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Discrimen » La nuova causa di non punibilità nei delitti contro la pubblica amministrazione: al nemico che fugge ponti d’oro

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Academic year: 2022

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L

A NUOVA CAUSA DI NON PUNIBILITÀ NEI

DELITTI CONTRO LA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE

:

AL NEMICO CHE FUGGE PONTI D

ORO

Tommaso Muiesan

1. Tra le molteplici novità introdotte dalla Legge 9 gennaio 2019 n. 3 ve n’è una che s’impone all’attenzione dell’interprete per le rilevanti conseguenze di cui è forie- ra: si tratta della causa di non punibilità c.d. per collaborazione attiva, di cui all’art.

323 ter c.p.

La richiamata disposizione consta di tre commi: nei primi due viene individua- to, per relationem, il perimetro di operatività della norma, nonché i suoi presupposti positivi di applicazione, mentre nel terzo comma sono indicati i limiti negativi di ef- ficacia della medesima.

Più precisamente, l’istituto de quo, è destinato a trovare attuazione in presenza di molteplici ipotesi delittuose, quali la corruzione, nella sua triplice fenomenologia (per l’esercizio della funzione, propria e in atti giudiziari, di cui, rispettivamente, agli artt. 318, 319 e 319 ter), l’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater) – sia nella loro versione “interna” sia in quella “internazionale” (art. 322 bis) – nonché nell’ipotesi di integrazione delle fattispecie poste a presidio del corretto andamento delle procedure ad evidenza pubblica (turbata libertà degli incanti, tur- bata libertà di scelta del contraente ed astensione dagli incanti: rispettivamente, artt.

353, 353 bis, 354). A ciò si aggiunga che l’espresso riferimento agli artt. 320 e 321 c.p.

amplia la portata operativa della causa di non punibilità anche al delitto di corruzio- ne di persona incaricata di pubblico servizio e ne consente la fruibilità all’extraneus.

A uno spettro operativo, in astratto, abbastanza dilatato fanno poi da contralta- re presupposti applicativi particolarmente stringenti. La non punibilità, infatti, è su- bordinata alla presenza di plurime e concorrenti condizioni: 1) l’aver volontariamen- te denunciato il fatto entro quattro mesi dalla sua commissione; 2) il non essere a co- noscenza d’indagini svolte nei propri confronti; 3) il collaborare fattivamente alle investigazioni, fornendo indicazioni idonee ad assicurare la prova del reato e l’individuazione dei correi; 4) il mettere a disposizione l’utilità percepita o, in subor-

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dine, l’equivalente pecuniario, ovvero il fornire elementi utili e concreti per indivi- duarne il beneficiario entro il medesimo termine di cui sopra.

Questi essendo i presupposti positivi di operatività dell’esimente, il legislatore ha ritenuto di doverne ulteriormente delimitare lo spettro di efficacia, precisando che la stessa non può essere invocata qualora si accerti la premeditazione del denun- ciante, ossia la preordinazione della delazione rispetto alla commissione del reato. La ratio è chiara: così facendo, si vuole prevenire eventuali abusi da parte di chi, avendo interesse a “eliminare” un rivale, non si faccia scrupolo a provocare la corruzione, confidando nella propria impunità.

Alla stessa logica sembra, d’altronde, ispirarsi anche la previsione volta a riaf- fermare la punibilità dell’agente infiltrato che abbia agito in violazione dell’art. 9 della Legge 16 marzo 2006, n. 146. Com’è noto, la richiamata disposizione, anch’essa interessata dal recente intervento legislativo che ne ha esteso la portata ai delitti contro la pubblica amministrazione, disciplina l’utilizzo di personale specializzato delle forze dell’ordine nell’ambito delle cosiddette “operazioni sotto copertura”, cioè a dire quelle condotte da ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che, sotto mentite spoglie, si occupano di acquisire elementi di prova ai fini dell’accertamento di reati già in essere. Orbene, è proprio il timore connesso al rischio di sconfinamenti delle predette nell’assai problematica attività di provocazione del crimine che pare giusti- ficare la previsione di cui al comma terzo, secondo periodo della disposizione in esame, assente nel testo originario e frutto di una modifica (rectius, aggiunta) appor- tata durante l’iter di approvazione dell’articolato.

2. Enucleata la struttura della causa di non punibilità, in via preliminare, è op- portuno riflettere sul rapporto tra la stessa e la circostanza attenuante a effetto spe- ciale di cui all’art. 323 bis, comma 2, c.p. Quest’ultima, introdotta, con la Legge 27 maggio 2015, n. 69, prevede una riduzione di pena da un terzo a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per conseguire, anche soltanto in via alternativa, uno dei seguenti risultati: a) evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulterio- ri; b) assicurare la prova dei reati e consentire l’individuazione degli altri responsabi- li; c) permettere il sequestro, finalizzato alla confisca, delle somme e delle altre utili- tà trasferite. Ebbene, da un confronto tra le due figure è di palmare evidenza come a entrambe sia sottesa l’eadem ratio d’incentivazione di apporti collaborativi utili al di- svelamento di fenomeni corruttivi e paracorruttivi, tramite il riconoscimento di un,

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sia pur diversamente calibrato, beneficio premiale. Tuttavia, rispetto alla seconda, la prima si colloca “su un fronte ulteriormente avanzato di allontanamento dal piano dell’offesa”1, connotandosi non solo per un più limitato perimetro operativo (in di- sparte il richiamo agli artt. 353, 353 bis e 354 c.p., la causa di non punibilità non può essere invocata in presenza del delitto di istigazione alla corruzione, né in caso di fat- tispecie pur sempre ricadenti nell’art. 322 bis c.p. ma diverse dalla corruzione e dall’induzione indebita), ma anche per presupposti applicativi più rigorosi sia sotto il profilo della volontarietà e tempestività della denuncia che della richiesta concor- renza di tutte le succitate condizioni. In questo senso, le richiamate previsioni nor- mative, non a caso inserite l’una di seguito all’altra, si configurano come una sorta di climax ascendente di premialità: qualora la collaborazione attiva post delictum non risponda ai rigorosi requisiti di cui all’art. 323 ter, se del caso, alla stessa potrà co- munque essere riconosciuta rilevanza ai sensi dell’art. 323 bis, comma 2.

3. Ciò detto, non resta che soffermarsi sulle questioni interpretative poste dagli elementi strutturali dell’istituto in esame. A tal proposito, conviene procedere parti- tamente, muovendo dai limiti positivi, di cui ai primi due commi, per poi trattare le problematiche sottese a quelli negativi, di cui al comma terzo.

3.1. Con specifico riferimento ai limiti positivi, l’attenzione deve concentrarsi su due profili: quello attinente ai requisiti della denuncia utile e quello relativo al quid della collaborazione. Anzitutto, dovendo la segnalazione intervenire prima che il reo abbia avuto contezza delle indagini a proprio carico, v’è da chiedersi se la co- noscenza idonea a far venir meno l’esimente in discorso sia soltanto la conoscenza formale del procedimento, cioè a dire quella originata dalla notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., dall’espletamento di un atto non coperto da segreto istruttorio o dalla comunicazione data a fronte dell’istanza formulata ai sensi dell’art. 335, comma 3 del codice di rito, ovvero se sia sufficiente anche un mero sentore circa la penden- za delle investigazioni. Ad avvio di chi scrive, la soluzione da prediligere è quella in- termedia. Se, da un lato, atteso lo scopo della norma, non avrebbe alcun senso valo- rizzare la collaborazione intervenuta soltanto dopo l’instaurazione del processo o, comunque, dopo l’acquisizione di elementi già di per sé idonei all’accertamento

1 Cfr.: Relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 1189 del 24 settembre 2018, p. 20.

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dell’illecito, dall’altro, alla luce della stessa littera legis (non a caso è utilizzato il lemma “avere notizia”), una percezione vaga e generica non parrebbe ostativa all’applicabilità dell’esimente, tanto più che oggetto di conoscenza non devono esse- re genericamente indagini in corso, ma, piuttosto, indagini a proprio carico, svolte in relazione allo specifico fatto per cui la non punibilità viene invocata. Indi, a mero ti- tolo esemplificativo, il privato che, avendo appreso dagli organi d’informazione che il proprio medico, aduso a rilasciare certificati falsi in cambio di donativi, è stato sot- toposto a misura cautelare, nel timore che gli inquirenti possano risalire anche a lui in qualità di corruttore, ben potrebbe decidere di giocare d’anticipo, autodenuncian- dosi nella speranza di andare esente da pena. Viceversa, irrilevante deve ritenersi l’autodenuncia dell’imprenditore influente che, attraverso la propria rete di amicizie, riceva una soffiata circa l’apertura di un fascicolo nei propri confronti.

Gli esempi fatti ci portano, peraltro, a svolgere un’ulteriore considerazione, re- lativa alla rilevanza o irrilevanza delle ragioni che hanno indotto il reo a confessare.

A tal proposito, corre l’obbligo di segnalare che la disposizione in commento richia- ma il concetto di volontarietà, da intendersi come possibilità di scelta ragionevole.

Talché, la denuncia utile ai sensi dell’art. 323 ter c.p. è quella pur sempre maturata nella psiche del reo e non imposta da cause esogene. Non si richiede, tuttavia, un sincero pentimento, potendo il segnalante essersi deciso a confessare sulla base di un freddo e razionale calcolo utilitaristico. Del resto, quando la legge esige la spontanei- tà, espressamente lo dice (art. 62, n. 6 c.p.).

Un’ultima questione attiene, infine, al profilo soggettivo della denuncia. In for- za del richiamo all’art. 321 c.p., non v’è dubbio che possa giovarsi dell’esimente non solo il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, ma anche il privato:

quindi entrambi i concorrenti necessari. Lo stesso può dirsi anche per il concorrente eventuale? La risposta dovrebbe essere positiva. Non ostano a tale estensibilità né ra- gioni di carattere teorico, attesa la natura di mero moltiplicatore di fattispecie rico- nosciuta all’art. 110 c.p., né di carattere pratico, essendo principio universale di ra- gionevolezza quello compendiato nel motto “al nemico che fugge (chiunque esso sia) ponti d’oro”. A conferma di detta tesi si noti che l’art. 323 ter, al primo comma, nell’individuare i requisiti di operatività dell’esimente, utilizza il plurale (“altri re- sponsabili”), con ciò ammettendo la possibilità che essi siano in numero maggiore ri- spetto a quello minimo richiesto dalle singole fattispecie plurisoggettive necessarie richiamate nella prima parte della disposizione in esame, la quale, non a caso, non

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opera alcun espresso distinguo in relazione alla posizione dei compartecipi nell’ambito del perpetrato delitto.

Passando alla disamina del presupposto della collaborazione fattiva, il profilo di maggiore interesse che si pone all’attenzione dell’interprete attiene all’ubi consistam dell’apporto necessario a conseguire l’esenzione da pena. A questo riguardo, è da no- tare come, a mente del dettato normativo, le indicazioni fornite dal reo devono pre- sentare i predicati dell’utilità e della concretezza. Ebbene, i detti concetti, lungi dal conservare una propria specifica autonomia, sembrano piuttosto porsi in guisa di en- diadi, nel senso che le informazioni rese saranno tanto più utili, cioè funzionali ad assicurare la prova del reato e a individuare tutti i responsabili, quanto più siano concrete, cioè puntuali e dettagliate. Talché, l’attività di collaborazione non potrà limitarsi a una semplice narrazione delle modalità di commissione del fatto, doven- dosi invece concretare in una più specifica individuazione degli elementi probatori idonei a suffragare la veridicità dell’apporto collaborativo, e, dunque, a dimostrare l’integrazione del reato (ad esempio, tramite indicazione del luogo esatto ove è avve- nuta la consegna della mazzetta, comprovata dalle riprese del sistema di videosorve- glianza di un vicino esercizio commerciale). Del resto, sussistendo tra il denunciante e gli altri responsabili un’ipotesi di connessione forte, l’utilizzabilità delle dichiara- zioni del primo sarebbe, comunque, subordinata, ai sensi del combinato disposto de- gli artt. 12, comma 1, lett. a e 192, comma 3 c.p.p., alla presenza di riscontri esterni, che, come chiarito dalla Suprema Corte nella sua composizione più autorevole, de- vono avere carattere individualizzante, risultando idonei a ricollegare in modo diret- to il chiamato in correità al fatto cui deve rispondere2.

3.2. Venendo, infine, ai limiti negativi di efficacia della causa di non punibilità, entrambi presentano spunti problematici.

Per quanto attiene al primo, assenza di premeditazione in capo al segnalante, non può non rilevarsi l’intrinseca difficoltà di accertamento di uno stato psicologico, difficoltà che finisce per risolversi in una vera e propria probatio diabolica, suscetti- bile di degradare la previsione in commento a mera lettera morta. Infatti, ad ecce- zione di sporadiche ipotesi di preordinazione manifesta (o, comunque, esteriormente manifestata), il delinquente razionale che intenda realizzare il fatto per finalità squi- sitamente emulative eviterà di condividere con altri il proprio intento criminoso.

2 Cfr.: Cass. pen, S.U., 31 ottobre 2003, n. 45276 (Andreotti), in Cass. pen., 2004, p. 811.

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Pertanto, il rischio che il soggetto decida di provocare l’illecito per poi denunciare il fatto con scopo ritorsivo nei confronti del compartecipe sussiste e l’ordinamento non pare presentare gli anticorpi adeguati a sterilizzarlo.

Per quanto concerne il secondo, inapplicabilità dell’istituto all’agente provoca- tore, la restrizione operata dal legislatore sarebbe quanto mai opportuna se non fosse frustrata per effetto delle modifiche apportate, proprio dalla recente novella, al ri- chiamato art. 9 della Legge 16 marzo 2006 n. 146. Invero, pur non essendo questa la sede per una compiuta analisi delle novità che hanno interessato la disciplina delle operazioni sotto copertura, ai nostri fini sarà sufficiente rammentare che, ad oggi, per espressa disposizione di legge, non sono punibili gli agenti infiltrati che, a fronte di una richiesta proveniente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubbli- co servizio, promettono o danno denaro o altra utilità. Orbene, è evidente che, nel trasporre sic et simpliciter a fattispecie bilaterali una tecnica investigativa in origine pensata e sperimentata in contesti criminali imperniati su una forte connotazione organizzativa, il timore che risultino surrettiziamente ammesse ipotesi di incitazione al crimine appare non così infondato. Alla luce di ciò, dunque, non resta che auspi- care, da un lato, che gli inquirenti utilizzino la detta metodica investigativa con par- simonia e, dall’altro, che i giudici, facendo tesoro degli insegnamenti recati dalla giu- risprudenza di Strasburgo3, lungi dall’indulgere in vacue formulette, si spingano a scandagliare funditus la rilevanza causale dell’attività posta in essere dalla polizia giudiziaria, escludendone la punibilità soltanto nel caso in cui questa si sia dimostra- ta passiva rispetto ad un reato già in essere, non sostanziandosi in alcun contributo, né materiale né morale, alla realizzazione del medesimo. In caso contrario, infatti, non potrebbe non ravvisarsi un contrasto tra la disciplina interna e il principio del fair trial di cui all’art. 6 della Convenzione.

3 Cfr. ex plurimis: Corte Edu, Teixeira de Castro vs. Portogallo, 9 giugno 1998; Corte Edu, Ramanau- skas vs. Lituania, 5 febbraio 2008.

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