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SUL TRADURRE COME METAMORFOSI Dal testo originale al doppio traduttologico

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Academic year: 2021

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DOI 10.1285/i22390359v33p187

http://siba-ese.unisalento.it, © 2019 Università del Salento This work is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0

SUL TRADURRE COME METAMORFOSI

Dal testo originale al doppio traduttologico

MICHELAMARRONI

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA

Abstract – The idea of translation as a metamorphosis from one language to another triggers a series of

reflections which concern, not only the role of the translator as such, but also the relationship between the original text and all the translations of it in the same language which follow on one after the other in time. While the original text remains the same, the translator of a classic – like Moby-Dick or Madame Bovary, for example – aims to render the uniqueness of the literary work. However, his/her translation is partly conditioned by the uninterrupted instability that characterises a translated work like Robinson Crusoe and all the existing versions in Italian as well as all the future translations that are still possible. The history of translation cannot avoid taking these transitions into account since they involve a reflection on traductological methods, the literary system and the cultural dialogue which translations of the great works of the Western canon generate. After all, translating ultimately evokes the artist that is in the translator, which in Eleanor Marx’s case culminates in a full identification with Emma Bovary, the heroine of the novel she translated in 1886. In this respect, the target text may be considered a traductological double, a sort of shadow of the other (i.e. the original), which leads to a competition on a strictly creative level (the Italian translation of Ulysses, for example). Moreover, when translators are also acclaimed poets and novelists, creativity prevails over philological precision and the translation really becomes a double that is fully entitled to seek its share in the greatness of the original.

Keywords: metamorphosis; traductology; double; Eleanor Marx; creativity in translation.

1. La traduzione e il suo doppio

Dal punto di vista di chi traduce, il passaggio dal testo di partenza al testo di arrivo non è mai un qualcosa di automatico, né può essere considerato un gesto del tutto privo di investimento intellettuale ed emotivo. Un simile approccio ‘freddo’, al limite, potrebbe valere per le traduzioni strettamente tecniche, con un preciso quadro terminologico e un grado zero (o quasi) di ambiguità sul piano interpretativo. Nel caso della letteratura le cose cambiano: i fattori che entrano in gioco sono molti e le possibilità di interpretazione tanto più ampie quanto più ambigua e semanticamente instabile è la scrittura che sostanzia il processo creativo nel suo farsi costruzione testuale.1 Il problema, quindi, non può essere ridotto a una pura rappresentazione schematica sulla scorta di un concetto che oppone la traduzione libera (e ricca sul piano creativo) alla traduzione programmaticamente fedele, che appare vincolata a doppio filo al testo originale. Sin dalle prime attività traduttive dell’era moderna, studiosi e intellettuali hanno avvertito l’esigenza di definire il lavoro di chi è impegnato a volgere un testo da una lingua all’altra. Non è assurdo immaginare che, in origine, un ipotetico primo traduttore abbia, pur senza volerlo, dovuto riflettere sulla sua

1 Si veda Paola Zaccaria (2017, pp. 162-165). Fra le altre cose, Zaccaria scrive: “La letteratura in quanto

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attività e, di conseguenza, sia stato costretto a darsi delle basi metodologiche. A parte la dovizia di teorie di questi ultimi decenni, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, nei secoli precedenti il discorso sul ruolo da attribuire al traduttore non aveva fatto grandi progressi in questa direzione. Tale limite nell’elaborazione teorica non è imputabile a carenze di metodo o ad altre ragioni: la verità è che non è definibile quello che non si presta ad essere definito in ragione della varietà operativa e della pluridirezionalità disciplinare di una simile pratica. A dire il vero, nell’Ottocento da più parti emersero interrogativi e dilemmi sul valore socioculturale da attribuire a chi traduceva un testo letterario, che, come era evidente, si assumeva una responsabilità anche di ordine etico verso la comunità dei lettori. Qual è il migliore traduttore? Dove si colloca la sua figura? Che valore assume la sua opera rispetto al sistema letterario? Va detto qui che l’esigenza di trovare, da un’angolazione pragmatica, uno schema per definire la tipologia di traduttore sembra permanere anche in questi ultimi anni. Così, nel 2016, recensendo una nuova versione italiana di Moby-Dick ad opera di Ottavio Fatica, Luigi Sampietro distingueva due modalità traduttive e, conseguentemente, due tipi di traduttori:

Quelle in cui il traduttore si mette al servizio del lettore e lo accompagna a destinazione come un tassista; e quelle, invece, in cui il traduttore si fa protagonista e compete con l’autore con alzate d’ingegno [...] che, per dirla con Montale, lo fanno talora scomparire alla vista di “noi della razza di chi rimane a terra”. (Sampietro 2016)

Difficile dire quanto possa essere azzeccata la definizione di tassista, su cui non mancherò di ritornare. Ad ogni modo, è chiaro che l’opposizione fra traduttore che prende per mano il lettore (anzi, che lo trasporta) fino alla destinazione e quello che invece diviene artefice di un percorso irriguardoso della “segnaletica” dell’originale, sembra voler piegare il lavoro traduttivo a una visione estremizzata. Stando alle parole di Sampietro, esistono due poli contrapposti che non contemplano la possibilità di spazi intermedi, di scenari di negoziazione che, in un modo o nell’altro, facciano del traduttore né un premuroso tassista né un fantasioso artefice testuale.

Sulla lunghezza d’onda di Luigi Sampietro parrebbe muoversi anche Massimo Bacigalupo. Il quale procede a una riformulazione del binomio proponendo l’opposizione tra il traduttore pavone e il traduttore tassista: “C’è anche il traduttore un po’ pavone che arricchisce l’originale coi suoi ghiribizzi, richiamando su di sé l’attenzione del lettore, piuttosto che accettare di essere uno strumento che a volte rivela insospettate sensibilità” (Bacigalupo 2017, p. 263). Questo è il traduttore che va decisamente rifiutato. Di conseguenza, continua lo studioso, “tutto sommato meglio imbattersi in brani non felicissimi in una traduzione rispettosa o di servizio che essere abbagliati da virtuosismi che poco hanno a che fare con il testo di partenza. L’ideale resta appunto aderenza e servizio che divengono nel contempo qualcosa di più di un puro succedaneo” (Bacigalupo 2017, p. 263). A mio parere, l’equivoco di fondo di un simile discorso deriva dal convincimento che, sul piano della prassi traduttiva riferita al testo letterario, possa veramente esistere una traduzione di servizio.

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essere messi dentro un tassì e inviati al primo lettore come se fossero materia anodina, parole senza ambizione artistica. Visto che il tentativo di ricreare la tensione auratica e la valenza estetica viene escluso a priori, bisogna immaginare che, poniamo un romanzo come Moby-Dick, preveda di essere volto in italiano senza ambivalenze o imbarazzi da parte del traduttore, seguendo cioè un facile percorso preordinato (o quasi). Un simile approccio risulta troppo sbrigativo. Non credo che il nostro ipotetico lettore sia pronto a leggere “brani non felicissimi”. Anzi, vale il contrario – l’infelicità del testo di arrivo produce soltanto l’infelicità del lettore, un effetto di disaffezione che conduce a una sola scelta: abbandonare la lettura, mettere da parte il libro che ha in mano, magari per mai più riprenderlo. Del resto, è innegabile che, nella maggior parte dei casi, chi legge un’opera letteraria si colloca su un orizzonte di attesa che, a livello pragmatico, implica in primo luogo il piacere e la felicità della lettura.

Alla luce della sua ampia esperienza di traduttore di classici della letteratura inglese e americana, l’opinione di Bacigalupo appare particolarmente autorevole. Tuttavia, il suo discorso sul tradurre sviluppa un’analisi che, per molti aspetti, risulta troppo riduttiva rispetto alla complessità del fenomeno. Al tempo stesso, però, muovendo dalla consapevolezza che la famosa frase attribuita a Robert Frost (“Poetry is what is lost in translation”) non sia altro che una battuta, dopo aver citato i traduttori dei sonetti di Shakespeare (Serpieri, Pisanti, Sanesi ed altri), lo studioso fa un’affermazione scopertamente polemica: nessuno dei traduttori italiani ha raggiunto i risultati sperati. Di qui il convincimento che lo Shakespeare poeta, di volta in volta consegnato al lettore italiano, non sia affatto lo Shakespeare dei Sonnets:

Il luogo che ha la poesia nell’esperienza del lettore è legato alla memorabilità di una certa espressione, che è quella e non altra. Per cui se in questo caso comprendiamo e abbiamo fatto nostro l’originale, sarà difficile ritrovarne traccia in una qualsiasi versione. A meno che anche questa non acquisisca quel carattere definitivo a cui si vuol sempre tornare. Dipende insomma da quanto investiamo emotivamente nella traduzione (nel testo) per appropriarcene. I Sonnets di Shakespeare, nonostante le innumerevoli traduzioni, non mi sembra che siano divenuti uno di quei libri che il lettore italiano ha fatto propri. (Bacigalupo 2017, p. 259)

Da un lato, come abbiamo visto, Bacigalupo auspica una traduzione come onesta riproduzione del significato senza porsi il problema di un’attiva competizione con il testo di partenza, dall’altro, lamenta che tutti i traduttori italiani – grandi e meno grandi – che hanno voluto cimentarsi con i sonetti shakespeariani siano stati solo capaci di produrre degli insuccessi in ordine alla ricodificazione poetica. A questo punto è lecito domandarsi se l’immagine del tassista (del traduttore di servizio) sia effettivamente quella che, a conti fatti, risulta la più valida dal punto di vista del lettore colto e comunque fornito di motivazione e cultura. Come conciliare l’idea di una traduzione di servizio con il fatto che si sta chiedendo uno Shakespeare in italiano che, come scrive Bacigalupo, almeno sul piano della stretta equivalenza artistica, ancora non c’è? Un’ulteriore domanda s’impone: che cosa si chiede alla traduzione? La risposta è semplice: per Bacigalupo il paradigma fondativo del rapporto tra poesia e lettore è dato dalla memorablità: il nostro ascolto della traduzione sarà sempre condizionato in negativo da questa cifra memorabile che, come un diaframma scuro, divide il testo di partenza dal testo di arrivo. Un verso che per noi è

memorabile nell’originale non sarà mai memorabile in qualsiasi altra traduzione. Allora,

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quella valenza memorabile che, inizialmente, pareva del tutto impossibile da raggiungere per il traduttore. Non solo, ma notiamo anche il recupero di quella creatività che, in un primo tempo, pareva del tutto esclusa.2

A ben vedere, gli studi traduttologici non hanno bisogno di drastiche definizioni (e altrettanto drastiche immagini) per spiegare che cosa significa tradurre – un traduttore “di servizio”, non diversamente da un traduttore “pavone”, non può tradurre Shakespeare con risultati soddisfacenti: la traduzione come attività interdisciplinare chiama in causa molteplici elementi. Il suo successo non dipende nemmeno da una visione epifanica, da una ipotetica memorabilità incipitaria, da un’esperienza unica e irripetibile vissuta dal lettore che, una volta appropriatosi della bellezza dell’originale, mai più potrà ritrovarla altrove, in altri testi di arrivo. Nemmeno nella più valida e raffinata delle traduzioni possibili. Al riguardo, mi vengono in mente le parole che Paul Auster scrive in una pagina di The Book of Illusions:

Translation is a bit like shoveling coal. You scoop it up and toss it into the furnace. Each lump is a word, and each shovelful is another sentence, and if your back is strong enough and you have the stamina to keep at it for eight or ten hours at a stretch, you can keep the fire hot. (Auster 2003, p.70)

Fuochista fa rima con tassista, ma qui non è la stessa cosa. Che cosa sta dicendo Auster a proposito dell’attività traduttiva? Semplicemente che una buona versione è il risultato di una immane fatica che, dal punto di vista della quantità di lavoro, impone un enorme dispendio di energie a cui corrisponde, alla fine del percorso, il riconoscimento di ben pochi onori. Essere traduttori è un po’ come essere il doppio invisibile dell’autore. Esattamente come si sente David Zimmer, il protagonista di The Book of Illusions, che, avendo già alle spalle un’ampia esperienza di traduttore,3 è impegnato a tradurre le oltre duemila pagine delle Mèmoirs d’outre-tombe (1849-50) di René de Chateaubriand. Pagine e pagine di memorie che, nelle parole del protagonista, possono essere considerate uno dei libri più celebrati e meno letti della storia della letteratura mondiale. Ebbene, è parte del progetto del professore Zimmer l’idea di trascorrere “the next two or three years of [his] life with a gloomy Frenchman” (Auster 2003, p. 63). Si tratta di un’immersione totale nell’esperienza traduttiva. Così, sin dalle prime pagine del romanzo, il professore sembra immedesimarsi, in una certa misura, con lo scrittore francese: percepisce il reale, sente e vede la realtà con gli occhi e la mente romantica del francese. In definitiva, Zimmer diviene una sorta di doppio traduttologico alle prese con un lavoro che appare cosa ben diversa dal genere di ricerca richiesta dalla produzione saggistica: “I was the servant of the text and not its creator, it demanded a different kind of energy from the one I had put on

The Silent World” (Auster 2003, p. 70). Ed è proprio questa qualità sostanzialmente

2 In proposito Jean-René Ladmiral sottolinea dapprima il carattere eminentemente interdisciplinare della

traduzione (“la théorie de la traduction et la connaissance des phénomènes connexes exigent une ouverture

interdisciplinaire”), mentre, subito dopo, tiene a precisare che “la traduction est une modalité spécifique

de l’écriture, et pas seulement la traduction littéraire, dans la mesure où tout traducteur est un ‘réécrivain’, un ‘co-auteur’” (“Préface à la seconde édition”, 1994, p. viii).

3 Auster presenta in questi termini il protagonista-narratore del romanzo: “I had started teaching literature as

a graduate student in my mid-twenties, and since then all my work had been connected to books, language, the written word. I had translated a number of European poets (Lorca, Éluard, Leopardi, Michaux), had written reviews for magazines and newspapers, and had published two books of criticism” (2003, pp. 13-14).

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diversa di energia a metterlo nella condizione di un René de Chateaubriand che guarda se stesso dal futuro.

In breve, quello che Auster dice attraverso il suo personaggio non presenta margini di dubbio: tradurre non può essere solo un’attività meccanica da compiersi con il dizionario in mano e tanta buona volontà. Non vi sono né tassisti né pavoni nel mondo dei traduttori ma, si potrebbe concludere, vi sono molte ombre che si agitano e che, nel loro assiduo rovello filologico, cercano di farsi parola, di divenire l’altro testo, il doppio dell’originale – un originale che, impassibile e definitivo, rimane sullo scaffale in attesa che, come i ricordi di Chateaubriand, si facciano strada nuove versioni. Le quali, nella loro continua metamorfosi e attualizzazione, via via che entreranno nella scacchiera traduttologica, renderanno le versioni precedenti – quelle di dieci, venti, cinquanta, cento anni fa – presenze diafane, fonicamente obsolete, quasi del tutto prive del potere dialogico che avevano espresso decenni prima, al momento della pubblicazione. La storia della traduzione è anche la storia di questi transiti, di questi incroci fra il vecchio e il nuovo, fra parole in agonia e parole neonate, intersezioni di voci che, pur nella diversità, si scambiano comunque un messaggio di continuità culturale.

2. Eleanor Marx e la passione di una traduttrice

A questo punto, parlando della possibilità di un latente processo di immedesimazione del traduttore con l’autore tradotto, può essere interessante considerare il caso di Eleanor Marx (1855-898), che familiarmente veniva chiamata “Tussy”. Figlia più giovane di Karl Marx, dotata di un’intelligenza acuta e grande sensibilità linguistica, Eleanor svolse un’intensa attività di traduttrice (soprattutto dal tedesco e dal francese) fino al momento del suo suicidio, a quarantatré anni. Per lei il lavoro traduttivo assunse il valore di una vera e propria professione che riuscì ad esercitare in parallelo alla sua assidua militanza politica per la causa del socialismo. Oltre ad essere stata una delle prime traduttrici di Ibsen (impegnandosi a studiare il norvegese per tradurlo dall’originale), Eleanor tradusse anche il romanzo flaubertiano Madame Bovary (1857),4 sia per ragioni economiche, sia perché incuriosita dal fatto che l’opera fosse stata sottoposta a processo per immoralità e oscenità all’indomani della sua pubblicazione.5 Per la giovane Tussy la persecuzione giudiziaria di Flaubert da parte del procuratore Ernest Pinard (lo stesso che aveva processato Baudelaire per Les fleurs du mal) configurava uno stimolo abbastanza forte da farle desiderare di proporre Madame Bovary al pubblico inglese. Per questo s’impegnò anima e corpo per produrre un lavoro che riuscisse a transcodificare non solo la parola del romanziere francese, ma anche lo spirito di rivolta che, contro il perbenismo dominante, pareva essere alla base della vicenda umana di Emma Bovary.

4 Fu George Moore a procurarle la traduzione di questo romanzo: “Eleanor was then on friendly terms with

George Moore, whose ‘strong’ and ‘bold’ novels she highly valued, and it was through him that she obtained the profitable work of translating Madame Bovary, Flaubert’s masterpiece” (Tsuzuki 1967, p. 166).

5 Sulla sua incessante attività di traduttrice, Yvonne Kapp nota: “It may be conjectured that her reasons,

other than financial, for accepting the commission and working on it so devotedly, sprang in part from her indignation at the crassness of the French authorities in prosecuting the author but, more deeply, as expressed in her introduction, from her view of Emma Bovary straining, like her creator, ‘after an unattainable heaven’” (Kapp 2018, pp. 332-333).

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Pubblicata infine nel 1886, la traduzione, come ha osservato George Steiner, era anche l’effetto di una spinta ideologica che si innestava sul pensiero socialista. Tradurre il romanzo dello scandalo era in sé un gesto di implicito dissenso:

The book had been prosecuted for obscenity in the courts of Napoleon III. Eleanor Marx saw in this prosecution a nakedly political attempt to silence an artist who, by sheer honesty of vision, had laid bare the cant and corruption of life in the Second Empire. Thus the translator brought to her task an explicit programmatic ‘set’. She approached the text almost entirely via context, via what she felt to be a shared sphere of moral-political intention. (Steiner 1992, p. 396)

Eleanor lesse Madame Bovary alla luce del contesto di grande fermento politico in cui si trovò a vivere: le donne reclamavano un ruolo attivo nella società, mentre le idee socialiste cominciavano a turbare i sonni della borghesia. Tuttavia, vista la sua unione more uxorio con il socialista Edward Aveling,6 Tussy tradusse la storia di Emma Bovary con un notevole investimento psicologico, sino all’immedesimazione con la condizione dell’eroina flaubertiana. Ad ogni modo, nonostante il coinvolgimento emotivo nella tragedia di Emma, la traduttrice produsse un testo di notevole valore le cui ristampe, come nota Emily Apter, si sono susseguite fino a pochi anni fa: “Following its publication in 1886, Eleanor Marx’s translation became the basis of many succeeding editions, including the teaching edition by Charles I. Weir Jr. in 1948 (used by Vladimir Nabokov), the Paul de Man 1965 Norton edition, and Margaret Cohen’s 2004 Norton edition, all published in the United States” (Apter 2008, p. 73). Significativamente, nelle pagine introduttive Eleanor volle produrre un tentativo di analisi tipologica del tradurre, anche alla luce dei suoi molteplici impegni sul versante traduttivo, non esclusa l’enorme sfida di approntare, insieme a Edward Aveling, Samuel Moore e altri, la versione inglese del primo volume del

Capital.7

Nell’introduzione, che apparve sia nell’edizione del 1886 che in quella del 1892, Eleanor si pose, dunque, il problema di distinguere i seguenti metodi di traduzione:

There are three possible methods of translation. The first is that of the genius, who literally re-creates a work in his own language. Schlegel has done this for Shakespeare, Baudelaire for Edgar Poe. But there are few geniuses in the world, and those we have do not, for the most part, devote themselves to the thankless task of translation. Next, there is the hack translator, who, armed with dictionary, rushes in where his better fear to tread. He it is who has earned for the translator the epithet of traditore, and his work is but too often a perversion, not a

6 Edward Bibbins Aveling (1849-1898) proveniva da una famiglia congregazionalista. Si laureò in medicina

all’University College di Londra (UCL) specializzandosi in biologia. Ateo e sostenitore del darwinismo, nel gennaio 1885 fu tra i fondatori della Socialist League insieme a Eleanor Marx, William Morris, Edward Carpenter ed altri. Fu Morris a stilare “The Manifesto of the Socialist League”. In questo ambiente Aveling conobbe Eleanor e poco dopo, nel 1886, la coppia andò in America per un giro di conferenze al fine di diffondere le idee socialiste. Insieme a Eleanor scrisse The Woman Question (1886) e The

Working-Class Movement in America (1887).

7 Sul frenetico attivismo di Eleanor, la biografa Rachel Holmes scrive: “Within the twelve months between

the summers 1885 and 1886 Tussy started and finished the first English translation of Gustave Flaubert’s

Madame Bovary; revised the new edition of Lissagaray’s History of the Paris Commune; put on the first

performance of Ibsen’s A Doll’s House in England; championed the programming of art and education in the Socialist League; produced a body of journalistic work on prostitution and sex slavery; became a ghostwriter and finally completed the English translation of the first volume of Capital with Samuel Moore, Engels, Aveling, Lafargue and Longuet. If this were not sufficient, she and Edward completed and published ‘The Woman Question: From a Socialist Point of View’” (Holmes 2015, p. 249).

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rendering. Finally there is the conscious worker. He cannot if he would belong to the first category of translators. He would not if he could belong to the second. He can but strive to do his best; to be honest, earnest. To this last category I claim to belong. Certainly no critic can be more painfully aware than I am of the weaknesses, shortcomings, the failure of my work; but at least the translation is faithful. I have neither suppressed nor added a line, a word. (Marx-Aveling 1893, p. xxi)

A giudizio di Eleanor, nell’ambito dell’attività traduttiva, i due estremi sono rappresentati, da un lato, dai grandi maestri della tradizione letteraria di ogni epoca e, dall’altro, dai traduttori di second’ordine, privi di sensibilità artistico-filologica. Secondo lei, questi ultimi, affidandosi al dizionario e ad un minimo bagaglio culturale, si avventurano nel territorio proibitivo della traduzione letteraria senza i necessari strumenti che permettano loro di arrivare a risultati soddisfacenti. Il dato implicito di questo dualismo è che i primi sono ispirati dal testo originale per poi muoversi secondo le spinte della loro creatività geniale, mentre i secondi fanno il loro lavoro con lo stesso spirito di uno scudiero che, in quanto pagato, accompagna più o meno fedelmente il padrone nel suo viaggio. A bene vedere, si tratta di una gerarchia che sembrerebbe rovesciare l’opinione che indica nei “tassisti” una più affidabile guida rispetto ai “pavoni”. Nelle parole della traduttrice, invece, i primi (i cosiddetti tassisti) non restituiranno al lettore l’arte dell’originale, visto che la loro opera è un tradimento della parola e dello spirito propri del testo di partenza. Al contrario, i secondi, pur costituendo delle vere e proprie eccezioni di una vasta gamma di traduttori, riescono ad offrire nella lingua d’arrivo un esempio memorabile della loro genialità artistica – e qui si allude a una ristrettissima categoria che include, in prima linea, Schlegel e Baudelaire. Per inciso, nel caso dell’Italia, noi potremmo pensare a tante altre figure geniali nel campo della traduzione (Vittorini, Ungaretti, Montale, Fenoglio, Pavese, Quasimodo, Bertolucci, ecc.), tutti poeti e narratori che rientrano nella categorizzazione proposta da Eleanor Marx.

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una ben definita focalizzazione del quadro storico, sia il contesto evocato dall’opera stessa, sia quello in cui l’opera è stata scritta.

Questo è il tipo di lavoro compiuto dalla traduttrice che, comunque, aveva alle spalle un’intensa attività di traduzioni di scritti politici dal tedesco e la non meno impegnativa traduzione di alcuni drammi di Ibsen come Casa di Bambola e La donna del

mare.8 Ed è fuor di dubbio che, dietro il suo atteggiamento intriso di modestia e

consapevolezza circa i limiti della sua Madame Bovary, Eleanor nasconde una sua personale teoria intorno al tradurre che, appunto, fa leva sul preminente carattere interdisciplinare e dialogico, sulla necessità di evitare semplificazioni e riduzioni del compito svolto da un traduttore e, infine, sulla convinzione che, se si parte dal concetto fuorviante di assoluta equivalenza fra testo di partenza e testo di arrivo, non sarà mai possibile produrre una traduzione in grado di competere con l’originale.

Infine, una riflessione biografica su Eleanor Marx. Per quanto riguarda il suo suicidio alcuni anni dopo la sua traduzione di Madame Bovary, molti hanno creduto di scorgervi un processo di immedesimazione fra traduttrice e personaggio: “No doubt Eleanor saw in the heroine’s fate the image of her own married life. Flaubert’s ‘mirror’ reflected her own striving for an ideal and her husband’s corruption and degeneration. Emma combined these two opposite qualities in one personality, and the result was her destruction. Eleanor seems to have felt that she had a full presentiment of the life to come” (Tsuzuki 1967, p. 167). Il suicidio, quindi, sarebbe stata una scelta portata alle estreme conseguenze in ragione di una delusione – il tradimento da parte di Aveling che Tussy considerava il proprio marito a tutti gli effetti. La scoperta del tradimento della persona a cui aveva affidato tutta se stessa aveva fatto crollare il mondo intorno a lei. Su questo tema controverso, da anni ormai, esiste un dibattito che ha coinvolto biografi e letterati. Non è un caso che nel 2017 Tara Bergin abbia raccolto una serie di poesie sulla vita della traduttrice sotto il titolo The Tragic Death of Eleanor Marx.

Significativamente, nella prima strofa del componimento “The True Story of Eleanor Marx in Ten Parts”, leggiamo:

Eleanor of the eight-hour day

Gets betrayed by Edward of the two faces. She orders: chloroform, with just some traces

Of prussic acid – blue – a beautiful imitation. (Bergin 2017, p. 12)

Secondo la poetessa irlandese, anche sul piano teatrale, Eleanor cercò di inscenare visivamente una “bella imitazione” dell’acido prussico con cui Emma Bovary, nella finzione letteraria, si toglie la vita. Va aggiunto, però, che il segmento a beautiful imitation implica anche un rimando all’imitazione/immedesimazione con Emma che si offre al suo sguardo frastornato come un modello di ribellione e di autodistruzione: il bovarismo di Emma/Eleanor mette in scena la morte contro un mondo che ormai non ha più senso. Come direbbe Wilde, in questo caso, “life imitates art” (Wilde 1970, p. 307). Nel quadro di una storia della traduzione, la vita e le opere di Eleanor Marx costituiscono, come mi pare ovvio, un capitolo che deve essere ancora scritto compiutamente – un capitolo importante nel suo intreccio tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica e traduttologia,

8 Riguardo all’importanza sociopolitica di Ibsen per Eleanor, Kapp scrive: “The impact of Ibsen upon

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tra movimento delle donne e cambiamento del quadro socioeconomico dell’Inghilterra tardovittoriana.

3. Metamorfosi, traduzione e autotraduzione

L’immagine del traduttore che si sente artista (ovvero: che traduce come se scrivesse un’opera indipendente dall’originale) è parte della dialettica che alimenta gli scambi culturali, parte della “metamorfosi di una lingua in un’altra lingua, di un’esperienza singolare e inimitabile in un’altra esperienza anch’essa singolare e inimitabile” (Prete 2011, p. 90). Se non esistesse il traduttore-genio di cui parla Eleanor Marx, riferendosi a Schlegel e Baudelaire, i singoli sistemi culturali non avrebbero canali di comunicazione artistica. In questa direzione, può risultare utile citare quanto ha scritto qualche anno fa Massimo Bocchiola nel suo Mai più come ti ho visto: gli occhi del traduttore e il tempo: “[A]l traduttore è statutariamente negato il diritto primario di ogni artista, cioè quello di produrre un’opera che piaccia prima di tutto a lui stesso. Forse è proprio per questa ragione, come per nessun’altra, che non si può definire artista” (Bocchiola 2015, p. 137). Rispetto all’ipotesi di partenza che postulava la difficile collocazione del ruolo del traduttore entro coordinate definitive, rilevandone invece la natura fluida (e questo ad ogni livello, da quello linguistico a quello psicologico), il ragionamento di Bocchiola si fonda, a ben vedere, su un equivoco. Esso muove dal presupposto che il traduttore aspiri a divenire artista, o che sia un artista mancato e che, da questa condizione particolare, debba scaturire un profondo senso di frustrazione. A mio giudizio, le cose non stanno esattamente così. E questo, non solo per le ragioni più ovvie (un traduttore sa bene che non sarà mai un artista e che la sua massima aspirazione è pervenire a qualche forma di equivalenza tra l’originale e la sua traduzione), ma anche per un’altra e più complessa ragione. In realtà, chi traduce un testo letterario vive l’esperienza artistica, in tutte le sue implicazioni creative, all’interno di un dialogo con il suo autore che trova nel testo originale una sorta di banco di prova. Antonio Prete, in un capitolo dedicato ai “poeti che traducono poeti” del suo

All’ombra dell’altra lingua, ha infatti osservato:

[...] la traduzione come imitazione: costruzione di un universo linguistico parallelo, riverbero del primo, ma anche suo contrappunto dialogico, replica e insieme reinvenzione. Corrispondenza, ma nell’autonomia. [...] La traduzione, infatti, non è solo una forma di scrittura tra altre forme di scrittura, è anche una costante messa in questione del fare letterario stesso: ogni confronto – di temi, di soluzioni formali, di organismi artistici – è un’interrogazione sulla natura della propria ricerca, sulla natura e sulle forme e sui codici della propria lingua. (Prete 2011, p. 90)

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traduzione. Chi traduce possiede una memoria letteraria che, in maniera più o meno consapevole, si lascia scrivere nel testo di arrivo. Ed è questo un procedimento del tutto simile a quello che presiede alla creatività dell’artista, al momento dell’invenzione.

Riconosciamo, pertanto, un territorio di confluenza artistico-creativa che può essere frequentato sia dall’autore che dai suoi traduttori, i quali, di volta in volta, sono chiamati a liberare il testo, a dischiuderlo a nuovi lettori. “La letteratura – osserva Lavagetto – produce archetipi e schemi ideologici che finiscono con l’avvolgere i testi e con il farli prigionieri insieme alla realtà di cui fanno parte e ai lettori che periodicamente li frequentano” (Lavagetto 2003, p. 67). Nella sua attività, il traduttore è chiamato a interpretare, con le parole della sua lingua, questo apparentemente inestricabile tessuto di elementi linguistici e metalinguistici. Tale operazione può avvenire solo se egli possiede gli strumenti culturali per penetrare il nuovo territorio e, in qualche modo, per poi farlo suo, e quindi replicarlo nella cultura di arrivo. Per questa ragione riteniamo che si debba rifuggire da ogni semplicistica definizione del compito del traduttore, dando invece risalto al valore dello scambio e al significato che questa negoziazione assume sul piano di una dialettica in cui l’altra lingua (e quindi anche l’Altro) danno alla lingua di arrivo più di quanto non possa essere percepito sul piano meramente statistico o commerciale.

Ed è in questa dialettica che risulta interessante osservare il modo in cui l’autore tradotto reagisce dinanzi ai suoi testi collocati in un territorio liguistico ed epistemico nuovo. Mi pare ovvio che anche questo aspetto sia parte del grande meccanismo della comunicazione e negoziazione tra le culture, dal momento che esso rivela come viene percepito il ruolo del traduttore da parte di chi, legittimamente, sta dalla parte dell’arte e della creatività. Qui può risultare utile, per esempio, leggere qualche giudizio di Italo Calvino rispetto alla traduzione in tedesco delle sue opere. In una lettera alla sua traduttrice, Gerda Niedeck, datata 6 novembre 1963, confessa esplicitamente la sua sensazione di sentirsi “tradito” come scrittore:

Per me, che i miei libri siano tradotti è un grande dolore. So bene che tutte le traduzioni sono

cattive. So che per il mondo circolano con il mio nome libri che non hanno niente a che fare

con quello che ho scritto. Purtroppo uno scrittore non può far niente per impedire che gli editori lo facciano tradurre. L’unica cosa che posso fare è preoccuparmi perché il tradimento del mio stile e del mio pensiero sia contenuto in certi limiti. E ti sono grato in quanto mi aiuti a far questo. (Calvino 2000, p. 772)

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Siamo giunti, quindi, sul versante opposto. Osservando la traduzione dalla parte degli autori tradotti, rileviamo tutto il loro scetticismo: sotteso a tale atteggiamento permane una concezione sacra della propria parola, della sua unicità, dell’impronta ineguagliabile appartenente al momento dell’ispirazione. Anche Samuel Beckett, scrivendo al poeta e amico Thomas McGreevy riguardo alla sua traduzione di alcune pagine del Work in Progress di Joyce, esprime il convincimento che “è impossibile leggere la sua opera senza riscontrare un senso di frustrazione” (Lettera del gennaio 1931 in Bocchiola 2015, p. 75). Eppure sappiamo bene che, nella sua prima fase parigina, intorno al 1932-33, Beckett confidava di guadagnarsi da vivere facendo il traduttore convinto di avere le carte in regola per tradurre al meglio i classici della letteratura francese e non solo francese (Knowlson 1997, pp. 127-129). Ben presto cambierà idea. Quando, molti anni dopo, deciderà di tradurre in inglese i suoi plays che, come è noto, furono scritti quasi tutti in francese, egli stesso provvederà alla traduzione. Lo farà perché probabilmente mosso dallo stesso scetticismo di Calvino riguardo alla capacità di altri traduttori di ottenere gli stessi risultati. Nel passaggio dal francese all’inglese cambierà tutto quello che, sul piano culturale, gli sembrerà estraneo al mondo anglosassone: si tratta di scelte anche abbastanza lontane dall’originale francese che solo l’autore avrebbe potuto fare e nessun altro traduttore. In fondo, anche Beckett credeva alla sacralità della sua parola: solo lo stesso genio creativo avrebbe potuto far sì che il segno sacro conservasse la sua valenza artistica nella sua pienezza.

Nel caso beckettiano, l’autotraduzione è il segno di uno sdoppiamento: il Beckett francese e il Beckett irlandese si specchiano l’uno nell’altro. In questo modo i due Beckett ammettono la loro ambivalenza giacché rivelano, nel contempo, uno scarto e una convergenza culturale di due mondi linguistici. Tutto questo pone una serie di interrogativi intorno all’originale: da quale parte cercarlo? L’anglista leggerà sempre Waiting for Godot mentre il francesista En attendant Godot? Ci chiediamo quale sia il doppio traduttologico. Probabilmente il testo in inglese, visto che è venuto dopo, è stato autotradotto. Eppure, non potrebbe essere considerato – questo secondo testo rivisitato e ricodificato in inglese – l’interpretazione più autentica della sua arte? Per concludere, dopo un percorso abbastanza tortuoso siamo giunti all’artista traduttore che, nella sua eccezionalità, sembrerebbe dimostrare che, a conti fatti, tradurre un testo letterario non può essere semplicemente, e riduttivamente, considerato un servizio reso al lettore, ma piuttosto un servizio reso alla letteratura e all’espansione continua delle sue visioni e dei suoi modelli di mondo.

Bionota: Michela Marroni è professore associato di Lingua Inglese presso il Dipartimento di studi

linguistico-letterari, storico-filosofici e giuridici dell’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo). Tra pubblicazioni più recenti si segnalano Come leggere “Robinson Crusoe” (Chieti, 2016, Premio dell’Editoria Abruzzese 2018) e Dialoghi traduttologici: il testo letterario e la lingua inglese (Chieti, 2018). Ha lavorato su temi traduttologici e sulla storia della traduzione in Inghilterra tra Sette e Ottocento (Sarah Austin, George Eliot, Eleanor Marx, ecc). Inoltre, è autrice di numerosi articoli sull’influenza di John Ruskin sugli scrittori vittoriani (Elizabeth Gaskell, Wilkie Collins, ecc.). Recentemente ha curato I fratellastri (Roma, 2016) e Le

confessioni di Mr. Harrison (Roma, 2018), entrambi di Elizabeth Gaskell. È membro del CUSVE (Centro

Universitario di Studi Vittoriani e Edoardiani, Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara). Fa parte del Comitato Editoriale della Rivista di Studi Vittoriani, Merope e Traduttologia.

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