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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO PRIMO

HINA SALEEM: UCCISA E SEPOLTA NEL

GIARDINO DI FAMIGLIA PERCHE’ TROPPO

OCCIDENTALE

SOMMARIO: 1.1. Il caso. 1.1.2. Il profilo della

madre. 1.1.3. Il profilo del padre. 1.2. Il

multiculturalismo. 1.3. Il difficile rapporto tra

multiculturalismo e diritti delle donne. 1.4. Il

femminicidio.

Il delitto d’onore, in questi ultimi anni, ha visto come vittime non soltanto donne italiane, ma anche donne di origini e culture diverse, immigrate in Italia e cresciute secondo tradizioni ed usi della propria cultura. Il movente che, tendenzialmente, accomuna le donne di questo ultimo gruppo è quello di aver mostrato interesse per la tradizione e la cultura occidentale nell’intento, magari, di semplificare il processo di integrazione. Questo è talvolta percepito dal nucleo familiare come un disonore.

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Come accennato, tratterò questo tema partendo dal caso di Hina Saleem.

1.1

IL CASO.

L’11 Agosto 2006 Hina Saleem, una giovane ragazza di origine pakistana, è stata trovata sepolta nel giardino della casa dei propri genitori a Sarezzo, in provincia di Brescia.

Hina aveva 20 anni ed era la terza di sette figli. Nata in Pakistan nel 1985, era arrivata in Italia all’età di 14 anni.

Fin dall’inizio della sua permanenza nel nostro Paese aveva mostrato un atteggiamento ribelle nei confronti della famiglia, specialmente verso la religione islamica, professata dagli altri membri della sua famiglia.

Secondo quanto emerge da alcune denunce fatte dalla ragazza ai carabinieri, la stessa era vittima di maltrattamenti da parte dei genitori. La vita all’interno delle mura di casa non era affatto semplice: continue mortificazioni, limitazioni di autonomia e identità della ragazza erano all’ordine del giorno.

In particolar modo, il padre e la madre erano contrari al fatto che la figlia si comportasse da “cristiana” e non

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come una “buona musulmana”1. Probabilmente questo era uno dei motivi della violenza esercitata dai genitori nei confronti della figlia.

In seguito alle denunce, il Tribunale dei Minorenni di Brescia, su richiesta della locale Procura della Repubblica, il 13 Marzo 2003 adottò un provvedimento di allontanamento di Hina dalla casa paterna, prevedendo inoltre il divieto di visita dei genitori e disponendone l’affido presso la comunità “Il picchio rosso” 2 , dove la ragazza rimase fino al compimento del diciottesimo anno di età.

Alcuni si sono chiesti se le violenze denunciate dalla ragazza fossero effettivamente avvenute, oppure, come ha affermato più volte la madre, fossero “pura e semplice invenzione” della figlia.

A questa domanda non potremo mai dare una risposta certa; anche se i provvedimenti presi dal Tribunale dei minorenni per tutelare Hina, lasciano immaginare che la ragazza sia stata effettivamente oggetto di violenze domestiche.

1 Cfr. Gerardo Milani, L’omicidio di Hina Saleem. Profili psicologici

delle aggravanti dei motivi futili o abietti e della premeditazione, 2007-2008,

http://www.psicologiagiuridica.com/pub/docs/2009/numero%20X%20 rivista/tesi%20Milani.pdf . Ultima consultazione: 23 Novembre 2012.

2 “Il picchio rosso”: comunità alloggio per minori. È un servizio

residenziale per i minori che hanno particolari problematiche esistenziali e sono in difficoltà con la permanenza nel proprio nucleo

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Probabilmente l’incontro di Hina con un Paese, come l’Italia, completamente nuovo e diverso da quello di origine, ha portato la ragazza a disprezzare i canoni della cultura tribale del luogo di nascita per accogliere gli stili di vita occidentali. Forse era davvero una ragazza un po’ ribelle, come capita a molti adolescenti che contestano le proprie famiglie. Come tutti i ragazzi e le ragazze della sua età, Hina avrà sentito la necessità di “evadere” e di ribellarsi alle regole che il nucleo familiare le imponeva.

Uscita dalla comunità dove era stata accolta per tre anni, Hina era ormai una ragazza più matura e più stabile. Per i successivi due anni visse ospite da amici; presto conobbe un fidanzato e cominciò una convivenza, rompendo così il fidanzamento che, secondo la tradizione orientale, i genitori le avevano procurato fin da piccola con un ragazzo pakistano. In questi casi, la tradizione prevede anche gravi conseguenze, di carattere fisico, per la donna che si oppone. Nel caso specifico, però, sembra che la madre avesse assicurato Hina che la famiglia non avrebbe reagito3.

Sulla base di questa osservazione, Hina comincia a riallacciare i rapporti con la madre, con i fratelli e le sorelle, ma non con il padre. Si reca più volte a far visita alla madre, scegliendo sempre fasce orarie nelle quali sa che il padre è fuori.

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Questa situazione porterà il padre ad una reazione brutale nei confronti della figlia.

Bisogna tuttavia ancora capire perché il padre, insieme ai due generi e allo zio, abbia deciso di uccidere la figlia: chissà se il motivo consiste nel fatto che la figlia si era occidentalizzata, o nel fatto che si era allontanata dal nucleo familiare, e in particolar modo non voleva più incontrare il padre.

In ogni caso risulta che la madre fu complice dell’omicidio: chiese infatti alla figlia, con un inganno, di andare nella casa di famiglia dove ad aspettarla questa volta c’era anche il padre.

L’esame autoptico rivelò che il corpo di Hina fu sottoposto a molteplici colpi, anche da armi da taglio, precisamente ventotto colpi, dei quali sette sul viso, nove al collo, dieci agli arti e due alla superficie anteriore del torace4. La furia omicida non si concilia con un “semplice” delitto d’onore. Forse era dovuta all’ennesimo rifiuto di Hina di sottomettersi alla violenza paterna?

Dopo circa tre giorni di ricerche il padre e lo zio si costituirono ed il padre confessò il delitto. Nei giorni successivi anche i due generi si costituirono e venne quindi

4Cfr. Gerardo Milani, L’omicidio di Hina Saleem. Profili psicologici

delle aggravanti e dei motivi futili o abietti e della premeditazione, 2007-2008,

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formulata l’ imputazione per il reato di omicidio volontario in concorso materiale (ex art. 61 n. 1, 5 e 11, 110, 112 c.p.).

Il giudice ritenne il padre e i generi responsabili dei reati sopra elencati e inserì il reato di occultamento di cadavere nel più grave reato di distruzione di cadavere. Applicando l’art. 411 c.p. sono stati infine condannati alla pena complessiva di 30 anni di reclusione oltre alla condanna inerente le statuizioni civili a favore del convivente della ragazza, costituitosi parte civile.

Il cadavere di Hina viene ritrovato sepolto con il capo rivolto verso la mecca, come prevede il Corano: qualcuno ha pensato ad un’ulteriore punizione inflitta alla figlia; oltre all’uccisione, alle violenze fisiche e psicologiche, anche la sepoltura secondo riti islamici.

Come risulterà dagli atti processuali, Hina è una vittima innocente. Una volta uscita dalla comunità, iniziò una nuova vita; rimase in contatto con madre e sorelle e il giorno della sua morte fu attirata con l’inganno nella casa della propria famiglia.

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1.1.2. PROFILO DELLA MADRE.

La madre sembra essere stata complice dell’omicidio della figlia.

È come se fosse stata costretta a credere e a “convertirsi” al pensiero del marito.

Quante volte Hina sarà stata violentata tra le mura domestiche? Quante volte avrà chiesto aiuto? Di fronte ad una situazione del genere esistono casi in cui le madri cercano di dimenticare, di non vedere quello che realmente succede.

Un’affermazione della madre di Hina permette di capirne il pensiero, tutto sommato distorto e offuscato: “mio marito ha sbagliato ma Hina non era una buona musulmana”5.

Da queste parole emerge mancanza di tolleranza della madre per i comportamenti, i vestiti, perfino per un taglio di capelli, considerato troppo occidentale.

La famiglia Saleem viene identificata come una famiglia estremamente chiusa: il padre dominava sulla moglie, sulle figlie e sui generi. Questa immagine culturale vuole apparire come una giustificazione culturale, in ipotesi funzionale alla scusabilità penale: il padre è infatti un

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omicida violento, ma al tempo stesso cerca di accreditarsi come “buon musulmano”.

Il padre, considerandosi superiore agli altri membri della famiglia, impone regole familiari drastiche. Però le figlie, che non devono avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, sono state da lui violentate.

La moglie appare come la figura più debole in tutto questo scenario. È completamente sottoposta al marito, al suo pensiero, alle sue regole. Non riesce a liberarsi del maschilismo prepotente del marito-padrone.

Non riesce a condannarlo nemmeno quando viene a conoscenza delle violenze del marito sulla figlia Hina. A suo avviso quel rapporto sessuale tra il padre e figlia è consensuale. La madre appare perciò schiava delle relazioni familiari; incapace al dialogo e alla parola, sottomessa al marito.

Studiando il caso di Hina, rimaniamo perplessi pensando che un padre possa imporre determinate regole nei confronti delle figlie, della moglie, e perciò nei confronti dei generi.

Dall’altra parte, benché difficile, è possibile giustificare il comportamento di una madre sottomessa al marito che non riesce a imporsi, e forse nemmeno a capire cosa sia giusto e cosa sbagliato.

Era impossibile pensare che la madre, pur vivendo nella stessa casa e mangiando allo stesso tavolo, non si

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accorgesse di cosa realmente stava accadendo. Tuttavia è noto che ci sono due categorie di madri: quelle che, pur vivendo a contatto con figlie e marito, sono ingenue poiché non vedono e non credono realmente al fatto che un padre possa usare violenza psicologica e fisica (anche sessuale) con la figlia; altre madri che sono invece vere e proprie complici di tali violenze.

La prima categoria di donne non si rende conto di quello che succede tra le mura di casa; non conosce i fatti e non percepisce alcuna tensione tra marito e figlia. È ignara del fatto che il marito possa avere una doppia personalità (di padre e “amante” nei confronti della figlia).

La seconda categoria di donne, invece, conosce esattamente la situazione; queste madri sono complici di violenze che si effettuano tra le mura domestiche.

La madre di Hina appartiene alla categoria di madre “complice”, che accetta quell’autoritarismo che viene esercitato dal capo famiglia nei confronti di tutti i componenti; accetta anche che alla figlia venga tolta la verginità, un simbolo importante per l’identità femminile.

La verginità è uno stato di purezza, una credenza, un aspetto fondamentale della vita. In relazione al tipo di cultura e tradizione da cui una persona proviene, la verginità può assumere connotati diversi.

In molte culture, per esempio, la verginità è strettamente connessa all’onore della famiglia: le ragazze

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non possono avere rapporti sessuali prima del matrimonio e, la prima notte di nozze, la verginità mantenuta viene “provata” dall’anziana del villaggio, che l’accerta verificando la perdita di sangue sulle lenzuola.

Questa possibilità viene tolta a colei che è stata soggetta a maltrattamenti e violenze, che spesso avvengono in famiglia.

Ci possiamo chiedere se sia possibile giustificare le madri che non riescono ad imporsi di fronte a tanta cattiveria e tanto maschilismo.

Possiamo affermare che la madre di Hina sia costretta ad accettare violenze e maltrattamenti e che non riesca a ribellarsi a tale situazione.

L’analisi del profilo di questa madre è comunque molto complessa. Non possiamo dare un giudizio generico e affrettato. Dobbiamo capire perché la donna si sia comportata così e cosa l’ha spinta ad ingannare la figlia. Anche se di primo acchito siamo portati a condannare il comportamento della donna, in quanto non riusciamo a comprenderne l’eterna sottomissione (e, se vogliamo, anche quella sorta di devozione nei confronti del marito), dobbiamo spogliarci delle lenti occidentali per capire se l’intera vicenda debba essere letta come una “tipica situazione islamica”, oppure sia una “tipica situazione” di soggezione maschile.

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Risulta peraltro difficile pensare come una donna, nata in Pakistan e cresciuta all’interno di un certo sistema culturale e sociale per oltre cinquanta anni, possa infine ribellarsi. La madre è nata e vissuta secondo la tradizione e la cultura islamica: fino all’arrivo in Italia non conosceva usi e costumi occidentali. Le due culture sono per lei due emisferi completamente diversi.

Sottomessa fin dalla nascita a regole rigide imposte dal capo famiglia, la madre di Hina non conosce la parola “ribellione”: è inserita in quello schema mentale di sottomissione e adattamento che non le permette di difendere la figlia.

Hina, al contrario, ritrovatasi all’età di quattordici anni in Italia, è affascinata dal mondo occidentale. È una bambina che si ritrova improvvisamente in un negozio colmo di bambole e giochi. È attratta da tutto ciò che la circonda e decide di ribellarsi alla cultura e tradizione islamica che non le appartengono più.

A differenza del padre che, fin dall’inizio di questa storia, è contrario ad ogni atteggiamento, comportamento, modo di fare troppo occidentale tanto da condannare la figlia ogni giorno attraverso gesti brutali e parole minacciose, la madre ha un ruolo più particolare. Hina riallaccia i rapporti con la madre e con le sorelle, è consapevole del fatto che fossero a conoscenza delle violenze che era stata costretta a

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subire; sorge spontaneo chiedersi perché cercasse di perdonarla.

Appare più comprensibile che non riuscisse a perdonare il padre. Non vuole incontrarlo né parlarci; Hina sembra invece fidarsi della madre e delle sorelle. Vive una sorta di “solidarietà femminile”. Dopo tutti i maltrattamenti subiti, crede che anche le altre donne presenti nel suo nucleo familiare e che hanno subìto la sua stessa storia6, possano sostenerla.

È spinta a riallacciare un rapporto per confrontarsi, per trovare calore in una famiglia in cui ogni singolo soggetto sembra essere semplicemente un individuo a sé.

Ci chiediamo poi se queste donne abbiano realizzato le loro volontà: frequentare un determinato tipo di scuola, progettare un futuro lavorativo, sposare una determinata persona, oppure se non abbiano solo subìto scelte imposte dal padre.

Hina prova a riallacciare quel filo; quel cordone ombelicale che la lega alla madre e alle sorelle dal quale nonostante tutto non era riuscita a staccarsi.

La complicità della madre con il padre supera però ogni limite e non è solo una complicità del nucleo familiare, che si manifesta nella sottomissione a tutta una serie di regole e di ordini. Non è solo una complicità “interiore”, che impone alla madre di non disubbidire e di sottomettersi solo

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ed esclusivamente alla volontà del marito. La complicità, in questo caso, giunge fino all’omicidio della figlia.

Hina aveva cercato, in buona fede, di riallacciare i rapporti con la madre, aveva cercato di perdonare quegli occhi che non volevano vedere e aveva perdonato quella bocca che non riusciva a parlare. Ora si ritrova nuovamente ingannata.

Come può una madre permettere che il marito commetta un delitto del genere?

La madre di Hina sembra non avere sentimenti: non accetta e non sostiene la figlia che vuole forse “salvare” le altre donne dal padre. Non riesce, probabilmente, ad interpretare nel modo giusto la mentalità della figlia e questa forma di ribellione.

La sottomissione sembra essere uno “status” dal quale una persona non può tornare indietro. Non si va a ricercare quello in cui effettivamente una persona può credere; non esistono valori, non esiste volontà, non esiste la fede. Esiste solo un’imposizione data dalla famiglia alla quale nessun individuo all’interno del nucleo familiare può ribellarsi. Tale disobbedienza che, per molti può essere invece vista come un cambiamento di fede, come una ricerca dell’io e di quei valori che ciascuno di noi in relazione al periodo della vita in cui si ritrova può aver perso.

In questo caso specifico non si dà la possibilità di riflettere su ciò in cui realmente Hina può credere.

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Non viene accettato né dalla madre né dal padre che la figlia non si comporti da “buona musulmana”.

E questa sembra quindi essere l’unica giustificazione che la madre può dare del gesto brutale del padre, affermando, come già in precedenza accennato, che “mio marito ha sbagliato ma Hina non era una buona musulmana”7. Probabilmente questa frase risulta essere la risposta a tutti i nostri interrogativi: la madre, inserita in questo schema di sottomissione, ha paura. Non riesce a ribellarsi alle violenze che il marito può effettuare sul corpo di Hina e non riesce a difendere fino in fondo la figlia. È “schiava” della sua cultura ed è costretta a rimanere in silenzio dinanzi agli ordini imposti dal marito.

Dall’altra parte, però, ci rendiamo conto che la madre non capisce, probabilmente, fino in fondo la necessità di Hina nell’abbandonare il velo e quella cultura che le era stata posta fin dalla nascita.

Dalla frase della madre emergono sentimenti contrastanti: paura nell’affrontare il marito, pur riconoscendo i suoi comportamenti sbagliati; la delusione di non capire la figlia e accettare che non fosse una “buona musulmana”.

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1.1.3. PROFILO DEL PADRE.

Il signor Mohammed Saleem è nato in Pakistan, a Gujrat, nel 1955.

È vissuto in Francia per circa nove anni e, nel 1998, si è trasferito in Italia, dove è stato poi raggiunto da tutta la sua famiglia.

Mohammed Saleem è il primo colpevole di tutta questa vicenda: ha maltrattato e, persino violentato Hina per anni fino ad arrivare, nel 2006, a premeditarne la morte.

È un uomo autorevole che si sente superiore rispetto al nucleo familiare in cui vive e che impone regole, non solo nei confronti di moglie e figlie, ma anche nei confronti dei suoi generi. È un uomo dalla personalità molto forte; non accetta che Hina possa disprezzare gli usi e i costumi tradizionali della religione islamica e che possa essere attratta dal mondo occidentale.

A differenza della madre, che vive in uno stato di soggezione, paura e sottomissione, il padre crede di poter imporre le sue regole attraverso la violenza. Crede di poter ristabilire un equilibrio familiare e, soprattutto, di obbligare la figlia ad indossare quel velo e quegli abiti, di cui con molta facilità si era spogliata. Hina è ribelle, vuole strapparsi gli abiti da musulmana che le sono stati “cuciti addosso” fin da piccola, in quanto non crede in quella religione o, se

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vogliamo, in tutti quei comportamenti che secondo il padre, un buon musulmano deve tenere.

Hina non si sente né musulmana né cristiana, ma occidentale e questo non può essere accettato dal padre e dalla sua famiglia.

Durante il processo, il padre di Hina affermerà: “so che quello che ho commesso è gravissimo, ma era giusto così”8.

Da questa sua affermazione, emergono una serie di osservazioni. Da una parte, il signor Mohammad, sembra ammettere e riconoscere di aver commesso un reato gravissimo; sembra consapevole di aver premeditato tutto, di aver costretto la moglie a ingannare la figlia e di aver imposto ai generi di collaborare (sia per l’uccisione della figlia sia per la sepoltura). Dall’altra parte, invece, pur riconoscendo di aver commesso un atto efferato e grave, sembra giustificarsi, sottolineando che questa era l’unica cosa che potesse fare. Hina, infatti, quel giorno viene messa di fronte alla scelta se indossare gli abiti da musulmana e sottostare alle rigide regole del padre o continuare la strada da lei intrapresa, sapendo di andare incontro alla reazione negativa del padre.

Hina, scegliendo di non tornare in Pakistan con la famiglia e di non comportarsi più come una buona musulmana, è morta.

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La reazione del signor Saleem fu violentissima: ventotto coltellate al volto e al collo. Lo stesso Mohammad sostiene, infatti, di aver agito d’impeto.

Possiamo chiederci se, per il padre, il problema fosse solo il fatto che Hina avesse deciso di abbandonare gli usi e i costumi propri della religione islamica, oppure il fatto che, lui stesso, non riuscisse a giustificare e quindi a tollerare tale comportamento. Forse il padre, non riuscendo a stabilire un ordine e un equilibrio all’interno del nucleo familiare per i comportamenti da occidentale di Hina, si è ritrovato a veder disonorata la famiglia e la sua cultura. Il disonore, infatti, emerge come “giustificazione” dell’omicidio della figlia. Mohammed, capo della famiglia, deve rispondere dell’atteggiamento ribelle della figlia ai membri della sua comunità.

Il 13 Novembre 2007 il Tribunale di Brescia riconosce Mohammed Saleem colpevole di omicidio e di soppressione di cadavere e lo condanna a trenta anni di reclusione, ritenendo la sua responsabilità aggravata dalla premeditazione e da motivi futili e abbietti.9

9 Cfr. Paola Parolari, Reati culturalmente motivati: un’altra sfida del

multiculturalismo ai diritti fondamentali, 17 Giugno 2011,

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http://ebookbrowse.com/6-p-parolari-reati-culturalmente-1.2. IL MULTICULTURALISMO.

Il caso di Hina, come molti altri casi in Italia e in Europa, appartiene da una parte alla categoria dei cosiddetti honor killing (di cui parleremo nella seconda parte del nostro studio) e, dall’altra parte, alla categoria del multiculturalismo.

L’aspetto che è opportuno analizzare è la volontà di famiglie o gruppi etnici che ad un certo punto della loro vita decidono di allontanarsi dalla città di origine e dirigersi in un Paese diverso culturalmente e che dia loro (qualche) possibilità di lavoro. Il fenomeno migratorio negli ultimi decenni, è ormai un dato di fatto.

Questa situazione ha portato molti studiosi a considerare il tema del multiculturalismo. Questo termine echeggia da molti anni nella nostra mente; non nasce in Italia bensì in Canada negli anni ’60. Il Canada è infatti caratterizzato da un biculturalismo (anglo-francese) che si inserisce su precedenti culture autoctone. La loro convivenza ha posto i primi problemi del moderno “multiculturalismo”.

Col tempo questo concetto ha cominciato a diffondersi, penetrando nell’area Europea intorno alla fine degli anni ’80 inizi anni ’90, influenzando il dibattito politico e culturale che già ruotava intorno alla società multietnica, multinazionale, multirazziale.

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Il multiculturalismo cerca di riconoscere e tutelare l’identità culturale e linguistica delle varie componenti etniche presenti in un dato Paese.

Come riporta Kymlicka, uno Stato viene definito “multiculturale” se “i suoi membri appartengono a diverse nazioni o sono emigrati da diverse nazioni e se questo fatto costituisce un elemento importante dell’identità personale e della vita politica”10.

Questo concetto permette di fare un’importante distinzione tra società multiculturali di tipo multinazionale e società multiculturali di tipo polietnico.

Il primo gruppo di società è caratterizzato da un pluralismo culturale derivante da una precedente colonizzazione o conquista o confederazione, come ad esempio Belgio e Svizzera. In questi Paesi, infatti, la pluralità di culture è dovuta ad una fusione avvenuta secoli fa in un unico Stato di aree occupate da culture preesistenti che costituiscono minoranze nazionali autoctone (società distinte rispetto alla cultura maggioritaria).

Il secondo gruppo di società è caratterizzato da un pluralismo culturale derivante da flussi migratori di individui e famiglie, come ad esempio Francia e Germania. Questi sono Paesi polietnici: caratterizzati da una preponderante presenza di immigrati che nei Paesi di arrivo si raccolgono in

10 Cfr. Fabio Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati

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associazioni per cercare pian piano di integrarsi. L’intento di questi gruppi o famiglie è infatti quello di modificare istituzioni e leggi dello Stato ospitante per renderlo più indulgente dinanzi alle differenze culturali.

L’immigrato, in un primo momento, parte da solo e poi porta con sé famiglie, gruppi, reti di parentele per andare alla ricerca di un futuro e di una sicurezza economica e sociale. Cerca di conservare il più possibile origini e cultura: da un velo ad una loro festività11.

Infatti, un primo interrogativo a cui è necessario rispondere, è quale sia stato e sia attualmente l’approccio degli ordinamenti nei confronti degli immigrati e della loro cultura.

Secondo una definizione che viene riportata da un dizionario12, la cultura è il “complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento, trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, di un popolo, di un gruppo di popoli o dell’intera comunità”. Di “cultura” esistono, però, più di cento definizioni: viene intesa come l’insieme delle consuetudini, dei punti di vista, dell’ethos di un gruppo o di un’associazione; può essere identificata, in alcuni casi, in

11 Cfr. Fabio Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati

culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Rivista Stato, Chiese e pluralismo confessionale (www.statoechiese.it), Ottobre 2007, p. 9.

12 Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, dodicesima

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senso molto più ampio e generale come cultura occidentale contrapposta alla cultura orientale. È sinonimo, per alcuni studiosi, di nazione e di popolo in quanto delinea una comunità che condivide lingua, tradizione e storia. “Cultura” in senso più ristretto rispetto a quella sociologica, legata a stili di vita, associazioni ecc..13

Gli Stati europei, quindi a partire dalla seconda metà del Novecento, hanno dovuto affrontare un cospicuo numero di questioni connesse ai fenomeni immigratori come, ad esempio, l'attribuzione dei diritti civili, sociali, politici agli stranieri, la disciplina del lavoro, della famiglia ecc... E le soluzioni che gli Stati europei hanno adottato sono state diverse e riconducibili a due modelli: il primo, il cosiddetto modello "assimilazionista" o alla francese; il secondo il modello "multiculturalista" o all'inglese14.

Il primo modello si fonda, principalmente, su una sorta di neutralità posta in essere dallo Stato di fronte alle differenze culturali; impone a tutti, a prescindere dall'origine culturale, etnica, religiosa, di essere formalmente uguali. Il tipo di uguaglianza che viene presa in considerazione è, in questo caso, "formale" in quanto prescinde dalle differenze. In Francia assistiamo ad una vera e propria assimilazione dello Stato nei confronti degli immigrati; in ambito giuridico si ha una irrilevanza di ogni loro "diversità".

13 Cfr. Cristina De Maglie, Multiculturalismo e diritto penale. Il caso

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Il secondo modello, invece, è quello multiculturalista. Viene adottato nel territorio britannico e mira ad un riconoscimento di fondo delle diversità culturali. Tale modello riconosce le minoranze culturali, ne protegge le identità e attribuisce un ruolo sociale e politico importante alle associazioni di immigrati. Aderire a tale modello significa accettare e riconoscere le diversità culturali adottando strategie politiche più tolleranti in modo che gli immigrati possano conservare la loro tradizione e la loro cultura. Il tipo di uguaglianza che questo modello prende in considerazione è l'uguaglianza sostanziale: riconoscere le differenze tra il Paese ospitante e gli immigrati e adottare, di conseguenza, trattamenti differenziati15.

Allora, come possiamo definire il multiculturalismo? È la coabitazione di diversi gruppi linguistici, culturali, religiosi che vivono nel medesimo territorio; è un modello culturale determinato, peculiare; è un progetto di società posto in essere da uno Stato le cui identità culturali e religiose vengono considerate come “ospiti”16. L’immigrato arriva da una realtà completamente diversa caratterizzata dalla povertà, dalla fame o dalla guerra; si ritrova in una

15 Cfr. Fabio Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati

culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in rivista Stato, Chiese e pluralismo confessionale (www.statoechiese.it), Ottobre 2007, pp. 20-22.

16 Cfr. Carmine Di Martino, Multiculturalismo e identità. Alle radici

della convivenza, Centro culturale di Milano, 2011

http://www.cmc.milano.it/Archivio/2011/Articoli/Multiculturalismo-DiMartino.pdf.

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situazione disagiata dalla quale tenta di uscire e l’unica possibilità che gli si prospetta è quella di andare alla ricerca di un “posto migliore”. Intraprende un percorso di emancipazione sociale17. Non si tende a parlare di “singolo” e di “persona”, bensì di comunità ed etnia: il singolo è classificato in base all’etnia, al gruppo di appartenenza. Ciascun gruppo ha peculiari caratteristiche, tradizioni, culture. Ecco che il multiculturalismo si propone come un modello alternativo all’incontro tra soggetti e culture.

Le culture sono codici di comportamento all’interno di ogni singola comunità: è per questo che il migrante quando lascia un Paese e una determinata realtà e va in un altro Paese, trova un diritto e una cultura diversi da quelli del luogo di appartenenza; trova regole di condotta e in particolar modo norme penali diversi dal Paese di origine.

Questa situazione, come abbiamo ad esempio analizzato nel caso di Hina Saleem, può indurre lo straniero a commettere un fatto previsto come reato nel Paese ospitante, ma che risulta, conforme nella sua cultura d’origine18.

17 Adel Jabbar, Multiculturalismo: la cultura delle differenze, in

Periodico InfoMedi,

http://www.infomedi.it/adel_jabbar_multiculturalismo.htm.

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1.3.

IL

DIFFICILE

RAPPORTO

TRA

MULTICULTURALISMO

E

DIRITTI

DELLE DONNE.

Nel 1948, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato a Parigi la "Dichiarazione universale dei diritti umani". Per la prima volta fu realizzato un documento che riguardava tutte le persone del mondo, senza distinzione di sesso, lingua, razza o cultura. La Dichiarazione è stata identificata come il primo codice etico in grado di sancire universalmente diritti e libertà dell'individuo: è una tappa fondamentale che segna l'affermazione dei diritti umani e definisce, per la prima volta, i diritti della donna.

Il preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;

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Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;

Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

l’Assemblea Generale proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante

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misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”.

Il Preambolo della Carta delle Nazioni Unite stabilisce come obiettivo fondamentale la riaffermazione dei diritti umani, dignità della persona umana, uguali diritti degli uomini e delle donne. Queste tematiche permettono di affrontare il tema del multiculturalismo sotto vari punti di vista. In particolar modo, in questo ambito, è interessante analizzare la figura della donna dinanzi allo Stato ospitante, e quindi sotto una sfera “pubblica”, e all’interno del nucleo familiare, nella sfera “privata”.

Fino a pochi decenni fa era normale pensare al fatto che le minoranze (fra cui gli immigrati) dovessero assimilarsi alle culture maggioritarie. Il Paese ospitante, in particolare per quanto riguardava Usa e Canada, trovandosi per la prima volta di fronte a cospicui flussi migratori, adottava una politica "integrazionista". Per molti studiosi questo tipo di assimilazione è stata considerata oppressiva, e molti Paesi Occidentali hanno cercato di realizzare politiche in grado di rispondere a tali differenze culturali. Il problema che ruota intorno alla possibilità di andare incontro ad esigenze nuove e diverse di immigrati che si insediano in un nuovo Paese e di accettare, dall'altra parte, usi e tradizioni propri di quella comunità, è la cultura, la mentalità,

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l'intersezione di "mondi" tra loro inconciliabili (almeno apparentemente).

Il limite fondamentale che si riesce a scorgere è il fatto, da una parte, di poter sapere fin dove, il Paese ospitante, può arrivare con la propria politica, con le proprie leggi e regole e, dall'altra parte, capire il punto in cui deve lasciare spazio all'immigrato.

Dinanzi ai massicci flussi migratori, alcuni paesi occidentali non sapevano che tipo di atteggiamento adottare nei confronti dell’immigrato: non potevano, da una parte, sradicare lo straniero dalla sua cultura e dai suoi usi e, dall’altra parte, non potevano creare norme per l’immigrato contrastanti con la politica posta in essere dall’ordinamento.

Ad esempio, alla fine degli anni ’80 in Francia scoppiò una controversia riguardante la possibilità per le ragazze di indossare il velo islamico nelle scuole: è giusto, in questa circostanza, sradicare l’immigrata dalle proprie usanze e dal proprio essere oppure è giusto adottare una politica che sostenga la diversità e consenta ad ogni persona di perseguire usi e costumi tipici della propria cultura?

I difensori dell’istruzione laica si schierarono contro tale pratica; mentre gran parte della vecchia sinistra sostenne le richieste multiculturaliste di flessibilità e rispetto per la diversità19.

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Il multiculturalismo tende a proteggere la diversità culturale e a sostenere quello che il Preambolo della Dichiarazione Universale dell’Unesco del 2001 ha affermato in merito alla diversità culturale: “La cultura dovrebbe essere considerata come l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale; essa include oltre alle arti e alla letteratura, stili di vita, modelli di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze”.

Queste considerazioni caratterizzano la sfera “pubblica”: da una parte troviamo il Paese ospitante (con le sue regole, le sue leggi) e, dall’altra parte l’immigrato che decide di insediarvi.

Nella sfera privata, invece, all’interno di ogni comunità, di ogni gruppo e di ogni famiglia, il Paese ospitante si sente “impotente”. Non riesce, infatti, a dettare linee di comportamento che un immigrato può tenere nel nucleo familiare e questo, con il passare degli anni, ha creato controversie all’interno dell’ordinamento. È come se ci fosse una linea netta, un confine tra ciò che lo Stato ospitante può fare e ciò che non può fare.

La femminista radicale Susan Moller Okin20 afferma che le minoranze culturali rivendicano i diritti di gruppo e, in particolar modo, negli stati liberali viene “rivendicata l’importanza culturale di mantenere il controllo sulle

20 Cfr. Susan Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo,

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donne”, che risultano essere la componente più debole all’interno di questo sistema. La maggior parte delle rivendicazioni riguardano le disuguaglianze di genere: matrimoni precoci, matrimoni imposti, clitoridectomia. Il riconoscimento di particolari diritti ai gruppi etnici rischia di non riconoscere l’oppressione delle donne che si nasconde nella sfera privata.

La Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani tenuta a Vienna nel 1993 ha confermato che i diritti delle donne sono diritti umani, inalienabili, indivisibili e universali. I diritti umani della donna hanno fatto da cornice per i cambiamenti legislativi e politici realizzati all'interno di vari Paesi: tali diritti forniscono alla donna uno strumento idoneo per cercare di sottolineare e descrivere le proprie esperienze di vita, le proprie sofferenze e i propri dolori. In realtà , nonostante queste Conferenze, all'interno della sfera privata, la donna risulta talvolta "soffocata" dal potere dell'uomo, dalle sue imposizioni e dalla sua volontà. La donna immigrata, come è successo ad Hina Saleem, è come soffocata da due mondi: da una parte dalla cultura e dalle tradizioni in cui la ragazza è nata e cresciuta e dalla volontà dell'uomo (padre o marito).

La donna islamica, nel caso specifico, sembra non potersi ribellare al “padre-padrone”. La possibilità della donna islamica di poter accedere ai diritti sociali, civili e

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politici, sembrava e sembra tuttora collegato alle logiche patriarcali esistenti all'interno delle famiglie.

Nella maggior parte dei Paesi musulmani come, sotto certi aspetti anche nel nostro, il diritto di famiglia prevede ruoli diversi per l'uomo e la donna. Per la tradizione l'uomo è dotato di forza, si occupa di qualsiasi tipo di affare ed è il capo assoluto in famiglia, al quale va riconosciuto un rispetto particolare. Il ruolo della donna è diverso: essa svolge un ruolo importante all'interno della famiglia in qualità di moglie e madre.

In molti Paesi a maggioranza islamica il divario tra uomo e donna è più netto. In questi Paesi si sta realizzando un lento processo di alienazione religiosa e culturale, che qualcuno ha definito “occidentalizzazione rampante”21. In queste comunità si è portata avanti l’idea in base alla quale la maggiore libertà richiesta dalle donne equivalga ad una maggiore occidentalizzazione. Questo è forse successo anche a Hina Saleem, una ragazza che, pur essendo nata e cresciuta in Pakistan, una volta entrata in Italia, è rimasta affascinata da un mondo completamente nuovo: ha cominciato a frequentare bar, pub, stili di vita occidentali, amici italiani e si è resa conto che il mondo dove aveva vissuto fino a pochi anni prima, non le apparteneva più. Purtroppo, la libertà che in alcune circostanze viene richiesta

21 Cfr. Manuela Cuccurullo, Il velo tra Oriente e Occidente. Diritti

delle donne e multiculturalismo, in Rivista telematica Diritto&diritti, 26 Maggio 2011.

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dalle donne musulmane, non viene sempre approvata dall’uomo capo famiglia.

La libertà, i diritti, la possibilità di poter lavorare, agire secondo una propria mentalità, ricercare un proprio io, sono elementi che, in alcune famiglie, vengono rispettati; nelle famiglie fortemente patriarcali, invece, queste tensioni vengono spesso soffocate da una cultura maschilista poco incline alla tolleranza e alla protezione dei diritti delle donne.

1.4.

IL FEMMINICIDIO.

Il termine “femicide” nacque per indicare gli omicidi della donna “in quanto donna”, ovvero gli omicidi di genere realizzati dagli uomini su donne, bambine, mogli, figlie.

Questo termine è stato utilizzato per la prima volta dalla criminologa Diana Russell nel 1992 nel suo libro “Femicide: the politics of woman”, in cui la scrittrice identificò il femminicidio come una categoria criminologica vera e propria, un atto violento realizzato dall’uomo nei confronti della donna22.

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Diana Russell23 afferma che “tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano ad usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne”.

Nel 1993 anche l’antropologa messicana Marcela Lagarde24 utilizzò il termine “femminicidio” per identificare “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violenza dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine come: maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza e disinteresse delle

http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=a rticle&id=41435&catid=235&Itemid=487&contentid=41435&mese=0 1&anno=2013, 14 Gennaio 2013.

23 È scrittrice e criminologa. Nel 1976 è riuscita ad organizzare il

primo tribunale internazionale sui crimini contro le donne a Bruxelles, in Belgio. Ha scritto numerosi libri occupandosi, in particolar modo, di femminicidio.

24 È un’antropologa, scrittrice e femminista: ha coniato il termine

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Istituzione e alla esclusione dello sviluppo e della democrazia”25.

Ancora, la stessa Marcela Lagarde afferma che “la cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne, è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti ad una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio”26.

Il femminicidio è quindi la forma più estrema di discriminazione nei confronti di una donna; è il potere che l’uomo esercita nei confronti di una donna affinché quest’ultima possa rispondere alle aspettative sue e della società patriarcale. Riflette il controllo maschile che annienta completamente l’identità della donna assoggettandola fisicamente, economicamente, psicologicamente e giuridicamente 27 . Questo accade troppo spesso indistintamente dalla provenienza e dalla cultura della donna. In tante circostanze quest’ultima si trova ad essere “schiava” di un mondo che non le appartiene. Il caso di Hina rientra forse in questa categoria. Come in altre situazioni, certi maltrattamenti vengono realizzati da padri o mariti per avere

25Cfr. Barbara Spinelli, Perché si chiama femminicidio, in (blog) La

ventisettesima ora (Corriere della sera),

http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/.

26Cfr. Barbara Spinelli, op. cit.

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la situazione sotto controllo: la donna deve, secondo la mentalità di alcuni uomini, rimanere ancorata all’immagine della moglie perfetta, che si occupa della casa, dei figli e della famiglia; senza potersi autodeterminare, senza autonomia e indipendenza. In sostanza priva di una propria identità.

Il retaggio culturale costituisce il movente di tanti omicidi che avvengono nella sfera privata, nel nucleo familiare nel mondo islamico e non solo. Alcune femministe, facendo riferimento ai women’s studies parlano di “cultura di stupro”28, per identificare la donna come mero oggetto passivo del desiderio maschile. L’uomo si approfitta della situazione di superiorità rispetto alla donna. Il femminicidio sarebbe peraltro conseguenza dell’idea che soltanto l’uomo esiste e ha cominciato a divulgarsi nel corso dei secoli in relazione al fatto per cui è libero di fare ciò che vuole, soltanto perché uomo. Nei Paesi Arabi, come in altre parti del mondo, esistono comunità nelle quali la donna non può essere libera, non le vengono riconosciuti alcuni diritti ed è soggetta a violenze e maltrattamenti. Sono donne le cui urla non vengono ascoltate e non vengono percepite29.

L’uomo deve riuscire a mantenere l’onore della famiglia: una donna che cerca di scappare da una realtà, cerca di

28 Cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono

comuni e in cui gli atteggiamenti dei media o le norme giustificano o incoraggiano lo stupro o altre violenze sulle donne.

29Cfr. Farian Sabahi, Donne e Corano: storia di un rapporto ambiguo,

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intraprendere una nuova strada, un nuovo percorso per una vita probabilmente migliore, disonora il nucleo familiare, parenti ed amici.

L’uomo e la donna nati e cresciuti in un determinato ambiente, a contatto con certe culture e tradizioni, saranno destinati ad una completa incomprensione: l’uomo, da una parte, non capirà mai l’esigenze della donna nel volersi emancipare, vestirsi in maniera diversa, autodeterminarsi e non essere costretta a ricoprire per tutta la vita il ruolo di madre e moglie; la donna, dall’altra parte non potrà mai far comprendere al proprio marito o padre o fratello l’esigenza di voler essere diversa e libera. L’uomo di per sé è libero, non è costretto ad alcuna forma di maltrattamento, non è assoggettato al potere di nessun altro e non capisce (e non capirà) la necessità e l’esigenza della propria donna. Per l’uomo la normalità è questa. Se la donna non rispetta le regole che il padre e il marito stabiliscono nel nucleo familiare, subirà violenze e maltrattamenti perché l’uomo deve ristabilire l’ordine e tutelare il suo nome e il suo onore. Nel caso in cui maltrattamenti e violenze non dovessero essere sufficienti, si può arrivare all’uccisione della donna.

In Italia mancano statistiche ufficiali sul femminicidio e solo l’Eures (un ente di ricerca privato) raccoglie i dati sull’omicidio volontario, con una periodicità variabile. Dal 1992 al 2006, la proporzione di donne uccise è passata dal 15,3% del triennio 1992/94, al 26,6% nel triennio 2004/06,

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con un aumento pari a dodici punti. Nel 2008 è emerso come le vittime donne siano sempre le più numerose negli omicidi in famiglia, con una percentuale che riguarda circa il 70%30.

Il termine femminicidio è stato poi accompagnato da un altro concetto: il femicidio, rafforzando con tale concetto il dominio maschile di potersi appropriare del corpo di una donna. È la sopraffazione, il disprezzo e l’umiliazione che sta alla base tanto del gesto di offesa (come atto di violenza) quanto dell’atto estremo di uccisione della donna31.

In Italia ultimamente la violenza è stata finalmente riconosciuta come un problema sociale. Con gli anni ’90 le istituzioni internazionali e nazionali sono entrate nel merito della violenza di genere: in particolar modo la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, ha riconosciuto la violenza come violazione dei diritti umani. Ciò nonostante, la violenza di genere resta un “fenomeno sottostimato” e poco indagato per quanto riguarda i fattori sociali, culturali, psicologici ecc…

Il femicidio è la forma più estrema di violenza di genere che si realizza in prevalenza all’interno del nucleo familiare, nella sfera intima e privata, con successive ripercussioni nella società.

In questo senso il femminicidio (o femicidio) è un fatto culturale. Lo Stato appare “impotente”, perché non

30Cfr. Cristina Karadole, Femicidio: la forma più estrema di violenza

contro le donne, in Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza – Vol. VI° - n.1 Gennaio – Aprile 2012, pp. 18-34.

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riesce a determinare norme adatte a cambiare mentalità, usi e tradizioni32. La tradizione patriarcale è legata al concetto di donna identificata come madre e come moglie, succube di un sistema e di una cultura che le è propria fin dalla nascita.

Lo Stato, per poter abbattere queste violenze, dovrebbe in definitiva annientare le mentalità patriarcali.

Il delitto di Hina Saleem ha portato ad un rafforzamento nell’opinione pubblica dell’equazione “religione islamica = religione contro le donne”33. Di conseguenza, si sono rafforzate alcune dicotomie concettuali come progresso/tradizione, libertà/costrizione, istituzione/ignoranza, occidente/oriente ecc..

Le donne, in modo particolare quelle pakistane, sono vittime fisicamente e psicologicamente: non hanno alcuna libertà, sono escluse dai diritti e dalla protezione che la nuova cittadinanza garantirebbe loro.

Nel 2006, l’uccisione di Hina scatenò una reazione violenta da parte dei componenti della comunità pakistana. Il rappresentante Taufiq Muhammad, dichiarò alla stampa che molti dei suoi compatrioti sostenevano e giustificavano il padre di Hina, come se la scelta di punire in quel modo estremo la figlia, fosse semplicemente obbligata. Secondo

32Cfr. Cristina Karadole, Femicidio: la forma più estrema di violenza

contro le donne, in Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza – Vol. VI° - n. 1 Gennaio-Aprile, 2012.

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l’intera comunità, Hina aveva disonorato la famiglia e la comunità. Il suo modo di fare rischiava di divenire un esempio deleterio per le altre pakistane34.

Le donne pakistane in Italia vivono uno stato di purda più severo di quello del Paese di origine: non hanno alcun diritto, alcuna libertà. Sono tenute in disparte da tutti, non possono frequentare i corsi per imparare la nostra lingua, non possono interagire con gli italiani e sono segregate in casa.

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