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“Alma de mi vida”: Renato Appi cantore dell’emigrazione friulana

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Academic year: 2021

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“Alma de mi vida”: Renato Appi cantore

“Alma de mi vida”: Renato Appi cantore

dell’emigrazione friulana

dell’emigrazione friulana

Parole chiave:

Parole chiave: Renato Appi, Letteratura friulana, Teatro, Emigrazione, America

Keywords:

Keywords: Renato Appi, Friulian literature, Theatre, Emigration, America

Contenuto in:

Contenuto in: Dal Friuli alle Americhe. Studi di amici e allievi udinesi per Silvana Serafin

Curatore:

Curatore: Alessandra Ferraro

Editore: Editore: Forum

Luogo di pubblicazione: Luogo di pubblicazione: Udine

Anno di pubblicazione: Anno di pubblicazione: 2015

Collana:

Collana: Tracce. Itinerari di ricerca/Area umanistica e della formazione

ISBN:

ISBN: 978-88-8420-914-6

ISBN:

ISBN: 978-88-3283-053-8 (versione digitale)

Pagine:

Pagine: 111-121

DOI:

DOI: 10.4424/978-88-8420-914-6-13

Per citare:

Per citare: Piera Rizzolatti, «“Alma de mi vida”: Renato Appi cantore dell’emigrazione friulana», in Alessandra Ferraro (a cura di), Dal Friuli alle Americhe. Studi di amici e allievi udinesi per Silvana Serafin, Udine, Forum, 2015, pp. 111-121

Url:

Url: http://forumeditrice.it/percorsi/lingua-e-letteratura/tracce/dal-friuli-alle-americhe/201calma-de-mi-vida201d-renato-appi-cantore

FARE srl con socio unico Università di Udine Forum Editrice Universitaria Udinese via Larga, 38 - 33100 Udine

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Renato Appi, vicepresidente per lunghi anni della Società Filologica Friulana e dell’Ente Friuli nel Mondo, ha operato all’interno della cultura friulana con un fervore d’interessi e di iniziative che derivavano dal suo carattere forte, sangui-gno e battagliero, forgiato, nella primissima gioventù, anche dalla sofferenza e dalle privazioni subite durante la prigionia nei campi di lavoro e di concentra-mento in Germania. Appi rivive nella storia di ogni singolo emigrante il dolore lacerante per il distacco dalla casa e dal paese: dolore che aveva vissuto appena ventenne con la deportazione, dolore che riaffiora rivissuto e riletto da diverse angolazioni, nella sua produzione letteraria, in poesia come in prosa, nei rac-conti, definiti ‘exempla esistenziali’ da Andreina Ciceri, che gli fu amica, ma sempre critica imparziale della sua opera.

La tematica, attuale all’indomani della guerra e della Liberazione, dell’emi-grazione e della non procrastinabile emancipazione da una realtà contadina ferma al Medioevo, lanciata dal Pasolini di “Viers Pordenon e il mont”1, verrà a riproporsi nel teatro e nei racconti di Renato Appi che assiste dalla sua Cor-denons all’esodo dei sottani e dei contadini più poveri verso le Americhe, alla ricerca di condizioni di vita più dignitose conquistate col sangue e con il sudo-re, ma senza alcuna capitolazione sul fronte della dignità: «da crevàssi, sigùr, ma no “dago”! Murì pituòst», così si esprime il protagonista di De ca e de là2, dramma dove si tocca il vertice del teatro in friulano di Renato Appi.

È un’epopea, quella dell’emigrazione, che fa parte integrante dell’identità friulana. Non v’è famiglia, dalla Carnia alla Bassa, che ne sia stata esentata, a partire dal secolo XVI, quando già si dirigevano oltralpe i commerci dei

cramârs carnici.

1 Pier Paolo Pasolini, “Viers Pordenon e il mont”, in Id., Giuseppe Zigaina, Dov’è la

mia patria?, Casarsa, Edizioni dell’Academiuta, 1949.

2 Renato Appi, De ca e de là. Teatro in friulano, Piera Rizzolatti (ed.), Pordenone,

Concordia Sette, 1995, p. 248.

dell

emIgrazIone frIulana

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L’emigrazione non è stata un fenomeno transitorio, sospinto dalla devasta-zione della guerra o dalle soverchierie dei latifondisti nei confronti de ‘sottani’, trattati da servi della gleba ancora alla metà del Novecento: l’emigrazione – Appi ne è conscio – è quasi una componente genetica del popolo friulano, che si propone e ripropone di generazione in generazione: un flagellum Dei, sia che si tratti di un fenomeno stagionale, contenuto entro i confini dei più prossimi stati europei, dove lapicidi, mosaicisti e terrazzieri contribuirono ad abbellire chiese e palazzi, o di una vera e propria diaspora biblica, che attraversa l’Euro-pa da l’Euro-parte a l’Euro-parte, disegnandone i collegamenti ferroviari prima tra tutte la mitica Transiberiana, circumnaviga l’Africa, solca i mari, e più recentemente approda in Australia.

A fine Ottocento masse di contadini vengono sospinte oltreoceano verso le sconosciute foreste del Brasile, da abbattere e mettere a coltura, o le sconfinate

pampas dell’Argentina. Sorgono nuove città e si rendono necessari

collegamen-ti ferroviari che, sfidando l’asperità delle Ande, colleghino i nuovi porcollegamen-ti, pronu-bi allo sviluppo del continente sudamericano. Dal Friuli molti partono, in cerca di lavoro e di fortuna: lavoro durissimo a livelli altimetrici molto elevati sulle varie linee ferroviarie (ferrocarril) della Transandina, che avrebbero collegato i nuovi porti con le zone minerarie delle Ande boliviane. È storia conosciuta…

Renato Appi, forte del materiale documentario conservato dall’Ente Friuli nel Mondo, si propone come il cantastorie di quella epopea, in cui ebbero tanta parte la tenacia e il coraggio dei Friulani. Nasce in tal modo nel 1984, con il patrocinio della Provincia di Udine, la raccolta, illustrata con potenza di im-magini da Anzil, Come dal Purgatoriu3, dove esplode il vitalismo poetico di Appi, il suo impeto popolaresco e gitano, ‘lorchiano’, come definito da Padre David Maria Turoldo a introduzione della raccolta poetica4. Questa da subito si mostra fitta di presenze umane che raccontano, in un friulano impastato con le parole straniere che avevano imparato a balbettare, la propria storia, una storia che non contempla solo dolore, fatica e sofferenza, ma anche una straor-dinaria voglia di vivere, di descrivere il colori della terra e del cielo sotto cui si erano trovati a emigrare.

I racconti degli emigranti, individuati da Appi con verosimili nomi e cogno-mi friulani, narrano la loro esperienza di emozioni, di sofferenza e di gioia, di miseria e di povertà, di orgoglio per il proprio lavoro e di nostalgia per il Friu-li lontano: si tratta a volte di un dialogo schizofrenico con sé stessi, ma nel contempo trapela il desiderio di fare partecipi, quasi in presa diretta, i destina-tari del racconto.

3 Renato Appi, David Maria Turoldo, Luciano Morandini, Andreina Ciceri, Come dal

purgatoriu, Udine, Benvenuto editore, 1984.

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Il componimento con cui si apre la raccolta è, prevedibilmente, dedicato alla madre e riassume lo strazio di un passato di stenti e di fatiche, di un desti-no malvagio, quasi un fuoco inesausto che spinge ad emigrare, a cercare fuori dalla patria una condizione che non sempre si rivela quella auspicata. Non tutti riescono in questo tentativo di emancipazione e forte è la vergogna di chi non è riuscito a far fortuna, oppure ha dissipato il misero guadagno: un Baraba, secondo il termine friulano.

La raccolta prosegue seguendo i percorsi dell’emigrazione, la speranza e la delusione che si alternano, i ricordi dell’infanzia riassunti nella microtopono-mastica di un paese, Cordenons, dove regnava la fame e le fiabe raccontate nelle file invernali sottintendevano un desiderio di evasione verso altri spazi, altri mondi. Dopo il grande salto al di là dell’oceano, l’incontro con un’unica e scontata realtà: quella del lavoro, degli ordini impartiti in lingue sconosciute e l’obbedienza, sempre l’obbedienza, come quel tas e sgarniéla (taci e continua a sgranare pannocchie) che al paese aveva scandito nella stalla il lavoro serale.

Gli emigranti al ritorno si raccontano: il dialetto di Cordenons si contamina con le lingue imparate nei paesi d’emigrazione: lingue di apprendimento, lin-gue di lavoro. Le storie di vita si susseguono incalzanti.

A redròus

Chi sa s’al è un redròus de la medàia

o un spegli

ch’al rifleti ’n’altra vita?… Se invessi de partî cul «Biancamano» me fuos fermàt a Genova o a Marsiglia

o a tuoimi al lussu de tornâ a fâ fraia cui bès del ciamp ventut a Toni «Stiria»… Ma suoi sbarciàt tal North a Newport New (Virginia)

quant che gno pari in Paranà

(Entre Rios) al veva scrit:

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Da in ch’uolta il Chaco Austral e Resistencia (ma ancia Santa Fé e Reconquista) a’ spètin che da Newport New (Virginia) jo me decidi a dî:

«Hasta la vista!…» (p. 38)5

“A redròus” (A rovescio) introduce il tema americo-latino, la storia di un viaggio a rovescio, di un incontro mancato: un padre aspetta l’arrivo del figlio in Paranà. Gli aveva scritto «Te speti in “Argentina!…», ma il figlio sbarca in Virginia e le città argentine lo aspetteranno inutilmente. Un racconto sbrigati-vo, quasi un semplice elenco di toponimi, ma nel contempo microstoria di una vita.

Alma de mi vida

Quilmes Lujàn Bernal Avellaneda al gran mar de la Pampa – onda desperada – quant che la Capital no dava a todos ’na maniera real de pensâ pal doman. Ca a’ se vif de pampa e de nostalgia…

Gaucho da sinquant’ains – come dî: patòc! – Ma a’ se respira ’n’aria de primavera:

poncho ciaval sombrero

5 “A rovescio”: Chissà se vi è un rovescio / della medaglia / o uno specchio / che

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e ’na ciasa toc!… Uardi al gran sièl rovàn ch’al scurìs a sera sint al profùn sutìl ch’al me dis de te… Pensi al gno mondu, sì, a chê bandiera!… Pensi al paèis al borc ch’ai lassàt chel dì… Pensi a l’inmensitàt ch’a se sfuma apena; sint una òus lontàn ch’a se piard cun me… Sai de ’na realtàt ch’a deventa estrema quant ch’a me dis:

«Mi alma…» E iò sai parsé!… (p. 40)6

Da Cordenons, dal primo dopoguerra fino a metà degli anni Cinquanta, il flusso migratorio privilegia di gran lunga l’Argentina rispetto agli altri stati dell’America Settentrionale e Meridionale. La comunità degli emigranti corde-nonesi si distribuisce nei centri più o meno importanti che circondano la capi-tale, dedicandosi ad attività apprese in Italia e conseguendo, con l’applicazione e la dedizione dei friulani, buone posizioni economiche. Non tutti però riusci-vano a acquisire una buona posizione sociale. È il caso del gaucho, che raccon-ta la sua avventura mescolando uno spagnolo di apprendimento al suo martel-lante e corposo cordenonese, che ripensa con qualche rimpianto al paese, al borgo, al povero piccolo mondo lasciato alle spalle. Ma la Pampa gli offre un’intensità di sensuali colori e profumi che illanguidiscono i ricordi, mentre viva e prepotente è la presenza di una donna da stringere e amare sulle note di un popolare tango argentino.

6 “Anima della mia vita”: Quilmes, Lujàn, / Bernal, Avellaneda, / il gran mare della

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Nuia

Nuia

no ài partàt nuia de me cun me

da la Transandina: no i colòurs inmagàs de La Cumbre e Valparaiso

né al profun dei flòurs né la òus velada de la ploia a La Siquina ch’a desvuolta in dols ugni sun tormentòus tal scunî de la marina; no l’aria fina fina né i riflès del sòul che godevi la matina a la playa de Azùl opura a Chincha Alta, no al respiru grandiòus ademàs seneòus de la nuot peruviana a Chorillos e Callao tal spetâ la mañana… Hombre cocido ta la tiara dei Chamas oltri al Gran Pajonal de ciàf del Ucayali: barro

zancudos Curupuri e papayas

e un machete ch’al scana ancia un mat come me tal spetâ la mañana ca come ades… E la nuot peruviana cul tam-tam e mili òus da gran timp ’a me imtrama al siò vivi misteriòus.

Ta la tiara dei Chamas!… (p. 42)7

7 “Nulla”: Nulla; / non ho portato nulla di me, / con me, / dalla Transandina: / non i

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Un diverso scenario sudamericano è quello che Appi ci presenta in “Nuia”, dove l’emigrante non racconta di sé ma degli dei paesaggi, degli spettacolari colori, dei profumi respirati sulle Ande peruviane.

Il protagonista del racconto resta quasi inmagàt, ammaliato da tanta inten-sità di sensazioni che gli suscitano i riflessi del sole al mattino e il respiro gran-dioso della notte peruviana: una natura incantata che non si lascia dimenticare, ma neppure raccontare con le comuni parole del linguaggio di un hombre

coci-do, nella misteriosa terra dei Chamas.

La varietà di Cordenons di cui si serve Renato Appi appare schiacciata sot-to il peso dei ricordi, delle sensazioni provate: troppe, troppo forti e violente o, per contro, troppo sottili e indefinibili per essere raccontate a chi non le ha sperimentate con i propri sensi. Tra tutti i componimenti che Appi dedica al mondo latino-americano, è in “Nuia” che prevale il senso del distacco dal rea-le, anche se a richiamarlo basterebbe la densità e la concentrazione litanica dei toponimi entro cui l’uomo sfiancato, dal lavoro di machete, per farsi strada, si fa più piccolo e smarrito nella magnetica quarta dimensione della giungla. I sensi sono pronti, quasi all’erta, per catturare il profumo dei fiori, la voce vela-ta della pioggia, il respiro della notte peruviana e le mille voci della foresvela-ta, in una fitta nominazione. Non è sufficiente a pareggiare il conto, nel denso elenco di toponimi e nel compiacimento per le esotiche voci di accatto, il ruolo della parlata cordenonese, pur impiegata da Appi con la consueta maestria, che pun-ta sulla aggettivazione come «colours inmagàs», «ôus velada», «sun tormen-tous», «respiru grandious […] seneous») e sull’intensità delle voci verbali («scunì de la marina»; «un machete ch’al scana», «la nuot peruviana […] a me intrama»).

Le terre, i fiumi, le montagne attraversate dalla Transandina sono davvero altro dal mondo reale e il ricordo, per renderne l’esperienza, non può che reg-gersi sull’elencazione litanica dei toponimi, impressi a fuoco nella mente di chi ha vissuto quella indelebile esperienza, troppo forte anche per essere ricordata. Di lì il titolo “Nuia”.

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El dorado

Dopu al quarantaseis

pì blancia del Blanc-du-Blanc – champagne de Fransa – la «Franca C» da Genova ’a feva linea pal Venezuela: Caracas, La Guaira, Coro, Maracaibo.

San Felix e Ciudad Bolivar ta l’Orinoco

a’ clamavin da tant dai llanos e i tepùis de asbest e sinàbri. Tra culìnis de ran forestis de cěiba e saquisaqui: minieris montagnis de fiàr come madons a «faccia a vista». E sarpìns e carìbe e indios… E petroliu pardùt: tai lacs e i agàrs come l’oru a El dorado. L’oru

che ognun al serciava – e al sercia – e ch’al è ’lì tal Caronì a curiei: basta ciatâlu! E al rilùs tai uoi e tal còur come ’na fievra ingrata ribatuda dai stèns e da la fan de sècui. Mal

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e in dut al Venezuela! El dorado! (p. 60)8

Su una procedura analoga si sostiene la quarta ed ultima lirica-racconto dell’epopea dell’emigrazione friulana nell’America del Sud: “El dorado”, quan-do il flusso migratorio nel primo quan-dopoguerra si indirizza verso i pozzi petroli-feri del Venezuela. La corsa all’oro nero depaupera ulteriormente i piccoli pa-esi della pianura friulana, nel momento in cui il Friuli è ancora rigidamente diviso in sotans e parons e il frazionamento delle piccole proprietà contadine, non più sufficiente a garantire una vita dignitosa alle famiglie, costringe i più giovani ad emigrare. Con gli Stati Uniti d’America e il Canada, anche il Vene-zuela, misterioso e lontano, sarà attraente meta per alcuni.

Già nel titolo “El dorado” si rivela l’ironia di Renato Appi, che prosegue nella descrizione del bastimento (il ‘Franca C’) su cui si imbarcano a Genova quei disperati in cerca di fortuna, verso Caracas e il bacino dell’Orinoco, dove li attendevano gli altopiani e i tavolieri alluvionali ricchi di amianto (asbesto) e cinabro, le colline di rame e le montagne di ferro, ma soprattutto dove scorreva a fiumi il petrolio nella foresta tropicale, non importa se insidiosa di serpenti o abitata da tribù indie sconosciute. Partivano così, quasi febbricitanti di speran-za, per sfuggire ad una secolare indigenza che li spingeva in terre sconosciute.

Speransa mata

A nol è sièl pì grant del sièl di ciàsa nuòstra! E de chel sièl nostràn partàn l’ària inciantàda lisièra e sutìla

del Bar a Mur del Chialareit de Prapanèra

8 “El dorado”: Dopo il quarantasei / più bianca del Blanc-du-Blanc / – champagne

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e l’onda del Midùna al sun de ’na ciampàna dòlsa par li’ vèis de li’ domèniis tal borc, quant che zoeàni a «scatolèta» o ai botòns

sot al portòn de «Missa» o su in Tavièla

cui uòi descocolàs davànt un nit de checa o de crovàt

o al ciànt de ’n’òdula ciòca de sièl

ma no anciamò ingrausida… La Serra dos Cristais e l’Amazònas

a’ jàn ’n’inmensitàt d’arcobalenu e vert e zal e azùr

e ca a Londrina la tiàra ’a è rossa fuàrta

tiàra buna.

No òdulis ch’a ciàntin né ciampànis ch’a sùnin: yerva mate e cafè e aga e sòul… E un sòfegu viliàco ch’al te ciàpa de nuòt e al te s’ciafuòia tal scûr

de ’na sperànsa mata ch’a cor delunc al truòi de ’n’altra vita.

E vert e zal e azur… A nol è sièl pì grant

del sièl de ciàsa nuòstra! (p. 62)9

9 “Speranza pazza”: Non vi è cielo più grande / del cielo di casa nostra! / E di quel

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Speranza folle, perché non vi è cielo più grande di quello di casa. Ma la speranza di un avvenire migliore è dura a morire. L’emigrante è lacerato tra passato e presente perché tutto viene amplificato dalla distanza, dai ricordi del paese: i rintocchi delle campane, indelebili, risuonano ancora, dolci come nel-le veglie festive, e il pensiero corre ai toponimi familiari che avevano scandito infanzia e giovinezza, ai giochi, all’inquieto fluire del torrente Meduna, così diverso dagli impetuosi corsi amazzonici. Al di là dell’Oceano tutto è immenso, le catene montuose e i grandi fiumi, i colori accesi, come quello della terra rossa così fertile da coltivare, ma non risuonano i canti delle allodole né il suo-no delle campane. La terra di emigrazione è terra di lavoro e suo-non cancella il ricordo di quell’altra vita, del cielo incantato e della giovinezza.

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