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Pellicole artigiane: i film sperimentali di Kelly Egan, Rosalind Fowler ed Esther Urlus

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2.1. Pellicole artigiane: i film sperimentali di Kelly Egan, Rosalind Fowler ed

Esther Urlus

di Rossella Catanese, Martina Maria Mele

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[Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

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Experimental cinema has always been an art form in which women have excelled Robin Blaetz, Women’s Experimental Cinema  

La prevalenza del cinema narrativo sulla produzione sperimentale riguarda sia l’entità delle produzioni che l’elaborazione critica e storiografica; il cinema sperimentale è un fenomeno sotterraneo ma trasversale, che interseca diversi linguaggi e media visuali. Questa dimensione marginale e controculturale ne fa un settore in cui è possibile riscontrare più frequentemente una presenza femminile: alcuni dei più celebri esempi di film sperimentali sono il frutto della ricerca di artiste e filmmaker che operavano in circuiti indipendenti. Sono gli «spazi di una nuova e dirompente soggettività femminile» (Simi 2016, p. 298) a costituire l’orizzonte di nuove formule compositive fuori norma, all’intreccio fra identità collettiva e personale. Questo articolo tenta di raccontare l’opera di tre artiste contemporanee offrendo una lettura contestualizzata del loro lavoro: Kelly Egan, Rosalind Fowler, Esther Urlus.

Innanzitutto, una realtà estremamente interessante nel panorama audiovisivo contemporaneo è sicuramente quella dei laboratori d’artista entro cui queste filmmaker operano, poiché rappresenta un’occasione per sperimentare con il corpo del medium e riflettere sulla sua materialità. Difatti, questi laboratori rappresentano il luogo della riattualizzazione performativa della pellicola, secondo un approccio relativo all’archeologia dei media come pratica sperimentale. Sebbene i contemporanei spazi laboratoriali nascano con intenti ed ideali differenti, essi sono accomunati, da una parte, dalla volontà di guardare al futuro della vita materiale del film e, dall’altra, da quella di conservarne il passato e prolungarne la vita. Ed è proprio qui che attecchisce l’archeologia dei media:

 

i laboratori d’artista sono spazi condivisi, spesso reti internazionali, cooperative, collettivi; oltre a svolgere lavori tecnici relativi, ad esempio, alla fotochimica, i laboratori possono talvolta funzionare come siti di archeologia dei media sperimentale, praticando tecniche che sono state utilizzate all’epoca del cinema delle origini e ora ricontestualizzate come parte di un’eredità vivente del film e dei media audiovisivi (trad., Catanese e Parikka 2018).

 

Contro l’obsolescenza dei media che la rivoluzione digitale ha inevitabilmente contratto, questi laboratori artistici recuperano pratiche cinematografiche ormai in disuso come la stampa e lo sviluppo del film, il montaggio tramite giunte, la pittura effettuata direttamente sulla pellicola: esse conquistano una seconda vita grazie al riciclaggio di attrezzature ormai desuete, ad una economia del recupero e del riuso, per dar risonanza ad una cultura cinematografica del ‘fai-da-te’. O per dirla con le parole della studiosa Kim Knowles, ad una vera e propria ‘controcultura cinematografica’, nel rifiuto della spinta del progresso capitalista e la sua ossessione per la novità (Knowles 2016, p. 147). Focalizzarsi sull’aspetto materiale del supporto filmico non rappresenta un mero feticismo; semmai configura «a variety of contemporary experimental film-making practices that celebrate, rather than lament, film as a living (and dying) body» (Beugnet & Knowles 2013, p. 56).

La regista e studiosa Vicky Smith descrive il ritorno alla pratica contemporanea della celluloide in termini di «model of self-skilling» (Smith 2012, p. 44) di cui è paradigmatico il cinema artigiano di tutte e tre le registe prese in esame.

La filmmaker canadese Kelly Egan in c: won eyed jail (2005) trasfigura la écriture feminine nell’associazione con la tradizione del lavoro sartoriale:

 

c: won eyed jail  era al contempo un film e una trapunta; può essere esibito come un oggetto scultoreo tridimensionale e proiettato come un film tradizionale. Ho costruito la struttura della trapunta prendendo strisce di pellicola 35mm (sia negativa che positiva) cucendole insieme attraverso le perforazioni con del filo da pesca. (...) Quando ho realizzato questo film mi trovavo in uno stato di depressione clinica e volevo “cancellare” me stessa dal film, pertanto ho usato del footage trovato o donato da altri. Ero sempre più affascinata dalle pratiche fotografiche delle origini e ho iniziato ad adattare e testare le ricette originali di Henry Fox Talbot e John Herschel per l’emulsione della pellicola cinematografica intorno al 2012-2013, ma prima che potessi terminare un film ho notato che altri artisti stavano realizzando film in cianotipia. Imperterrita, ho perseverato e completato un altro film trapuntato, Athyrium Filix-Femina (For Anna Atkins) nel 2016» (trad. Kelly Egan, intervistata da Rossella Catanese il 10/07/2018). [fig. 1]

 

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imprigionato, metafora dell’atto del cucire, ma rimanda agli esperimenti di Atkins che nel 1843 pubblicò il volume Photographs of British Algae: Cyanotype Impressions, un testo sulla classificazione delle specie di alghe della regione in cui erano incluse stampe dirette delle piante. [fig. 2]

L’inglese Rosalind Fowler, influenzata da riflessioni su femminismo, folklore ed ecologia, realizza opere che rimandano ad un’esperienza tattile: processare manualmente la pellicola attraverso formule ecologiche, per poi colorarla con tinte vegetali. Nella sua ricerca artistica, che interseca in maniera originale spunti fenomenologici con una vocazione per l’etnologia, ha spesso insistito su contesti sociali, partecipativi e collettivi, finalizzando la propria creatività all’interazione fra esseri umani e vita non umana. Fowler esplora diversi modi di relazione tra corpi umani, in particolare femminili, e piante, ispirata da tradizioni occidentali, sciamaniche e indigene. La materialità strutturata del film porta le tracce di questi processi fra elementi e intervento umano. Folk in Her Machine (2013) è una meditazione al femminile sul significato della globalizzazione e insieme sulla natura della regia cinematografica. [fig. 3] Il film è narrato dalla prospettiva di una voce femminile che commenta l’archivio di immagini in movimento raccolte negli anni durante le ripetute visite a Haxey Hood nel Lincolnshire settentrionale e il primo maggio a Padstow. La sua prospettiva si interseca con quella delle persone che incontra nel suo viaggio; una riflessione sull’identità dei luoghi in un mondo globale e sulla configurazione della soggettività femminile attraverso una polifonia di elementi. Tamesa (2014), dedicato al Tamigi, include una porzione di pellicola sviluppata nell’acqua del fiume, con sedimento e detriti inglobati nell’emulsione, ma anche con l’idea di trasportare l’antica storia delle civiltà che hanno vissuto intorno alle acque. [fig. 4]

La regista olandese Esther Urlus è fondatrice dello spazio laboratoriale del WORM.Filmwerkplaat. Il progetto artistico di Urlus, di cui ricordiamo lo straordinario ricettario Re:Inventing the Pioneers: Film Experiments on Handmade Silver Gelatin Emulsion and Color Methods, è quello di riprodurre artigianalmente i colori del film secondo l’eredità dei pionieri della storia del cinema: ad esempio, nel suo film verticale Chrome (2013) utilizza la tecnica dell’autocromia, inventata dai fratelli Lumière nel 1903 per la colorazione delle pellicole in bianco e nero. Esemplificativo è, inoltre, Konrad and Kurfust (2013), in cui le immagini dell’ufficiale tedesco Konrad Freiherr von Wangenheim a cavallo, filmate anche da Leni Riefenstahl, divengono quasi astratte ed irriconoscibili. [fig. 5] Il lavoro sull’emulsione fotochimica risulta talmente invasivo sulla riconoscibilità dell’immagine da operare una rielaborazione al limite dell’astratto, più che una semplice operazione di appropriazione culturale.

Il medium in questo caso è proprio la materialità dell’emulsione, fatta in casa e composta di gelatina, bromuro di potassio e nitrato d’argento e in cui la memoria artistica dei Lumière riecheggia, ancora una volta, nelle colorazioni a mano. Nel suo Audition (2011), Urlus utilizza found footage estratto da provini per un film erotico; l’esibizione dei corpi femminili nell’audizione, mentre compiono una serie di gesti uguali, stereotipati e cadenzati, è oggetto di riflessione; la reificazione dei corpi, del desiderio erotico, del canone della femminilità è qui veicolata e mediata da un’elaborazione formale effettuata in sede di stampa, manipolando gli strati cromatici e i filtri di colore. È come trasformare questi corpi (e lo stereotipo che la gestualità del provino costituisce) in una forma astratta, fatta di una materia differente e composita, sempre meno vicina al suo referente indessicale. [fig. 6]

 

L’enfasi contemporanea sulla materialità del film non nasce con l’intento reazionario di rivendicare l’importanza dell’analogico nell’era del digitale attraverso discorsi relativi alla specificità del medium, ma è una strategia di sopravvivenza, un modo di adattare l’instabile posizione culturale della celluloide stabilendo nuove pratiche ed approcci che trasformano la disillusione in arricchimento (Knowles 2014, p. 22). Difatti, i laboratori gestiti da artisti e quelli cinematografici conservano e reinventano l'eredità di pratiche fotochimiche, tanto che le conoscenze sulla chimica dei film, le emulsioni e le soluzioni sviluppate dagli artisti stessi possono essere lette come parte di una negoziazione della materialità e della storia del cinema: queste vengono poste costantemente in discussione, ri-messe in scena e riarticolate in nuovi contesti infrastrutturali. Ad esempio, filmmaker ed artisti come Hollis Frampton, Paul Sharits, Carolee Schneemann, Peter Kubelka, Michael Snow ed Ernie Gehr, sostenevano che il processo fotochimico fosse un processo creativo attraverso il quale essi ritrovavano l’intimità con la materialità del medium. Intimità che, come Urlus insegna, è conquistata proprio grazie alla preparazione casalinga e personale di sostanze emulsionanti utilizzando ad esempio il caffè, la birra, il vino o la menta. Intimità evocata dalla stessa struttura chimica del film che incorpora diversi componenti e diverse istanze: una sperimentazione radicale all’insegna della materialità, che racconta una ricerca personale e soggettiva.

   

Bibliografia

R. Blaetz, Women’s Experimental Cinema: Critical Framework, Durham e Londra, Duke University Press, 2007.

M. Beugnet e K. Knowles, ‘The aesthetics and politics of obsolescence. Hand-made film in the era of the digital’, The Moving Image Review & Art Journal, Vol. 2, n. 1, 2013, pp. 54-65.

R. Catanese, J. Parikka, ‘Handmade films and artist-run labs: The chemical sites of film’s counterculture’, NECSUS. European Journal of Media Studies, Vol. 7, n. 2, 2018, pp. 43-63.

K. Knowles, ‘Slow, Methodical, and Mulled Over: Analog Film Practice in the Age of the Digital’, Cinema Journal, Vol. 55, n. 2, 2016, pp. 146-151.

K. Knowles, ‘Self-Skilling and Home Brewing: Some Reflections on Photochemical Film Culture’, Millennium Film Journal, Vol. 60, 2014, pp. 20-27.

S. MacKenzie, J. Marchessault (eds), Process cinema: handmade film in the digital age, Montreal-Kingston-Londra-Chicago, McGill-Queen’s University Press, 2019.

J. Petrolle, V. W. Wexman, Women and Experimental Filmmaking, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 2005. V. Pravadelli, Le donne del cinema: Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014.

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http://www.arabeschi.it/62-tessere-movimento-donne-in-cerca-di-sc-nel-cinema-sperimentale-italiano-tra-anni-sessanta-e-settanta-/ > [accessed 09.10.2020]. V. Smith, ‘Full Body Film’, Sequence, Vol. 2, 2012, pp. 44-47.

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