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Osservazioni a prima lettura sul regolamento ministeriale per la determinazione dei parametri di liquidazione giurisdizionale dei compensi per gli avvocati - Judicium

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1 VITO AMENDOLAGINE

Osservazioni a prima lettura sul regolamento ministeriale per la determinazione dei parametri di liquidazione giurisdizionale dei compensi per gli avvocati

Sommario: 1. Ambito di applicazione e regole generali. 2. Il “contratto di patrocinio” contenente anche il preventivo sul compenso è soggetto all’obbligo di registrazione? 3. La disciplina sul regime generale delle spese. 4. Le disposizioni sulla “flessibilità” del compenso. 5. La valutazione giudiziale “negativa” riguardante il compenso dell’avvocato.6. Compenso liquidato dal giudice ed importo contrattualizzato.7. Tipologia di attività.

8. L’attività stragiudiziale dell’avvocato. 9. L’attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria. 10. La determinazione del valore della controversia. 11. Le disposizioni del d.m. n.140/2012 su procedimenti arbitrali, cautelari o speciali o non contenziosi, cause di lavoro e per l'indennizzo da irragionevole durata del processo e gratuito patrocinio. 12. Sulla responsabilità processuale aggravata (dell’avvocato o del cliente?) e relative pronunce in rito. 13. La determinazione del compenso per l'attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria. 14. L’attività giudiziale penale riferita all’avvocato ed alla parte civile. 15. La determinazione del compenso per l'attività giudiziale penale. 16. La soppressione del rimborso forfettario spese generali. 17. Considerazioni finali.

1.Ambito di applicazione e regole generali

All’art. 1 costituente l’intero capo primo dedicato alle disposizioni generali del D.M. 20 luglio 2012, n.140, recante il regolamento sulla determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27,si prevede che l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui ai capi che seguono applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto. L'organo giurisdizionale può sempre applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso.

Ciò significa che le disposizioni del D.M. n.140/2012 non possono entrare in conflitto con il contenuto di precedenti accordi scritti tra il professionista ed il cliente, ma unicamente svolgere una funzione di supplenza od integrazione.

L’art. 41 del D.M. n.140/2012 prevedendo la disposizione temporale, recita: <<le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore>>.

Bene, e per quelle anteriori?

In particolare, per la liquidazione dei compensi in materia stragiudiziale e/o giudiziale relativi a prestazioni professionali anteriori all’entrata in vigore del D.M. n.140/2012 a quale parametro dovrà riferirsi l’avvocato per chiedere i soldi al cliente?

Non certo le vecchie tariffe forensi essendo quest’ultime ormai abrogate.

A scanso di equivoci, l’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n.1, convertito con modificazioni in l. 24 marzo 2012, n.27, prevedeva che le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di emanazione dei decreti ministeriali di cui al secondo comma e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

Il testo della norma anzidetta è quindi chiaro nel riferirsi alle sole spese giudiziali, per tale ragione dovendosi certamente escludere sia quelle relative alla fase stragiudiziale di una qualunque controversia, come quelle di consulenza, conciliazione, mediazione facoltativa od obbligatoria delle

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2 controversi civili e commerciali (ovviamente escludendo il compenso del mediatore per la cui determinazione esiste una separata disposizione normativa) o comunque prodromiche all’avvio di un’azione esecutiva sia quelle che sebbene maturate durante un processo non siano state però consacrate in un titolo giudiziale a conclusione dello stesso (sentenza).

Poniamo allora il caso che prima dell’entrata in vigore del D.M. n.140/2012 a seguito di una pronuncia giudiziale sia necessario notificare atto di precetto ed iniziare l’esecuzione forzata, se poi il debitore intende pagare quanto dovuto senza dover attendere la liquidazione del giudice dell’esecuzione, come farà l’avvocato a chiedere il compenso per la fase successiva all’emanazione della sentenza?

Quali parametri potrà utilizzare il suddetto professionista per la determinazione del proprio compenso relativo al precetto ed all’esecuzione forzata iniziata in assenza delle vecchie tariffe, non potendo avvalersi del regolamento di cui al D.M. n.140/2012 che si riferisce unicamente alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore?

La giurisprudenza di merito formatasi su tale questione pur rilevando il carattere di ultrattività delle abrogate tariffe forensi in base alla disciplina transitoria di cui all’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n.1, convertito con modificazioni in l. 24 marzo 2012, n.27, non ha risolto il problema, essendosi limitata a statuire che il giudice, per la liquidazione del compenso all’avvocato, debba applicare l’art. 2225 c.c. per cui, in applicazione della norma in esame, ai fini della quantificazione del compenso, il giudice può fare riferimento agli standards liquidativi in precedenza applicati ed alla somma calcolata dallo stesso difensore mediante la nota spese di cui all’art. 75 disp. att. c.p.c. (cfr.

Trib. Varese, 3 febbraio 2012; secondo Trib. Cagliari, 22 febbraio 2012, in http://www.altalex.com, il vuoto normativo creatosi per effetto della formulazione dell’art. 9 del d.l. n.1/2012 verrebbe colmato attraverso l’applicazione delle tariffe professionali abrogate, fino alla pubblicazione dei relativi parametri ministeriali. contra cfr. Trib. Cosenza, ord., 1 febbraio 2012, in www.cassazione.net, che ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, premessa la natura processuale della suddetta disposizione desunta dal fatto che essa vincola gli organi giurisdizionali nell’attività di liquidazione di onorari professionali, e che l’evidente mancanza di una appropriata disciplina transitoria non consente di ritenere interamente “ultrattivo” il vecchio regime delle tariffe, obbligando il giudice ad applicare il nuovo regime a tutti i processi in corso che non siano già stati definiti anche per quel che riguarda la condanna alle spese processuali, atteso che l’eventuale ricorso da parte del giudicante a parametri diversi da quelli espressamente previsti dal legislatore, potrebbe risultare mortificante per il decoro della professione forense e quindi in contrasto con il primo comma dell’art. 36 della Legge fondamentale, ovvero troppo gravoso per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio, e che pertanto, qualunque soluzione si dovesse scegliere nella determinazione degli onorari di difesa essa implicherebbe il rischio concreto di dar luogo ad ingiustificate disparità di trattamento tra situazioni simili sul piano processuale ha rimesso gli atti alla Consulta, poiché le disposizioni di cui ai citati commi 1 e 2 dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012, si pongono in netto contrasto con il canone costituzionale della “ragionevolezza” laddove non prevedono alcuna disciplina transitoria limitata al periodo intercorrente tra l’entrata in vigore delle norme e l’adozione da parte del ministro competente dei “parametri” ivi previsti. Lo stesso giudice, non ha mancato di rilevare altresì che la disciplina dettata dai commi 1 e 2 dell’art. 9 del d.l. n.

1/2012 appare, altresì, in contrasto con l’art. 24 della Costituzione in quanto vulnera il diritto di agire e resistere in giudizio rendendo incerto l’onere delle spese da affrontare nel corso del procedimento, considerando altresì che la suddetta disciplina viola anche l’art. 3 della Costituzione in quanto attribuisce, di fatto e al di là di alcuna espressa attribuzione del relativo potere, una facoltà ampiamente discrezionale al giudice tenuto a liquidare gli onorari di difesa, tale facoltà apparendo

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3 priva di alcun ragionevole ancoraggio a parametri certi e controllabili così frustrando, il diritto della parte soccombente di insorgere nei confronti di un provvedimento che risulti, eventualmente, incongruo od esorbitante.

Nella citata ordinanza di rimessione degli atti alla Consulta, si dava poi atto come non sia neppure ipotizzabile, che il giudice, cui è fatto obbligo di applicare in via esclusiva “parametri” all’epoca inesistenti, possa omettere di decidere sulla condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali ovvero sospendere il giudizio sino alla data in cui sarà emanato il provvedimento ministeriale per la cui emanazione, peraltro, la stessa disciplina impugnata non poneva alcun termine, in quanto la sospensione, in un caso non previsto da alcuna norma processuale, integrerebbe la violazione del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, comma, Costituzione).

Più di recente, cfr. Trib. Monza, 6 agosto 2012, in http://www.ilcaso.it, si è chiarito come l’ultrattività delle abrogate tariffe forensi prevista dall’art. 9, terzo comma del d.l. n.1/2012, convertito con modifica in l. n.27/2012 che si applica limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali fino all’entrata in vigore del decreto ministeriale di approvazione dei nuovi parametri e comunque fino al centoventesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione.

In quest’ultima pronuncia, si chiarisce che il regime transitorio per la liquidazione delle spese giudiziali – e non quindi per quelle stragiudiziali, o comunque maturate in procedure diverse da quelle giudiziali, come nell’ambito di un procedimento di mediazione obbligatoria od arbitrale – non può che fare riferimento alle norme vigenti alla data in cui l’attività difensiva è terminata, recependosi l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla sopravvenienza di nuove tariffe nel corso dello svolgimento della prestazione di assistenza giudiziale (cfr. Cass., 21 novembre 1998, n.11814, in http://dejure.giuffre.it).

Inoltre, lo stesso giudice brianzolo nel citato provvedimento specifica che in tal senso depone anche il secondo comma dell’art. 9 del d.l. n.1/2012 al quale si raccorda il successivo terzo comma, dettando una disciplina transitoria limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali a seguito di soccombenza. Quest’ultima precisazione assume poi una particolare importanza perché consente di ritenere che per rifarsi alle abrogate tariffe forensi è comunque necessario pervenire ad una liquidazione giudiziale del compenso riferito all’attività prestata dall’avvocato.

In tal senso depone la parte finale del citato provvedimento del Trib. Monza, 6 agosto 2012, laddove afferma: <<se dunque l’attività giudiziale dell’avvocato della parte vittoriosa sia terminata prima del 23 luglio 2012 e della caducazione definitiva delle tariffe forensi sino a tale data applicabili ai fini della liquidazione giudiziale delle spese, tale liquidazione dovrà continuare a far riferimento alle tariffe ivi previste, conformemente alla nota spese redatta e depositata in giudizio dai difensori in base alle stesse con il loro ultimo atto difensivo. Se invece la conclusione dell’attività difensiva, con il compimento dell’opera professionale, si abbia dopo l’intervenuta abrogazione, l’entrata in vigore dei nuovi parametri ministeriali farà sì che la liquidazione giudiziale delle spese di soccombenza avvenga in base a questi e non più in base alle previgenti tariffe, ancorchè alcune attività siano state svolte nel vigore di queste>>.

Analoga problematica si pone per ogni azione giudiziaria già intrapresa prima dell’entrata in vigore del D.M. n.140/2012 ma non definita con una pronuncia giudiziale successiva all’entrata in vigore dello stesso regolamento.

Altrettanto dicasi in ordine alle procedure arbitrali o conciliative, laddove non vengano definite con l’emissione del lodo o di un accordo sottoscritto dalle parti che comprenda anche la determinazione del compenso del singolo avvocato, perché ad esempio le parti desiderano accordarsi prima evitando ulteriori esborsi di denaro ed accorciando i tempi di definizione della lite.

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4 Ma ad analoga conclusione potrebbe pervenirsi laddove le parti desiderino accordarsi anticipatamente sulla definizione della lite con una transazione, in cui, per prassi, ciascuna parte si paga il proprio avvocato.

Ebbene, come farà quest’ultimo ad esigere dal proprio cliente il compenso per l’attività giudiziale e stragiudiziale prestata sino alla conciliazione compresa, magari per l’opera prestata davanti al mediatore?

Anche in tali ipotesi, come potrà il singolo professionista chiedere il pagamento del proprio compenso senza avvalersi delle vecchie tariffe professionali né dei parametri posti dal nuovo regolamento di cui al citato D.M. n.140/2012?

La suddetta questione, a ben vedere, si pone non soltanto nei confronti del cliente dell’avvocato, ma anche ed in particolar modo nei confronti della controparte, a sua volta assistita da altro legale, che in sede di richiesta del pagamento del compenso, può sollevare la relativa problematica.

Il problema non è soltanto trovare l’accordo con la parte – o la controparte nei casi in cui sia quest’ultima a doversi accollare la relativa spesa – ma l’esatta individuazione di parametri oggettivamente attendibili a cui ricorrere per la determinazione del compenso dovuto per l’attività professionale espletata.

In buona sostanza, in tutte le ipotesi innanzi considerate, se l’avvocato chiede una certa somma al proprio cliente (o peggio ancora alla controparte debitrice nei cui confronti sia già stata avviata l’azione di recupero per la sorte capitale rimasta impagata al termine del relativo procedimento), quest’ultimo potrà sempre rifiutarsi di corrisponderla, a suo giudizio ritenendola esosa, ed in tal modo, costringere quindi lo stesso professionista ad adire il giudice per arrivare ad una determinazione giudiziale del proprio compenso.

Probabilmente, esistendo su tale punto un’evidente lacuna normativa, non altrimenti rimediabile neppure con l’applicazione del generale principio tempus regit actum, laddove trattasi di fattispecie – rectius: controversie – nate quando le tariffe professionali erano già state abrogate, l’unica possibilità, in difetto di un accordo tra l’avvocato ed il debitore, stante l’inesistenza di utili parametri al riguardo, sarà allora proprio quella prospettata, di ultimare la fase stragiudiziale o giudiziale già intrapresa, (nel caso dell’esecuzione forzata facendosi liquidare dal giudice dell’esecuzione il compenso relativo a tale fase, ed a quella anteriore, iniziata con la notifica dell’atto di precetto), iniziandola o proseguendola davanti al giudice competente, la cui liquidazione sarà successiva all’entrata in vigore del D.M. n.140/2102, ed in quanto tale, anche ove manchi l’accordo delle parti, potrà comunque applicarsi quest’ultimo.

Ciò lo si desume chiaramente dal primo comma dell’art. 11 del D.M. n.140/2012 laddove conclude affermando che <<l'organo giurisdizionale può sempre applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso>>, ma per farlo, dovrà comunque emettere una pronuncia giudiziale che contenga la relativa statuizione concernente la determinazione del compenso spettante al professionista.

Tuttavia, in tale modo, si realizzano due finalità in palese contrasto con quella cui dovrebbe tendere, in ultima analisi, il regolamento di cui al citato D.M. n.140/2012: da un lato la proliferazione di nuove azioni giudiziarie, in tale ipotesi, obbligatoriamente portate avanti dal singolo professionista per causa a quest’ultimo non imputabile, senza possibilità di addivenire ad una preventiva conciliazione pure prevista dagli artt. 3 e 4 del citato regolamento, e dall’altro, l’aggravio di spese e costi a danno del proprio cliente e/o della stessa controparte (debitore) a seconda dei casi, la cui unica giustificazione plausibile risiede nella pur prevedibile lacuna normativa ignorata dall’attuale legislatore con una norma ad hoc di diritto temporale – trattandosi di una normale conseguenza derivante dell’abrogazione delle tariffe a cui è seguito un notevole periodo temporale prima

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5 dell’approvazione del D.M. n.140/2012 – la cui colposa mancanza viene quindi superata, chiamando le stesse parti ad accollarsi l’onere di sopportare un maggior esborso economico.

2. Il “contratto di patrocinio” contenente anche il preventivo sul compenso è soggetto all’obbligo di registrazione?

In relazione alla disciplina relativa alla pattuizione del compenso, resta fermo quanto disposto dal quarto comma dell’art. 9 rubricato disposizioni sulle professioni regolamentate del d.l. n.1/2012 convertito con modificazioni dalla l. n.27/2012 (e successivamente modificato dall'art. 5, primo comma, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83), ai sensi del quale, il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale.

Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale.

In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, e deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi.

Ciò significa che non esistendo più tariffe professionali la cui applicazione era obbligatoria per legge, anche con rispetto ai minimi tariffari, sul versante fiscale non potrà più procedersi ad una preventiva ricostruzione “presuntiva” o “sintetica” anche “d’ufficio” del reddito del professionista maturato in relazione al singolo affare considerato, dovendo prima appurarsi se in relazione allo stesso esista o meno un accordo tra il medesimo professionista qui considerato ed il cliente – in quanto ai sensi dell’art. 1 del D.M. n.140/2012 le disposizioni di quest’ultimo, compresi i parametri indicati per singole “fasi di attività”, si applicano soltanto in difetto di un preventivo accordo privatistico tra le parti in ordine allo stesso compenso – e successivamente, dovendo procedersi all’interpretazione dello stesso, trattandosi di un vero e proprio “contratto” di diritto privato, a sua volta composto da singole clausole, che per quanto intelligibili, dovranno essere attentamente interpretate e valutate.

Al riguardo, dovrà quindi tenersi conto dei relativi contenuti riguardanti la materia qui considerata, anche in virtù del fatto che il “contratto di patrocinio” stipulato con il cliente, al pari delle scritture private a contenuto patrimoniale, potrebbe andare soggetto all’imposta di registro ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. 26 aprile 1986, n.131, il quale prevede l'obbligo di registrazione di tutte le scritture private non autenticate di natura negoziale, anche quelle sottoscritte tra privati od imprese a prescindere dall'intervento di un mediatore, al pari della transazione, trattandosi di atti relativi a prestazioni di servizi oggetto di IVA stipulati in forma scritta nel territorio dello Stato che si prestano ad essere ricompresi tra quelli già indicati nella Tariffa allegata al TUIR (contratto relativo a prestazioni di lavoro autonomo, art.10 della tariffa, parte seconda, scheda 22 pag.61), ovvero tra gli atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (Art. 9 della Tariffa Parte Prima allegata al citato D.P.R. n.131/1986).

3. La disciplina sul regime generale delle spese

Il secondo comma dell’art. 1 del D.M. n.140/2012 dispone che nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario.

Non sono altresì compresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo.

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6 I costi degli ausiliari incaricati dal professionista sono ricompresi tra le spese dello stesso.

Ciò significa che tutte le spese di natura sostanzialmente “borsuale” – comprensive anche di quelle degli ausiliari incaricati direttamente dal professionista, come del resto si legge nella stessa relazione illustrativa al decreto – anche con riferimento agli oneri e contributi, anche fiscali, comunque necessarie od opportune per lo svolgimento del mandato professionale, sono escluse dal compenso convenuto con il cliente, ed anche dall’applicazione in funzione suppletiva od integrativa dei relativi parametri previsti dal D.M. n.140/2012.

4. Le disposizioni sulla “flessibilità” del compenso

Il terzo comma dell’art. 1 del D.M. n.140/2012 prevede espressamente che i compensi liquidati dal giudice in base al D.M. n.140/2012 comprendono l'intero corrispettivo per la prestazione professionale, incluse le attività accessorie alla stessa, mentre dal quarto comma della stessa disposizione, si evince che nel caso di incarico collegiale il compenso è unico ma l'organo giurisdizionale può aumentarlo fino al doppio.

Quando l'incarico professionale è conferito a una società tra professionisti, si applica il compenso spettante a uno solo di essi anche per la stessa prestazione eseguita da più soci.

Quest’ultima disposizione mira a realizzare il principio che il compenso dovuto dal cliente è unico anche se nel corso dell’opera professionale espletata in suo favore intervenga un team di professionisti riconducibile ad un unico centro d’interesse (la società tra professionisti).

Quid juris se invece il medesimo team di professionisti pur facendo parte del medesimo studio professionale, non opera come società tra professionisti ovvero come studio associato?

La disposizione citata si riferisce espressamente e soltanto alla fattispecie della società tra professionisti, per cui dovrebbe prendersi atto che prestazioni di più professionisti eseguite in favore del cliente per il medesimo affare esulano dalla fattispecie di cui al comma quarto dell’art. 1 del D.M. n.140/2012, stante la mancata espressa previsione dell’applicazione analogica delle relative disposizioni.

5. La valutazione giudiziale “negativa” riguardante il compenso dell’avvocato

Il quinto comma dello stesso art. 1 del D.M. n.140/2012 recita: per gli incarichi non conclusi, o prosecuzioni di precedenti incarichi, si tiene conto dell'opera effettivamente svolta, mentre al sesto comma l'assenza di prova del preventivo di massima di cui all'art. 9, quarto comma, terzo periodo, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso.

Cosa significa in concreto il termine adoperato nel D.M. n.140/2012 “valutazione negativa”? forse si intende la possibilità per l’organo giurisdizionale di avvalersi della facoltà di abbassamento dei valori dei parametri utili per la determinazione del compenso professionale dell’avvocato?

Se è davvero così, allora nonostante lo scopo della riforma, così come dichiarato nella relazione illustrativa al decreto ministeriale in commento sia quello di rendere massimamente intellegibile la focalizzazione del corrispettivo dovuto, e, dunque, semplice, nella massima misura possibile, la sua stessa struttura, in realtà, nella prassi negoziale, al professionista basterà dimostrare per iscritto l’esistenza del “consenso informato” previamente fornito al cliente-consumatore prima dell’accettazione dell’incarico, eventualmente anche tenendo conto al riguardo di quanto sancito dall’art. 1341 c.c. in tema di vessatorietà delle relative clausole, oltre che dei luoghi e modalità di formazione del relativo accordo fondato su schemi di contratti-preventivi “a struttura complessa”

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7 come del resto la stessa controversia a cui si riferiscono, sostanzialmente in linea con quelli previsti dal citato art. 9, quarto comma, terzo periodo, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, per mettere in evidenza una criticità della suddetta disposizione regolamentare, non altrimenti rimediabile neanche dallo stesso giudice nel corso del giudizio a cui inerisce il conferimento del mandato difensivo.

In effetti, sebbene nella relazione illustrativa al decreto ministeriale si tenda ad affermare accademicamente, rectius: teoricamente, che l’unicità del compenso mira a dare spessore alla semplificazione insita nell’abrogazione delle tariffe, costituendo a sua volta un utile supporto alla riduzione delle asimmetrie informative che possono essere implicate non solo da fisiologiche lacune di trasparenza del mercato, ma anche da un eccesso d’informazioni incidenti sullo stesso, dovute alla frammentazione e parcellizzazione delle componenti delle informazioni stesse, come poteva ragionevolmente dirsi delle più che complesse e non facilmente intellegibili tariffe precedenti, in realtà, sul piano dell’applicazione pratica di tale principio, non sembra difficile presagirne una diversa (e legittima) attuazione in senso diametralmente opposto, almeno rispetto all’idea utopisticamente vaticinata nel testo della citata relazione illustrativa annessa al decreto ministeriale n.140/2012.

6. Compenso liquidato dal giudice ed importo contrattualizzato

Il settimo ed ultimo comma dell’art. 1 del D.M. n.140/2012 recita: in nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa.

Ciò significa che non soltanto il giudice ma anche le parti, e tra queste, in primis il professionista, hanno le mani libere nella determinazione del compenso, con buona pace del cliente meno esperto o scaltro di altri nella contrattazione di tali questioni.

E’ quindi evidente come anche tale disposizione si presti ad interpretazioni che non è affatto detto siano favorevoli per il cittadino-utente costretto ad avvalersi di tali servizi per difendersi in un processo.

7. Tipologia di attività

L’art. 2 del D.M. 20 luglio 2012, n.140, con il quale inizia il capo secondo, relativo alle disposizioni concernenti gli avvocati, premesso che le prestazioni professionali forensi sono distinte in attività stragiudiziale e attività giudiziale, e che le attività giudiziali sono a loro volta distinte in attività penale ed attività civile, amministrativa e tributaria, ai successivi artt. 3 e 4 si limita ad enunciare criteri empirici per la liquidazione, senza chiarire, né specificare, il relativo significato, ovvero cosa si intende per ciascuna di tali attività, anche al fine di individuarne con esattezza i relativi confini.

8. L’attività stragiudiziale dell’avvocato

In particolare, secondo l’art. 3 del D.M. n.140/2012 l’attività stragiudiziale è liquidata tenendo conto del valore e della natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione, si tiene altresì conto delle ore complessive impiegate per la prestazione, valutate anche secondo il valore di mercato attribuito

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8 alle stesse. Quando l'affare si conclude con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 40 per cento rispetto a quello altrimenti liquidabile a norma dei commi che precedono.

L’art. 3 citato, ai commi primo e terzo precisa che l’attività stragiudiziale è liquidata tenendo conto anche dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente prevedendo altresì l’aumento del compenso quando l’affare si conclude con una conciliazione, quindi con esito positivo dell’incarico affidato al professionista, inducendo quindi a ritenere che l’obbligazione del professionista possa ritenersi di “risultato” oltre che di “mezzi”.

Inoltre, il riferimento ai “valori di mercato” delle ore impiegate dal professionista per l’esecuzione dell’incarico, a maggior ragione se con riferimento all’attività stragiudiziale, notoriamente già luogo di scontro con soggetti che la prestano pur senza rispettarne i relativi standards in termini di garanzia e qualità, autorizza a dedurre che attualmente, in Italia, la libera professione resta disciplinata dalle stesse regole che valgono nell’ambito dell’impresa commerciale, dove il prezzo del corrispettivo di compravendita delle merci è determinato soltanto dalle logiche del mercato, dove a prevalere è il competitor più forte (avvalendosi della propria organizzazione, forza economica, anche per garantire una serie di servizi per battere la concorrenza, tra cui rientrano la maggiore pubblicità promozionale dei propri prodotti e la capacità di abbassare i prezzi che però non sempre, anzi quasi mai si traduce in un effettivo vantaggio per il consumatore, secondo la famosa massima non scritta riassumibile nel “non si regala proprio nulla a nessuno”) e non necessariamente quello più bravo e meritevole, con l’unica precisazione che nella fattispecie disciplinata dal D.M. n.140/2012 si tratta non della compravendita di “cose” o di un “qualunque”

servizio, ma di una ben definita ed altamente qualificata attività e servizi resi da categorie di professionisti iscritti in albi.

Aggiungasi che le prestazioni legali, come ogni altra professionale su base ordinistica, si sono rette non su valori di mercato, ma su precisi valori fissati e pubblicati da Autorità pubbliche e controllati dagli ordini professionali.

Pertanto le prestazioni intellettuali professionali non soggiacciono e non possono soggiacere alle regole proprie di mercato che non c’è in tale ambito professionale e che, peraltro, presuppongono meccanismi di determinazione e poi di regolamentazione, monitoraggio e controllo dei valori da parte di più attori del mercato stesso (es. produttori, grandi distributori, filiera dei venditori, consumatori, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Autorità per l’energia ed il gas, Associazioni dei consumatori, etc.).

9. L’attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria

Anche l’art. 4 del D.M. n.140/2012non va al di fuori del perimetro tracciato con riferimento alla liquidazione,precisando che l'attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria è distinta nelle seguenti fasi:

a) studio della controversia;

b) introduzione del procedimento;

c) istruttoria;

d) decisoria;

e) esecutiva.

La stessa norma regolamentare, dopo aver previsto al secondo comma che nella liquidazione il giudice deve tenere conto del valore e della natura e complessità della controversia, del numero e dell'importanza e complessità delle questioni trattate, con valutazione complessiva anche a seguito di riunione delle cause, dell'eventuale urgenza della prestazione, al terzo e quinto comma precisa che si tiene altresì conto del pregio dell'opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi,

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9 anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente, nonché, quando il procedimento si conclude con una conciliazione con l’aumento del compenso fino al 25 per cento rispetto a quello liquidabile a norma dell'art. 11, in tal modo confermando le analoghe determinazioni espresse in termini di obbligazioni di risultato già espresse con riferimento all’attività stragiudiziale.

Il quarto comma dell’art. 4 del D.M. n.140/2012 prevede che qualora l'avvocato difenda più persone con la stessa posizione processuale il compenso unico può essere aumentato fino al doppio. Lo stesso parametro di liquidazione si applica quando l'avvocato difende una parte contro più parti. Nel caso di controversie a norma dell'art. 140 bis del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, il compenso può essere aumentato fino al triplo, rispetto a quello liquidabile a norma dell'art. 11.

Il sesto comma dell’art. 4 del D.M. n.140/2012 prevedendo che costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli, mira a punire peraltro genericamente – come si evince finanche dall’uso atecnico del termine “condotte” che ben si addice con riferimento alla “parte” del processo ma non certo all’avvocato – il singolo professionista che contravvenga ai criteri di celerità del giudizio.

E’ evidente che la previsione di tale principio – che peraltro, essendo riferito alla misura del compenso, entra in palese contrasto con quanto enunciato dall’art. 1 dello stesso D.M. n.140/2012 in base al quale le relative disposizioni si applicano soltanto in difetto di accordo tra le parti e che in nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa – tende unicamente a punire l’avvocato, ammonendolo preventivamente, dal tutelare oltre una certa misura i diritti del proprio cliente, pena la possibilità che, determinate condotte, possano essere valutate negativamente, esclusivamente nei suoi stessi confronti, dal giudice ai fini della determinazione del compenso.

Ciò ovviamente, senza contare che a decidere se ed eventualmente in quale misura dette condotte possano elevarsi al rango di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli è lo stesso giudice della causa, il quale, ove a sua volta sia incorso in ritardi per la definizione del contenzioso, potrebbe essere indotto a rigettare richieste avanzate dalla difesa con il pretesto che le stesse, argomentando diversamente, possano comunque essere idonee a suo giudizio, a costituire la previsione innanzi indicata dal sesto comma dell’art. 4 del D.M. n.140/2012.

In ogni caso, appare fin troppo evidente il chiaro invito a non oltrepassare un’immaginaria linea rossa nella difesa del cittadino, superata la quale, si rischia un’altrettanto evidente situazione di conflitto d’interessi sul piano economico fra l’avvocato ed il proprio assistito.

Un esempio può forse aiutare a chiarire.

Tizio si rivolge al proprio avvocato chiedendo di difenderne le ragioni evocando la controparte in giudizio.

Se nel corso del processo, la strategia difensiva dell’avvocato per il giudice adito si riveli essere eccessivamente articolata o macchinosa, come spesso può accadere anche per questioni che a prima vista potrebbero apparire di facile soluzione salvo poi verificare all’atto pratico l’esatto contrario, ovvero alla difficoltà di pervenire ad una soluzione soddisfacente, potrà verificarsi l’ipotesi che lo stesso giudicante, per evitare di incorrere in un’eccessiva dilatazione dei tempi del processo, sia costretto “tecnicamente” a segnalare all’avvocato la possibilità di evitare di coltivare richieste istruttorie particolarmente complesse.

Si pensi ad esempio, alla citazione di numerosi testimoni, parte dei quali residenti al di fuori del circondario dell’ufficio giudiziario ove si svolge il processo, magari chiamati a deporre su un rilevante numero di capitoli, ovvero una consulenza tecnica d’ufficio particolarmente complessa ed

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10 onerosa, od ancora un’ispezione giudiziale, o nel campo del diritto penale od amministrativo, altri accertamenti particolarmente complessi che pure la particolare natura del singolo procedimento richiede per l’accertamento della verità giudiziaria.

Tali attività, notoriamente comportano un notevole dispendio di tempo e costi, è per tale ragione, la stessa questione innanzi evidenziata, potrebbe porsi anche sotto l’aspetto della valutazione di una condotta idonea ad ostacolare la definizione del procedimento in tempi ragionevoli.

Quest’ultimi, in difetto di una diversa specificazione, dovrebbero presumibilmente intendersi quelli posti dall’attuale l. 24 marzo 2001, n.89, così come modificata dall’art.55 del d.l. 26 giugno 2012, n.83 convertito con modificazioni in l. n.134/2012.

Quello illustrato, è soltanto uno dei possibili ed innumerevoli esempi che potrebbero verificarsi nella prassi giudiziaria, dove l’accertamento della “verità” rischia seriamente di diventare ostaggio di logiche di mercato, quanto all’ottimizzazione dei tempi e costi del processo, in tal modo finendo con il porre sullo stesso piano della valutazione delle merci – rapporto dell’offerta/domanda rispetto alla qualità/prezzo – i diritti delle persone ed inevitabilmente con essi anche quest’ultime.

L’unica differenza è che se un prodotto non piace al consumatore quest’ultimo ha sempre la possibilità di cambiare rivolgendosi sul mercato ad altro operatore economico, mentre nell’ambito della giustizia ciò non è possibile.

In altre parole, se un prodotto commerciale che sembra non funzionare a dovere lo si può sostituire od anche evitare di acquistarlo, ciò non è possibile nel settore della Giustizia, vale a dire non si può scegliere il tribunale od il giudice più efficiente e di conseguenza l’avvocato che sappia pervenire più rapidamente di un altro ad una soddisfacente soluzione della causa, compatibilmente con il carico di lavoro presente sul ruolo dell’ufficio giudiziario.

Probabilmente, la disposizione contenuta nel sesto comma dell’art. 4 del D.M. n.140/2012 è volta a distogliere l’attenzione dal vero problema, mascherando l’unico imbarazzante aspetto della questione legata alla ragionevole durata del processo: l’inefficienza della macchina giudiziaria italiana per la mancanza di risorse ed investimenti adeguati che mai come nel corso degli ultimi anni sono stati sostituiti da uno svariato numero di riforme e controriforme legislative, tutte rivelatesi perfettamente inutili e persino controproducenti, come incontrovertibilmente dimostrano da un lato l’immediata abrogazione a breve distanza di tempo dall’approvazione di una loro parte (basti pensare al processo societario, all’applicazione del rito del lavoro alle cause da incidenti stradali con lesioni, tanto per fare qualche esempio sul tema della giustizia civile) e dall’altro, il continuo perseverare del legislatore “politico” e “tecnico” nell’immettere continuamente nell’ordinamento nazionale nuove disposizioni, spesso lacunose, sconnesse ed in contraddizione con altre preesistenti rimaste in vigore, creando un’impressionante stratificazione normativa che almeno sino ad oggi non ha eguali in nessun’altra legislazione di Stati aderenti all’unione europea.

10. La determinazione del valore della controversia

L’art. 5 del D.M. n.140/2012 prevede che ai fini della liquidazione del compenso, il valore della controversia è determinato a norma del codice di procedura civile avendo riguardo, nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, all'entità economica della ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei giudizi di divisione, alla quota od ai supplementi di quota in contestazione, e nei giudizi per pagamento di somme, anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata. In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale.

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11 La genericità della disposizione in commento nel rinviare al codice di procedura civile e soltanto per una determinata categoria di azioni ad altrettanto generici parametri quali l'entità economica della ragione di credito azionata nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, per quelli divisori alla quota od ai supplementi di quota in contestazione, e nei giudizi per pagamento di somme alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata, pone non pochi problemi in presenza del verificarsi di particolari situazioni.

Una su tutte: se vi è revoca o rinuncia all’incarico da parte del difensore, in assenza di un preventivo accordo tra quest’ultimo ed il cliente, come dovrà regolarsi il giudice adito con separato giudizio per la determinazione del compenso quando ancora non è definito il giudizio in relazione al quale il primo professionista venne incaricato di prestare la propria attività?

Alla stessa conclusione si perviene poi qualora la stessa parte decida di transigere la lite, e quindi non si arrivi ad una pronuncia giudiziale.

Anche in tale ultima ipotesi dovrà applicarsi analogicamente la disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 5 del D.M. n.140/2012 per la determinazione del valore da usare come parametro di riferimento per la determinazione del compenso spettante all’avvocato?

E’ vero che ai sensi del primo comma dell’art. 1 dello stesso D.M. n.140/2012 l'organo giurisdizionale può sempre applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso, ma è altrettanto vero che definita la controversia con una transazione, si renderà necessario instaurare un separato ed autonomo giudizio dallo stesso difensore che dopo aver rinunciato od essere stato revocato dall’incarico, chieda di essere pagato per l’opera prestata in favore del cliente.

Anche questa purtroppo è un’ulteriore eventualità non prevista dal legislatore, che potrebbe fungere da volano per la creazione di nuovo contenzioso civile.

Il secondo comma dell’art. 5 del D.M. n.140/2012 afferma che nelle cause davanti agli organi di giustizia amministrativa il valore della causa è invece determinato a norma del primo comma quando l'oggetto della controversia o la natura del rapporto sostanziale dedotto in giudizio o comunque correlato al provvedimento impugnato ne consentono l'applicazione.

Quando ciò non è possibile, va tenuto conto dell'interesse sostanziale tutelato.

Bene, anche in tale ipotesi, se le parti decidono di mettersi d’accordo prima di arrivare ad una pronuncia giudiziale, risparmiando costi e tempo, “chi” e sulla base di quali “parametri” stabilirà che possono applicarsi nella controversia che si intende definire transattivamente i criteri di cui al primo comma della stessa disposizione regolamentare?

Cosa significa, sul piano concreto, che quando ciò non è possibile, va tenuto conto dell'interesse sostanziale tutelato?

Appare evidente come dette indicazioni, oltre ad essere generiche, potrebbero forse eventualmente aiutare il giudice nel decidere il compenso spettante al professionista, ma non certo le parti, che pur avendo faticosamente raggiunto un’intesa sul bene della vita oggetto della contesa, francamente, appare difficile riescano anche a mettersi d’accordo sul quantum da riconoscere al professionista per l’attività prestata in assenza di oggettivi elementi di valutazione della stessa, tenuto altresì conto che trattandosi di giudizi amministrativi in cui una delle parti è la p.a. occorre pur sempre che dette voci di spesa – specie ove i relativi importi siano rilevanti, come nel caso delle controversie legali fondate su appalti pubblici – siano àncorate all’osservanza di criteri oggettivi prestabiliti.

Altrettanto dicasi per la generica previsione riferita alle controversie di valore indeterminato od indeterminabile per le quali si tiene particolare conto dell'oggetto e della complessità della stessa, senza specificare null’altro al riguardo, con riferimento all’indicazione di specifici criteri-guida.

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12 11. Le disposizioni del d.m. n.140/2012 su procedimenti arbitrali, cautelari o speciali o non contenziosi, cause di lavoro e per l'indennizzo da irragionevole durata del processo e gratuito patrocinio

Le osservazioni fatte con riferimento alle prestazioni rientranti nell’attività giudiziale o stragiudiziale valgono anche in relazione all’art. 6 del D.M. n.140/2012 che per i procedimenti davanti agli arbitri, prevede che nel caso di arbitrato rituale, è dovuto il compenso stabilito per le controversie davanti ai giudici competenti a conoscere sulle stesse, mentre in ogni altro caso di arbitrato o fattispecie analoga, per la liquidazione dei compensi si applicano i parametri previsti per l'attività stragiudiziale.

Anche prescindendo dalla stravagante quanto immotivata discriminazione operata con riferimento alla tipologia di arbitrato, a seconda se quest’ultimo assuma la natura rituale od irrituale ai fini dell’applicazione dei relativi parametri riferiti all’attività giudiziale o stragiudiziale, anche per tali procedimenti, si ripropongono le stesse osservazioni critiche svolte nei precedenti paragrafi, apparendo tale disposizione regolamentare non meno generica di quelle che la precedono, permanendo gli stessi dubbi innanzi evidenziati anche con riferimento alle questioni di diritto temporale.

Con riferimento alle restanti ipotesi contenziose, distinte per tipologia, per le cause di lavoro la normativa regolamentare si rivela essere lacunosa, per effetto della scarna previsione contenuta all’art.8 del D.M. n.140/2012 da cui è possibile ricavare soltanto che nelle controversie di lavoro il cui valore non supera 1.000 euro, il compenso dell’avvocato è ridotto di regola fino alla metà (praticamente a stralcio, senza indicazione alcuna dei relativi parametri di riferimento, come invece prevede appositamente l’art. 7 dello stesso decreto, trattando dei procedimenti cautelari, speciali o non contenziosi di cui si dirà appresso, e, soprattutto, senza aggiungere nulla per le cause di valore superiore).

Soltanto nella relazione illustrativa si precisa che tale previsione sarebbe volta ad assicurare il principio costituzionale di accesso alla giustizia per la tutela di posizioni fondamentali ed a forte connotazione personalistica, usualmente connesse a situazioni di disparità di forze tra le parti coinvolte, come tali considerate sotto vari profili, processuali e sostanziali, dall’ordinamento.

Ma a ben vedere, tale regola vale non soltanto per il “lavoratore” ma anche e soprattutto per la

“parte datoriale”, a maggior ragione se di dimensioni rilevanti od internazionale: si pensi alla Fiat i cui legali debbano patrocinarne le ragioni in controversie in cui è la stessa azienda ad evocare in giudizio i propri dipendenti, in relazione a singole controversie ciascuna delle quali inferiore ad euro 1.000,00.

Vale anche in tal caso il suddetto principio esposto nella relazione illustrativa al decreto?

Al precedente art. 7 dello stesso D.M. n.140/2012 riguardante i procedimenti cautelari o speciali o non contenziosi si enuncia che fermo quanto specificatamente disposto dalla tabella A - Avvocati, nei procedimenti cautelari ovvero speciali ovvero non contenziosi (volontaria giurisdizione) anche quando in camera di consiglio o davanti al giudice tutelare, il compenso viene liquidato per analogia ai parametri previsti per gli altri procedimenti, ferme le regole ed i criteri generali di cui agli artt. 1 e 4 del D.M. n.140/2012.

La suddetta disposizione, si rivela essere palesemente pleonastica, laddove accomunati i procedimenti cautelari, speciali o non contenziosi anche quando si svolgono in camera di consiglio o davanti al giudice tutelare (sono quelli di volontaria giurisdizione, amministrazione di sostegno, interdizione, inabilitazione, etc.) per la determinazione del compenso all’avvocato si limita a rinviare per analogia ai parametri previsti per gli altri procedimenti, ferme le regole ed i criteri generali di cui agli artt. 1 e 4 dello stesso decreto.

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13 Ebbene, per conseguire tale risultato sarebbe stato sufficiente includere anche i procedimenti previsti dall’art.7 del D.M. n.140/2012 tra quelli espressamente indicati nella rubrica dell’art. 4, norma quest’ultima a cui pure tra l’altro l’art. 7 rinvia, le cui disposizioni si riferiscono all’attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria.

La disposizione contenuta all’art. 9 del D.M. n.140/2012 si riferisce alle cause per l'indennizzo da irragionevole durata del processo e gratuito patrocinio, stabilendo che in tali controversie il compenso può essere ridotto fino alla metà, a cui segue la contorta previsione che per le liquidazioni delle prestazioni svolte a favore di soggetti in gratuito patrocinio, e per quelle ad esse equiparate dal T.U. delle spese di giustizia di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, si tiene specifico conto della concreta incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa, e gli importi sono di regola ridotti della metà anche in materia penale.

Ora fermo restando la drastica riduzione alla metà degli importi dovuti per il compenso all’avvocato, viene da chiedersi cosa intende dire esattamente la pur generica citata disposizione regolamentare – o meglio ancora, come verrà intesa nella futura interpretazione giurisprudenziale – laddove la stessa prevede che <<si tiene specifico conto della concreta incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa>>?

Forse un caso ulteriore in cui il compenso all’avvocato può essere ulteriormente diminuito, o magari un’ipotesi di esonero totale o parziale dalla relativa corresponsione, tenendo conto anche di quanto enunciato dal successivo art. 10 dello stesso D.M. n.140/2012 sulla responsabilità processuale aggravata?

12. Sulla responsabilità processuale aggravata (dell’avvocato o del cliente?) e relative pronunce in rito

L’art. 10 del D.M. n.140/2012 dispone che nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell'art. 96 c.p.c., ovvero, comunque, nei casi d'inammissibilità, improponibilità od improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello liquidabile a norma dell'art. 11. Nella relazione illustrativa al decreto si afferma che la ragione è chiaramente relativa all’esercizio definito come “professionalmente inappropriato” dei diritti processuali.

Ciò però significa che al solo avvocato della parte soccombente viene ad essere riservato un trattamento più deteriore rispetto a quello del vincitore, punendolo con la decurtazione della metà del compenso a cui avrebbe diritto per aver patrocinato una causa del cliente che avrebbe dovuto rifiutare a priori.

A questo punto sorge anche qui qualche domanda da porsi.

La prima è se anche tale norma abbia davvero un “senso”, specialmente laddove l’avvocato della parte che poi si rivelerà essere soccombente nella causa, con una condanna per responsabilità processuale aggravata,abbia già pattuito il compenso con il proprio cliente, tenuto conto che ai sensi dell’art. 1 del D.M. n.140/2012 l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui ai capi che seguono applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto.

Se la parte soccombente si è già accordata preventivamente con il proprio avvocato a corrispondergli in ogni caso un determinato compenso – anche nell’ipotesi in cui la relativa domanda sia dichiarata dal giudice inammissibile, improponibile od improcedibile – cosa dovrà fare il giudice in tale ipotesi, contravvenire all’accordo ed in tal modo violare quanto espressamente enunciato all’art. 1 del D.M. n.140/2012?

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14 Tanto anche in considerazione di quanto stabilito all’ultimo comma dell’art. 1 del D.M. n.140/2012:

<<in nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa>>.

La seconda, attiene invece alla natura dell’obbligazione professionale se in tale ipotesi, potrà continuare ad essere considerata semplicemente come di “mezzi” o se invece la si debba intendere come di “risultato”, atteso che la vistosa decurtazione del compenso (cinquanta per cento) viene legata alla pronuncia emessa dal giudice al termine del relativo processo.

A ciò non osta la particolarità della pronuncia, in punto di gravità della stessa, atteso che anche laddove si discute di inammissibilità, improponibilità od improcedibilità della domanda giudiziale, non di rado si rinvengono orientamenti giurisprudenziali divergenti, cosa del resto normale, almeno in un paese come l’Italia in cui ancora non esiste una regola assimilabile allo stare decisis di matrice anglosassone.

Ma soprattutto, cosa accadrà applicando tale principio in materia penale al difensore della parte che, nonostante esistano poche possibilità di accoglimento della domanda, chieda ugualmente al suo difensore di patrocinarne le ragioni nonostante il rischio di incorrere in un rigetto della stessa per inammissibilità, improponibilità od improcedibilità?

Ed indipendentemente da ciò, come dovrà comportarsi l’avvocato nei confronti del proprio cliente, in un qualunque procedimento, sebbene vi sia un consistente rischio di incorrere in un rigetto della domanda?

Rifiutarsi di difenderlo per paura di incorrere a priori nella sanzione prevista dall’art. 10 del D.M.

n.140/2012 consistente nella decurtazione del cinquanta per cento del proprio compenso per responsabilità processuale aggravata (sua o del proprio cliente)?

Altra questione su cui riflettere, potrebbe poi essere quella riguardante la valutazione della stessa opportunità e sensibilità dimostrata dall’attuale legislatore verso la professione forense, nell’aver scelto di “ammonire” preventivamente i relativi professionisti esercenti la stessa, dal patrocinare cause “difficili” od “estremamente difficili”, in cui potrebbe esistere il rischio di incorrere in un rigetto della domanda giudiziale per inammissibilità, improponibilità od improcedibilità della stessa, mettendo così “in guardia” il medesimo professionista dalla possibilità di incorrere in un futuro addebito a titolo di responsabilità processuale aggravata – del resto previsto appositamente nei confronti dell’avvocato difensore della parte soccombente – riferito alle eventuali conseguenze derivanti da una scelta (sua o del cliente?) poi rivelatasi errata per effetto della decisione finale del giudice.

In buona sostanza, la regola prevista nell’art. 10 del regolamento ministeriale senza equivoci di sorta, sembra voler porre a carico dell’avvocato “soccombente”, a sua volta difensore della parte

“sconfitta” al termine del processo, di fatto, solidalmente con quest’ultima, una sanzione pecuniaria per aver adito il sistema “giustizia” con una domanda poi rivelatasi inammissibile, improponibile od improcedibile, perché in base alla relazione illustrativa al decreto, ritenuta in contrasto con l’attuazione del principio costituzionale di proporzionalità nell’uso della risorsa giudiziaria, a sua volta direttamente connesso con quello del giusto processo e della ragionevole durata collettiva della complessiva dinamica giudiziaria.

Ed infatti, nella stessa relazione illustrativa si conferma la valorizzazione dell’attività forense diretta alla sola conciliazione della controversia, attraverso l’aumento del compenso rispetto a quello liquidabile ordinariamente.

In realtà, nel regolamento ministeriale di cui al D.M. n.140/2012 vi sono anche altri punti da cui si evincono tutta una serie di aprioristiche “valutazioni negative” verso le stesse possibilità di scelta riferite a strategie difensive dell’avvocato le quali, rendono quindi legittimo il sospetto di una

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15 diffidenza verso quest’ultimo, che inevitabilmente finisce con l’oscurarne anche la stessa professionalità, come si ricava ad esempio dall’art. 1, sesto comma, ai sensi del quale <<l'assenza di prova del preventivo di massima di cui all'art. 9, comma 4, terzo periodo, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell'organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso>>, dall’art. 4, che al sesto comma enuncia: <<costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli>>, in quest’ultima ipotesi, senza null’altro al riguardo, neanche fosse una “norma in bianco” al cui riempimento dovrà quindi rimediare il giudice chiamato a decidere la singola controversia, esprimendo le proprie osservazioni e valutazioni per individuare di volta in volta quali possano essere le eventuali <<condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli>>, e dall’art. 12, sesto comma: <<costituisce elemento di valutazione negativa in sede di liquidazione giudiziale del compenso l'adozione di condotte dilatorie tali da ostacolare la definizione del procedimento in tempi ragionevoli>>.

Vi sarebbero anche altri non meno importanti interrogativi da porsi in merito all’utilità (ed opportunità) dell’art. 10 del D.M. n.140/2012, ma forse, anche per evidenti ragioni di spazio, è meglio chiudere qui su tale punto specifico.

13. La determinazione del compenso per l'attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria

Il contenuto dell’art. 11 del D.M. n.140/2012 – che per ragioni sistematiche, avrebbe potuto essere inserito nel testo dell’art. 4 – è sostanzialmente una riproposizione sintetica riferita ad una serie di atti ed attività già previste dalle abrogate tariffe forensi per la liquidazione dei diritti ed onorari di avvocato, prevedendo al primo comma che i parametri specifici per la determinazione del compenso dell’avvocato sono, di regola, quelli di cui alla tabella A - Avvocati, allegata allo stesso decreto.

Il giudice può sempre (discrezionalmente) diminuire od aumentare ulteriormente il compenso in considerazione delle circostanze concrete, ferma restando l'applicazione delle regole e dei criteri generali di cui agli artt. 1 e 4 dello stesso decreto.

Su tale punto, appare evidente il rischio di incorrere in veri e propri eccessi o stravaganze valutative, riconducibili all’arbitrio del giudice, il quale potrebbe essere tentato di decidere di aumentare o diminuire il compenso all’avvocato a seconda delle circostanze concrete che in ultima analisi potrebbero riferirsi anche soltanto alla “particolare” considerazione riposta nella stessa persona fisica del professionista piuttosto che a quella inerente il singolo procedimento trattato.

In buona sostanza, è come dare al giudice la possibilità di premiare o sanzionare sul piano squisitamente economico la condotta professionale dell’avvocato, con ogni conseguente pericolo sotto il profilo dell’indipendenza e libertà di garantire la difesa del proprio cliente così come attualmente sanciti dalla Carta dei Principi Fondamentali dell’Avvocato Europeo, reperibile on line all’indirizzo http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-avvocati/codice-deontologico- forense/documento5761.html, redatta dal Consiglio degli Ordini Forensi Europei (CCBE) ed adottata all’unanimità nella sessione plenaria tenutasi a Bruxelles il 24 novembre 2006, destinata ad essere applicata in tutt’Europa, in cui si enunciano i principi fondamentali, espressione del sostrato comune a tutte le norme nazionali ed internazionali che disciplinano l’avvocatura.

In particolare, dall’art. 2.1 sui principi generali, si evince che <<gli avvocati debbono essere politicamente, economicamente e intellettualmente liberi di esercitare il proprio compito di consigliare e rappresentare i clienti. Ciò significa che l’avvocato deve essere indipendente dallo Stato, dalle fonti di potere e dai poteri economici, e non deve permettere che la sua indipendenza sia compromessa da pressioni indebite…>>.

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16 Ai punti 2.1.1. e 2.1.2. si prevede che <<i numerosi obblighi a carico dell’avvocato rendono necessaria la sua assoluta indipendenza da qualsiasi pressione e in particolare da quelle esercitate da suoi interessi personali o da influenze esterne.

Questa indipendenza è necessaria per la fiducia nella giustizia quanto l’imparzialità del giudice.

L’avvocato deve pertanto impedire ogni attentato alla propria indipendenza e fare attenzione a non venir meno alle norme deontologiche per compiacere i clienti, i giudici o terzi.

Tale indipendenza è necessaria per l’attività giuridica come per quella giudiziaria.

I consigli dati da un avvocato al proprio cliente non hanno valore se sono impartiti per compiacerlo, per interesse personale o sotto l’effetto di una pressione esterna>>.

Ebbene, se quanto precede è vero, come si spiega che la determinazione concreta del compenso spettante all’avvocato debba oggi dipendere da una così ampia discrezionalità del giudice, al quale è altresì rimessa la stessa discrezionalità di ridurlo od aumentarlo a seconda delle circostanze e percezioni od esperienze soggettive, di fatto, svincolando la relativa valutazione da ogni possibilità concreta di esercitare un’efficace attività di controllo, sia preventivo che a posteriori?

Tuttavia, l’indicazione a titolo di esempio per ciascuna “fase” di singoli atti ed attività da prendere in considerazione per la definizione del compenso spettante al professionista, oltre che apparire pleonastica, atteso che l’indicazione degli importi in relazione alle relative fasi di attività è già riportata nella tabella allegata A – Avvocati al D.M. n.140/2012, sul piano pratico rischia di rivelarsi persino inutile, in quanto, non essendo più prevista nell’attuale regolamento ministeriale per la determinazione del compenso dell’avvocato l’obbligatoria applicazione della suddivisione in

“onorari” e “diritti” in uso alle abrogate tariffe forensi, con l’assegnazione per ciascuna “voce” del relativo importo in considerazione del valore della controversia, che serviva da un lato per verificare il rispetto dei minimi tariffari, e dall’altro, per àncorare gli importi spettanti al professionista a ben precisi parametri previamente individuati, anche al fine di garantire sotto il profilo dell’art. 36 cost., la dignità ed il decoro dell’opera svolta dal professionista, attualmente, tali esigenze sono inevitabilmente destinate a cedere il passo ad altri criteri rispondenti alla logica propria del “mercato”, come del resto chiaramente affermato nello stesso regolamento ministeriale in commento, con specifico riferimento alla determinazione delle ore impiegate dal professionista per la prestazione richiestagli per la cui valutazione si tiene conto anche del valore di mercato attribuito alle stesse, che sebbene esplicitamente riferito all’attività stragiudiziale enunciata all’art.

3, di fatto, sembra permeare implicitamente l’intero D.M. n.140/2012.

Il secondo comma della disposizione in commento recita: il compenso è liquidato per fasi, mentre il terzo comma enuncia che nella fase di studio della controversia sono compresi, a titolo di esempio: l'esame e lo studio degli atti a seguito della consultazione con il cliente, le ispezioni dei luoghi, la ricerca dei documenti e la conseguente relazione o parere, scritti oppure orali, al cliente, precedenti la costituzione in giudizio.

Il quarto comma dell’art. 11 del D.M. n.140/2012 prevede che nella fase introduttiva del procedimento sono compresi, a titolo di esempio, gli atti introduttivi del giudizio e di costituzione in giudizio, ed il relativo esame incluso quello degli allegati, quali ricorsi, controricorsi, citazioni, comparse, chiamate di terzo ed esame delle relative autorizzazioni giudiziali, l'esame di provvedimenti giudiziali di fissazione della prima udienza, memorie iniziali, interventi, istanze, impugnazioni, le relative notificazioni, l'esame delle corrispondenti relate, l'iscrizione a ruolo, il versamento del contributo unificato, le rinnovazioni o riassunzioni della domanda, le autentiche di firma o l'esame della procura notarile, la formazione del fascicolo e della posizione della pratica in studio, le ulteriori consultazioni con il cliente.

Il quinto comma della stessa disposizione regolamentare dispone che nella fase istruttoria sono compresi, a titolo di esempio: le richieste di prova, le memorie di precisazione o integrazione

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