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Francesca Mereu. L amico Putin. Prefazione di Paolo Guzzanti. L invenzione della dittatura democratica. Aliberti editore

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Storie e personaggi

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Francesca Mereu

L’amico Putin

L’invenzione della dittatura democratica Prefazione di Paolo Guzzanti

Aliberti editore

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Un ringraziamento particolare per il loro contributo al libro a Paolo Guzzanti e Claudia Claudiano.

© 2011 Aliberti editore Tutti i diritti riservati Sede legale:

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Prefazione

Dalla Lubyanka al Cremlino:

l'inviato speciale del Kgb

A differenza di Francesca Mereu – che ha lavorato e vissuto in Russia per molti anni e dispone di informazioni di prima mano – quando io fui eletto presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin nel giugno del 2002, pur dovendo indagare su una storia di spionaggio sovietica, di Russia e di russi

sapevo soltanto quel che si impara dai giornali e dalla televisione, cioè pochissimo.

L’ultimo ricordo che avevo di Mosca risaliva a un viaggio nell’estate del 1991, pochi giorni prima del colpo di Stato del Kgb contro Gorbachev, colpo che poi rientrò misteriosamente, lasciando però l’uomo della Perestroika politicamente distrutto. Ricordo di aver visto in quell’occasione una scena molto simile a quelle che avevo visto

nella Santiago del generale Pinochet: cittadini terrorizzati e in fuga davanti alla brutale arroganza degli uomini della polizia segreta. Capii allora che le grandi riforme democratiche erano di pura facciata: la polizia segreta dominava

la società civile e non era soltanto un servizio di spionaggio, ma un’istituzione invasiva e totalitaria, nel senso

che occupava (e tuttora occupa, come spiega e analizza meticolosamente la Mereu) tutti i gangli dell’economia, della sicurezza, della vita civile. La Mosca che io ricordo era ancora quella in cui i tassisti abusivi stivavano sotto il sedile una dozzina di litri di vodka fatta in casa, bottiglie di Coca Cola e materiale pornografico artigianale da offri-

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re agli stranieri. Non era ancora la Mosca rutilante dei nostri giorni, ma qualche segnale di modernità c’era:

grandi mongolfiere pubblicitarie di un brillante color indaco con la firma di Pierre Cardin occupavano il cielo sopra la piazza Rossa con il Mausoleo di Lenin, sovrastando anche la lunga fila dei turisti in attesa, mentre giovani soldati appena adolescenti marciavano a un lento passo dell’oca, scandito dal ritmo di un grande orologio. Era ancora una Mosca sovietica, e blandamente comunista, ma il Kgb aveva già acquistato il controllo di tutti quegli snodi che prima erano gelosamente amministrati dal Partito comunista, che aveva sempre sbarrato il passo alle pulsioni di dominio della polizia segreta. Almeno fino a Yuri Andropov, il grande e spietato boss della Lubyanka di cui gli occidentali, nella loro bizzarria, si innamorarono perché fu sparsa la voce che il capo della polizia segreta parlava un inglese fluente e gradiva un buon bicchiere di scotch più della vodka. Era stato del resto proprio Andropov a selezionare il giovane Gorbachev per la sua successione a segretario generale del Pcus, ma la malattia che lo portò a una morte precoce gli impedì di sbarrare la strada all’ultima polverosa cariatide del comunismo sovietico, cioè a Konstantin Cernienko. Soltanto quando, il 10 marzo 1985, Cernienko morì, “il giovane Gorbachev”

(come tutti lo chiamavano) poté diventare finalmente segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, carica che equivaleva a quella di presidente.

Dunque, nel 2002, quando Vladimir Putin era ancora considerato da noi occidentali un astro nascente, misterioso ma in fondo interessante (la sua figura, anche fisica, rompeva i cliché), cominciai a presiedere per il parlamento della Repubblica italiana una Commissione bicamerale d’inchiesta composta da venti senatori e venti deputati.

Compito della Commissione era quello di indagare su vicende che a quell’epoca erano considerate già vecchie e fuori moda: spie sovietiche, comunisti che venivano dal freddo, ciarpame per vecchi romanzi di John Le Carré. Ma avevamo torto: avremmo tutti imparato molto presto, con

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amarissima sorpresa, che la nuova Russia di Putin non aveva più nulla a che fare con la Russia di Yeltsin, caotica ma promettente, sanguinaria ma fantasiosa, con i suoi teatri, la sua letteratura, la follia, l’alcol, il mitra come nella Chicago degli anni Venti. La nuova Russia di Putin («il nostro caro Vladimir» come lo chiama Silvio Berlusconi) era tornata in sintonia con la vecchia Unione Sovietica:

Putin avrebbe infatti riabilitato il Kgb, avrebbe elogiato Stalin come grande condottiero e patriota, rimpiangendo e rivendicando per la nuova Russia il ruolo di grande potenza perduto con il crollo dell’Urss, ricreando anche un imprevisto clima da guerra fredda imbevuto del più sciatto antiamericanismo e antioccidentalismo. Con una particolare avversione per il Regno Unito e gli inglesi che, dai tempi dei “Quattro di Cambridge”, erano sempre stati l’ossessione degli uomini della Lubyanka. In Italia non si videro le notizie che pubblicavano i giornali inglesi, ma quando il governo di Tony Blair si rese conto che un cittadino britannico – il patriota russo Aleksander Litvinenko,

naturalizzato inglese poche ore prima della sua morte – era stato assassinato su suolo britannico con un ordigno nucleare importato da uno Stato estero, si determinò una tensione violentissima con gravi risvolti anche militari fra Londra e Mosca: Putin, irritato per la richiesta di estradizione del presunto sicario di Litvinenko, Andrei Lugovoi,

fece levare in volo i vecchi e arrugginiti bombardieri nucleari Tupolev (che Gorbachev aveva tenuto chiusi per anni negli hangar militari) e li portò al limite dei cieli inglesi. E Tony Blair, furioso e indignato, fece a sua volta decollare i caccia britannici più moderni per contendere lo spazio aereo ai russi. Di tutto ciò in Italia non si seppe nulla, o quasi, benché i media britannici titolassero a tutta pagina. Dunque imparammo con ritardo che questo aitante tecnocrate dall’aria spavalda che faceva impazzire le

donne russe non era fatto della stessa stoffa occidentalizzante di Yeltsin e meno ancora di quella dell’invecchiato

Gorbachev, ma di un’altra stoffa antica e rimasterizzata, se così si può dire, e cioè quella del Kgb.

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Nella mia esperienza personale capii con chi avevamo a che fare quando la Commissione Mitrokhin chiese al governo russo di poter svolgere una rogatoria giudiziaria a Mosca per esaminare gli archivi del passato regime e controllare una buona volta che cosa ci fosse di vero e di falso nella lunga lista di nomi di spie che l’ex archivista del Kgb, Vasilij Mitrokhin, aveva portato in Inghilterra dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Furono svolte tutte le pratiche burocratiche, con la partecipazione del nostro

Ministero degli Esteri, per ottenere la collaborazione del Ministero della Giustizia russo, ma gli uffici del parlamento italiano attesero a lungo prima di avere una risposta da Mosca, con Putin al potere e già considerato dal premier italiano Berlusconi un carissimo amico. La risposta che finalmente arrivò, ricordo a memoria, era non soltanto

negativa, ma minacciosa: si negava a una delegazione parlamentare italiana di recarsi a Mosca per indagare sulle ex

spie sovietiche ai tempi dell’Urss (con cui l’attuale Russia non ha più nulla a che fare neanche dal punto di vista geografico) ma si aggiungeva aggressivamente che la sola ipotesi

di accogliere la nostra richiesta sarebbe equivalsa a un atto potenzialmente distruttivo nei confronti della nazione russa. Rimanemmo stupiti, anche perché io avevo fatto

precedere la mia richiesta da una lettera personale rispettosissima e persino amichevole a Putin, redatta in italiano

e in russo dallo storico e consulente della Commissione, purtroppo scomparso, Valerio Riva. Io stesso avevo affidato personalmente quel documento a Berlusconi prima di un suo incontro con Putin a Villa Certosa.

Capimmo dunque che era cambiato il vento: nella Mosca di oggi non si volevano inchieste sul passato del Kgb. E anzi, per renderci il messaggio ancora più chiaro, assistemmo a una lunga e violenta serie di attacchi da parte della stampa governativa, che definiva la

Commissione parlamentare italiana uno strumento provocatorio e antirusso. Fu allora che decisi di servirmi di

un informatore che potesse darmi notizie su quel che bolliva in pentola contro di noi in Russia e mi rivolsi all’ex

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tenente colonnello Aleksander Litvinenko che viveva a Londra dal novembre del 2000, protetto dal già grande amico e poi arcinemico di Putin Boris Berezovsky, il più importante degli oligarchi dell’epoca di Yeltsin, che Francesca Mereu in questo libro intervista a lungo insieme a protagonisti e uomini della strada della Russia odierna.

Litvinenko, che era uno delle migliaia di esuli russi a

Londra, da loro chiamata la “Mosca del Tamigi”, fu assassinato in un modo complicatissimo, estremamente crudele

e tale da rendere praticamente irraggiungibili le prove dell’omicidio, almeno nelle intenzioni degli assassini. Ma

quella precauzione non funzionò e la prova dell’omicidio fu trovata. Si deve infatti alla competenza e alla caparbietà di Scotland Yard, che si rivolse in extremis ai laboratori militari inglesi, se l’isotopo radioattivo polonio-210 fu trovato e la macchinazione scoperta. Un omicidio unico nella

storia del crimine, preparato con oltre un anno di anticipo, che pone per questa sua complessità dispendiosa la domanda regina: perché fu ucciso Litvinenko?

Io ho la mia tesi ed è che Sasha, come tutti lo chiamavano, fu ucciso proprio per la sua collaborazione clandestina

con la Commissione Mitrokhin. E che l’ordine venne dall’alto, come del resto confermò in punto di morte lo stesso

Litvinenko lasciando una durissima lettera di accusa contro Putin: nel luglio del 2006, vale a dire soltanto tre mesi prima che partisse l’ordine di avvelenare Litvinenko, Putin aveva fatto approvare in fretta e furia dalla Duma una legge che autorizzava senza formalità l’omicidio all’estero – usando apposite squadre di assassini specializzati – di chiunque e in qualsiasi modo costituisse una minaccia per lo Stato russo. Naturalmente la prova definitiva di questa tesi non l’avremo mai, ma sfido chiunque a trovare un movente proporzionato allo sforzo organizzativo messo in campo per liquidare Sasha Litvinenko, un movente che regga il confronto con il pericolo che egli rappresentava come potenziale fonte degli elenchi di agenti che avevano lavorato prima per l’Unione Sovietica e poi per la Russia.

Le pagine di Francesca Mereu hanno il pregio di far

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immaginare al lettore il contesto russo. La storia dell’ascesa di Vladimir Putin, infatti, si inquadra in un filone storico preciso: quello dell’eterno conflitto fra polizia segreta e partito dittatoriale, comune a tutti i Paesi che hanno conosciuto sia la dittatura sia la polizia segreta, suo braccio

armato. Inevitabilmente, chi ha il potere delle armi tende a congiurare ed eliminare chi ha il potere politico. Ed è questo il motivo per cui il potere politico comunista ai tempi dell’Unione Sovietica usava procedere a periodiche purghe sicché la maggior parte dei capi della Cekà è finita davanti al plotone d’esecuzione. Tuttavia, man mano che il potere del partito si imbastardiva e si corrompeva, quello della polizia segreta si esaltava e si perfezionava.

Questo il contesto originale da cui scaturisce in modo inizialmente discreto la figura e il ruolo di Putin. Secondo

l’attenta e per così dire “micidiale” ricostruzione della Mereu, l’insediamento di Vladimir Putin al potere assoluto (benché truccato formalmente da sembianze democratiche) è avvenuto seguendo un filone che risale ai tempi di Andropov e si è sviluppato successivamente attraverso Gorbachev e poi, esaurita l’eccezione di Boris Yeltsin, con Putin: l’uomo venuto dal nulla e di cui nessuno sapeva nulla finché non fu assunto da Yeltsin come direttore del Fsb (ultima versione del vecchio Kgb) su raccomandazione dell’attuale arcinemico Boris Berezovsky e, paradossalmente, dello stesso tenente colonnello Litvinenko. Da

dove veniva dunque Vladimir Putin? Da dove spuntava questo pallido ex tenente colonnello che aveva passato una vita a Dresda, nella Germania orientale comunista, come ufficiale di collegamento fra la Stasi e il Kgb? Chi era questo atleta magro e nervoso che sapeva passare da un campo d’aviazione a una pista di sci, sparare a colpo singolo o a raffica, esprimersi in un tedesco fluente?

Quest’uomo cresciuto nel campo-scuola della polizia segreta che ai tempi di Lenin si chiamava Cekà?

Nessuno sapeva spiegare in modo convincente perché uno sconosciuto tenente colonnello avesse raggiunto,

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