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APPENDICE DIALOGO CON MIMMO CUTICCHIO-POLIZZI GENEROSA, 28 LUGLIO 2004

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APPENDICE

DIALOGO CON MIMMO CUTICCHIO-POLIZZI GENEROSA, 28 LUGLIO 2004

Io e Mimmo siamo seduti sulle panche della Chiesa di San Francesco a Polizzi Generosa, è il primo incontro.

Mimmo:…comunque ci possiamo sentire e vedere dopo, in seguito, in modo da avere anche

un’idea più chiara di quello che è il mio lavoro oggi, perché se no le domande diventano sempre le stesse, “quando sono nato, quando ho cominciato”, capito? se uno non si legge un po’ la storia…

Io: non ho intenzione di fare un’intervista perché seguendo il laboratorio, leggendo testi e vedendo

spettacoli, in qualche modo mi sembra già di intervistarla.

Mimmo: mi puoi dare anche del tu, non ci sono problemi, come ti viene meglio, cioè per me il tu è

più semplice..

Io: va bene, comunque non so se te lo ricordi, io mi chiamo Lucia… Mimmo: sì, sì …Santa Lucia, basta pensare a Santa Lucia…

Io: per avere una struttura del tuo percorso non ho bisogno di chiederle tutte le volte “quando è

andato in quel posto? In quali anni? Chi ha incontrato?”…insomma alcune cose le sto già leggendo in questi giorni.

Mimmo: che poi sono cose scritte, basta che prendi il libretto, l’ultimo che abbiamo fatto quando

siamo andati a Bruxelles e già là c’è l’elenco di tutte le nazioni dove sono stato. Le cose scritte sono già morte…

Io: infatti! più che altro mi piacerebbe discutere con te alcuni aspetti. Brevemente ti dico che io ho

fatto un percorso di studi di teatro e dello spettacolo, non sono attrice e non sono teatrante, però l’ho sempre frequentato.

Mimmo: menomale!

Io: sono una spettatrice, diciamo così. Tutto è partito da un disagio molto soggettivo, dalla

sensazione che il teatro avesse una difficoltà di comunicazione. Ho cominciato a ragionare su questa cosa, a pensare e a chiedermi perché avvertivo questa disagio, da spettatrice. Ricordo che, leggendo un testo di Antonio Attisani, mi colpì l’affermazione secondo cui il teatro è gli attori. Allora mi sono detta: spostiamo l’attenzione dal linguaggio teatrale all’individuo, a chi fa, a chi usa questo linguaggio, a chi si muove all’interno di esso.

Mimmo: aspetta, gli attori sono il teatro ma non sono tutto necessariamente quello che c’è dentro il

teatro. Io adesso non so bene le frasi che Antonio Attisani ha scritto, però va bene che l’attore è il teatro ma come mezzo di comunicazione mobile, come teatro mobile, però poi c’è il drammaturgo, c’è la poesia, c’è il testo, e non sempre l’attore è questo. Spesso l’attore è solo il mezzo di comunicazione; la parte creativa, cioè il testo, le cose poetiche, le cose che l’attore deve cantare, deve suonare, deve dire ecc. viene da altri: scrittori, drammaturghi, poeti.

Io: proprio in questi giorni, pensando a ciò che sta venendo fuori durante il laboratorio, ho corretto

certi termini, non mi viene più di dire attore come parola esairiente ma…

Mimmo: il teatrante! Io: sì il teatrante…

Mimmo: l’uomo di teatro…

Io: esattamente. Vorrei spostare il discorso da un linguaggio astratto a una fisicità del teatro. Mimmo: sì

Io: a un corpo teatrale… Mimmo: sì,sì!

Io: …discorso, questo, più complesso. Mi sembra di percepire una crisi di narratività, tra l’altro mi

affascina molto il discorso che fa Bruner, il quale dice che l’uomo è, strutturalmente, portato alla narratività; il bambino quando comincia a parlare non lo fa solo per imitazione o per conoscenza ma perché ha bisogno di raccontare quello che comincia a vedere, percepire e sentire, insomma comincia a costruirsi …

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Mimmo: comincia ad avere una sua memoria e a volerla comunicare…

Io:…e ad avere un suo montaggio di ricostruzione degli eventi. Tutti questi primi elementi, sulla

narratività, mi hanno portato a ragionare sulla tradizione: poter raccontare una storia significa avere qualcosa da raccontare. Allora perché adesso sembra che ci sia una specie di scarto, un distanziamento totale tra quello che si vive e si “dice”, e questo accade all’uomo comune come a chi decide di salire su un palco e fare qualcosa, comunicare qualcosa. Ora tu mi hai portato a pensare ai linguaggi mediatici, alla televisione, al cinema. Così come li guardo adesso, mi sembra che portino a un appiattimento di qualsiasi mistero; l’inquietudine viene normalizzata, non viene criticata ma viene giudicata. La televisione porta alla celebrazione assoluta di un “perenne presente” che non è lo stesso presente di cui potremmo ragionare a proposito del teatro come l’evento dello spettacolo, non è la stessa cosa. Allora mi interrogo sulla tradizione, cos’è la tradizione?. Quando ti ho incontrato mi sono resa conto che la tradizione non è mai la stessa, non può mai essere uguale a se stessa e tra l’altro usiamo una parola che di per sé può essere anche limitante, “tradizione”. Spesso gli studiosi parlano di tradizione per definire qualcosa che si può cristallizzare.

Mimmo: fortunatamente non tutti gli studiosi e non tutti i critici la pensano così…

Io: sì infatti, ed è in questo dibattito che il mio professore ha voluto che io mi inserissi, in quegli

studi che tentano di decostruire termini e concetti troppo limitanti a partire da concetti come “etnia” fino a “cultura popolare”, “folklore”, “tradizione”…

Mimmo: sì è così, oggi non si riesce a capire la differenza tra folklore e folklorismo, ma non la

gente comune ma anche giornalisti, critici. Se ti devono buttare nel folklorismo con il sole, la pasta con le sarde e il mare, lo fanno senza badare a spese.

Io: poi magari c’è anche un discorso politico, economico, di consumo, credo rientra anche in

quello...no?

Mimmo: magari ti vogliono inserire tra i beni della collettività. Il turista che viene in Sicilia ti

viene a vedere assieme al mare, la pasta alla norma, la ricotta salata, il cielo azzurro. Non lo fanno per male. Magari parlassero di folklore così come ha significato originario la parola, cioè “il sapere del popolo”. La dicono senza capire che adesso dire folklorismo ha il significato ricostruito nel periodo del fascismo, per dire che il popolo è contento, il popolo nel tempo libero canta, balla e suona. Questo è folklorismo: fare spettacolo di se stessi, far capire alla gente che tutto è bello, balli e canti. In realtà i canti della tradizione, i balli, i riti vengono dalla campagna, come vengono dal mare e vengono dai bisogni fisici, spirituali, pratici, oggettivi della vita quotidiana, cioè il bisogno di fare una buona pesca e buon raccolto, oppure le lamentele e il pianto per determinate perdite, catastrofi ecc…Perché non dimentichiamo che ci sono stati periodi, anticamente, dove le donne lavoravano la campagna e venivano sfruttate molto, per es., famose in Calabria e Sicilia, le donne incinte che dovevano andare in campagna a lavorare ecc. Ma se noi oggi andiamo in Vietnam vediamo le donne di tutte le età lavorare, specie di sirene, mezze in acqua e mezze fuori, che lavorano nelle risaie, nei laghi, nelle lagune ecc. Quindi altro che canti d’amore e di gioia, erano canti di sofferenza, magari gioiosi ma per esorcizzare la sofferenza; là ci sarebbe tutto da dire e da ricominciare. Questo è un punto importante per me, che uno capisca che se parla con me sa che io ho origini popolari, ho la forza della tradizione nel senso che ho capito che quando mio padre faceva una “caccia” e uscivano i cani e i cavalli, quella era la vivacità della scena e queste cose sono inculcate in me che, pur essendo oggi uno che ha studiato che studia e continua a farlo, ha dentro le vene, nel sangue, nel corpo, nella testa tutti questi spostamenti visionari e poetici che sono quelli che danno poi la vita e la vivacità all’azione stessa.

Io: guardandola all’interno di questo festival, in questo contesto, la vedo cicerone della situazione,

oltre che parte di una tradizione di cui si fa continuatore, elaboratore, innovatore, ma quello che mi interessa è il vederti anche testimone di tutto questo. Ho cercato di focalizzare un aspetto: a partire da un’analisi su oralità e scrittura ho pensato all’incontro tra te e Salvo Licata. Da una parte tu che vivevi dentro una dimensione di oralità che, però, già quando hai incontrato Peppino Celano non vivevi un’oralità pura, c’erano dei canovacci, delle iconografie, insomma non era pura parola. Dall’altra vedo invece un giornalista, un drammaturgo. Quindi con Licata è stato l’incontro con il

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testo, dal contesto al testo; per la tua tradizione uno degli elementi principali è il contesto, il pubblico, il luogo e soprattutto la reciproca conoscenza delle storie e dei ruoli, (ma questo è un altro punto che riguarda il pubblico tradizionale che era teatro dentro il teatro). Questo rapporto mi interessa perché sto cercando di capire…squilla il cellulare di Mimmo…

(Dice: “è il mondo che gira”…)

Come tu hai rielaborato questo tuo incontro. E il tuo incontro con il “ Teatro”, definito tale come se si dovesse fare una distinzione tra il “teatro” e il “tuo” teatro.

Mimmo: sono tutte parole queste che oggi non servono, si cercano i termini giusti, i sinonimi; ci

sono dei professori che fortunatamente lavorano sulle parole e però, secondo me c’è gente che legge poco e gente del settore che legge poco perché non è possibile ormai non sapere distinguere, che so, un pupo da una marionetta e da un burattino, almeno queste tre differenti tecniche o tradizioni bisogna saperle; oppure cuntastorie da cantastorie, si fa continuamente confusione, quindi dire per es. il teatro da attore o il teatro orale o il teatro di tradizione sono tutte perdite di tempo, tutte menate che poi a che cosa servono non lo so, perché se poi si scrivono i libri e nessuno li legge è come se volassero parole, invece le parole sono preziose, come quando si trova un termine giusto. Il teatro è teatro e basta, tanto per cominciare, è unico e solo. Dall’origine ci sono soltanto trasformazioni antropologiche, della vita di tutti i giorni, come si trasforma l’uomo si trasforma la vita attorno a lui, se l’uomo non si trasforma per cento, duecento anni, le tradizioni che si creano diventano tradizioni più lunghe perché se uno per cento anni cammina con il carretto prima di arrivare alla macchina, per cento anni la tradizione sarà il carretto, se per tutto l’’800 l’opra dei pupi funzionava era perché doveva funzionare, perché il tempo si era fermato in Sicilia; un secolo durava cento anni e in questi cento anni poco cambiava e tutto continuava. In realtà è solo questa la cosa, perché l’uomo non è preparato ai cambiamenti continui o misurati o studiati, insomma con l’evoluzione, c’è sempre qualcuno che va avanti e tutta una massa che se non tira indietro, almeno sta ferma e questo blocca il processo evolutivo. Oggi le persone colte e intelligenti la chiamano “avanguardia”, l’avanguardia c’è sempre stata, mio padre faceva avanguardia quando rispetto ai pupari prima di lui cominciò a capire che nel dopoguerra bisognava portare anche le donne all’opra dei pupi, per cui fu all’avanguardia e lui da ragazzo fino a cinquanta anni era stato nella tradizione ferma nell’’800, poi capì che i tempi stavano cambiando, c’era il cinema nei paesi, arrivò la televisione, le donne gli chiedevano “ma st’opera dei pupi nuautri nun a putiemu viriri, picchì?”1 e mio padre cominciò a chiedersi “picchì”, perché non aprire anche alle donne?, quindi fu all’avanguardia. Di mio padre che negli ’50-’60 si inventava le “serate speciali” per fare venire le donne, i “matinée” con le storie di Giulietta e Romeo, l’Otello, Il moro di Venezia, tutte le storie di santi, non parlò nessuno. Di me che ho inserito, per es., mia sorella o le mie sorelle nel teatrino dei pupi, tutti i giornali d’Italia, alla fine degli anni ’70, hanno parlato di donne pupare, in realtà di donne pupare già c’era mia madre che non solo aveva vissuto e vive ancora nella grande famiglia del teatro dei pupi, ma addirittura lei che non aveva nemmeno scuola è diventata pittrice naif, delle stesse scene, fondali e teloni che servivano per il teatro dei pupi. Lei si inserì nella vita di mio padre e diventò allieva e poi maestra di una storia che si andava formando man mano, senza in realtà maestri, perché a mia madre nessuno le ha insegnato a mescolare i colori, “impasta ri cà, impasta ri

dà” 2alla fine si è trovata i suoi colori. Quindi come vedi…

Io: insomma, ci sei tu con il tuo “movimento”, sembra che alle spalle tu abbia un pannello fisso, in

realtà la tua tradizione era già una tradizione “camminante”…

Mimmo: ecco, e questa è una cosa importantissima, scusami un attimo. Pausa Vengono a salutarlo i Tenores di Bitti.

Stavamo parlando un po’ del più e del meno del teatro…

Io: stavamo discutendo del superare questa concezione di tradizione a cui tu fai riferimento… Mimmo: sì, sembra che si fanno sempre gli stessi discorsi, infatti io non capisco perché quando si

parla del cunto oggi tutti parlano di Pitrè, Ettore Li Gotti, i soliti; dall’’800 in poi nessuno che va a

1 “ma noi questa opera dei pupi non la possiamo vedere? Perché?” 2 “ impasta di qua e impasta di là”

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scoprire qualche altra cosa come “da dove viene questa gestualità”, la faccia, i ritmi, questi suoni, è vero che sono legati, come dice Guido di Palma…

Io: stavo pensando proprio al suo libro, in cui da una parte c’è un modo di vedere la storia del cunto

un po’ in maniera ferma, nel senso che all’interno di questa storia ci sono delle rotture fino ad arrivare alla rottura estrema, così come la sottolinea lui, al rinnovamento totale che saresti tu che a un certo punto porti il cunto fuori. Dall’altra riflette il movimento di questa storia, dall’’800 in poi, perché in realtà ci sono dei movimenti, ognuno aveva la sua “fattura”, il suo modo diverso di raccontare…

Mimmo: lo stile è sempre esistito…

Io: infatti. A proposito del cercare di superare le definizioni, io, prima di intraprendere questo tipo

di discorso sul teatro, perché per me è ancora un discorso, volevo fare una tesi sul teatro per l’infanzia, da maestra cercavo di incuriosirmi anche su questo, però avevo una difficoltà, ogni volta che parlavo con qualcuno veniva fuori sempre la distinzione tra “Teatro” e teatro per bambini come fossero due cose diverse, come se non fosse lo stesso linguaggio, questo mi stringeva…

Mimmo: tutto viene sminuito, i bambini, il teatro, poi si pensa ai burattini si pensa all’animazione, a

queste cose qua come cose minori. Comunque oggi ci sono persone che lavorano nel mondo del teatro per ragazzi, per l’infanzia, per la gioventù e sono persone preparate, con responsabilità, perché è una responsabilità lavorare con i più piccoli. Però io continuo a dire che lo spettacolo è per tutti, il teatro è per tutti, ma ovviamente ci sono le varie distinzioni però è sempre la stessa cosa, io lo chiamerei, quello dell’infanzia e della gioventù, il “primo teatro”. Quando uno propone un’opera ai giovani, che vanno per la prima volta a teatro, tu li devi guidare e questo va nella cura del testo, nell’uso delle parole, nel modo della comunicazione di cui un attore teatrante deve tenere conto, quindi non basta che uno fa uno spettacolo intelligente, e gli riesce bene, e questo significa che è esperto di teatro per ragazzi, no, ogni teatrante dovrebbe imparare a comunicare con il primo pubblico che poi per questo primo pubblico è il primo teatro…altrimenti non va. Se i bambini, i ragazzi tu riesci a dargli il primo teatro e sai convincerli, non solo quelli ameranno e vedranno il teatro ma forse continueranno ad andarci o a farlo da grande, quindi anche qua purtroppo devo dire che per la mia conoscenza c’è tutto un giro di parole, forse anche di soldi, di bisness…

Io: di monopoli

Mimmo: esatto! Che poi fanno i centri per il teatro per ragazzi, le scuole, i gruppi teatro-scuola e

questo e quest’altro. Io mi sono trovato poche volte a fare teatro solo per ragazzi e me lo sono chiesto quando sono arrivato là come parlare, poi ho detto no, devo parlare come io parlo agli adulti, soltanto che è inutile che io dico parole difficili da vocabolario che posso usare con gli adulti perché, avendo una cultura un po’ più ampia adesso, posso spaziare. Che so, se nei miei racconti parlo di Angelica, che è indiana, e ci voglio giocare, e dico “balla il Katacali”, questo lo dico a un pubblico adulto ed esperto; quando vado dai bambini non gli vado a dire che Angelica faceva il Katacali, perché i bambini non lo sanno cos’è, allora semmai trasformo dicendo “lei veniva dall’India e conosceva una particolare danza” e intanto faccio un racconto fatto con gli occhi, con le mani, con il corpo e poi magari dico che si chiama “Katacali”, ma glielo devo dire in un certo modo. Allora così tu lo puoi fare il teatro per i ragazzi e se i ragazzi alla fine tu li hai convinti perché li hai emozionati, perché li hai fatti ridere, perché li hai tenuti là impegnati ad ascoltare una storia, un testo, una drammatizzazione che funziona, i ragazzi crescono bene, perché gli hai dato una verità, che è la tua, ma tenendo in considerazione del particolare tipo di pubblico.

Io: quando seguo il tuo lavoro laboratoriale, di organizzazione di un festival e anche i tuoi

spettacoli, il teatro per me ritorna ad essere narratività.

Mimmo: l’errore che fanno gli adulti è che quando parlano con i bambini piccoli, fanno

”amminsigghia”3, si dice in siciliano e “sti picciriddi”. Io ai miei figli li ho sempre chiamati Giacomo e Sara, mia moglie ogni tanto Giacomino, così qualche vezzeggiativo, e io so che a mio figlio quando lo chiamo Giacomo lui è Giacomo, e poi “Giacomino” deve essere di cuore, d’affetto,

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di rapporto. Mio figlio intanto è una persona, non è soltanto mio figlio e quindi devo cercare di trattarlo come una persona vivente, una persona intelligente, una persona che ha un suo modo di vedere, magari diverso dal mio; magari ha meno esperienza ma io non lo devo trattare male, “statti

zitto, ma tu non capisci niente, ma che sei scemo”, tutte queste cose qua che magari io posso pure

dire qualche volta a qualche mio collega, così, a qualche allievo più grande magari gli dico “ma finiscila, stai zitto, che stai dicendo”. Io ai miei figli cerco di evitare, se non è proprio necessario. Tutti siamo esseri viventi, tutti esseri umani e persone intelligenti, solo c’è chi ha più esperienza, c’è chi ne ha meno, ma questo poi è la natura dell’uomo che ci porta ad avere persone creative, persone intuitive, persone all’avanguardia, persone che camminano avanti anche di cento anni rispetto ad altri, insomma…

Io: però è anche vero che durante il laboratorio dicevi ogni tanto questa parola, “mutamento”. A

livello sociale, qualcosa comunque è cambiato, no? E’ vero che ognuno fa le proprie scelte però, guardando l’insieme di questi attori, del laboratorio, e ascoltandoli, notavo che tutti vivono lo stesso disagio, la stessa crisi. Intanto un imbarazzo e una preoccupazione di capire: “io sono attore? sono narratore?”, come se a un certo punto avessero perso la loro identità, ovviamente è un operazione legittima…

Mimmo: più che perdere la loro identità, forse avevano pensato, come pensano tutti i lavoratori

dello spettacolo, che all’inizio loro sono artisti, che hanno capacità, che sono attori, che sono narratori, che sanno recitare, che sono poeti ecc. Quando cominciano ad avere questi incontri, diciamo, si mettono un po’ in discussione, quando trovano una persona onesta e leale come me che gli dice in faccia tutto senza problemi, e gliele dico perché poi glielo dimostro con i fatti, a un certo punto dicono “sì è vero, io mi sentivo un nuotatore, avevo studiato sui libri il mare, effettivamente adesso questo mi porta a mare, mi fa mettere su uno scoglio, sulla spiaggia e io provo una sensazione che non avevo provato prima, allora mi chiedo sono realmente uno che sa nuotare? sono un pescatore? sono un marinaio? sono un appassionato? sono un intellettuale? sono forse uno che dovrebbe scrivere del mare invece pensava di farsi le nuotate?”, tutto sommato queste, del laboratorio, sono persone che si mettono in discussione, hanno voglia di capire, e qua nasce la crisi. Ma guarda che la prima crisi sulle cose che dico mi è nata a me, già quando io avevo tredici/quattordici anni e avevo scoperto i burattini della famiglia Ferrajuolo della Campania, mi pare che sono di Salerno, li ho visti a Spoleto nel ’63, io già allora avevo scoperto un altro mondo. Uscito dalla Sicilia avevo capito che non c’erano solo i pupi siciliani, che avevo visto sempre da bambino, al massimo avevo visto i pupi catanesi, ma non sapevo che esistessero altre forme espressive di questo settore.

Quindi quando io a Spoleto scopro i burattini e mi faccio amico i figli dei Ferrajuolo, con alcuni ragazzi miei coetanei, ogni giorno andavo a vedere gli spettacoli, avevo scoperto che anche loro facevano la lamiera per i rumori come facciamo noi, per il diavolo, che facevano la pipa con la pece greca per fare i fuochi, che facevano tutti i rumori, di tempeste, di venti, di demoni, di pioggia e di cose che io non ho mai più visto. Loro avevano una bella tradizione, nel senso che avevano un patrimonio probabilmente legato all’’800, di tutte le storie di pulcinella ecc. E per me quel piccolo boccascena di 1,60 metri era l’universo, era come guardare dentro un buco e vedere un mondo. Poi scopro le marionette dei Cola di Milano, e quelli di Torino e poi quello che è rimasto dei più vecchi allievi dei Podrecca, quindi dei fantocci di Trieste, allora là ho cominciato a capire che c’era un mondo! Man mano che crescevo e viaggiavo la mia curiosità era di andare e conoscere, poi mi leggevo i libri, mi leggevo gli articoli e poi mi vedevo i film e questo mi ha fatto capire che c’era un universo. Venticinque anni fa ci incontrammo con Otello Sarzi, il famoso burattinaio di Reggio Emilia, che ora non c’è più, Ugo Sterpiniugo, gli Accettella di Roma, Zampillo di Napoli, poi Lavasio di Bergamo, tutti quelli dei vecchi paesini di Firenze per es. come Fiorenza Beldini. Ci incontravamo e si chiacchierava e insomma uscì fuori questa parola “teatro di figura”, si cominciò a ipotizzare che si potesse chiamare teatro di figura. Dicevamo che l’opera lirica ha un suo settore, e così il balletto classico, il balletto moderno, il teatro di prosa, siccome a noi non andava di definirlo teatro per ragazzi, o per adulti, perché ci sono spettacoli di burattini per tutti i tipi, allora abbiamo

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detto si può ipotizzare una parola tipo “teatro con figure”, anzi Fiorenza Beldini disse che anche il cunto è teatro di figura. A me piaceva questa definizione, perché riuscire a fare un teatro con le parole, stimolando l’immaginario di chi ascolta mi fa piacere.

Io: mi viene in mente un’altra cosa. E’ vero che gli attori che ho ascoltato in questi giorni si sono

messi in discussione, ma faccio una riflessione: il teatro non è un luogo appartato e gli attori stessi non lo sono, prima di tutto sono individui e vedo che queste loro crisi, per un generale disorientamento, sono solipsistiche, ognuno chiuso in sé. Invece la tua ricerca, la tua crisi sembra che tu le abbia vissute all’interno di un movimento, fatto di collaborazioni, dialoghi con altre presenze artistiche. Adesso sembra che la società non riesce più a riabilitare nessuno, neanche i teatranti in crisi che proprio perché sono in crisi potrebbero tirar fuori molte più cose, inoltre anche il teatro all’avanguardia ha una sua tradizione.

Mimmo: se chi fa l’avanguardia non si è letto un libro di teatro, non si è letto un romanzo o una

novella o una storia o una poesia, non ha parlato con la gente, non può fare avanguardia.

Io: mi chiedo, senza nulla togliere al tuo percorso di sperimentazione ed elaborazione, se al livello

sociale, al livello di riconoscimento sei stato avvantaggiato?

Mimmo: quando io ho cominciato era un periodo di tristezza, io sono nato dopo la morte per cui non

si può dire che Mimmo Cuticchio ha ereditato la storia di suo padre oppure “ha cominciato il figlio di…”, questo per i figli del cinema, quelli famosi lo possano fare che hanno già le porte aperte. Quando per la prima volta, nel ’71, sono andato al Comune a chiedere aiuto, mi hanno detto “non ci

sono fondi per queste cose, qua c’è la domanda vediamo se possiamo darle un sussidio” e poi io ho

chiesto al signore del Comune cosa significava “sussidio” e mi ha detto “sa, ci sono molte mamme

che non riescono a comprare il latte per i bambini, ci sono dei poveri che non riescono ad avere una casa per dormire, ci sono quelli che non riescono a mangiare e il Comune gli dà qualche buono, quindi lei faccia la domanda, se viene accettata glielo dico subito, me lo fanno sapere dal Gabinetto del Sindaco, può essere una cosa da 20/30.000£, per un anno”, allora, mi pare, che

costasse 500£ la carta bollata, e poi avrei dovuto raccogliere i pezzi d’appoggio, diciamo, l’affitto locale, insomma, tutte queste cose qua. Mi sono fatti i calcoli, tra carta bollata, fotocopie e stare un anno appresso a tutte queste cose per avere le 20/30.000£ non avrebbe pagato niente. A parte questo, mi sono sentito umiliato quando mi è stato detto che il mio non è teatro, anzi mi hanno detto che per queste cose non ci sono fondi. Poi io sono andato all’AGIS di Palermo, dove c’era un avvocato fascista a cui mi raccomandai, visto che io ero scritto all’AGIS, mio padre mi ci scrisse quando io avevo quattordici-quindici anni per avere il diritto alla riduzione. Noi avevamo il 40% di sconto per i lavoratori girovaghi. Praticamente sono iscritto all’AGIS dal ’63, quando negli anni ‘70/’80 cerco di darmi aiuto vado all’AGIS e so che a Roma il ministero dà un contributo ai fratelli Pasqualino, Fortunato e suo fratello Pino, Pino lavorava nella sede della Democrazia Cristiana, Fortunato lavorava in televisione come scrittore, presentava cose in televisione era legato molto ai preti, alla chiesa ecc., erano tutti e due democristiani. In un incontro a Roma, per uno spettacolo alla accademia filarmonica romana, vengo a sapere che questi signori prendevano settanta milioni dal Ministero. E io dicevo “ma come, io che vengo da una tradizione, che sono giovane, che sto continuando l’attività di mio padre non devo prendere una lira?”. Vado all’AGIS e chiedo “potete

aiutarmi a fare la domanda al ministero, visto che sono scritto all’AGIS?”. E questo mi fa “ma io mi meraviglio che lo Stato dia dei soldi a questi pupari che lei mi nomina”, e io, “scusi avvocato, perché?” e l’avvocato, “perché lei l’opera dei pupi la vuole ritenere teatro?”, io allora non potevo

difendermi, già avevo capito delle cose sul teatro però non avevo la forza di controbattere con un avvocato di settanta anni circa; l’avvocato “ma l’opera dei pupi è una cosa così, dove ci va la

gente dei vicoli, ci va qualche ubriacone, magari lo stesso puparo se gli scappa fa un peto senza problemi, tutti sputano per terra”, mi ha fatto una descrizione dell’opera dei pupi umiliante. A me

non risultava, perché nel teatro di mio padre il locale era povero ma ricco di tutto, di gente che conviveva, che parlava, che veniva due ore prima a prendersi il posto, era una specie di punto di riferimento della gente. Poi mio padre metteva dei cartoncini al muro dove ci scriveva “vietata la bestemmia”, “vietato sputare a terra”. Avevamo anche il gabinetto all’antica che si chiamava

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“retrè”, non so se viene dal francese. Insomma io me lo ricordo un posto povero ma pulito, perché mia madre lo teneva pulitissimo, quindi questo signore quando mi diceva ‘ste cose, io piangevo internamente, però avevo la rabbia di non poter reagire. Il Comune mi diceva che per queste cose non ci sono soldi, quello dell’AGIS che avrebbe potuto aiutarmi facendomi una lettera di raccomandazione, di segnalazione, al Ministero mi dicono che il mio non è teatro. Quindi vedi in quale situazione io ho cominciato, altro che figlio d’arte e tradizione, oggi molti pensano che io sono uno conosciuto, che lavoro, che a me mi chiamano, che io sono figlio d’arte che io ho la tradizione ma questi non sanno l’umiliazione che io ho subito nella mia terra. Da quando cominciai a muovermi, l’umiliazione continua, il disprezzo, l’emarginazione, l’abbandono, altro che figlio d’arte e tradizione. Io poi, studiando, attraverso le conoscenze dei libri, di altre culture del mondo e poi attraverso la conoscenza diretta, ho capito il patrimonio che avevo in mano, e là l’ho difeso bene, ho imparato a leggere e a scrivere e a parlare e quando mi sono sentito pronto per parlare ho sempre parlato davanti a tutti, e non ho mai avuto paura di parlare, perché io parlo solo se una cosa la so, se una cosa l’ho letta e se l’ho studiata; io ho letto tutto un libro scritto da un professore sul folklore per capire esattamente cosa fosse il folklore. Quindi quando io mi trovo davanti uno che si sente colto e intelligente, io so rispondergli, oggi, e se lui ancora non è contento io prendo il libro e glielo sbatto in faccia, gli dico “vattelo a leggere allora se non lo sai”.

Ecco, eravamo partiti dal mio incontro con Salvo Licata. Quindi quando io mi incontrai con lui non è stato l’incontro tra il puparo ignorante e analfabeta con uno scrittore, lo dico non perché lo pensi tu, ma te lo dico io per dire che molti attualmente miei amici palermitani, giornalisti ecc., pensano che quando io ho incontrato Salvo Licata la mia qualità è cambiata. Io per dare merito al mio amico Salvo Licata, che ora è morto, dico che sicuramente la mia vita è cambiata e io spero di avere imparato da lui delle cose, e faccio tesoro di ciò che lui mi diceva e di ciò che ci dicevamo, però se il mio amico fosse vivo e fosse qui vicino a me direbbe, come mi disse una volta, “anch’io ho imparato delle cose da te, perché tu fai una scrittura scenica e io una scrittura con parole”. La scrittura con parole inizia anche dopo la scrittura scenica e quindi “è nato prima l’uovo o la gallina?”, “se tu non avessi fatto il teatro io non ci sarei”, quindi lui aveva anche l’umiltà di dire questo e di dimostrarlo con i fatti. Per esempio tu hai visto il “San Francesco”…scrivevamo delle cose e facevamo le prove, alla fine dell’incontro tra Francesco e il Sultano, si doveva tornare indietro, ma siccome la storia era complessa, lunga, dovevamo andare sull’Eremo della Verna ecc. lui mi disse “Mimmo in questo momento non ho nessuna idea, qua ci vuole un’idea di regia,

un’idea che ci faccia uscire fuori e poi rientrare” e io con l’intuito, ecco e là c’è l’intuito che viene

dalla memoria, dalla tradizione di mio padre, ma anche il mio osservare, l’avere una visione di cosa può essere la mia tradizione, io dissi “senti, perché dobbiamo cambiare scena? Perché dobbiamo

tornare ad Assisi, allungare di due o tre scene che poi diviene troppo lunga, facciamo una cosa: prima pensavamo di cominciare a far raccontare la storia ai frati e poi da questo racconto si proseguiva; facciamoli entrare alla taverna come per raccontare, quello che si vedrà dopo significa che è il racconto, poi invece di tornare di nuovo a Palermo, perché c’è uno spostamento di tempo di date e di situazioni, io siedo tutti i popolani dentro la taverna come se la stessero raccontando, e gli faccio vedere direttamente il finale davanti agli occhi come se fossero le loro visioni”. Lui mi

abbracciò e mi disse “Questa è scrittura scenica, tu hai scritto drammaturgicamente e senza

scrivere una parola hai scritto la scena” e così abbiamo fatto.

Io: è interessante l’incontro fra drammaturgia orale, in quanto tu non avevi l’abitudine di scrivere e

Licata che utilizzava la scrittura…

Mimmo: lui pensava con parole, io pensavo con azioni. Molte cose le facevamo insieme, per es. i

giochi che tu trovi nell’“Urlo del mostro”, i giochi dei bambini quando Ulisse arriva nell’isola dei Feaci e là c’è Nausica che gioca con le ancelle, nella scena mettevo i miei due aiutanti-allievi a giocare con la palla che facevano giochi di ragazzi, quelli erano giochi che si ricordava lui e che mi ricordavo io, giocavamo tra di noi a dirceli e poi li mettevamo lì, li sceglievamo. Lui sceglieva per esempio quelli che gli sembrava avessero una cantilena, una cosa che avesse un ritmo, io mi studiavo gli attori come si dovevano muovere, come dovevano dirlo, e insieme facevamo questo

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lavoro. Lui difendeva alcune parole che scriveva, la punteggiatura, dava un senso alle parole e qui io mi sono arricchito perché sì ho imparato a scuola, anche da Aldo Rendine a leggere i testi, le poesie ecc., ma con Salvo Licata ho capito veramente il lavoro importante delle persone che scrivono, quelle serie, quelle vere. Lui quando metteva un punto o una virgola non era casuale, ma era una drammaturgia.

Io: non era un ammiccamento alla recitazione, ma avevano una funzione.

Mimmo: sì, questo lui faceva, e viaggiavamo sulle stesse onde. Anch’io quando facevo il cunto e mi

scappava “u zocculu ru cavaddu schizzava u sancu ri cirveddi”4, lui diceva “queste sono cose

bellissime che tu improvvisi e dici, ma che devi dire perché è come fare una pittura di una battaglia e non mettere il sangue, è come un combattimento senza spade, senza che escano le scintille”, cioè

tutte quelle cose che io dico nella mia improvvisazione non è che poi io me le invento perché sono il genio della lampada, me le invento in base al mio modo di avere osservato, i testi, la lettura fatta in un certo modo, ascoltare le persone che parlano in un certo modo, quindi andare a scrutare a osservare i particolari, incamerare, poi queste cose ti portano a dire che “quando i cavalli

combattono la polvere comincia ad alzarsi e i cavalieri si perdono in una nuvola di…”, queste cose

non sono scritte sui libri, magari un altro cuntastorie diceva cose simili o altre cose, ed è quello che io faccio adesso ma con la mia testa, con il mio modo di vedere. Ed era bello lavorare con Salvo così, perché il rapporto tra scrittura scenica e utilizzo di parole era meraviglioso, lui per es. mi scriveva delle frasi tipo “troverai dove era troia, amica del vento, meraviglia dei naviganti

dell’Ellesponto”, questo lo scriveva lui; io entravo come Demodoco poi a un certo punto io

diventavo cuntista “e allora s’aveanu ammucciato rarreri i scogghi i navi dei greci5

, mentre là sul campo non c’era più nessuno e un grande cavallo, un enorme cavallo di legno” e io facevo il cunto,

facevo un pezzo scritto con belle parole, tutto con l’essenza di quello che volevamo dire, e poi inserivo i pezzi miei dove io mi sdoppiavo tra Demodoco, quindi Omero e Mimmo Cuticchio attore-cuntista che diventava Demodoco.

Io: quindi la scrittura di Salvo Licata è una scrittura aperta mai definitiva?

Mimmo: infatti! Quando facevamo un copione e c’erano delle frasi sue, all’inizio dei nostri lavori

spesso mi diceva “Mimmù, hai saltato tutto un pezzo! Non è possibile, perché se io scrivo e tu

prendi le cose tue poi le mie cose non le dici. Allora io che scrivo a fare”, “No, Salvo è che in quel momento non mi veniva però l’ho detto dopo”, ” sì ma tu hai cambiato!”. Al secondo spettacolo

che abbiamo fatto, lui mi disse “Mimmù io ho capito come tu lavori, l’ho capito ora!”, dopo due anni che litigavamo, “tu non butti nulla, tu conservi tutto e li metti al momento giusto, quindi fai

quello che vuoi, io non ti dirò più nulla” e finalmente abbiamo trovato l’intesa. Io non volevo essere

al servizio del testo, non volevo essere l’attore che recita un testo, volevo mangiarlo e cacarlo nel momento in cui avevo bisogno di fare la cacca.

Io: anche perché il tuo linguaggio vive della precarietà, non è mai “sicuro”…

Mimmo: sì, oppure lui per esempio, quando stavamo scrivendo l’“Urlo del mostro”, che tu troverai

nel testo, lui mi aveva scritto dei fogli dove c’era scritto “ragazzi venite”, lo diceva Ulisse, “venite,

andiamo a vedere là sopra che c’è una grotta”, e gli altri “no, io non vengo, no, io rimango qui”, “ma perché vuoi rimanere qui?”, “no io me ne vado sulla nave”, “vai, ma sei un cacasotto, vieni dobbiamo essere curiosi, venite compagni”. Eravamo in furgone, stavamo andando a Carini e io

dico, “Salvo, mi sento ridicolo a recitare queste cose”, “ma perché, tu l’altra volta hai improvvisato

delle cose e io le ho e messe a bella copia”, “sì, ma io le cose che dico oggi, domani le posso anche rinnegare, non perché sono da rinnegare ma perché magari oggi mi convinco e domani non mi convincono più, ieri ti ho fatto delle improvvisazioni in italiano e tu le hai messe in belle copia..”

“allora come le diresti?”, “che so…picciotti veniti cu mia, acchianamu dancapu ‘n ta muntagna,

4 “Lo zoccolo del cavallo faceva schizzare il sangue dal cervello” 5 “e allora le navi dei greci si erano nascoste dietro gli scogli”

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minchia cìè na grutta, oh du pere gruosso ca beristivu dà, chiè un gigante? Amunì acchianate!”6,

lui sul furgone ha preso i fogli li ha strappati e disse “così li devi dire!”.

Pausa, Mimmo saluta l’amico Alessandro Quasimodo

Io: quando hai incontrato Salvo Licata poi hai incominciato anche tu, per i fatti tuoi, a scrivere delle

cose, a utilizzare una drammaturgia scritta?

Mimmo: la drammaturgia scritta l’ho incontrata quindici anni prima che conoscessi e frequentassi

Salvo Licata, l’errore è anche questo, quando io all’inizio ti dicevo che io non sono il puparo ignorante; nel ’73 ho scritto il mio primo copione, scritto il copione significa non il canovaccio, che poi, ogni volta che facevo lo spettacolo, lo facevo diventare sempre un’altra cosa, questo è nel mio carattere e nella mia visione, ma io ho un copione scritto nel 1973 che si chiama “Giuseppe

Balsamo, Conte di Cagliostro”, poi magari se uno legge il copione dice “..ma, come lo hai

fatto?”come l’ho fatto sarebbe irripetibile riscriverlo ecc. Però quella traccia di parole, di cose scritte, l’avevo già fatto, già sentivo il bisogno della scrittura oltre che la parola, capivo che non bisognava lavorare solo su improvvisazione, siccome sapevo che i pupari di strafalcioni ne facevano in tutti i momenti e tutti, io volevo evitarli, e a parte questo volevo scrivere storie nuove. E quindi cominciai a scrivere giusto per crearmi i punti di appoggio, cioè per dire che se uno scrive è per darsi una inquadrata, c’è un inizio, una fine, un insieme, una drammaturgia ecc. Improvvisare sull’opera dei pupi tradizionale lo sapevo fare, nel cunto altrettanto, ma per i testi più teatrali, come li intendeva la gente, da presentare come opera nuova, non potevo andare con l’improvvisazione che può riuscire come no, perché giocare in casa con lo spettacolo classico mi dava la capacità e la forza di improvvisare e non cadevo mai; ma lavorare su testi diversi, con una storia diversa, non mi andava di improvvisare perché non volevo essere arruffone…

Io: c’è sempre un rigore

Mimmo: sì, mi sono letto dieci libri di Cagliostro, per poi farne uno mio, anche dopo tutta una serie

di improvvisazioni e poi se leggi Cagliostro, (io non ho mai pubblicato questi miei copioni scritti negli anni ’70-’80, perché non li ritengo così importanti da pubblicare), ci trovi che Cagliostro va a Parigi e parla francese, perché? Perché essendo io stato in Francia mi faceva piacere, nel gioco delle parti, far parlare Cagliostro in francese, come per far vedere che era uomo di mondo, quando arriva davanti alla regina; facevo parlare la regina in italiano, facevo questo gioco.

Io: è interessante questo gioco con le lingue come con i dialetti…

Mimmo: nella mia testa c’è sempre stato. C’era il servo che parlava in siciliano, Cagliostro in

italiano, e quindi io usavo un po’ più la dizione, avevo appena finito la scuola, quindi mi piaceva che quando parlava Cagliostro avesse una bella voce, pastosa, attorale ecc. Quando andava fuori, se andava a Parigi parlava francese, inglese se andava in Inghilterra. Diciamo che sono cose che quando si è giovane giochi anche a fare…

Io: prima di togliere, uno mette tutto insieme…

Mimmo: quando ho iniziato volevo mettere sempre, se conoscevo due battute in inglese le dicevo,

se conoscevo quattro parole in francese le dicevo, se avevo fatto la scuola recitavo con la dizione ecc. Oggi magari tutte queste cose ci sono pure ma sono utilizzate in modi diversi.

Io: ho ripreso questo discorso perché volevo sottolineare il fatto che non esiste un’oralità

inconsapevole, ingenua. Adesso ci sarebbero altri punti di cui vorrei discutere, ma con calma perché ora tutto insieme diviene difficile. Brevemente posso dirti gli altri punti di discussione: interessandomi il discorso sulla memoria (ed è un ambito molto ampio), pensavo in questi giorni al discorso sui i nomi, i nomi dei paladini, degli animali, dei pupari tradizionali, dei tuoi maestri, di tuo padre, in sintesi di realtà e finzione. In materia non sono molto acculturata, ma del concetto di memoria mi viene in mente una delle caratteristiche e cioè l’artificio letterario, e invece viene dimenticato il meccanismo fisico oltre che mentale; tra l’altro tu, in un intervista a radio-3 suite, hai detto che pronunciando un nome si apre una stanza, così poi la memoria si specifica in un personaggio. Con te volevo capire questo rapporto tra memoria e oralità.

6 Ragazzi venite con me, saliamo sopra la montagna, c’è una grotta, oh ma quel piede grosso che avete visto là…è un

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Mimmo: questo è anche molto importante ed è da sviluppare bene, la scrittura scenica o tutta la

tradizione orale. Oggi si pensa che chi scrive è bravo, perché usa le parole, invece chi improvvisa è un arruffone. La scrittura mentale c’è stata sempre, la memoria di una volta era la scrittura di una volta. Infatti c’erano gli oratori, quelli che sapevano parlare bene, gli affabulatori, i grandi filosofi greci, i simposi, sapevano parlare e non solo, conoscevano l’arte del saper parlare, ma conoscevano le parole, parlavano riflettendo su quello che dicevano oppure scegliendo le parole giuste e metterle al posto giusto. Prima non si scriveva con la penna, ma si scriveva con la parola e con l’immaginario e la registrazione non era sui libri ma nella nostra mente, ecco perché oggi si pensa che il patrimonio dell’uomo è l’uomo stesso e la sua memoria; è vero che se uno muore e non scrive, nulla rimane, però è vero che se perdiamo la capacità di raccontarci le storie è questa la fine di una storia importante. Allora riteniamo importane la scrittura perché in qualche modo se uno muore rimangono i libri, i testi, le registrazioni, le poesie ecc. Ma tutto il patrimonio che abbiamo perso e che possiamo ancora perdere è proprio questo, l’incapacità da parte della collettività di capire che il patrimonio immateriale dell’uomo, cioè la parte creativa, l’opera dell’ingegno vale quanto può valere oggi la scrittura. Solo che mentre una è materiale, l’altra è immateriale. Io posso dire delle cose e non essere ascoltate e quindi nessuno viene a conoscerle, mentre nei libri, nella carta stampata, le cose dette possono durare all’infinito, come i testi di Omero, come tutti quelli che derivano dalla tradizione orale, perché sicuramente Omero o chi per lui non l’ha scritta l’Iliade, la raccontava. Oggi è un patrimonio della letteratura ma è un patrimonio dell’oralità, non è un patrimonio della carta stampata, perché stata scritta dopo, così come la stessa Chanson de Roland che poi è stata raccolta e scritta da Turoldo, chissà, anche questa è una chanson de geste, una storia…

Io: all’inizio tutto il patrimonio orale, canti, racconti ecc., per essere conservati, venivano riportati

con una scrittura che tentava di conservare il respiro, il modo di recitare, una scrittura quasi fisica, essendo la scrittura stessa ai suoi albori. Questa era una scrittura magmatica, che mi riporta al tuo discorso su Licata.

Mimmo: per esempio a noi è arrivata la scrittura dei testi di Omero, l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide

ecc., però non è arrivato il modo di come la raccontavano, professori di metrica greca ipotizzano una cantilena, però non solo non è sicura ma addirittura è fantasiosa perché, come mi hanno detto alcuni professori che insegnano greco e sono grandi esperti, quando sentono il cunto dicono che forse ha a che fare con la metrica greca, ma forse non c’entra niente. Una volta un professore a Cervia mi volle invitare dopo lo spettacolo a cena, mi disse “sa, tutta la vita ho insegnato greco,

però con lei mi è venuta una curiosità e forse anche una conferma: che probabilmente la metrica greca che noi facciamo forse aveva delle varianti nel modo di recitarla, lei è un esempio pratico di come si racconta una storia, usa dei ritmi che prende la gente per la gola, portandola dove vuole, poi a un certo punto esce e va dove vuole e porta la gente in altri posti. Allora mi viene il dubbio che anche Omero facesse così”, per cui la cultura scritta ci può portare belle parole però non ci può

portare ciò che viene fatto da chi si sperimenta direttamente. Oggi questo si può fare attraverso i dischi, attraverso i filmati, attraverso l’audio.

Io: a proposito del discorso sulla memoria, la quale può essere una funzione, può essere un

contenitore, può essere uno strumento, volevo chiederle il rapporto con i linguaggi mediatici, ad esempio tu hai detto su radio-3suite che facevi per la prima volta il cunto alla radio, mi chiedo perché non l’hai fatto prima? al di là forse di tue considerazioni sulla radio o la televisione

Mimmo: non mi ha mai chiamato nessuno, molto semplicemente… Io: pensavo fosse una tua scelta

Mimmo: no, no. Io ho sempre pensato di lavorare alla radio, perché il cunto è radiofonico, e ho

sempre pure pensato che i pupi dovrebbero lavorare in televisione e l’ho detto pure a tanta gente che lavora in televisione, però nessuno ha mai avuto il potere o la voglia. Quando mi incontrano sono tutti disponibili ad ascoltarmi e quando chiacchieriamo e io gli dico che i pupi, secondo me, potrebbero fare i serials per i giovani, di pomeriggio, di sera, anche per gli adulti, tutti pensano che è una cosa bella, però mai nessuno mi ha chiamato per farlo. Io non sono a Roma o a Milano ma

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sono a Palermo, dove la radio serve solo per dare un impiego a un certo numero di persone, e poi quello che fanno non lo so; al massimo ti danno la notizia al Gazzettino di Sicilia o qualche notizia culturale o drammatica che non costa nulla e poi basta. In un intervista, a Roma, ho detto che il mio maestro aveva perso la piazza a Palermo perché hanno costruito il Palazzo di Giustizia, dove hanno buttato giù un pezzo di quartiere per costruire questa grande opera pubblica e il mio maestro diventò itinerante e sopravvisse così. Lui perse la sua pedana, il suo spazio io invece ne ho guadagnato uno, adesso dentro la radio. Entrare dentro la radio, la mia nuova pedana, significa entrare dentro le case, portare una pedana dentro le case. E questa idea è piaciuta molto a quelli della Rai che non se lo aspettavano perché a sua volta quelli della Rai pensavano che io non volessi fare cose alla radio. Loro mi hanno già fatto una proposta, vorrebbero che io raccontassi per una ventina di puntate il

Don Chisciotte, la sua vita; puntate che dovrei iniziare da Ottobre in poi, date da confermare. Lo

stesso penso per i pupi che si dovrebbero fare in televisione.

Io: su quello magari ci torneremo. L’ultimo punto, che riguarda il pubblico, vorrei focalizzarlo in

occasione della tournée a Dubrovnik, in particolare l’aspetto della fruizione.

Mimmo: sì, sì. Nel frattempo ti dico studia con calma, così intanto impari quello che già è stato. Io

vorrei parlare di quello che è stato però in funzione di quello che può essere, perché io devo lasciare a mio figlio, ai miei allievi, agli altri qualcosa. Non devo solo raccontare di mio padre, mio padre lo racconto per farlo sapere a mio figlio, però devo raccontare anche il mio viaggio così che mio figlio si possa fare il suo viaggio. Solo questo.

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DIARIO DI DUBROVNIK, 10/11 AGOSTO

10 agosto

Cerco la famiglia Cuticchio al Porto Vecchio di Dubrovnik. Il teatrino è già montato ma stanno sistemando i pupi nei loro posti. Comincio a parlare subito con Marcello (il tecnico delle luci). Guardandomi intorno, ho sempre più forte la sensazione che qualsiasi domanda a Mimmo sia superflua, ciò che vedo è abbastanza esplicativo. Domani cercherò di rendermi conto di più del contesto. Ho avuto uno scambio-dialogo con Marcello e Sara (figlia di Mimmo) sullo spettacolo di qiesta sera, sulla tradizione dei pupari (e la loro storia), sul teatro sperimentale di Mimmo.

Sara: “I pupi che abbiamo portato sono molto meno di quelli previsti per lo spettacolo, ad alcuni

cambieremo dei particolari e li faremo diventare altri personaggi. I paladini, invece, rimangono gli stessi. La storia è stata condensata in quattro puntate clou, ci saranno salti temporali: Orlando prende le armi/Orlando e Rinaldo e la bella Angelica/Pazzia di Orlando e Astolfo sulla luna/Rotta di Roncisvalle”.

Marcello: “Alla fine dell’800 c’è la crisi dei pupari, il pubblico era stanco delle storie di vita

popolare. I primi pupi erano personaggi del popolo palermitano (Virdicchio e Nofriu, sono molto antichi), poi ci sono i pupi di farsa (anch’essi popolari), i paggi ecc. Quando c’è crisi i pupari decidono di mettere in scena la storia dei paladini raccontate dai cuntastorie. Ma devono anche imparare a costruirli e a vestirli (c’è infatti un miscuglio di “tempi”, i costumi sono rinascimentali). Comincia così un vero e proprio artigianato, perché i pupari dovendo pensare al teatrino e alle storie preferivano commissionare i pupi. Adesso c’è il mestiere. Il pubblico aveva l’abilità (tra l’altro già acculturato dai cuntastorie) di giudicare il teatrino più bello, più spettacolare e scegliere. L’arte del puparo arriva quasi a una sorta di iperrealismo, perché si arrivò a pupi che aprivano gli occhi e muovevano la bocca. Se al tempo il pubblico era disposto a pagare ogni giorno un biglietto, per uno spettacolo di più di due ore e se durava meno protestava, mi chiedo oggi sarebbe possibile? No, ovviamente, anche perché il cambiamento forse non avviene tanto con il cinema ma con la televisione. Magari oggi la gente non paga il biglietto ma sta tutti i giorni davanti alla televisione. Io nel teatro di tradizione non faccio niente di particolare, il mio lavoro è diverso negli spettacoli di sperimentazione. Ho un progetto con Mimmo”.

A metà pomeriggio Mimmo fa una presentazione dell’Orlando nella piazza principale sotto la Colonna di Orlando. Mimmo porta con se i pupi Orlando, Rinaldo, e Carlomagno e un tamburo. Li anima in piazza, mostra un combattimento, si forma una folla di gente, di turisti, si avvicinano dei bambini che vogliono toccare i pupi. Mimmo ci gioca, li fa usare e poi fa vedere un combattimento tra Orlando e Rinaldo con il figlio Giacomo, è una specie di danza, nel frattempo un bambino li accompagna con il tamburo. Poi l’annuncio dello spettacolo che si svolgerà la sera.

La sera c’è un po’ di vento, si avvicinano i turisti, la curiosità di qualche straniero. Uno chiede quanti anni ha il teatrino e quanti i pupi, Mimmo gli risponde che il teatrino è degli anni ’50, e alcuni pupi hanno più di cento anni.

Chiedo a Sara quale delle puntate mi conviene seguire da dietro, lei mi suggerisce quella che sta per svolgersi.

Salgo sul palco e mi metto dietro. Sara, Giacomo e Tania cominciano a preparare mentre Mimmo fa la presentazione…Comincia.

L’officina si mette in moto, sembra un formicaio. Comincia piano poi l’esplosione e poi di nuovo la calma.

Particolari:

-i due microfoni per le voci, attaccati sulla prima quinta;

-sia Giacomo che Mimmo portano a un piede uno zoccolo, che serve per il ritmo delle battaglie; -i fondali.

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DIALOGO CON MIMMO CUTICCHIO, LABORATORIO DEL TEATRINO, VIA

BARA ALL’OLIVELLA, PALERMO

29 AGOSTO 2004,

Io: A Dubrovnik, la prima sera, ho seguito lo spettacolo dei pupi tradizionale dietro le quinte e ho

osservato tutto quello che succedeva alle spalle dello spettacolo. Uno spettacolo dentro lo spettacolo, una specie di officina che si mette in moto, esplode e poi si ricompone parallelamente a quello che succede sul palco del teatrino. Parto da queste osservazioni per ricostruire un discorso teatrale più ampio, quello che ti lega alla sperimentazione, che ti lega a quello che stai tentando di fare di nuovo. E’ possibile pensare a questa dimensione, quella delle quinte, come a una macchina scenica autonoma, indipendente dallo spettacolo tradizionale? Da questo patrimonio di tecniche scaturiscono altre visioni di spettacoli? Può essere fonte di altre costruzioni?

Mimmo: Mah, io non lo so se tu hai visto un teatro fermo nel tempo. Penso che esistano diversi tipi

di teatro che si influenzano, si copiano, si ispirano; gli artisti che viaggiano, che vedono, da una cosa gli viene un’altra cosa, oppure capiscono come si fanno delle cose che nel loro paese non si sono fatte mai e la fanno pure loro. Questo penso sia sempre successo e credo faccia parte anche della mia vita. La macchina dell’opera dei pupi già nell’’800 era una macchina abbastanza complessa, perché in piccolo all’Opera dei pupi si poteva avere l’effetto emozionale che si aveva nei grandi teatri d’opera, nei grandi teatri da circo, da baraccone, quelli dove c’erano i fenomeni. Non essendoci registrazioni, tutti i rumori, le sonorità, il vento, la pioggia, i tuoni, i rumori del mare, si facevano con mezzi naturali, con il latte, con le pietruzze di mare che andavano su e giù, con lamiere che tuonavano per i tuoni, le scene ritagliate con le lingue di fuoco e quindi con l’effetto candela dietro e le frange, sempre dietro, che sembrava che uscisse il fuoco dal fondale, dalla scena. Io da bambino me le ricordo da mio padre, sentendo parlare i vecchi pupari che ho conosciuto e sentendo quello che facevano i loro padri, i maestri di una volta. Ho immaginato sempre di più che fosse ricco di tutte queste invenzioni. Il teatrante doveva sempre inventarsi qualcosa di nuovo o di originale o comunque di diverso da un’altra cosa, perché quella cosa gli aveva ispirato un’altra cosa. Era una sfida a far meglio di un altro, ad attirare pubblico, gli stessi occhi e la bocca dei pupi che si muovevano nascono verso la fine, nasce negli ultimi venti anni dell’800, perché si era creata la leggenda che il puparo sarebbe riuscito a fare parlare un giorno i pupi da soli. Qualcuno oggi dice “ci sono le bambole con il registratore nella pancia”, io non lo so se volessero dire proprio questo, però il fatto che qualcuno era riuscito a muovergli la bocca e fare muovere gli occhi secondo me era questo che voleva dire: arrivare a un realismo quasi surreale, cioè un reale surreale, una verità nella finzione. Quindi c’è stato e continua a esserlo. Finché c’è qualcuno che ci crede e che si documenta e che viaggia e che gira può sempre non solo arricchirla ma tenerla oleata, sempre fresca, sempre in funzione, questa macchina scenica.

Io: Nel tuo teatro, questa macchina scenica, (il dietro le quinte), diventa protagonista, viene fuori,

viene resa visibile, non ci sono coperture. Un po’ come a Dubrovnik, che a un certo punto fai cadere giù le tele; magari questo gesto non era inserito in una drammaturgia prescelta, magari l’obiettivo era un altro, utilizzare l’ultimo minuto dello spettacolo per rivelare a un pubblico occasionale ciò che sta dietro.

Mimmo: Si inserisce sempre in una drammaturgia, diventa una drammaturgia scenica; io puparo e

regista di oggi decido che, siccome mi trovo in un spazio completamente diverso da quello locale dove la gente ha una grande curiosità e io so che sarà un grande piacere vedere come si muovono i pupi, inserisco drammaturgicamente negli ultimi tre o cinque minuti di spettacolo la calata delle tele, e questa è una novità. Quindi lo spettacolo si rinnova, da quel momento io potrei ricominciare e fare un’altra ora di spettacolo ma io non voglio, io voglio lasciare il pubblico con il desiderio di continuare a vedere. Quindi io più scopro il nudo più creo il mistero, perché la gente guardando per quei pochi minuti, il dietro le quinte non perfettamente illuminato, quindi intravede un po’ lo zoccolo del piede che il puparo batte, un corno appeso, una serie di oggetti appesi misteriosi, che

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non si sa bene a che cosa servono, fa si che ti rimanga il desiderio di vederlo ancora per capire di più.

Io: Io ho avuto questa sensazione molto forte. Inizialmente, stando dietro, pensavo chi sa cosa

dovessi scoprire, invece il mistero continuava a esserci, a esistere, anzi il mistero si è fatto più forte. Del resto anche quando tu sei davanti ai tuoi pupi e sei di spalle e parli, come nello spettacolo Don

Giovanni e i pupi, i pupi non perdono credibilità.

Mimmo: Io di questa azione sono contento, di questa particolare azione scenica sono contento

perché la prima volta che mi sono inventato questa calata delle scene, o meglio più che una calata è stata una scomposizione, è stato a Berlino-est quando nel ’77 o ‘78 sono stato invitato in un prestigioso teatro (dobbiamo controllare quale), dove c’era un palcoscenico girevole. Lì mi è venuto in mente. Prima ho chiesto se il palco era funzionante, ho messo il mio teatrino all’interno di questa base girevole; il mio teatrino era 4 metri, quella doveva essere un 6 metri di diametro, noi ci siamo messi là sopra con i cartelloni, e questa volta invece di legarli come facciamo solitamente, li ho legati, in particolare il frontespizio del teatro dei pupi, a una catinella, che sono quelle che vengono calate nei teatri con le corde, e altre due per i cartelloni. A un certo punto dell’azione scenica nel momento delle battaglie, ho dato un cenno ai tecnici e loro hanno alzato la prospettiva e contemporaneamente si aprivano i cartelloni, quindi è avvenuta una scomposizione che oggi può sembrare una cosa fatta al computer, queste cose fatte virtualmente, queste meraviglie del cinema. Allora secondo me arrivò così l’immagine alla gente: questa cosa antica con le pitture antiche, che a un certo punto si scompone e scomponendosi si vede all’interno, ed è come andare sempre di più verso lo spazio, e guardare più verso l’infinito, più cose vedi, più stelle, più luci, più non arrivi a toccarle. A un certo punto ho fatto un altro segno e cominciò a girare la parte rotonda del palcoscenico, quindi a tutto tondo; man mano che giravamo, la gente cominciava a vedere prima l’angolo, il lato del teatrino, dove c’è chi suona il tamburo, l’altro che suona la tromba e vede tra le quinte l’altro che sta per uscire il pupo e mentre il teatrino andava girando si andavano vedendo tutti gli angoli. Oggi si fa con particolari mostre, che si può girare tutto intorno. Quindi tu immagina il pubblico seduto che ha sotto gli occhi questa cosa che gira con le luci che amplificano tutto, e poi avevo fatto posizionare dei fari all’interno delle quinte in modo che quando si girava il teatrino si avesse anche un po’ di visione, non era una illuminazione folgorante, semmai lunare, delicata, calma ecc. Però dava la possibilità di vedere, come il cinema quando fanno l’effetto della notte, non è mai vera notte, la costruiscono e io ho costruito la luce per l’interno delle quinte. Quella fu una delle prime volte che mi venne questa idea e l’attuai e funzionò. Da allora in poi l’ho sperimentato sempre quando ho voluto e potuto, facendolo in mille modi. Perché ero contento di questa cosa negli anni? Perché poi molti e molti anni dopo quando io andai in Giappone la seconda volta, ad Osaka (la prima volta fu a Tokyo), ho potuto vedere il teatro Bunraku. C’era una compagnia, di quelle tutelate dallo stato e che fanno parte del tesoro dello stato, che girava per il Giappone e in quel periodo era a Osaka. Sono andato a vedere lo spettacolo e fu meraviglioso, quando io vidi che per muovere una marionetta bunraku ci vogliono tre animatori, il maestro doveva avere almeno venti anni di esperienza e muove determinate parti del corpo, per es. la testa e poi una mano, il secondo doveva avere dieci anni di esperienza, il terzo aiutante, poteva essere un allievo, ma doveva avere non meno di cinque anni di esperienza. Quindi ci sono trentacinque anni di esperienza per muovere una marionetta e in scena ce n’erano almeno due, un po’ come l’opera dei pupi. Minimo c’era un dialogo, era tutto a scena aperta, e per un dialogo ci volevano minimo due marionette bunraku. E facevano sia la parte epica, quella dei samurai, dei combattimenti ecc., che la parte della farsa come facevamo noi all’opera dei pupi. E la cosa che mi piacque molto e che mi trovò in linea fu che, come in questa parte del mondo orientale facevano questo teatro a scena aperta, così io lo facevo da questa parte del mondo senza aver visto quello e l’effetto che ha fatto su di me, anche se ero già un po’ smaliziato, è lo stesso che io immaginavo per il pubblico vedendo me. L’effetto dell’animatore presente sulla scena, tu lo vedi dalla sua bravura, ma la sua bravura non è quella di farsi dimenticare perché tu ce l’hai sempre davanti, però ci vivi insieme, ci viaggi insieme.

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Marionetta bunraku e animatore sono insieme sulla scena, con tutti i movimenti; là non lavorano su improvvisazione, ma è tutto calcolato, preciso e studiato.

Io: Tutti questi discorsi mi fanno capire ciò che succede in uno spettacolo come il Don Giovanni e

in quegli spettacoli di sperimentazione, da Visita guidata in poi. Ciò che è stabilito nel teatro di tradizione giustifica tutto il discorso dello “svelamento-mistero” e la proliferazione di altri livelli di narrazione con gli stessi pupi, e ciò anche a livello spaziale. Per esempio nel Don Giovanni arrivi anche a poter prendere il pupo e farlo girare, e farlo volare come fosse una giostra. Non è necessario un palco per giustificare la corporeità di quel pupo, la sua presenza. A quel punto puoi veramente utilizzare l’aria e la terra insieme. Mi interessa questo aspetto qui, l’aprire sempre finestre e altre porte e altri spazi. Mi immagino cosa possano diventare i pupi per esempio in televisione, (intanto Mimmo mi fa vedere la foto delle sagome del teatro delle ombre turco). Comunque penso che questo sia un discorso continuativo in tutte le produzioni successive. Anche il lavoro che hai in cantiere Alla ricerca della città di Troia.

Mimmo: Per adesso è la Riscoperta di Troia

Io: Mi ricordo che non utilizzavi pupi, era solo racconto.

Mimmo: Sì era solo il racconto con la musica. Nella versione che ho fatto con dei ragazzi di scuola,

avevo preparato due pupi ma poi non li ho utilizzati, ma non ricordo se è stato in questa occasione. Per adesso sto sperimentando, sono in fase di pensiero, siccome io non scrivo a tavolino, ma prendo appunti, soprattutto leggo e viaggio. Quindi sperimentare in tanti modi uno spettacolo credo che sia un po’ come per esempio il teatro elisabettiano. Shekespeare girava con la compagnia, lui scriveva, dava battute, dava copioni, poi cambiava, tagliava, accorciava, allungava. Infatti arrivano a noi i copioni scritti per la scena, non come quelli di Pirandello, che li pubblicava. Io lavoro penso più in quel modo, lavoro sulle idee sceniche, sui testi che poeticamente e umanamente mi toccano. Parto dal testo e arrivo al mio teatro di gioco. Metto il gioco e la gioia insieme alle cose drammatiche della vita. Perché il ballo che dici tu con i pupi non è che il Mimmo Cuticchio bambino che vive tra i pupi e da quando si ricorda, due-tre anni. I pupi erano i miei giocattoli, erano i miei compagni di gioco, assieme ai miei fratelli con cui ci vedevamo sul palco per giocarci. Per cui anche se io sono adesso un uomo, un adulto mi libero in un’opera che è un’opera giocosa, è un dramma giocoso. Il problema iniziale di questo spettacolo era che avevo anche visto il Don Giovanni delle marionette di Salisburgo, che mi era piaciuto molto, a livello di messa in scena, ma non mi interessava farlo in quel modo. Era anche ironico lo spettacolo perché c’era un maestro che rappresentava Mozart, che giocava un po’ sulla scena. Poi tutto il resto era serio, la musica, le marionette facevano l’opera del testo ecc. Quando ho dovuto affrontarlo io, l’ho montato una settimana prima dello spettacolo, perché prima ero un continuo studiare e più leggevo più scoprivo altri Don Giovanni, più pensavo che non mi interessava. Ero qui dentro con tutti i miei pupi appesi, e quando ero solo e avevo delle idee e mi segnavo delle cose, siccome c’era una data e una scadenza non mi potevo nascondere, non potevo fare come con altri spettacoli miei che dicevo, va bé non sono pronto, non ho il tempo lo faccio un’altra volta. Questa volta avevo preso un impegno, un contratto. Lo dovevo fare tanto che dissi ai miei di non preoccuparsi perché se alla fine non mi veniva l’idea giusta avrei fatto il cunto. Rimarranno delusi perché non ho fatto una messa in scena con i pupi però almeno io salvo la faccia con il cunto perché con il cunto io me la sento di raccontarla da solo la storia. Invece poi quando a volte ero solo o con mio figlio Giacomo, mi giravo, guardavo i pupi e gli facevo le battute “e tu chi

talii?”, “tu chi talii?!”, “no iu ti rissi a tia tu chi talii?”, ”io staiu sintennu a tia chi si in confusioni pi muntari u Don Giovanni”, “ah si, e tu comu u muntassi u Don Giovanni?”, “ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno avissi chianciri, avissi rirri”, ”e va bè non è che facile fari chianciri e fari rirri”7. C‘era questo gioco con i miei pupi che poi era con me stesso, erano le domande che io

mi volevo fare e me le facevo attraverso i pupi, e soprattutto quei pupi di quando io ero bambino e che mio padre utilizzava per le farse. I personaggi della farsa sono legati alla mia infanzia, al

7 “Che guardi?”- “Tu cosa guardi?”- “No, io ho detto a te che guardi!”- “Io sto sentendo te che sei in confusione per

montare il Don Giovanni”- “Ah sì, e tu come lo monteresti?”- “Ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno dovrebbe piangere, dovrebbe ridere”- “E va bene, però non è facile fare piangere e far ridere”.

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dialetto siciliano, alle battute, all’animo popolare. Facevo parlare loro che non erano altro che il mio io, perché sì io potevo parlare con mio figlio della musica, dello spartito, delle belle voci, dei cantanti, perché mio figlio studia pure musica ecc. Però la verità è che dentro di me avrei voluto dire le cose che dicevano i pupi di farsa. A questo punto ho capito che quella era la via, qui a salvare la faccia devono essere loro.

Io: Chiederti come è nato uno spettacolo o quali sono le tue esigenze teatrali sembra quasi voler

trovare a tutti i costi una linea interpretativa, ma nello spettacolo ho visto un gioco a più livelli, per esempio tu che sei di spalla e dai vita a dei pupi che non sono a caso…

Mimmo: Posso risponderti subito. Prima sono dietro le quinte e faccio il canto “vitti na crozza”8,

fatto con l’antica voce dei carrettieri (una musicalità della voce siciliana), per attirare il pubblico, e anche perché “vitti na crozza” ha un legame con la storia di Don Giovanni che comincia proprio da una piccola favola su un teschio. Per me tutti i conti tornano, non ci sono dubbi. Poi nomino ‘Mpeppennino9 che rappresenta anche me stesso, bambino, è infantile come tutti bambini che

venivano al teatro di mio padre e chiedevano continuamente cose, che partecipavano. C’erano anche gli adulti che facevano come ‘Mpeppennino, non erano solo i bambini, che chiedevano “ma

stasira cè Rinardu?”, “no, nun cè”, “allura nun viegnu, rumani assira viegnu, picchì a mia mi piaci Rinardu”10. Succedeva di tutto quando ero bambino io. Allora ‘Mpeppennino chiama Mastro Ramunno11, perché lui ama il cunto e questo significa anche che Mimmo Cuticchio oggi fa il cunto

e molti vengono da me perché gli piace il cunto. Allora ‘Mpeppennino aspetta il cuntista come il ‘Mpeppennino di oggi, il giovane di oggi che non sa niente di me, o l’amatore, o quello che si intende di teatro, che gli piace il cunto ma non sa che dietro l’arte dei pupi c’è una grande teatralità. Allora che faccio io? Gli faccio dire a ‘Mpeppennino “ma Mastro Ramunno, viene?”, come dire “ma stasera Mimmo Cuticchio fa il cunto?”, e l’oste dice “non ti preoccupare, quello all’orario è

sempre qua e comincia puntuale e chi c’è c’è”; questo era anche mio padre che diceva che

all’orario bisognava cominciare, non bisognava mai aspettare nessuno, “chi c’è c’è, noi dobbiamo isare u tiluni, u sipariu all’orario”12. Quindi mi vengono in mente tutte queste frasi di mio padre. Quando io esco dalle quinte lo faccio da Mimmo Cuticchio, esco anche per dire al pubblico “ora

giochiamo a carte scoperte, volete che Mimmo vi faccia il cunto, e io ve lo faccio, però poi ascoltate anche un’altra storia che vi propongo io”, e gli faccio quei dieci minuti di cunto sul

duello di Orlando e Rinaldo e Gattamugliere.

Io: È interessante la sovrapposizione di immagini, quelle del racconto di Leporello e quelle dei

paladini che sono poi ciò che vedono in quel momento i popolani, quando Leporello elenca le donne deluse…

Mimmo: Questo è ciò che diviene man mano drammaturgia, per ora io ti sto spiegando il viaggio,

visto che tu dici “come si monta lo spettacolo?”, se non ho preparato un copione prima come lo monto. Quindi avevo trovato questo rapporto con i pupi e andavo mettendo dentro tutto una serie di elementi, ti sto spiegando anche il sotto, la doppia linea, quella drammaturgico-teatrale e quella drammaturgico-personale che rientra nei ricordi della mia infanzia, nel vissuto con mio padre e con la mia famiglia. Allora io faccio Mastro Ramunno, mi sono preso questo nome che è anche per me un nome mitico perché io Mastro Ramunno non l’ho mai sentito raccontare, però quando io ero da Celano, che stavo a bottega da lui, lui mi diceva sempre che Mastro Ramunno quando faceva i duelli faceva vedere le cose, quando descriveva i duelli a cavallo con le lancie ecc. Io sentivo sempre parlare di questo Mastro Ramunno che ho conosciuto una volta, prima che lui morisse, perché era passato vicino dove abitava Celano, in via Scippatesta al Capo, e Celano me lo fece conoscere. Quindi io lo conobbi così, vecchio e di passaggio ma non l’ho mai sentito, per cui per me Mastro Ramunno era l’Omero della situazione. Perché mentre Genovese, Celano, Totò Spataro

8 “Ho visto un teschio” 9 Pupo-personaggio della farsa

10 “Ma stasera non c’è Rinaldo?”- “No, non c’è!”- “Allora non vengo, vengo domani sera perché a me piace Rinaldo” 11 Mitico puparo palermitano.

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