metodo elettroforetico che separa le proteine secondo il loro punto isoelettrico (pI); si utilizzano come supporti delle strip di gel di poliacrilammide. Le proteine sono molecole anfotere: presentano carica netta positiva, negativa o nulla a seconda del pH dell’ambiente in cui si trovano. La carica netta di una proteina e` data dalla somma di tutte le cariche positive e negative delle catene laterali e dei terminali amminico e carbossilico degli amminoacidi che la costituiscono.Il punto isoelettrico e` il valore di pH al quale la carica netta della proteina e` zero. Le proteine sono cariche positivamente a pH minori del loro pI e negativamente a pH maggiori.
In un gradiente di pH, sotto l’influenza di un campo elettrico, le proteine si muovono fino alla posizione nel gradiente alla quale la loro carica netta e` nulla; ad esempio una proteina con carica positiva migrera` verso il catodo, riducendo progressivamente la sua carica positiva, mentre si muove attraverso il gradiente, finche` non raggiunge il suo pI.
Questo e` l’effetto focusing dell’IEF, che concentra le proteine ai loro pI e permette di separarle sulla base di piccole differenze di carica.
La risoluzione del campione e` determinata dall’ampiezza del gradiente di pH e dalla forza del campo elettrico. Si utilizzano comunemente voltaggi alti (oltre 1000 V): quando le proteine hanno raggiunto la posizione finale nel gradiente di pH, nel sistema c’e` un piccolo movimento ionico che risulta in una corrente finale molto bassa (sotto 1 mA). L’IEF effettuato in condizioni denaturanti da` la piu` alta risoluzione ed i risultati migliori.
1.4.4 Strip
Originariamente il metodo prevedeva l’utilizzo di tubi di gel di poliacrilammide con gradienti generati da miscele di anfoliti, piccolo polimeri anfoteri che, sotto l’influenza di un campo elettrico, migrano e si allineano secondo i pI, dando un gradiente continuo (39). A causa delle limitazioni e dei problemi di questi supporti, sono stati sviluppati dei gel a gradiente di pH immobilizzato (IPG) (40): sono creati incorporando covalentemente un gradiente di gruppi acidi e basici nel gel di poliacrilammide.Per le strip sono utilizzate molecole ben caratterizzate, monomeri di acrilammide legati ognuno ad un singolo gruppo basico o acido. Le strip IPG sono prodotte su supporti in plastica usando due soluzioni: una miscela acida ed una basica di monomeri di acrilammide (entrambe contenenti inoltre bisacrilammide e catalizzatori). Le concentrazioni dei gruppi nelle due soluzioni determinano il
range di pH del gradient prodotto (Fig. 3).
I gel sono poi lavati, disidratati e tagliati a strisce.
In commercio si trovano strip (Amersham Biosciences, Sigma, etc.) di varie lunghezze (7‐11‐13‐18‐24 cm) e con vari intervalli di pH (3‐10; 4‐7; 6‐11; 6‐9; 3,5‐4,5; etc), lineari (L) e non lineari (NL). L’uso delle strip IPG aumenta la riproducibilita` e la qualita` dei risultati (41).
1.4.5 Seconda dimensione
Dopo l’IEF si passa all’SDS‐PAGE, una tecnica elettroforetica che separa I polipeptidi secondo la massa molecolare, utilizzando gel di poliacrilammide. Il sodio dodecil solfato (SDS) e` un detergente anionico che in soluzione acquosa stabilizza le molecole proteiche denaturate formando attorno ad esse un guscio di solvatazione (1,4 g SDS/g proteine) che genera micelle dotate della stessa carica elettrica. In questo modo la specifica carica elettrica di una catena polipeptidica viene mascherata dalle cariche negative presenti sulle micelle formate dalle molecole di SDS ed ogni aggregato solubilizzato, proteina‐SDS, viene a presentare identica carica negativa per unita` di massa. Le particelle
anioniche si spostano nel gel di acrilammide, che agisce da setaccio molecolare, separandosi in base al loro peso molecolare mentre migrano in direzione dell’anodo. L’SDS‐PAGE consiste in quattro step: 1) preparazione del gel di seconda dimensione; 2) equilibratura delle IPG strip; 3) posizionamento delle strip sul SDS‐gel; 4) elettroforesi.
1.4.6 Visualizzazione dei risultati
Molti metodi possono essere utilizzati e le caratteristiche richieste sono: alta sensibilita`, ampio range di quantificazione, compatibilita` con la spettrometria di massa, bassa tossicita`.
I metodi piu` comunemente utilizzati sono:
SILVER STAINING: molto sensibile (1 ng); e` un processo multi‐step che utilizza
vari reagenti. Si trova in commercio in kit. Con protocolli modificati, che omettono glutaraldeide e formaldeide dalla soluzione di nitrato d’argento, il metodo diventa compatibile con la spettrometria di massa;
COOMASSIE STAINING: e` circa 50‐100 volte meno sensibile (30‐50 ng) della
colorazione all’argento. Si puo` utilizzare il Coomassie blue R‐250, che e` un metodo semplice basato su due sole soluzioni, una colorante ed una decolorante, o il Coomassie colloidale G‐250 che mostra una maggiore sensibilita` (42).
FLUORESCENCE STAINING : utilizza molecule (dyes) in grado di complessarsi
alle protein ed emettere ad una lunghezza d’onda di 610 nm.
Le immagini dei gel vengono poi acquisite tramite scanner ed analizzate al computer con software appositi per analizzare complessi campioni proteici separati con l’elettroforesi bidimensionale: un esempio e` il software Amersham Biosciences ImageMasterTM 2D Elite. E’ cosi` possibile individuare proteine mancanti o modificate, quantificare gli spot proteici ed i cambiamenti
nell’espressione proteica in diversi campioni (come controlli vs patologici) (43). Gli spots possono essere identificati tramite Spettrometria di Massa.
1.5 SPETTROMETRIA DI MASSA
Gli approcci principali sono la peptide‐mass fingerprinting utilizzando la matrix‐ assisted laser desorption/ionisation (MALDI) e l’electrospray ionisation (ESI) con la tandem mass spectrometry.
1.5.1 MALDI
Durante gli anni passati la matrix‐assisted laser desorption/ionization time of flight mass spectrometry (MALDI‐TOF‐MS o in breve MALDI) e` diventato un potente e diffuso strumento analitico utilizzato in molti campi scientifici.
E’ una tecnica basata sul trasferimento delle molecole in fase gassosa, attribuendo loro una carica: essenziale e` “incastrare” queste molecole in una struttura di acidi organici deboli, di struttura cristallina, detta matrice.
Dopo l’esposizione ad un raggio laser (λ 337 nm), le molecole di analita incastrate sono trasformate in fase gassosa (desorption) e ionizzate dalla matrice che agisce da donatore di protoni. La matrice e` quindi responsabile della ionizzazione, facilita la desorption e previene la decomposizione degli analiti. La matrice e` scelta in modo che assorba fortemente l’energia del raggio laser alla lunghezza d’onda alla quale gli analiti presentano solo un debole assorbimento. Dopo la ionizzazione e la desorption, le molecole cariche sono accelerate all’interno di un campo elettrico, acquistando un’energia cinetica fissa. Il rapporto massa/carica (m/z) e` misurato dal “tempo di volo” (time of flight), in quanto gli ioni arrivano al detector secondo il rapport m/z (Fig.4‐5).
Fig. 4 Maldi‐Tof
Fig. 5 Maldi‐Tof
Il detector converte l’energia cinetica delle particelle in arrivo in segnale elettrico. Sia ioni che particelle neutre dotate di energia cinetica passano attraverso la zona di volo alla cui fine e` posto un dinodo. Quest’ ultimo rappresenta una speciale superficie capace di emettere una corrente di elettroni in risposta all’urto con una particella dotata di energia cinetica. A causa di una differenza di potenziale positiva, la corrente elettrica giunge ad un secondo dinodo e causa un rilascio di corrente amplificata. Si ottiene uno spettro di massa che rappresenta una mappa dell’abbondanza relative degli ioni prodotti in funzione del rapporto m/z.
Le informazioni di peso molecolare e di sequenza ottenute dall’analisi dello spettro di massa possono essere inserite in un database per identificare le proteine.
La quantita` minima di campione necessaria per l’analisi dipende dalla purezza del campione e di solito e` nell’ordine di poche picomoli.
rendono il MALDI un metodo d’elezione per l’analisi di tutti I tipi di biomolecole (proteine, acidi nucleici, carboidrati) (44).
In combinazione con l’elettroforesi bidimensionale (e con i database di proteine) il MALDI e` particolarmente utilizzato per l’identificazione di spot proteici (45) attraverso 2 approcci principali: la peptide‐mass fingerprinting (analisi della massa dei digeriti proteolitici) o la peptide sequencing.
I campioni, di solito, sono separati su un gel e gli spot proteici di interesse sono tagliati e trattati con tripsina, un enzima in grado di rompere i legami peptidici in cui e` coinvolto un residuo di arginina o lisina; la miscela di frammenti proteici (peptidi) ottenuta dopo digestione enzimatica e` purificata e sottoposta ad analisi di massa.
La massa dei peptidi puo` essere misurata con maggior precisione rispetto a quella delle proteine intatte: i peptidi danno origine ad una library di masse molecolari derivate direttamente dalle proteine, che possono essere identificate con tecniche computazionali e tramite l’utilizzo di database (46). Se la proteina non risulta presente nei database, e` possibile ottenere informazioni sulla sequenza dal MALDI, con un protocollo di degradazione di Edman modificato: questo e` un metodo comune per l’analisi della sequenza delle proteine, che utilizza ripetuti cicli di rottura dei singoli amminoacidi dal terminale amminico (tramite peptidasi) e successive identificazione degli amminoacidi staccati con cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC). La miscela di peptidi e` analizzata e la sequenza codificata tramite differenze di massa (peptide ladder sequencing) (Fig. 6).
Maggiori e piu` precise informazioni sulla proteina e sulla sua sequenza si ottengono pero` con la spettrometria di massa tandem (MS‐MS) o massamassa, una tecnica che utilizza 2 analisi spettrometriche di massa accoppiate: i peptidi carichi possono decomporsi spontaneamente dopo la ionizzazione (postsource decay) o possono essere sottoposti ad una attivazione per collisione (collision‐ induced decay) per generare frammenti carichi (44).
Con i dati ottenuti si fanno ricerche su banche dati.
Il piu` grande vantaggio del MALDI e` la velocita` nonche’ la possibilita` di automatizzare l’analisi; per altre applicazioni il MALDI non e` la miglior scelta, perche’ i dati ottenuti non sono abbastanza specifici per l’identificazione delle proteine.
In generale l’analisi fingerprinting non e` specifica per l’identificazione delle proteine come invece la sequenza amminoacidica ottenuta con la MS‐MS.
Per queste ragioni sta emergendo (oltre al peptide mass fingerprinting) una nuova classe di spettrometri MALDI, come il MALDI‐TOF‐TOF e il MALDI‐Q‐TOF (35).