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Scamparla bella

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Academic year: 2021

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Scamparla bella

Uno spettacolo del genere, con il nano da giardino e la sua carriola, là nel prato a sinistra del sentiero, mi avrebbe dovuto mettere l’orecchio nella pulce: non si piglia l’aceto con le mosche, non si attirano le rondini con la primavera, non si ospita un ricercato nella casetta di un nano da giardino. Ma non avevo scelta: il viale era grande e dritto, e io ero senza fiato. Se esitavo ancora per quindici secondi, il furgoncino avrebbe superato l’incrocio e mi sarebbe finito dritto addosso. Ho girato la testa un’ultima volta: nulla in vista, così ho preso lo slancio e...op, ho fatto un balzo dall’altra parte della siepe.

Eccomi a terra, con la schiena contro le tuie e la respirazione affannosa. Con un gusto di sangue in bocca e un odore di bestia sotto le ascelle. Ho chiuso gli occhi, ormai non si sentiva altro che il cinguettio degli uccelli sugli alberi e il mio fiato che tornava poco a poco. Ho aspettato per un bel pezzo, un tempo lungo quanto la pista di un locale di strip-tease. Mi faceva piacere un po’ di inattività. Il sole cadeva a piccoli tocchi di giallo sul verde del prato, l’effetto era molto carino. Quasi un momento di felicità in una vita da randagio.

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Ho guardato la villa, era una di quelle case grosse e brutte senza alcun elemento d’interesse, se non di ospitare gente tutta scialba e pulitina come loro, piccole vite sistemate in cassetti ben puliti, file di computer interscambiabili, contabili, direttori, agenti commerciali, non importa, non dovevo mettere piede là dentro, così avrei finito per devastare un’altra casa borghese, spaccare un po’ di denti e uscire subito dopo con un computer sotto braccio e le tasche piene di telefoni cellulari. No, non era questo il momento, dovevo rigare dritto. Dovevo riposarmi e riflettere per bene, prima di rimettermi in marcia.

Ho chiuso di nuovo gli occhi, ma subito il motore di una macchina ha risvegliato la mia mente dal suo torpore. Veniva da vicino, proprio alle mie spalle, e subito dopo ho sentito il rumore di ruote che affondavano nella ghiaia spessa e lo stridio caratteristico del freno a mano quando lo tiri con un gesto secco. Un istante, e il mio corpo era in inchiodato a terra. La portiera si è aperta.

Avevo avuto una giornata di merda. Una di quelle giornate in cui tutto quello che hai ingurgitato di forza per settimane e settimane ti esce di colpo dall’estremità sbagliata, i clienti si lamentano, il superiore si scarica i nervi su di te, la macchina del caffè è guasta e i cetrioli nel Tupperware di mezzogiorno ammuffiti, insomma, una serie di sfighe una dopo l’altra. Per non parlare del mio rilassamento di fine giornata, le solite venti vasche alla piscina dell’Holiday Inn…neanche a quello avevo avuto diritto, visto che mi ero dimenticato il costume. Sono tornato a casa con una voglia sola, accasciarmi davanti alla tele, buttare giù due birre e mandare al diavolo il pianeta intero

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almeno fino all’indomani mattina. Ma le cose non capitano mai come vorresti. Monique, che mi prepara ogni sera un pasto-metronomo che piomba sulla tavola al momento esatto del mio ritorno, lei che è sempre lì ad aspettarmi per stapparmi una birra e chiedermi com’è andato il lavoro, ebbene, questa Monique era fuori di sé, gli occhi pieni di lacrime, mi si è gettata tra le braccia appena ho aperto la porta: Eric, mi fa singhiozzando, devi fare qualcosa, hai visto cosa mi hanno fatto?! Si agitava come una vecchia Palestinese appendendosi al mio completo a tre pezzi, e puntava contro i suoi capelli tutte le dita di cui madre natura l’aveva dotata. Hai visto che colore, ripeteva, hai visto che colore? Non posso uscire così, devi fare qualcosa.

C’è un proverbio che dice che dei gusti e dei colori è meglio non discutere. Me ne sarei dovuto ricordare, perché ogni parola che ho detto, a partire da quel momento, era come una cucchiaiata di sapone liquido che ha accelerato la mia discesa verso il baratro.

Non potevo restare lì. Ho visto il proprietario scendere dalla macchina, con la sua cravatta e la ventiquattr’ore. Ho sentito che chiudeva la macchina con il telecomando. Poi ha aperto la porta di casa, e in quel momento ha fatto scivolare le chiavi nella valigetta. Ho preso nota dell’informazione e l’ho custodita in un recesso del cranio: la pazienza è la virtù dei ricchi, è risaputo. Dovevo trovarmi un nascondiglio più serio: dietro la siepe ero sì al sicuro dalla strada,

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ma potevano vedermi senza problemi dalle finestre di casa. Urgeva trovare un posto migliore. Il giardino era ben tenuto e l’erba tagliata di fresco, tutto sapeva di capanno degli attrezzi. Ho fatto il giro della proprietà costeggiando le siepi ed eccolo lì in fondo, sotto un salice che piangeva tutte le foglie del suo tronco, una bella imitazione di chalet svizzero con tendine a scacchi e niente serratura, giusto un tosaerba, un po’ di concime e dei rastrelli. Un domicilio perfetto per un senzatetto come me. Mi tiro dietro la porta e comincio a fare un po’ di ordine. Con i sacchi di terriccio e la pompa dell’acqua riesco a ricavarmi una specie di materasso quasi comodo. Il calore stava già scendendo. Poteva fare fresco durante la notte. Brancolando nel buio, metto le mani su una giacca a vento puzzolente da usare come coperta. Chiudo gli occhi e aspetto che il sonno arrivi spontaneamente. L’attesa è breve.

Cos’hanno che non va i tuoi capelli? Vanno benissimo così, ho risposto semplicemente. Avrei potuto lanciarle un barile d’olio bollente in faccia che l’effetto non sarebbe stato diverso. Ma sono orribili! Sei cieco o cosa, mi ha risposto. Sono bianchi, quasi blu, sembra una parrucca da vecchia. Non vorrai mica che li lasci così, no? E invece sì, avrei preferito che li lasciasse così, che si calmasse e la smettesse di rompere, perché quello che volevo era andarmi a bere la mia birra tranquillo davanti al notiziario, in attesa che lei mi servisse gli eterni pomodori farciti del martedì.

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Ma non potevo certo confessarglielo così apertamente. Allora le ho detto che stava esagerando, poi che era montata su tutte le furie per niente e che era incredibile che facesse una scenata per un dettaglio del genere, poi che in fondo era insopportabile, che mi dava sui nervi, poi che ne avevo le palle piene di lei, e così via per una buon’ora almeno, un rosario di parole concatenate l’una all’altra, mentre non pensavo neanche la metà di quello che dicevo. Avrei dovuto dirle semplicemente che ero stanco morto e non avevo voglia di discutere per delle ore, che i suoi capelli li avremmo sistemati il giorno dopo con un’altra tinta o una parrucca da indossare per qualche giorno, che dovevamo dimenticare tutto questo bevendo qualcosa, sedendoci da innamorati come il primo giorno, con una luce tenue che le avrebbe fatto dimenticare le ciocche blu. Ma no, al posto di dirle questo l’ho sentita gridarmi contro e ho gridato ancora più forte, mi sono visto richiudere una valigia con un pigiama, due paia di mutande, una dozzina di calzini, tra cui alcuni sicuramente sporchi, e una camicia di ricambio, con lei che mi gridava di sparire per sempre e di non tornare mai più e anch’io che urlavo, ho persino fatto cadere la lampada del comodino afferrando i miei calmanti, poi l’ho sentita singhiozzare alle mie spalle mentre scendevo le scale a quattro a quattro e uscivo nella notte, sbattendo la porta dietro di me.

Il silenzio mi ha fatto un bene della madonna. L’aria era tiepida.

La strada calma.

Delle mosche svolazzavano intorno ai neon dell’illuminazione stradale. C’era la luna piena e la notte era chiara quasi come l’alba.

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Ero vivo.

E finalmente nessuno mi rompeva le palle.

Mi sono sentito bene per la prima volta dal mattino.

Avrei potuto sdraiarmi senza problemi anche lì, crollare dalla stanchezza proprio sulle pietre del vialetto, accanto alla ghiaia. Avevo i nervi a fior di pelle.

Ma in macchina sarei stato meglio. O da André, perché no. L’avevo già ospitato una volta o due, quando aveva attraversato delle zone di turbolenza con quell’hostess di sua moglie. Quello era probabilmente il solo posto al mondo in cui sarei stato accolto senza domande. Con il silenzio e il sorriso che ci si aspetta da un amico. Mi sono diretto alla macchina e ho tirato fuori il cellulare. In quel momento mi sono reso conto che non avevo le chiavi dell’Audi. Erano rimaste in casa. Insieme alle chiavi della porta d’entrata, del resto. Ebbene sì, mi ero chiuso fuori.

Quando dormo, non c’è molto che possa svegliarmi. È una vera e propria tara. Quando uno non ha la coscienza tranquilla, come me, non dovrebbe mai dormire. Solo assopirsi per qualche istante per ricaricare le pile, poi ritirarsi su con un colpo secco. Tutto questo mi ha già giocato dei brutti tiri quand’ero in galera, e c’è chi ne ha approfittato per prendermi di sorpresa. E funziona ogni volta, visto che dormo come un bebè. Faccio dei sogni idioti, in cui sono un tipo ipermuscoloso con tatuaggi su tutto il corpo e faccio fuori i tizi che incontro per strada. E un sogno così può durare delle ore, quanto meno una notte intera, come in un videogioco,

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basta che io ne pesti uno e quello ne genera altri cinque. Forse ho subito un trauma durante l’infanzia: un film di Jean-Claude Van Damme o di Chuck Norris visto dal box o dalla culla. In fondo non importa, non intendo certo perdere tempo a pagare degli psicanalisti per sentirmi dire quello che già so, cioè che ho il cervello in pappa e i nervi a pezzi. Se qualcuno ha qualcosa in contrario, che me lo dica in faccia, e io gli farò capire che la penso diversamente.

Insomma, tutto questo per dire che stavo dormendo a più non posso e me la godevo da morire.

Chiuso fuori da casa propria, questo è il colmo. Ma di sicuro non potevo suonare a Monique per chiederle le chiavi. Quanto meno dovevo lasciar calare la pressione per qualche ora, il tempo per lei di chiamare le amiche, sua sorella, sua madre, e di rendersi conto che in fondo non era successo nulla di serio. Nell’attesa, dovevo trovare un luogo in cui passare la notte. E a miei occhi non c’era che una possibilità: il capanno degli attrezzi.

Ho fatto il giro della casa, in punta di piedi, perché non avevo nessuna voglia di farmi localizzare dal bagno, dove di sicuro Monique si era rinchiusa dopo la mia partenza. Ho attraversato il prato e ho aperto la porta dello chalet, piano piano, senza fare il minimo rumore.

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Questo sì che ti sveglia di botto. Basta un tipo che ti scuote, anche quando hai un sonno di piombo, per strapparti all’istante dai tuoi sogni. Mi grida contro come un pazzo, ma a bassa voce: cosa ci fa lei qui, mi bisbiglia con la bocca spalancata, cosa ci fa qui, nel mio giardino, eh? Aveva lo stesso completo di quando era sceso dalla macchina, ma si era tolto la giacca. Aveva degli occhi verdi, quasi trasparenti, e un corpo muscoloso come quello del mio sogno.

Non ero esattamente in vantaggio. Con una mano mi scuoteva, e l’altra la usava per minacciarmi con una vanga arrugginita. Se avessi tentato di scappare, avrebbe potuto mettermi fuori combattimento con un semplice gesto del braccio. No, sarebbe stata una stronzata finire così.

La stavo aspettando, gli ho risposto io, avvicinando la mia faccia alla sua. Era talmente sorpreso che non è indietreggiato.

Allora di colpo l’ho baciato, come non avevo più baciato un uomo da mesi. Forse da anni. L’ultima visita di Jeff in prigione, a quand’è che risaliva? Mi aspettavo che mi avrebbe colpita in piena faccia, ma così non è stato. Mi ha incollata a lui e mi ha baciata a sua volta.

Quando ha finito, si è raddrizzato di colpo.

Non so cosa ci faccia lei qui, Signora, ha ripetuto lui, ma questa è casa mia e io qui vorrei poterci dormire. Fili via immediatamente e non ne farò parola con nessuno.

Avrei dovuto filare via, così sarebbe stato più facile. Per lui come per me. Ma ho sempre avuto il cervello che va a puttane nei momenti peggiori. Così sono restata.

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È lui che mi ha convinta a consegnarmi alla polizia, a tornare in prigione e a rigare dritto, il tempo che lui sistemi le questioni con la moglie, divorzi in via amichevole e prepari la casa per il mio arrivo.

Allora sono andata dritta al punto.

- Con te voglio tentare il colpo grosso.

- Ok.

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