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Daniele Garrone – Noi accecati dal disprezzo per gli ebrei L '

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ETTURE SULL

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ANTISEMITISMO

Daniele Garrone – Noi accecati dal disprezzo per gli ebrei Daniele Garrone è biblista e pastore protestante valdese.

In Germania, ma non solo, l'ostìlìtà contro gli ebrei ebbe un'impennata negli anni Ottanta del XIX secolo e da allora non smise di crescere, fino alla Shoah. Una delle sinistre parole propagandistiche che ebbero subito grande seguito fu «gli ebrei sono la nostra disgrazia», messa in circolo nel 1879 da Heinrich von Treitschke (1834-1896). Il giornalista Wilhelm Marr (1819-1904) introdusse il termìne

«antìsemìtìsmo», e anche questa invenzìone ebbe tragicamente grande fortuna. Il pastore luterano e predicatore alla corte prussiana Adolf Stoecker (1835-1909), fondatore di un Partito cristiano sociale in funzione antìsocìalìsta, cominciò anch'egli ad additare negli ebrei la principale minaccia per la nazione e il popolo tedeschi. Sono gli inizi di una deriva che porterà alla politica razzista del govero nazista e al sostegno di massa che essa ricevette. Il resto è storia tragicamente nota.

La riflessione avviata dopo la seconda guerra mondiale e dopo la Shoah da parte delle chiese cattolica e protestanti fece emergere che il peso che gravava su di esse non consisteva solo nel tracollo morale di quei cristiani che avevano sostenuto l'antisemitismo razzista o lo avevano assecondato o ignorato: occorreva risalire più indietro, a quello che l'ebreo francese Jules Isaac chiamò «l'insegnamento del disprezzo».

Le pietre d'inciampo, che ricordano le vittime della Shoah, fanno impattare anche sulla storia della cristianità e mettono di fronte all'

«antigiudaismo cristiano», fatto non soltanto di pregiudizi volgari e di esplosioni di odio, ma anche di insegnamenti veicolati nelle prediche, nella catechesi e nella teologia; di norme restrittive e oppressive imposte da una società che si concepiva come «cristiana». Se parliamo di

«antìgìudaìsmo», distinguendolo dall'antisemitismo otto e novecentesco con la sua dimensione razzista pseudosdentifìca, non è per minimizzare il primo, ma per individuarne con maggiore precisione i tratti.

Una visione negativa dell'ebraismo e l'emarginazione degli ebreì hanno dominato la società cristiana per secoli e secoli. Quando gli antisemiti di fine Ottocento indicano negli ebrei «la nostra disgrazia» e li accusano di essere un corpo estraneo e non integrabile, al tempo stesso numericamente infimo eppure potentissimo, al punto da costituire una terribile minaccia per l'integrità del «popolo» e un pericolo per lo Stato, dirigono i loro strali contro un bersaglio a cui erano già state attribuite quelle stesse fattezze in secoli di polemica cristiana.

Per tutto il Medioevo, gli ebrei furono costretti da autorità cristiane a condurre un'esistenza ai margini della società, bollati da contrassegni che li rendessero identificabili, tollerati per convenienza oppure arbitrariamente espulsi, esclusi dalla maggior parte delle professioni, talora esposti alle aggressioni di folle che li ritenevano colpevoli di avvelenare pozzi, di profanare ostie per ripetere l'oltraggio a Cristo o di rapire e uccidere bambini cristiani per scopi rituali.

Questa misera esistenza imposta agli ebrei dal mondo «cristiano»

veniva interpretata in base alla nozione di «popolo testimone», che risale a Sant'Agostino di Ippona: questa è la condizione degli ebrei perché

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questo è il castigo divino per il loro rifiuto del messia e per la sua morte, di cui sono ritenuti responsabili, in solido, come popolo «deìcìda». Non devono scomparire, ma rimanere in questa condizione per testimoniare del trionfo della chiesa; l'errore e la colpa di cui pagano il fio devono, per contrasto, far emergere la superiorità del cristianesimo e attestarne la verità È il messaggio che illustrano, in varie cattedrali medioevali (ad esempio, le cattedrali di Notre-Dame a Parigi, di Friburgo in Brisgovia, di Strasburgo; il duomo di Bamberga) le statue di due donne contrapposte: umiliata, accecata perché non riconosce la verità, la sinagoga; fiera e incoronata, la chiesa. Quello che era il popolo eletto viene considerato reietto, soppiantato dalla Chiesa che lo ha sostituito ed è divenuta il nuovo, anzi il vero, Israele.

Si insegna che una sola lettura delle Scritture ebraiche, il nostro Antico Testamento, è legittima: quella che porta a Cristo. È la rivendicazione dell'interpretazione cristiana della Bibbia ebraica come unica legittima che conduce Martin Lutero – che aveva promosso, in sintonia con l'Umanesìmo, l'accesso al testo ebraico dell'Antico Testamento – alle sue drastiche affermazioni antiebraiche (Gli ebrei e le loro menzogne, 1543): travisano le Scritture, sono blasfemi, dunque non possono essere tollerati in mezzo alla cristianità; se ciò avvenisse, i cristiani sarebbero corresponsabili e ne dovrebbero rendere conto il giorno del giudizio. Di lì a poco, con la bolla Cum nimis absurdum (1555) di Papa Paolo IV, la Controriforma farà un ragionamento analogo:

poiché è del tutto inconcepibile che gli ebrei, condannati da Dio alla schiavitù per il loro errore, vivano in mezzo ai cristiani, devono essere segregati in un quartiere chiuso: è la nascita dei ghetti.

Il bagaglio di preconcetti e stereotipi negativi che riassumiamo con il termine «antìgìudaìsmo» ha fatto parte per secoli e secoli del bagaglio culturale del «cristiano qualunque», veicolato com'era nei discorsi

«normali», nelle chiese e nel quotidiano, nella teologia come nell'immaginario. Quando entrarono in azione i personaggi di fine Ottocento citati all'inizio, la categoria dello «ebreo» esisteva già, anzi aveva radici secolari. Bastava ravvivarla nel contesto di un mondo che si andava industrializzando e urbanizzando e perciò era attraversato da fermenti sociali inediti; un mondo in cui i nazionalismi si rafforzavano proiettando risentimento contro un presunto elemento «estraneo», dissolutore dell'anima popolare sul fronte interno.

Dopo la Shoah, dapprima con fatica e poi con rnaggiore risolutezza e incisività, le chiese hanno cominciato a fare i conti con Ia storia tragica del loro rapporto con il popolo ebraico: pietre miliari sono la dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 in ambito cattolico romano e pronunciamenti di sinodi di chiese protestanti.

Sempre di più, i vari aspetti del rapporto tra cristiani ed ebrei sono oggetto di indagini approfondite. Ne è un esempio il volume che verrà presentato a Milano domani 27 gennaio alla ScuoIa della cattedrale, dedicato ad alcuni degli esponenti dell'esegesi storica e critica sviluppatasi, prima in ambito protestante e soprattutto in Germania, a partire dall'Illuminismo. Ne emergono vari tratti: da visioni del giudaismo come decadimento rispetto all'ebraismo biblico, come angusto particolarismo contrapposto all'universalismo cristiano, fino a teologi che sostennero l'antisemitismo nazista, come nei casi di Rudolf Kittel e di Walter Grundrnann; ma anche approcci più simpatetici,

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legati però al proposito di convertire gli ebrei. Un importante case study che si aggiunge ad altre ricerche, il cui numero cresce, e che devono continuare, non per additare dei colpevoli, ma per essere sicuri di essere cambiati noi.

L'analisi storica è essenziale, ma non esaurisce il compito che attende i cristiani: si tratta di nuovo del bagaglio di ogni «cristiano qualunque»:

la conoscenza deve prendere il posto del pregiudizio o del sentito dire, il rispetto deve sostituire il sospetto e la polemica; la solidarietà con chi rimane altro da noi, eppure ci è così vicino, deve soppiantare l'inimicizia. Tanto più urgente di questi tempi, in cui in tutta Europa molti discorsi, amplificati dai social, assomigliano in modo preoccupante a quelli degli anni Venti e Trenta del secolo i cui errori e orrori credevamo sepolti per sempre.

David Bidussa – L'origine lontana del capro espiatorio

È l'odio che dà la sensazione che si può «tornare ad essere padroni del proprio destino». Il nostro tempo non è originale. Forse, immergersi in un passato recente serve.

Conviene immergersi nella realtà di Vienna: ne scrivono in forma diversa sia Riccardo Calimani, sia Hugo Bettauer, attraverso la rilettura che ne fa Marino Freschi nel presentare La città senza ebrei. «Gioiosa apocalìsse», così Hermann Broch descrive la città tra 1880 e 1920, ci ricorda Calimani in esordio del suo libro.

Quella è la condizione in cui vive Vienna, sul margine del precipizio, in costante tensione tra pulsioni – che oggi chiameremmo sovraniste – e con il timore costante di perdere la propria personalità e la propria autoraffigurazione come civiltà: si sente a rischio perché «assediata» e

«depersonalìzzata» dalla presenza ebraica.

Una città in cui il segno della decadenza è dato da un sistema imperiale dalla burocrazia sempre più autoriferita e a cui si dà il compito di rappresentare la propria identità e un mondo del sapere (non solo le arti figurative o letterarie, ma anche quelle delle discipline scientifiche) che ha il suo punto di forza in gran parte nell'intellighenzia ebraica.

Allo stesso tempo è una città che si accredita come "capitale europea", ma che se deve scegliere da chi farsi amministrare, si fida soprattutto di chi esalta il carattere locale, di chi in sostanza dice ogni giorno "dimostriamo che siamo padroni a casa nostra". Per questo vota e si fa governare dai cristiano-sociali di Karl Lueger, borgomastro dal 1897 al 1910, il cui programma politico è fondato sull'antisemitismo e su una cultura razzista che ha tra i suoi obiettivi l'espulsione degli ebrei.

Dunque, ciò che immagina Hugo Bettauer quando scrive nel 1922 la sua novella, La città senza ebrei, non è una metafora e un progetto estranei ai sentimenti diffusi da tempo a Vienna. Quel programma, quelle parole, quell'entusiasmo su cui Bettauer costruisce la prima metà della sua narrazione hanno popolato i sentimenti di Vienna da tempo.

Il crollo dell'impero a seguito della sconfitta militare nella Prima guerra mondiale è un veicolo potente per dare forza a quel sogno che

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Lueger ha dichiarato di voler perseguire durante la sua esperienza di sindaco, senza nei fatti riuscirci.

La scena è quella classica delle mobilitazioni antisemite di piazza, manifestazioni che hanno riempito le strade di molte parti d'Europa in Età moderna e che sono tornate a presentarsi a Parigi durante l'Affaire Dreyfus alla fine dell'Ottocento o nel territorio dell'Impero russo, in Ucraina, ma anche in zone della Polonia nel decennio che precede la Prima guerra mondiale. Una situazione destinata a ripresentarsi non solo negli anni 30, ma anche nell'immediato secondo dopoguerra il 4 luglio 1946 a Kielce, proprio in Polonia, per esempio.

La ricerca del capro espiatorio è il carburante che consente di mettere in moto quel meccanismo. È la sceneggiatura da cui muove il racconto di Bettauer.

Così comincia a girare la voce che se gli austriaci si erano improvvisamente ritrovati poveri era colpa degli ebrei, se erano disoccupati, era colpa degli ebrei, se erano stati umiliati con i trattati di pace, era colpa degli ebrei. Sarebbe bastato cacciarli dalla capitale e, almeno per un po', la popolazione si sarebbe tranquillizzata. Alimentata da un odio crescente, si sarebbe sentita appagata.

Così, in un clima di esasperata intolleranza xenofoba, il Parlamento promulga un editto per bandire gli ebrei dall'Austria. Espulsi gli ebrei, tutto entra immediatamente in crisi: le banche, le industrie, le boutique, i teatri e i caffè chiudono, mentre le vivaci ragazze viennesi rimpiangono i loro audaci e fantasiosi corteggiatori ebrei. Intanto la moda propone ridicole acconciature alpine e la letteratura approda allo stra paese montanaro. Toccato il fondo della grettezza e dello squallore, gli autoctoni si ricredono, e gli ebrei vengono richiamati a furor di popolo. Il romanzo termina con l'apoteosi del ritorno, in una festosa cornice di riconciliazione.

La realtà sarebbe stata ben diversa: Bettauer, autore ebreo di successo, impegnato nelle battaglie civili per la libertà sessuale, sarebbe stato ucciso ai primi di marzo del 1925 da un giovane nazista, rimasto praticamente impunito. La tragica realtà era destinata a superare i toni grotteschi della satira.

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