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LA POLITICA DI TUTELA SOCIALE DELLE INVALIDITA’ NELL’AMBITO DELL’ UNIONE EUROPEA

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LA POLITICA DI TUTELA SOCIALE DELLE INVALIDITA’

NELL’AMBITO DELL’ UNIONE EUROPEA

Dr. Federico Cattani - Dr. Tiziana Di Biagio

La politica delle tutele dei cittadini in età da lavoro ha assunto un notevole impulso all’indomani della approvazione della Carta Sociale Europea, in Italia avvenuta con la legge n. 30/991.

Essa è stata ufficialmente proclamata al vertice di Nizza ed è specificamente nata per favorire la formazione di quell’idemsentire fra gli stati in tale delicatissimo ambito, rappresentando una svolta essenziale nella politica continentale, in precedenza finalizzata nella soluzione di questioni economiche, rispetto alle quali la politica sociale aveva un ruolo secondario.

I principi inseriti nella Carta, in parte ripresi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del ‘48, hanno diretta discendenza da quelli di cittadinanza, citati al Capo V, e formalmente, secondo il deliberato del Parlamento europeo, la loro forza discende dal loro inserimento nel Trattato dell’Unione nonché dalla previsione nelle materie ivi contemplate di ricorso diretto da parte dei cittadini alla Corte di giustizia.

Al Capo IV della Carta troviamo i diritti di solidarietà e tra questi, al capitolo 35, quelli di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che “assicurano protezione in casi quali la maternità, malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia. Essi sono parimenti fruibili in ogni area dell’Unione nello specifico fine di lottare contro l’esclusione e la povertà per garantire un’esistenza dignitosa, anche in mancanza, costante o sopravvenuta, di risorse sufficienti”.

Sino al vertice di Nizza le politiche del welfare avevano dignità prevalentemente nazionale, in base ai mezzi a ciò finalizzati dai singoli Parlamenti, ma la progressiva reductio ad unum del

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timone della politica monetaria e finanziaria europea rende inevitabile una omogeneizzazione delle risorse, nel quantum da spendere, e del loro uso, ossia nei criteri per farlo.

Vista la libera circolazione dei cittadini post-Schengen tra i vari paesi per lavoro, e non solo, una particolare attenzione dovremo sempre più avere nel favorire legislazioni sociali similari per l’accesso alle prestazioni assicurative sociali nel caso di malattia ed infortunio.

La Carta Sociale Europea può rappresentare quindi l’inizio di una più ampia riflessione sul concetto di disabilità che, nello specifico dei soggetti in età di lavoro o in esso inseriti, partendo dallo iure condito, lega in prevalenza l’invalidità ad una perdita del guadagno o del lavoro. Nel caso di tutela assistenziale di tipo universale, da privilegiare verso i soli cittadini non inseriti, il concetto dovrebbe più riguardare le principali funzioni personali e sociali del soggetto. Stiamo negli anni avvicinandoci a quell’assunto di disfunzionalità sociale tipico dell’handicap, attraverso quegli elaborati metodologici, come ICIDH e più recentemente l’ICF.

Se scopo della legislazione è quello di favorire la partecipazione degli individui al mercato del lavoro con tutte le menomazioni che ognuno possiede, particolare impegno deve aversi nel fornire strumenti al medico legale valutatore per individuare un percorso di qualificazione della persona.

Occorre quindi privilegiare anche nell’Unione Europea un approccio generale delle politiche sulla disabilità che esplori le relazioni tra riforme e risultati di tali politiche. Il principio da condividere è di scoraggiare l’esclusione sociale dell’invalido e sostenere il lavoro ed altre sue forme di partecipazione sociale.

I preliminari di un recente studio dell’Organizzazione internazionale della Cooperazione e di Sviluppo Economico del 2001, sull’analisi delle “Politiche di supporto e di integrazione di persone disabili in età da lavoro” ha evidenziato, su diretto contributo degli stati partecipanti e degli Enti nazionali di previdenza sociale operanti nel settore delle prestazioni d’invalidità (per le competenze sanitarie l’Italia era rappresentata dall’INPS e per la parte strutturale dal Ministero del Lavoro), che

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3 la maggior parte di persone che si sentono disabili non riceve alcun beneficio e che in persone oltre i 50 anni spesso i sostegni di tipo pensionistico sono una soluzione altrettanto importante rispetto ai servizi diretti per la disabilità.

Da parte dei Governi e dei vari Enti nazionali di previdenza sociale appare quindi opportuno individuare nuovi strumenti di politica sulle invalidità; essi dovrebbero promuovere la reale e tempestiva ri-partecipazione al mercato del lavoro della persona disabile, riducendo così la sua dipendenza, soprattutto se cronologicamente indeterminata, dalle relative indennità, tanto da incrementarne il benessere economico e l’integrazione sociale, visto che le risorse investite mediamente nel ‘99 in tale settore sono state ben l’2.5% del prodotto interno lordo,di cui lo 0.8%

sullo specifico di disabilità per malattia od infortuni sul lavoro.

Lo studio partiva dal presupposto che: nei vari paesi europei le percentuali di persone disabili collocate è inferiore a coloro che fruiscono di risarcimenti economici per la stessa condizione e quindi occorre nell’analisi identificare i dati politici ed organizzativi, in un approccio di benchmarking “sulla migliore politica praticata sulle disabilità”, così da invertire l’attuale modello operativo e tendere invece a migliorare l’integrazione al lavoro dei cittadini invalidi.

Negli ultimi 10 anni i costi per le disabilità sono cresciuti, ma soprattutto per spese di tipo pensionistico non collegate però a programmi specifici per la disabilità.

Dobbiamo quindi riconoscere come, grazie anche alla maggiore visibilità delle organizzazioni dei disabili, negli anni 90 ci sia stata una spinta riformistica sul campo. D’altra parte è noto come lo sviluppo delle politiche è il compromesso tra i principi generali e le spinte di potere di gruppi organizzati.

Ad esempio nel 2000 una Direttiva del Consiglio Europeo ha definito il quadro generale per la pari opportunità nel campo dell’impiego e dell’occupazione (non solo per i disabili); essa, che dovrà essere adottata dagli stati europei entro il 2003, nasce per contrastare la discriminazione, favorire un

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approccio più equilibrato ai diversi interventi e riconosce una mutua obbligazione tra la persona disabile, il datore di lavoro e lo Stato.

In ogni caso le politiche estremamente differenziate sulla disabilità per persone in età da lavoro richiedono un approccio olistico, guardando la globalità degli interventi e il rapporto tra gli stessi.

Lo studio in oggetto parte quindi dalla constatazione che la definizione di disabilità vari, non solo tra differenti nazioni, ma anche tra differenti programmi di welfare, all’interno della singola nazione, con gl’inevitabili effetti sui sistemi risarcitori o di politica attiva di reinserimento.

Secondo Aarts vari sono i percorsi di tutela nei quali i lavoratori affetti da malattie possono essere inseriti; tra i quali quelli:

• da lavoro,che comprendono i programmi incoraggianti la riabilitazione per superare le menomazioni causate dalla disabilità

• da pensionamento di vecchiaia anticipato

• da trasferimenti economici dedicati (per malattie, inabilità od infortuni)

• da collocabilità al lavoro, con relativi benefici economici per perdita temporanea di salario.

Le caratteristiche individuali consentono al disabile di poter scegliere tra questi quattro percorsi così realizzando una specie di flusso tra i vari ambiti, reciprocamente quindi influenzabili.

Due sono le principali tipologie d’intervento:

• da una parte le politiche attive orientate all’integrazione del disabile nel lavoro, con forme di attività protetta, riservata o di riqualificazione professionale (come in Germania – “riabilitazione prima della pensione”)

• dall’altra le politiche di trasferimento o di compensazione economica con fornitura di assistenza o assegni per brevi malattie o disabilità, per infortuni sul lavoro, per

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5 disoccupazione, per pensionamento precoce (soprattutto in Svezia ed Italia) o comunque a forme di assistenza sociale non relativa allo stato di disabilità, nel caso non siano possibili le precedenti forme di tutela.

Da rilevare che non tutti i percorsi sono presenti in tutti i paesi europei;ad esempio l’Olanda non ha un programma separato per gli infortuni sul lavoro e davvero pochi paesi hanno per i disabili aree riservate del mercato del lavoro.

Nella seconda tipologia la valutazione medico-legale ai trattamenti per lo stato di malattia o di invalidità, sia esso breve o prolungato, è svolta dal medico curante o da team di medici dell’assicurazione sociale.

La Danimarca è il solo paese in cui gli assegni per l’invalidità non sono contributivi, ma derivano dalla tassazione generale.

E’ ovvio che esiste tra i vari paesi una scala che va da un estremo di una tipologia d’intervento all’altro.

Sono un problema cruciale i criteri per accedere ai differenti programmi connessi allo stato di disabile nonché la divisione amministrativa delle responsabilità e dei fondi. Ad esempio in alcuni paesi i benefici per la malattia possono essere sospesi se l’istante rifiuta misure di riabilitazione, poiché solo se precoci esse incrementano le chances di reintegrazione della persona.

Parimenti la definizione di disabilità, il tipo di valutazione medica, il tipo di lavori considerati per training professionali, o che debbono essere accettati prima di divenir titolari di indennità, sono un importante aspetto nel processo di conferimento dei benefici nel singolo paese.

Non è imminente un concetto universale di disabilità e di metodi per la sua misurazione e pertanto difficile è fare statistiche comparabili sulla diffusione degli stati invalidanti.

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Metodologie obiettive sono auspicabili, ma molte analisi restano tuttora basate su di una disabilità auto-referenziata tramite domande relative a limitazioni di attività complessive o con strumenti che indagano su specifiche azioni del vivere quotidiano. Sono ovvi i limiti di una disabilità cosiddetta endogena: si può infatti manifestare una tendenza ad esagerare la severità del proprio stato di salute per entrare nei programmi di tutela, sia economici che di altro tipo nonché di incidere soprattutto su valutazioni inerenti attività generali piuttosto che su quelle lavorative.

Riguardo la sua incidenza nei paesi europei studiati la disabilità coinvolge una gamma tra il 7 e il 20 per cento della popolazione tra i 20 e i 64 anni, con il 15,4% di media.

Queste cifre si riferiscono a persone che soggettivamente si riconoscono come disabili, anche se ufficialmente non fruiscono di tale riconoscimento.

Un terzo degli stessi sono portatori di gravi disabilità, di cui quelle congenite sono meno del 10%. Nei paesi nordici, inclusi Francia e Germania, più di 1 persona su 6 tra i 20 e i 64 anni si sente disabile. Nella UE solo l’Italia, e in parte la Spagna, hanno una percentuale di disabili inseriti in programmi di tutela pubblica inferiore al 10% della popolazione e peraltro proprio tra i portatori di disabilità più severe.

Sarebbe interessante confrontare il numero di disabili autoreferenziati con quelli ufficialmente riconosciuti tali, ma non tutti i disabili sono effettivamente registrati nelle liste.

Quindi scopi principi di una vera politica sociale sulle disabilità non possono che riconoscersi sia nella massima percentuale di collocati al lavoro sia nel fornire sufficienti risorse a questo specifico gruppo di popolazione.

Tranne alcuni paesi,quale la Polonia,di norma il basso inserimento a lavoro non ha come contro- altare alti benefici economici.

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7 Gli anni 90 hanno rappresentato una pressoché generale diffusione dei programmi di tutela pubblica sulle invalidità, tranne in Italia, ove dopo la legge di riforma del 1984. la numero 222, l’incidenza di spesa è scesa dal 10% del 1990 al 2% del 1999, soprattutto per quanto concerne i programmi assicurativi, parzialmente compensati da quelli assistenziali, con diminuzione dei beneficiari del 40% in Italia e del 20% in Portogallo. Inoltre i programmi verso le disabilità sembrano anche avere un’implicita funzione di pensionamento anticipato, con 9 su 10 beneficiari ultra 45 enni (3 o 4 volte in più dei più giovani).

Riteniamo che qualsiasi programma governativo o amministrativo europeo dovrebbe porsi l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di veri disabili ed escludere coloro che non lo sono.

Ma ciò risulta arduo per la difficile valutazione su che cosa costituisce disabilità o capacità al lavoro, e per quest’ultima quando essa può esser ritenuta perduta parzialmente o del tutto.

In alcuni paesi la capacità al lavoro è riferita solo alla capacità specifica della persona e ciò non appare adeguato per determinare la capacità della persona di partecipare al mercato del lavoro.

Comunque di norma la disabilità è definita quale limitazione nel lavoro o in altre attività del vivere quotidiano-A.D.L. (soprattutto la mobilità, la cura della persona e la comunicazione).

Per il medico legale la situazione è progressivamente peggiorata con l’incremento di malattie di difficile diagnosi, in particolare tutti i tipi di patologie mentali, che ora esprimono tra il 20 e il 50%

dei beneficiari nonché le sindromi fisiche stress-collegate,come i bassi dolori rachidei. Esse hanno non solo una diagnosi, ma anche una prognosi difficile; necessitano quindi medici legali valutatori, indipendenti e soprattutto oggetto di una finalizzata azione formativa.

Peraltro un ipotizzato coinvolgimento dei medici di famiglia nel processo accertativo, fornirebbe un parere medico forse più informato, ma probabilmente meno obiettivo.

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Gli elementi di sistema sin qui acquisiti e l’approvazione della Carta Europea permettono ora la nascita di una politica europea di sicurezza e di solidarietà sociale che non si limiti alle ormai ex

frontiere nazionali con interventi di spicciola solidarietà, a macchia di leopardo o talvolta meramente propagandistici, ma acquisisca una strategica e forte funzione di cittadinanza.

Gli Istituti nazionali di previdenza sociale, di concerto con i medici legali e gli ambiti accademici, possono e debbono ora assumere un ufficio organizzativo e di proposta, per esempio sull’integrazione degli interventi statali per le disabilità con quelli per la malattia e di definire operativamente le disabilità tutelabili, così ribadendo il ruolo cruciale da essi svolto nei confronti dei lavoratori o tout court del cittadino europeo.

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