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Questi complessi ecologici includono diversità entro la specie, tra le specie e dell’ecosistema” (CBD, 1992)

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PREMESSA

Una comunità erbacea ricca di specie diverse si sviluppa con maggior facilità sui suoli di città e delle vaste aree che costituiscono le periferie urbane piuttosto che sui suoli agrari. Questo è attribuito al fatto che contrariamente ai suoli utilizzati per la crescita di colture agricole, i suoli urbani non vengono generalmente fertilizzati e diserbati, o perlomeno non hanno subito l’impatto massiccio dei suoli destinati all’agricoltura intensiva. Infatti, l’utilizzo indiscriminato di diserbanti e fertilizzanti che a volte si è verificato nel corso dei decenni, ha portato alla scomparsa dalle campagne di specie erbacee perenni ed annuali, tipiche infestanti dei campi. Queste specie sono considerate infestanti da un punto di vista agronomico, ma da un punto di vista ecologico rappresentano un patrimonio di biodiversità e costituiscono la fisionomia caratteristica dei campi fioriti delle aree rurali. E’ stato osservato che tali specie hanno trovato il luogo di diffusione e le condizioni pedologiche favorevoli, tra cui la scarsa fertilità, sui terreni incolti urbani. In natura, infatti, sui terreni poco fertili, si sviluppano comunità erbacee ricche di specie diverse, in tali condizioni le singole piante presentano un minor sviluppo di biomassa e conseguentemente le specie meno competitive hanno una maggior possibilità di germinazione e sviluppo.

Su questi presupposti si basano le prove volte ad individuare il comportamento di alcune specie erbacee autoctone su substrati a diverso grado di fertilità agronomica, per creare dei sistemi vegetali a bassa manutenzione, ma ad alto valore ornamentale ed ecologico, adatti a situazioni in cui l’influenza antropica sia molto elevata.

La tesi si colloca nell’ambito del progetto “Produzione e strategie di utilizzo dei wildflowers per la valorizzazione estetico-paesaggistica e la riqualificazione ambientale di aree urbane, peri-urbane e marginali”, co-finanziato dall’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione nel settore Agroforestale (ARSIA) della Regione Toscana, coordinato da ISE-CNR e a cui hanno partecipato le Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa (DAGA, DBPA e DCDSL) e di Firenze (DISAT).

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Capitolo 1 - INTRODUZIONE

1.1 Biodiversità

La biodiversità, o diversità biologica, è diventata un tema centrale della ricerca scientifica e della politica solo a partire della Convenzione sulla Diversità Biologica di Rio de Janeiro del 1992 dove 180 paesi, compresa l’Italia, hanno sottoscritto la seguente definizione: “diversità biologica”

significa “variabilità tra organismi viventi provenienti da qualsiasi comparto ambientale, terrestre, aereo, marino o altro ecosistema acquatico e i complessi ecologici di cui essi sono parte. Questi complessi ecologici includono diversità entro la specie, tra le specie e dell’ecosistema” (CBD, 1992).

L’esigenza di definire a livello internazionale il concetto di biodiversità è nata dalla consapevolezza che la ricchezza della vita sulla terra rischia di essere definitivamente compromessa dalla progressiva antropizzazione di tutti gli ecosistemi terrestri. Questi ultimi sono sistemi complessi capaci di reagire alle variazioni di condizioni che si possono verificare, ma comunque piuttosto fragili per cambiamenti rilevanti sul breve periodo e con la possibilità frequente di non essere in grado di recuperare e reinstaurare le condizioni iniziali (Odum, 1988; Longo, 1990; Miller, 1997).

Alterare gli equilibri di un ecosistema può portare conseguenze ai suoi abitanti e, prendendo in considerazione soltanto le conseguenze dirette all’uomo e alle sue attività, dovremmo considerare i gravi danni per la sopravvivenza delle popolazioni che traggono risorse dirette dall’ecosistema, i danni economici per chi trae profitto da tali risorse e per l’industria turistica e i danni estetici e paesaggistici che coinvolgono quel senso di benessere, di maggior qualità della propria vita che l’uomo può trarre dalla natura semplicemente osservandola, ascoltandola, immergendosi in essa (Longo, 1990; Lovelock, 1991; Funtowicz et al., 1994; Miller, 1997; Wilson, 1999; Lorigliola, 2001).

Oltre a queste conseguenze dirette sull’uomo, l’importanza che molti autori danno alla biodiversità risiede nella natura stessa delle varie forme dei viventi, aldilà del grado di importanza economica, estetica, affettiva o altro attribuitagli dall’uomo (Carson, 1979; Longo e Longo, 1990; Lovelock, 1991; Funtowicz et al., 1994; Miller, 1997; Bordeau, 2004).

La stabilità degli ecosistemi è minacciata dalla riduzione del numero delle specie presenti all’equilibrio, che si estremizza nel fenomeno dell’estinzione.

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I biologi concordano che non è possibile dare la cifra esatta delle specie in via di estinzione, però, nell’esigua minoranza di gruppi di piante e animali a noi nota, l’estinzione sta procedendo a gran velocità, cioè più in fretta di quanto accadesse prima della comparsa dell’uomo. In molti casi, il tasso è addirittura catastrofico (Wilson, 1999). Infatti da molti studi presenti nella letteratura specifica, emergere una situazione critica per la biodiversità, con numerose prove a sostegno dell’ipotesi di un coinvolgimento diretto delle attività umane sulle cause che stanno alla base di tale situazione e con la possibilità non troppo remota che ci si trovi dinanzi alla sesta grande estinzione di massa, parlando in senso geologico. La differenza tra il tasso di estinzione calcolato negli interperiodi fra grandi estinzioni di massa di circa 27 specie per anno e quello stimato attualmente di circa 27.000 specie all’anno nei nostri giorni (Shiva, 2001a) rappresenterebbe in effetti una drammatica testimonianza delle condizioni globali della biodiversità.

Tra le attività principali che stanno alla base del momento critico per la biodiversità troviamo lo sfruttamento eccessivo di alcune risorse naturali, l’inquinamento degli habitat o la loro distruzione, l’introduzione di specie alloctone, la deforestazione eccessiva, l’introduzione della monocoltura su vaste aree, l’alterazione degli ecosistemi in generale e l’aumento di temperatura media superficiale terrestre (Ristori, 2005).

Infatti l’uomo ha distrutto progressivamente gli habitat naturali a fini agricoli, insediativi e produttivi, introducendo spesso specie alloctone generaliste a scapito di quelle specialiste autoctone con la tendenza alla semplificazione dell’ecosistema. In realtà sistemi maggiormente complessi mostrano una maggior stabilità perché minimizzano i rischi sul lungo periodo, associando alla variabilità (la biodiversità) un ruolo di pre-adattamento dei sistemi sul lungo periodo e su una scala ampia (Rammel, 2002). Questa è la stessa tesi sostenuta da molti autori, con passaggi e sfumature non troppo dissimili (Lovelock, 1991; Benci et al., 1998; Galleni, 1998; Wilson, 1999; Shiva, 2001a, 2001b, 2002; Galleni, 2004b).

1.2 Fattori che influenzano la biodiversità vegetale in una comunità erbacea.

Lo sviluppo di un ecosistema, o successione ecologica, implica variazioni temporali della struttura in specie e dei processi a livello della comunità. Quando la successione ecologica non è ostacolata da forze esterne, è un processo che segue un determinato schema ed è quindi prevedibile; esso è il risultato di modificazioni dell’ambiente fisico dovuto alla comunità e ad interazioni competitive a livello di popolazione; la successione è comunità-controllata anche se l’ambiente fisico determina l’andamento, la velocità di cambiamento e spesso pone i limiti all’entità dello sviluppo. Se le

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variazioni durante la successione sono largamente determinate da co-azioni interne, il processo è conosciuto come “successione autogena” (o auto-generata). Se agiscono regolarmente forze esterne, ad esempio incendi, o queste regolano le variazioni, si parla di “successione allogena” (o generata dall’esterno).

La sequenza di comunità che si sostituiscono l’un l’altra in una data area viene detta “sere”: le comunità di transizione vengono dette “stadi serali” o “stadi di sviluppo” o “stadi pionieri”. Il sistema finale stabile è detto “climax”, che persiste e si auto-perpetua in equilibrio con se stesso e con l’ambiente fisico, in teoria, finché non è interessato da grosse perturbazioni (Odum, 1988).

Nei sistemi dove l’influenza antropica è determinante, aldilà dei processi naturali, molti fattori possono influenzare lo sviluppo delle comunità erbacea. Alcuni si possono definire abiotici come le caratteristiche chimico-fisiche del suolo e le condizioni meteo-climatiche, mentre quelli definibili biotici sono le relazioni tra la fauna e la vegetazione, la biodiversità del suolo, la competizione tra le diverse specie vegetali e interspecifica per lo spazio e i nutrienti, l’impatto antropico, in special modo l’attività agricola.

1.2.1 Il suolo

Studi che risalgono a qualche decennio fa hanno messo in relazione la presenza di comunità vegetali altamente biodiverse ed alcune caratteristiche del suolo ed è stato osservato che il grado di biodiversità di una comunità erbacea è dipendente dalla fertilità del suolo (Marrs e Gough, 1989;

Jansses et al., 1998).

La fertilità del suolo è l’attitudine del suolo a produrre e può essere legata al contenuto di nutrienti e sostanza organica (P, N, K, Corganico), dalla sua granulometria (percentuale di argilla, limo e sabbia), dalle sue proprietà fisico-chimiche (pH, capacità di scambio cationico, di ritenzione idrica, drenaggio) e dalla sua conseguente componente biotica.

Sono state condotte diverse ricerche per determinare l’influenza di questi parametri di fertilità del suolo sulla biodiversità.

Molti studi hanno mostrato che quando l’azoto (N) fertilizzante è utilizzato, anche in piccole quantità, il numero delle specie diminuisce (Elisseou et al., 1995; Marrs, 1993; Mountford et al., 1993; Tallowin et al., 1994; Willems et al., 1993). L’aggiunta di N in tappeti erbosi ricchi in specie è associato ad un declino della diversità (Thurston, 1969; Harper, 1971, van der Bergh, 1979;

Tilman, 1982; Berendse et al., 1992). Anche se l’azoto, in particolare il nitrato, è velocemente lisciviato dal terreno, l’eliminazione dell’apporto di questo fertilizzante non è sufficiente a raggiungere livelli di azoto disponibile nel terreno abbastanza bassi da permettere la vita a comunità ricche in specie poiché i contenuti nel suolo di N-NO3 e N-NH4 derivano da più fonti. La prima

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fonte che può essere difficilmente evitata riguarda i depositi atmosferici che in alcune aree possono essere elevati (50Kg/ha nei Paesi Bassi) (Willems et al., 1993). La seconda fonte è dovuta all’apporto delle specie azotofissatrici (come la leguminose) tramite l’associazione simbiotica. La terza fonte è dovuta alla mineralizzazione della sostanza organica del suolo che, in certi terreni, libera alte quantità di nutrienti che offrono la possibilità di mantenere livelli di produttività costanti durante parecchi anni dopo la cessazione della fertilizzazione (Berendse et al., 1992).

In 281 stazioni diverse per tipo di terreno (pH, tessitura, nutrienti, apporto d’acqua), collocate in regioni temperate dell’Europa Ovest-Centrale, i suoli con contenuto maggiore di 5 mg di P/100 g di suolo, ospitavano al massimo 20 specie per 100 m2, mentre il più alto numero di specie si trovava nei terreni con contenuto di fosforo sotto la soglia ottimale per la nutrizione delle piante (5-8 mg/100g) (Janssens et al., 1998).

Nello studio su due prati eterogenei creati artificialmente ai margini dell’area urbana di Wolverhampton (UK), i dati dell’abbondanza delle specie sono stati relazionati ai parametri del suolo (fosforo e potassio estraibile, azoto minerale, pH, tessitura e umidità) indicando che basse concentrazioni di P sono associate ad alta diversità vegetale. L’intervallo di concentrazioni più correlato con la ricchezza in specie è <7 mg di P estraibile/100g (McCrea et al., 2001).

A partire da questi dati, se deve essere ricostruita una comunità ricca in specie, è quindi necessario scegliere un suolo che contenga fosforo estraibile sotto questo limite o diminuire le sue quantità.

Quest’ultima operazione è molto difficile perché questo elemento è molto stabile nel terreno.

Willems e van Nieuwstadt (1996) hanno dimostrato la difficoltà nell’aumentare la diversità del tappeto erboso dopo aver fermato la fertilizzazione in caso di terreno ricco di fosforo; esso è fortemente legato al suolo, principalmente alle argille, limo e minerali come ferro e ossidi di alluminio e ciò spiega la lenta diminuzione del suo contenuto nel tempo. Inoltre il quantitativo di questo elemento esportato in foraggio è molto basso (10-20kg/ha*anno) (Marrs, 1993). Quando le immissioni di azoto (da fertilizzante o da deposito atmosferico) sono insignificanti, il fosforo disponibile nel suolo può intervenire nel controllo della disponibilità dell’azoto e quindi sulla diversità delle piante. I relativi effetti vanno indirettamente a vantaggio delle specie più produttive che hanno la capacità di rimpiazzare le altre specie attraverso la loro alta competitività, non solo a livello radicale ma anche nelle parti aeree. Questa competitività avviene attraverso un’alta e rapida produzione di biomassa quando il livello di nutrienti è sufficiente; le altre specie sono rapidamente all’ombra e spariscono. Le interazioni tra azoto e fosforo disponibili giocano un ruolo importante nel controllo della diversità delle piante del tappeto erboso (Janssens et al., 1998).

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L’identificazione di un range ottimale di nutrienti nel suolo è un’importante risultato per prevenire sforzi inutili spesi tentando di ristabilire un prato ricco in specie in siti inadatti (McCrea et al., 2001).

Rifacendosi alla bibliografia, il ruolo del potassio (K) non è molto chiaro. Alte concentrazioni di potassio su vecchie aree arabili sono state ritenute responsabili della diminuzione della diversità delle specie (Gilbert e Anderson, 1998), sebbene Elberse et al. (1983) trovarono che alte aggiunte di potassio non alteravano la composizione botanica degli appezzamenti sperimentali per il fieno. Il livello di potassio diminuisce con i ripetuti tagli e rimozione del fieno (Oomes, 1990; Oomes e Altena, 1994; van der Woude et al., 1994; Schaffers et al., 1998) e l’esaurimento del lungo termine è stato associato al declino delle specie (Elberse et al., 1983).

Altri fattori come pH, materiale organico, azoto totale e calcio non mostrano così chiaramente una relazione con la diversità delle piante, tuttavia la diversità è più alta in aree che portano piccoli stress di pH alle piante (Ling, 2000). Questa relazione è supportata anche da altri studi (Gilbert, 1989) secondo cui un moderato livello di stress conduce ad una maggiore diversità vegetativa.

Parlando di terreni urbani, marginali o non coltivati, si sostiene che lasciare il substrato originale produrrà più diversità nella flora rispetto a fertilizzare o importare nuovo sottosuolo (Janssens et al., 1998).

Molte ricerche sono state indirizzate al ripristino e alla valorizzazione di prati ricchi di specie (Janssens e Peeters, 1996; Snow et al., 1997; McCrea et al., 2001) che in tutta Europa sono scomparsi a causa dell’uso massiccio di diserbanti e fertilizzanti (Grime, 1973; 1979). In seguito alle conclusioni riguardanti la scarsa fertilità del suolo necessaria per la vegetazione costituita da fiori spontanei, si sono sviluppate diverse tecniche per poterla ridurre (Marrs,1985). Molte ditte che si occupano di impiantare questo tipo di piante ornamentali utilizzano, nella pratica agronomica, la tecnica dello “stripping”, che consiste nell’eliminare la parte superficiale del suolo (topsoil) più fertile, che viene poi venduta o utilizzata per realizzare un impianto a verde tradizionale, e procedono poi alla semina direttamente sul suolo povero sottostante (subsoil) (Lickorish et al., 1994).

1.2.2 L’ambiente climatico

Due principali fattori limitano la crescita di una pianta: lo stress ed il disturbo. Lo stress può includere la bassa fertilità, la luminosità ridotta, condizioni di siccità o anaerobiche, alta esposizione solare, tutti fattori legati all’ambiente. Il disturbo può essere su piccola o larga scala, occasionale o regolare ed è dovuto ad azione umana, animale, o evento ambientale occasionale. L’aratura d’un campo o l’intervento con fitofarmaci sono ovvi segni di disturbo, ma cumuli di terra ad opera di una

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talpa, inondazioni e lo scorrere di flussi d’acqua, la frana del terreno e il calpestio degli animali al pascolo rappresentano azioni di disturbo.

Le piante hanno in genere fallito nello sviluppare una strategia che le salvi da alti livelli di disturbo combinati con un ambiente estremamente stressante. Comunque, con lieve stress o disturbo, la strategia di competizione si è evoluta caratterizzata da un picco di rapida, robusta e vigorosa crescita estiva, un’alta e densa produttività di foglie e una propagazione laterale estesa sopra e sotto il terreno. In base all’adattabilità delle piante di fronte a queste condizioni avverse e quindi alla strategia ecologica assunta, esse si possono suddividere in competitive, tolleranti allo stress e ruderali (classificazione CSR, dall’inglese Competitive, Stress-tollerant e Ruderal) (Grime, 1979).

Le condizioni di un suolo fertile sono sfruttate al meglio da piante competitive. Le piante tolleranti allo stress hanno caratteristiche di sempreverdi, perenni, longeve, a bassa crescita, con fioritura e produzione di seme irregolari, con necessità di lunghi tempi per la stabilizzazione e considerevole longevità di foglie e radici. Le piante ruderali (le nomadi del mondo vegetale) hanno sviluppato una strategia più adatta al disturbo, esse sono contraddistinte tipicamente da una breve vita, annuali o biennali, da una rapida stabilizzazione, da una produzione di seme ben disperdibile (Oliver, 1998).

Al-Mufti et al. (1997) e Grime (1979) suppongono che esiste una relazione iperbolica (“humped- back relationship”) tra la biomassa e il numero delle specie presenti nella comunità erbacea, ossia al diminuire della biomassa aumenta il numero delle specie presenti. Questa teoria è dimostrata da vari autori (Wheeler e Giller, 1982; Wheeler e Shaw, 1991; Wilson e Shay, 1990). Si può sostenere che la massima biomassa dipende dalla produttività della comunità e quindi dalla fertilità del suolo.

Studi sulla biomassa possono dimostrare significative differenze sulla fertilità del suolo, laddove analisi chimiche del suolo non producono risultati significativi. (Marrs, 1985; Olff e Pegtel, 1994;

van der Woude et al., 1994).

1.2.3 Pedofauna

Esiste uno stretto legame tra le successioni vegetali di una comunità erbacea e la composizione della fauna del suolo. La presenza di organismi invertebrati del suolo aumenta l’uniformità nella distribuzione in specie di una comunità vegetale, diminuendo quantitativamente le specie dominanti, poiché gli invertebrati erbivori sono selettivamente mangiatori delle radici di queste piante. Ciò può essere dovuto all’alta qualità e accessibilità delle radici delle piante dominanti: una composizione di nutrienti più adatta, minor difese chimiche o meccaniche, una più bassa tolleranza agli erbivori. La riduzione della biomassa delle piante dominanti comporta un indiretto vantaggio per le specie di piante sub-dominanti che sono solo marginalmente soppresse dalla presenza della fauna del suolo (De Deyn et al., 2003).

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1.2.4 L’azione antropica

Come abbiamo visto, il fattore antropico è tra le maggiori cause di perdita di biodiversità.

L’intervento dell’uomo, in particolare la produzione di sostanze inquinanti, l’urbanizzazione, l’agricoltura intensiva, con gli interventi di fertilizzazione dei terreni, l’aratura, la monocoltura e il diserbo, influenzano negativamente la ricchezza in specie vegetali.

La fertilizzazione dei suoli per colture erbacee semi-naturali ha diminuito la capacità di molti siti di supportare una diversità di specie. (Green, 1972; Marrs e Gough, 1989; Gough e Marrs, 1990). In molti paesi la monocoltura ripetuta ha reso le piante più vulnerabili agli attacchi di insetti e malattie, inoltre la monocoltura di per sé rappresenta una perdita di diversità genetica per il disboscamento di praterie e foreste caratterizzate da ampia biodiversità (Miller, 1997). In molti paesi si stanno introducendo aree a vegetazione spontanea tra i campi coltivati per incrementare la fauna entomologica che contrasta i fitofagi, in un certo senso si stanno reintroducendo le infestanti.

L’intensificazione della gestione dei pascoli di questi ultime decadi ha ridotto la diversità dei tappeti erbosi nell’Europa Centrale e Occidentale (Baldock, 1990). I principali fattori che agiscono sulla diversità del prato sono il regime di taglio (specialmente i tagli precoci che interessano i foraggi) e l’incremento dell’uso dei fertilizzanti (in particolare fosforo e azoto). La flora del pascolo, un ecosistema una volta ricco di specie, sta diventando sempre più ridotta fino a monospecifica.

Il mantenimento di alcune comunità di piante nelle riserve naturali è oggigiorno una comune pratica per ritardare questa perdita. Questa è una soluzione utile, ma insufficiente: le comunità di piante minacciate, mantenute in riserve, sono infatti totalmente isolate l’una dall’altra e conseguentemente è annullato lo scambio genico necessario ad assicurare la loro sussistenza (Spellerberg, 1991).

Il corridoio ecologico potrebbe tuttavia creare un legame tra queste comunità e una rete (ecological network): per questo scopo sono utili cigli stradali, parchi pubblici, zone industriali adatte alla fauna e flora spontanea.

1.3 Ambiente urbano

1.3.1 Suoli urbani

La definizione di “suoli urbani”, caratterizza un tipo di suolo con una fisionomia distinta dai suoli naturali e agrari. Esso si differenzia per essere influenzato nella sua composizione in maniera molto più determinante dall’azione umana piuttosto che dagli agenti naturali rispetto ad altri tipi di terreno. Una definizione utilizzata è stata la seguente: “un suolo non agricolo, con una superficie arabile profonda più di 50 cm, prodotto dalla mescolanza e riporto, soggetto a processi di

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contaminazione specifici, situato in aree urbane e suburbane” (Craul, 1992). Da questa definizione risaltano tre azioni, tutte realizzate dall’uomo, che costituiscono le cause principali della peculiarità del suolo urbano: mescolanza, riporto, contaminazione.

Contrariamente ai terreni naturali, che presentano un profilo composto di orizzonti verticali, i suolo urbano non ha un profilo determinato, ma presenta una grandissima variabilità, verticale e orizzontale, perché alla base della sua formazione non ci sono i processi pedogenetici, ma la stratificazione è causata dall’accumulo di detriti, materiali di riporto, edili, resti di scavi di fondamenta, ecc.

Caratteristiche del suolo urbano sono l’assenza di struttura come, la scarsità di sostanza organica e nutrienti, la compattazione per l’assenza totale di lavorazione, la limitazione dei processi di gelo- disgelo e inumidimento-essiccamento dovuta al clima alterato dell’isola di calore urbana, la frequente distruzione della copertura vegetale causata dalle attività umane sul suolo (parcheggi di auto, calpestio, lavori con mezzi pesanti) e i conseguenti fenomeni di erosione, la formazione di una crosta superficiale causata in parte anche dalle deposizioni atmosferiche dei derivati del petrolio.

Spesso i suoli in città sono contaminati da metalli pesanti soprattutto arsenico, piombo, zinco, nichel, mercurio, rame, cadmio e cromo proveniente da varie fonti (Bretzel e Calderisi, 2005).

Nel suolo urbano i microrganismi (batteri, funghi, lieviti e alghe) e la meso-fauna (lombrichi, larve terricole, formiche ed altri piccoli insetti), utili ai processi di pedogenesi e umificazione, possono essere altamente danneggiati dall’assenza di porosità, dall’alterazione di pH e di temperatura e dalla presenza di contaminanti per cui in alcuni (lombrichi, gasteropodi) è stato riscontrato l’accumulo.

Tutti questi fattori contribuiscono a diminuire la fertilità agronomica del suolo urbano e a renderlo poco idoneo alla coltivazione tradizionale di specie ornamentali, viceversa esso rappresenta una risorsa potenzialmente valida per lo sviluppo di una vegetazione ricca in specie composta da fiori spontanei, che deve tendere alla costituzione di una comunità auto-sostenibile (Bretzel e Hitchmough, 2000), rispondendo anche all’esigenza di limitare le spese nell’ambito dei capitolati del verde pubblico cittadino e di una gestione ambientalista e consapevole.

1.3.2 Importanza della biodiversità in ambiente urbano

Il problema della conservazione della natura diventa sempre più attuale, tanto da spingere la ricerca a sviluppare i sistemi per la creazione e il recupero degli habitat naturali (Gilbert e Anderson, 1998).

Se è relativamente facile pensare al suo significato in ecosistemi naturali, meno immediato è il riferimento agli ambienti più fortemente antropizzati. Eppure, l’ecosistema urbano costituisce un sistema complesso nel quale sono presenti numerosissimi e diversificati biotopi: abitazioni, edifici dai diversi usi, verde spontaneo e coltivato, scarpate stradali e ferroviarie, aree industriali attive o

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dismesse (Giordano et al., 2002). Le superfici incolte, o nelle quali l’intervento antropico è minimo, funzionano frequentemente da elementi di raccordo con il paesaggio circostante: accade così che elementi di flora e fauna propri di un ambiente naturale vengano a trovarsi spazialmente vicine a specie più strettamente sinantrope. Nella sola città di Roma si è stabilito che soltanto le specie di insetti sono sicuramente più di 5000 (Vigna Taglianti et al., 2000; Zapparoli et al., 2000): ciò è fortemente legato alla ricchezza di biotopi che vengono inclusi nel tessuto urbano. Anche in un ambiente dove l’azione dell’uomo è preponderante, è possibile favorire una certa

“rinaturalizzazione”, attraverso la creazione o la conservazione di aree che possano riproporre biotopi con caratteristiche degli ambienti naturali (Gilbert, 1991). L’importanza della conservazione della biodiversità in ambiente urbano viene confermata anche dagli obiettivi e dai programmi dell’Agenda 21. La conservazione della natura è considerato un sistema economicamente valido per il recupero di suoli postindustriali ed esistono dei manuali di uso pratico, da parte di tecnici progettisti, per creare nuovi paesaggi sostenibili in termini di biodiversità. A questo proposito il monitoraggio a lungo termine è uno strumento fondamentale per affermare la riuscita dell’auto- sostenibilità (Goode, 1995). Creare impianti di wildflowers in contesti urbanizzati va, quindi, nella direzione di un arricchimento della componente biotica, animale e vegetale, dell’ambiente urbano.

La presenza di aree con caratteristiche di naturalità costituisce, infatti, un collegamento tra città e territorio circostante, favorendo la formazione dei cosiddetti “corridoi ecologici” che tanto interesse suscitano sia negli studiosi di ecologia che nei pubblici amministratori, come testimoniato dalla legge 56/2000 della regione Toscana e dalla recentissima deliberazione della Giunta Regionale Toscana n. 1148 del 21-10-2002, documenti attuativi di una direttiva comunitaria volta a valorizzare la biodiversità. La presenza di piante spontanee funziona anche come “area rifugio” per specie utili, così come già dimostrato per la componente entomologica degli agroecosistemi (Nicoli, 1996; Maini, 1995) e può consentire il recupero di aree incolte o di difficile gestione migliorandone la fruibilità da parte dei cittadini. Questo tipo di vegetazione ha una forte componente evocativa sull’immaginario comune: la vista di un prato fiorito e di fiori di campo rimanda alla campagna e all’infanzia e crea stimoli culturali ed aggregazione. I bambini sono affascinati dalla presenza dell’entomofauna impollinatrice e delle farfalle attratte dai fiori. Inoltre, già in molti Paesi, il valore didattico di questa vegetazione è ampiamente evidenziato e sfruttato per lezioni in campo e gite scolastiche. Il National Wildflower Centre di Liverpool ha curato una pubblicazione ricca di schede di botanica ed ecologia destinata agli insegnanti (Treble, 2000) ed offre visite organizzate per le scuole all’interno del centro stesso. Questo aspetto sociale fa della vegetazione in questione una scelta d’elezione per giardini di complessi didattici e per piccoli parchi di quartiere, accessibili ai giochi dei bambini e alla fruizione da parte di anziani. Nella progettazione di tali aree può essere

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considerata una fascia marginale destinata ai wildflowers, come anche può essere proposta questa soluzione per vivacizzare e rinnovare giardini pubblici in stato di semi abbandono o di incuria. In Gran Bretagna questo tipo di impianto è stato adottato in aree urbane socialmente difficili e problematiche ed ha avuto un livello molto elevato di gradimento da parte dei residenti (Sheffield Wildlife Trust, 2000). L’arricchimento della biocenosi ad opera delle specie di insetti richiamate dai wildflowers può, infine, essere sfruttato a scopi didattici, attraverso il coinvolgimento degli allievi di scuole e frequentatori degli impianti in oggetto, al fine di illustrare loro il ruolo esercitato nell’ecosistema urbano dai gruppi tassonomici rilevati.

1.4 Rigenerazione ambientale

Nelle vecchie regioni industriali d’Europa, il passaggio da una pesante industria ad un’economia consapevole ha lasciato lungo la sua scia tratti estesi di terre danneggiate e abbandonate. La definizione di “derelict land” del Department of Environment (1991) dice “…terre così danneggiate dallo sviluppo industriale o da altro che non possono esser utilizzate con beneficio senza un trattamento”. Nel Regno Unito la quantità di terre abbandonate fu rilevata in più anni dal 1974 (Department of Environment, 1995) e i dati mostrano che tra il 1988 e il 1993 l’ammontare delle terre abbandonate rimaneva approssimativamente il solito, intorno a 40000 ettari, indicando che le terre abbandonate erano create circa allo stesso tasso con cui venivano recuperate.

Dov’è stato possibile e appropriato, queste terre sono state trattate e restaurate per uso edile o per lo sviluppo commerciale, ma un approccio alternativo che utilizza la copertura vegetale ha dimostrato di produrre attrattiva, biodiversità e paesaggi ricostruiti ad un costo minore. Infatti queste terre danneggiate sono spesso localizzate in aree periferiche della città, dove l’accesso è povero, l’area è poco attrattiva e sfavorevole ad investimenti; i siti possono essere contaminati o strutturalmente incapaci di supportare uno sviluppo senza considerevoli e onerosi lavori che probabilmente costeranno più di quanto non varrà il terreno completamente recuperato.

Tipicamente, le autorità competente si indirizzano verso spazi aperti pubblici o ricreativi con la conseguenza di caricarsi di grossi costi di mantenimento senza aver risorse con cui soddisfarli. Ciò conduce a situazioni in cui uno spazio verde ricreato può tornare abbandonato a causa del mancato mantenimento. La popolazione locale vede un piccolo reale beneficio dal progetto di rigenerazione del suolo e le autorità locali restano con responsabilità finanziare che non possono sopportare (Handley, 1996).

L’approccio ecologico dà la soluzione ai problemi dei durevoli costi di mantenimento e delle quantità di terre abbandonate che restano costanti: impiegare la potenzialità naturale del sito di

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restaurarsi. Quest’ultima è utilizzata per creare un paesaggio sostenibile, che incorpori la variabilità della struttura del substrato per creare biodiversità e caratteristica vegetazione; lavorando con la natura piuttosto che tentando di nascondere le caratteristiche di un sito sotto un nuovo strato di suolo (Ling, 2000). È centrale in questo tipo di approccio coinvolgere la popolazione locale, potenziale investitrice, perché un ambiente sostenibile richiede che “…l’integrità ecologica e i bisogni umani basilari siano mantenuti in coesistenza per generazioni” (Forman, 1995). Ciò significa che l’uomo deve essere riconosciuto come parte della natura e le necessità delle popolazioni locali adiacenti alla terra abbandonata devono completamente essere seguite nel recupero del sito: questo è l’unico modo che assicura che il sito sarà non solo ecologicamente, ma anche socialmente, sostenibile.

Un lavoro redatto da Land Capability Consultants (1989) mostra che la conservazione della natura è il metodo più efficace e economico per il recupero delle terre abbandonate; nello studio i benefici di differenti tipi di progetti erano espressi con un punteggio derivato da un rendimento nelle categorie della sicurezza, compatibilità dell’uso della terra, benefici visibili, uso piacevole e conservazione della natura. La biodiversità è una, se non la, necessità chiave nella conservazione della natura (Spellerberg, 1996), per cui massimizzare la potenzialità del sito per la diversità è importante in ogni progetto di recupero.

1.5 Progetto ARSIA

Il progetto “Produzione e strategie di utilizzo dei wildflowers per la valorizzazione estetico- paesaggistica e la riqualificazione ambientale di aree urbane, peri-urbane e marginali” rappresenta il primo tentativo di colmare un vuoto che in Italia è particolarmente sentito, sia da parte dei professionisti del settore per la progettazione di aree a bassa manutenzione, sia da parte dei privati interessati a una vegetazione di estetica naturale e di semplice manutenzione. l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione nel settore Agroforestale (ARSIA) della Regione Toscana ha co- finanziato il progetto, iniziato nella primavera 2002, che ha come obiettivo principale la valorizzazione estetico-paesaggistica e la riqualificazione ambientale a basso input energetico di ambienti antropizzati attraverso la caratterizzazione e l’utilizzo di wildflowers originati da specie ed ecotipi locali. Le principali azioni di questo progetto sono: a) l’individuazione delle specie erbacee spontanee o naturalizzate in base al loro potenziale ornamentale e di biodiversità e la raccolta dei semi in ambienti naturali; b) lo studio della riproduzione delle specie individuate e la produzione di sementi non reperibili in commercio; c) la caratterizzazione biologica, estetica e funzionale delle

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specie e la loro adattabilità alla coltivazione intensiva come mezzo di conservazione e valorizzazione; d) l’impiego delle specie individuate in ambienti antropizzati e la valutazione dell’effetto ornamentale, del livello di biodiversità entomologica e del valore ecologico del sistema.

Al progetto, coordinato dal CNR, Istituto per lo Studio degli Ecosistemi di Pisa, partecipano 24 partner. I partner scientifici (Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema, Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie, Dipartimento di Coltivazione e Difesa delle Specie Legnose della Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, Dipartimento di Scienze Agronomiche e Gestione del Territorio Agroforestale della Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e Department of Landscape, University of Sheffield) provvedono alla fase di ricerca e di sperimentazione. Gli altri partner, che possono essere considerati anche gli utenti intermedi e finali del progetto, sono rappresentati da amministrazioni pubbliche (Comuni di Livorno, Pisa, San Giuliano Terme e Sesto Fiorentino; Provincia di Lucca) che hanno contribuito all’impianto di wildflowers in zone marginali, in aree dove è preferibile una gestione ridotta a basso costo oppure in aree ad interesse sociale e culturale (parchi naturali); enti addetti alla viabilità (Autostrade per l’Italia, Società Autostrade Tirreniche) che hanno provveduto all’impiego di wildflowers in complementi alla viabilità (spartitraffico, scarpate), dove è preferibile una riduzione degli interventi manutentivi e dei costi; complessi didattici (Istituto Tecnico Agrario Statale Busdraghi, Lucca;

Scuola Media Statale Bartolena, Livorno; Scuole Elementari Dal Borro e Collodi, Livorno; Scuola dell’Infanzia Galilei) che hanno usufruito dell’aspetto ecologico della vegetazione, destinando aree all’interno dei complessi scolastici all’impianto di wildflowers e fornendo agli alunni dei veri laboratori all’aria aperta; un’azienda produttrice di sementi (Gargini Sementi, Lucca) che può aggiungere un nuovo settore alla produzione; aziende florovivaistiche (Azienda Agricola A.B.R., Viareggio; Azienda Floricola Biricotti, Livorno; Garden Vivai Mediterranei, Capalbio) che stanno avviando una nuova attività di produzione e commercializzazione di semenzali di wildflowers;

cooperative e aziende di servizi (Greenlogy, San Colombano al Lambro (MI); REA, Rosignano Solvay (LI); Cooperativa Il Carro, Livorno) che hanno svolto un ruolo di supporto nella fase di dimostrazione e che hanno l’opportunità di appropriarsi di una tecnica nuova e sostenibile di gestione del verde.

Le attività e i risultati preliminari del progetto

Ø Sono state individuate alcune specie, scelte secondo criteri estetici, funzionali ed ecologici (tabella 1). Di queste specie è stata effettuata la raccolta dei semi negli ambienti naturali, che a loro volta sono stati studiati e caratterizzati dal punto di vista pedologico.

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Ø Sono state studiate le caratteristiche dei semi raccolti, con particolare riguardo alla germinabilità e ai fenomeni di dormienza: quasi tutte le specie hanno presentato il fenomeno della dormienza primaria, che è stato risolto con un periodo di vernalizzazione. Tutte le specie, seminate in campo in parcelle monospecifiche nel mese di novembre 2004, sono germinate.

Tabella 1: Le specie di wildflowers oggetto di studio.

Calamintha nepeta Savi Linaria vulgaris Miller Campanula medium L. Linum usitatissimum L.

Campanula rapunculus L. Malva sylvestris L.

Cichorium intybus L. Matricaria chamomilla L.

Coleostephus myconis (L.) Cass. Nigella damascena L.

Daucus carota L. Papaver rhoeas L.

Dianthus carthusianorum L. Salvia verbenaca L.

Echium vulgare L. Scabiosa columbaria L.

Eupatorium cannabinum L. Senecio erraticus All.

Galium verum L. Silene alba (Miller) Krause Hypericum perforatum L. Verbascum blattaria L.

Hypochoeris radicata L. Verbascum sinuatum L.

Lavatera punctata All. Tordylium apulum L.

Ø Le specie individuate sono state caratterizzate dal punto di vista biologico, estetico e funzionale in relazione alle condizioni pedoclimatiche.

Ø E’ stata valutata l’adattabilità di alcune delle specie individuate alla coltivazione intensiva, come mezzo di conservazione e valorizzazione ambientale. Campanula rapunculus, Eupatorium cannabinum, Verbascum blattaria hanno dimostrato, anche per la durata della fioritura, una buona attitudine ad essere allevate per fiore reciso, mentre Calamintha nepeta, Globularia punctata, Linaria vulgaris si sono rivelate interessanti per la produzione in vasetto.

Ø Impianti dimostrativi di wildflowers sono stati allestiti in ambienti urbani, caratterizzati dal punto di vista pedologico e dove è stata studiata l’entomofauna attratta dalla vegetazione. Le pratiche agronomiche si sono limitate al diserbo nel mese di ottobre 2003, ad una lavorazione leggera (profondità di 10 cm) e alla semina nel mese di novembre; la fioritura è iniziata in marzo e si è conclusa in giugno-luglio. Con le prime piogge autunnali si è osservata una ripresa della vegetazione e della fioritura.

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1.5.1 Wildflowers come verde ornamentale

I luoghi più adatti per l’utilizzo dei wildflowers sono l’ambiente urbano e peri-urbano: spartitraffico, aree degradate ex industriali e fasce marginali, in questo caso il vantaggio secondario è quello di valorizzare delle aree dove le amministrazioni pubbliche non vogliono investire somme ingenti. Vi è poi un'altra prospettiva, secondo la quale è consigliabile l’utilizzo di queste specie in zone al limite di parchi pubblici, nel verde condominiale a bassa manutenzione, in tetti e cortili verdi, nei giardini di scuole e complessi didattici: in questo caso la possibilità di fruire di tali spazi sarà arricchita da un elemento in più e di grande valore culturale (Dunnett, 1999). Le amministrazioni pubbliche, infatti, possono dislocare dei cartelli esplicativi con la descrizione delle specie utilizzate, dei loro habitat naturali, delle specie di insetti visitatori di tale vegetazione. Nel caso in cui la vegetazione naturalistica composta da wildflowers venga impiegata in cortili o giardini di scuole, la didattica scolastica può prevedere una parte di applicazione pratica nel programma di scienze, con visite dal vivo in cui gli alunni potranno seguire le varie fasi biologiche e fenologiche delle piante, dalla germinazione alla fioritura e alla formazione del seme, e l’osservazione degli insetti impollinatori. Si creerà così la possibilità di un laboratorio all’aria aperta dove gli alunni, con la guida degli insegnanti, potranno svolgere osservazioni e ricerche. Anche l’ambiente antropizzato extra urbano si presta per l’impiego di wildflowers, sia per la gestione di aree dove sia richiesto un basso input manutentivo, come le aiuole di sosta autostradali, le scarpate e le discariche, sia per la rinaturalizzazione di aree abbandonate, come cave e zone ex industriali.

I vantaggi dell’impianto di questo tipo di vegetazione sono molteplici ed emergono, in particolare, alcuni aspetti che è opportuno sottolineare:

il fatto che si tratti di piante erbacee ne rende l’insediamento, e soprattutto l’effetto estetico- funzionale, molto rapido, anche perché sono capaci di coprire il suolo in un lasso di tempo relativamente breve, cosa che invece si riesce ad ottenere soltanto dopo diversi anni con arbusti ed alberi;

alcune specie si prestano alla coltivazione su suoli di scarsa qualità, rivelando un valore ornamentale notevole anche in condizioni di bassa manutenzione (Greenoak, 1998); inoltre, su terreni poveri di nutrienti, le capacità di naturalizzazione aumentano, rendendo più facile la colonizzazione in situazioni marginali;

offrono una serie di opportunità alla fauna propria dell’area - semi per gli uccelli, fiori e nettare per le farfalle e per le api - senza turbare gli equilibri biologici di quella nicchia (Owen, 2002);

forniscono un contributo al mantenimento della biodiversità, conservando e diffondendo le specie spontanee (Lovejoy, 1998);

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introducono un tocco di “naturalità” nei giardini uniformati e spersonalizzati da tappeti erbosi monofitici, raramente oligofitici, privi di policromia spaziale e stagionale (Bretzel, 1999a);

l’impianto di wildflowers può contribuire a diffondere la conoscenza della flora locale e stimolare quindi l’interesse per la sua conservazione;

si ha una riduzione dei costi gestionali, non essendo previsto l’uso di fertilizzanti, fitofarmaci e irrigazione, e si può quindi parlare di manutenzione sostenibile (Dunnett e Hitchmough, 1996).

Accanto ai vantaggi, si evidenziano alcuni problemi di non facile soluzione operativa. Considerando il fatto che in Italia non esiste un’attività sementiera specializzata e neppure esiste una domanda di mercato consistente, è opportuno individuare le problematiche principali da affrontare:

1. manca la conoscenza delle specie dal punto di vista della coltivazione: se ne conoscono gli aspetti botanici, ecologici e fito-geografici, ma non quelli agronomici;

2. la conoscenza della biologia dei semi delle specie spontanee spesso è lacunosa se non assente;

3. manca la produzione di semi sul territorio nazionale;

4. l’opinione pubblica non è sufficientemente sensibilizzata o, perlomeno, non ne è cosciente e quindi risulta ancora scarsa la domanda di mercato.

Grazie al co-finanziamento dell’ARSIA Toscana nel 2003, sono passati due anni nell’attuazione di un progetto che mira a risolvere alcuni di questi problemi.

In Europa esiste un mercato per i wildflowers radicato soprattutto nel nord (Germania, Gran Bretagna, Olanda e Paesi Scandinavi) a seguito della sensibilizzazione realizzata dagli operatori e professionisti del verde ornamentale verso il concetto di “Ecologia Creativa”, ossia dell’utilizzo di specie spontanee a fini ornamentali. Un esempio della diffusione di una nuova prospettiva nel verde pubblico e privato è stato il convegno organizzato nel 1996 in Olanda dalla Perennial Perspectives Foundation, dove è stato presentato lo stato dell’arte sulla materia e da cui è uscito un grande impulso in favore dell’integrazione tra progettazione paesaggistica, esperienza ecologica e conoscenze in floricoltura (Leopold, 1996). Storicamente il giardino naturale è nato nel Nord Europa e, dunque, l’accettazione da parte del pubblico di un verde ornamentale di tipo naturalistico fa già parte della cultura del paesaggio (Hitchmough e Woudstra, 2000). In questi paesi i fiori spontanei vengono utilizzati comunemente dagli anni ‘70 per i giardini pubblici, il verde urbano, le zone residenziali in aree periferiche o difficili socialmente ed i bordi autostradali. Molte ditte sementiere comprendono nei loro cataloghi una sezione wildflowers, mentre altre sono specializzate esclusivamente in erbacee perenni spontanee, come la Jelitto in Germania.

In Gran Bretagna i wildflowers sono stati studiati, in maniera approfondita, dal punto di vista botanico, ecologico, agronomico, dando un particolare rilievo al valore sociale di questa

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vegetazione. Per l’alto potenziale didattico ed evocativo dei fiori spontanei questi prati vengono infatti impiegati come aggregatori sociali e laboratori a cielo aperto. Il progetto “Landlife”, che si avvale della consulenza scientifica delle Università di Liverpool e di Manchester, ne è un esempio molto interessante (Bretzel, 1999b). In esso è compresa una sezione divulgativa, che prevede attività di tipo sociale, ed una sezione commerciale, situata presso il “National Wildflower Center”

nei pressi di Liverpool, che provvede alla riproduzione e vendita dei semi di una decina di specie spontanee, di vari miscugli, di semenzali (piantine) e di manuali per la gestione dei wildflowers.

In Francia il crescente interesse per la vegetazione spontanea degli ultimi anni è da attribuire, in gran parte, al paesaggista Gilles Clement, che ha fatto della “friche” (terreno non coltivato, o che ha cessato di esserlo, coperto di erbacee spontanee) un nuovo modo di gestire il paesaggio e il giardino (Clement, 2001). Nella Francia mediterranea da qualche anno sono sorte delle ditte sementiere (Phytosem, Le Jardin de Sauveterre) che oltre a proporre semi di specie singole, offrono miscugli di specie erbacee annuali e perenni autoctone, adatti a diversi tipi di terreni e situazioni (arido, anti- erosione, ecc.) e servizi completi di sistemazione di aree a vegetazione spontanea naturalistica.

Figura 1: esempi di utilizzo di wildflowers all’estero.

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Figura 2: Spartitraffico sulla statale Aurelia (Livorno, 24/04/2002).

Figura 3: Spartitraffico sulla statale Aurelia (Livorno).

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Figura 4: Rotatoria di Antraccoli (Lucca, giugno 2004).

Figura 5: dettagli di prati in diverse epoche di fioritura.

1.5.2 Specie autoctone e specie alloctone:

Le specie vegetali della nostra attuale flora si possono dividere in due grandi gruppi (Viegi et al., 1974):

1. le specie autoctone (o native) che sono da sempre presenti nella regione in cui si opera 2. le specie esotiche o alloctone, importate dall’esterno

In campo ornamentale si assiste a un lento ritorno di interesse per le piante locali. Le attuali tendenze nella progettazione dei giardini, a partire dal paesaggista fiorentino Pietro Porcinai, si

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orientano verso l’interpretazione ed il rispetto del genius loci, lo spirito del luogo, che comprende, oltre agli aspetti culturali, anche quelli ambientai e paesaggistici (Matteini,1993).

Si assiste così in tempi attuali alla riscoperta della bellezza e dell’utilità di molte specie selvatiche fino a poco tempo fa ritenute “malerbe”, inutili o non interessanti, ma che oggi si rivelano al contrario molto utili per risanare le ferite che l’uomo crea nel paesaggio.

Le piante esotiche (o alloctone) sono state importate negli ultimi secoli per scopi ornamentali, alimentari, forestali (coltivate) o anche solo accidentalmente (avventizie). Tra le specie coltivate, alcune non si riproducono affatto nel nostro clima e sono anzi vulnerabili al gelo e alla siccità (piante “non spontaneizzate”), mentre altre si riproducono spontaneamente anche al di fuori dei luoghi di coltura (piante “spontaneizzate”) potendo anche diventare infestanti; spesso si definiscono queste specie come “naturalizzate”, anche se questo termine è più corretto per indicare le avventizie che ormai si sono diffuse nel nostro territorio.

Sono rari i casi d’introduzione spontanea (cioè per cause naturali) di specie da altri continenti, ad esempio per semi trasportati tra le piume, sulle zampe o negli apparati digerenti di uccelli migratori a largo raggio: questi fenomeni sono senz’altro avvenuti nel corso della lunghissima evoluzione biologica, mentre oggi, più facilmente, sono gli autoveicoli, le navi e gli aerei (o i container di merci da essi trasportati) a condurre a grande distanza semi di piante.

Le specie annuali locali sono caratterizzate da una fioritura eclatante a livello onamentale, ma purtroppo molto breve che si esaurisce nell’arco di due mesi, mentre le perenni locali hanno un periodo di fioritura più lungo, ma di minore impatto visivo. Alcune specie alloctone, soprattutto delle praterie del Nord America e della California, che ha il clima di tipo mediterraneo, hanno un altissimo valore ornamentale ed una elevata capacità di adattamento a condizioni difficili, soprattutto alla carenza d’acqua e di nutrienti. Inoltre, le specie in questione hanno il vantaggio di fiorire nella seconda metà dell’estate, e dunque di accrescere il valore ornamentale del sistema protraendo la fioritura in un epoca in cui le nostre annuali sono già a seme. Queste specie saranno adatte all’ambiente urbano, dove, a causa dell’alterazione degli equilibri naturali, l’eventuale possibilità di infestazione è ridotta al minimo e dove le specie in questione sono tutte già introdotte come piante ornamentali da giardino. I criteri di scelta sono stati:

• non invasività

• adattamento a condizioni di bassa manutenzione

• non reperibilità sul mercato italiano in grandi quantitativi di seme o in miscugli

• adattamento alle condizioni pedo-climatiche della Toscana

Le piante alloctone, quando abbiano la capacità di un buon adattamento alle condizioni pedoclimatiche ed ambientali, svolgono comunque un ruolo analogo alle autoctone

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nell’arricchimento della biodiversità. Occorre, comunque, tener conto della necessità di evitare di introdurre qualunque specie alloctona che possa trasformarsi in infestante, che presenti cioè una forte capacità di riprodursi agamicamente o che abbia semi con organi di diffusione anemofila.

Inoltre l’utilizzo di specie alloctone sarà sicuramente da evitare nel caso di ripristino di zone rurali o di conservazione della natura o di interventi lungo “corridoi verdi” e nel momento in cui si stia attuando un intervento in aree non antropizzate. Viceversa, in aree fortemente antropizzate l’utilizzo di specie alloctone, anche in miscuglio con specie spontanee locali, può contribuire a vivacizzare i colori, creare un punto d’interesse, stimolare la curiosità. L’accortezza, pur nell’ambito dell’ambiente urbano, sta nell’evitare zone di possibile continuità con la campagna (corridoi verdi o argini di fiumi e di canali).

In Inghilterra, presso il Department of Landscape dell’Università di Sheffield, da molti anni le specie originarie delle praterie del Nord America sono oggetto di studio per l’inserimento di schemi ornamentali in ambienti urbani. Queste specie hanno un alto grado di adattamento alla naturalizzazione in coltivazione mista ed alla bassa manutenzione, hanno un elevato valore ornamentale e, dove non vi sia pericolo di infestazione come in ambienti altamente antropizzati (urbano o ex industriale), rappresentano uno strumento utile per l’arricchimento in biodiversità (Hitchmough e Woudstra, 1999). In Italia, in una prova su spartitraffico a Livorno, alcune specie alloctone hanno rappresentato un’ottima integrazione alle specie spontanee, protraendo il periodo di fioritura fino alle soglie dell’inverno (Bretzel e Pezzarossa, 2002).

Se facciamo coincidere la biodiversità con il numero delle specie presenti, ogni specie esotica introdotta aumenta la biodiversità. In effetti l’uomo, da sempre, con la creazione di habitat seminaturali (ambienti agricoli, ambienti forestali a varie densità) ed anche con l’introduzione di specie esotiche non invasive, ha contribuito al diffondersi di un’alta biodiversità. Questo processo, tuttavia, oggi si sta invertendo poiché l’eccesso di attività umana sta sostituendo gli ambienti naturali e seminaturali con ambienti sempre più antropizzati ed impoveriti: le colture si fanno sempre più monospecifiche perché diserbate, le siepi campestri, ricchissime di vita, sono in costante diminuzione, l’inquinamento impoverisce grandemente gli ambienti acquatici sopravvissuti alle bonifiche.

Nel passato molte delle specie che attualmente consideriamo naturalizzate sono state introdotte involontariamente con l’importazione di semi di piante coltivate: tra i fiori spontanei è il caso di molte erbe cosiddette “infestanti” dei campi quali il papavero (Papaver rhoeas), il fiordaliso (Centaurea cyanus) o la camomilla (Matricaria camomilla), tutte di origine mediorientale.

L’introduzione di specie vegetali esotiche può costituire un inquinamento floristico o paesaggistico, con un cambiamento estetico e visuale del paesaggio, cosa che in sé dovrebbe preoccupare poco. Il

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paesaggio infatti è risultante dalla combinazione delle componenti naturali e della stratificazione storica delle modificazioni antropiche di una regione. Molti degli attuali paesaggi tipici sono ampiamente modificati nelle forme e nella vegetazione rispetto ai climax naturali: si pensi ai paesaggi agrari toscani in cui prevalgono colture come la vite e l’olivo ed alberi come il cipresso e il pino domestico di antica provenienza estera, laddove il paesaggio climax sarebbe caratterizzato da boschi a prevalenza di leccio, sughera, querce decidue o arbusti sempreverdi; si pensi altresì ai paesaggi costieri dove le antiche paludi e le selve igrofile o mesofite sono state sostituite negli ultimi secoli da campagne coltivate o pinete litoranee, e le cenosi di duna da stabilimenti balneari (Kugler e Tomei, 2004).

Resta indubbio il valore economico ed anche ecologico di molte specie esotiche (nelle nostre città l’impiego di piante esotiche non crea solitamente problemi ambientali, anzi migliora l’ecosistema urbano), ma deve essere trovato il giusto equilibrio, dato che è su equilibri spesso fragili che l’ambiente si regge.

1.5.3 Produzione di semi di provenienza locale

La tecnica della naturalizzazione di wildflowers in impianti misti, prevede senz’altro la semina, sia per contenere i costi, sia perché, data l’estensione ampia solitamente adottata, il trapianto è proponibile solo in alcuni casi particolari. La produzione di semi di specie spontanee è già da tempo una pratica nel Nord Europa, ma per diversi motivi si è ritenuto più corretto utilizzare semi di provenienza locale tanto che, come già accennato in precedenza la produzione di semi di alcune specie è stato uno degli obiettivi del progetto. Le problematiche riguardo all’immissione di materiale genetico non locale sono molte. In natura una piccola popolazione senza flusso genico da altre popolazioni, perderà man mano diversità genetica e la sua abilità ad adattarsi alle condizioni locali. In questo senso, nessun flusso genico tra popolazioni può ridurre la diversità genica totale nelle specie e la fitness dei genotipi in ogni specie. All’estremo opposto, un flusso genico illimitato tra popolazioni ostacola l’evoluzione di sub-popolazioni distinte adattate localmente e quindi può anche ridurre la diversità totale e la fitness. La diversità totale e la fitness è massimizzata da un limitato flusso genico che porta a popolazioni localmente adattate, geneticamente distinte le une dalle altre. L’introduzione di genotipi da differenti popolazioni può essere considerata semplicemente una forma di flusso genico. Normalmente, escluse introduzioni artificiali, il flusso genico è altamente lento, data la tipica mobilità di soli pochi metri della maggior parte dei semi e pollini. Quindi un’introduzione di genotipi da differenti popolazioni può corrispondere a molte

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centinaia di generazioni di flusso genico e ciò può facilmente interferire con i processi d’evoluzione delle razze localmente adattate. Per questo motivo dovremmo essere molto prudenti circa l’introduzione di semi.

Viceversa, un’insistenza nell’uso esclusivo di semi locali, potrebbe risultare dannosa, in particolare per la specie di popolazioni isolate dove il naturale flusso genico sia già sotto livelli accettabili.

Una limitata introduzione di semi da altre sorgenti può produrre un aumento nella variabilità genetica, nuovi genotipi da testare dalla selezione naturale e quindi un tasso accelerato d’evoluzione.

Concludendo, per la creazione d’un habitat è di vitale importanza scegliere la provenienza del materiale genetico usato ed è normalmente più sicuro usarne di provenienza locale. Questa dovrebbe essere la pratica normale nella maggior parte delle situazioni, incluso il comune caso in cui non si hanno sufficienti conoscenze per stimare le conseguenze genetiche dell’introduzione di genotipi estranei. Questi ultimi si dovrebbero utilizzare solo quando ci siano buone giustificazioni in termini di conservazione o aumento della struttura genetica delle specie.

Secondo Kellerr et al. (2000) il materiale genetico estraneo, ibridandosi con quello locale, ridurrebbe la vitalità della popolazione di Papaver r. e Agrostemma g., mentre altre osservazioni hanno evidenziato che il problema non sussiste perché gli individui più deboli sono destinati a scomparire (Wilkinson, 2001). Allo stato attuale il dibattito e la ricerca sono ancora aperti e non si ha una risposta definitiva, tuttavia l’approccio di stimolare iniziative a livello imprenditoriale locale per la produzione di sementi provenienti da ecotipi locali è del tutto corretta e si colloca nella direzione di evitare il problema dell’inquinamento genetico.

Nella raccolta dei semi in natura, al fine di cogliere il momento giusto di maturazione e ridurre il rischio di asportare semi immaturi, si deve osservare lo sviluppo della pianta, soprattutto nella fase di fioritura e maturazione dei semi. La raccolta ottimale si compie seguendo la caduta spontanea dei semi dai frutti: si possono porre dei sacchetti di carta sulle cime fiorite e sui rami con frutti, chiuderli alla base e attendere la caduta naturale.

La raccolta del seme in natura è un’operazione delicata che, se mal eseguita, può portare a danneggiare le piante e il loro ambiente, oppure a un lavoro inutile, qualora i semi siano conservati e messi a dimora nel momento o modo sbagliato. Per eseguire il prelievo è bene scegliere popolamenti ricchi d’individui e accertarsi che non si tratti di piante rare, specie protette o soggette a limitazioni legislative nella raccolta nel qual caso è necessario rinunciare.

Raccogliere i semi dunque non è un’operazione semplice e l’insuccesso è reso più probabile dal fatto che molte specie hanno una percentuale di germinabilità dei semi molto bassa, talvolta sotto il

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10%, soprattutto nel caso di piante perenni che preferiscono forme di propagazione vegetative (gemmazione, emissione di stoloni, ecc.) alla diffusione per seme (Kugler e Tomei, 2004)

I wildflowers, come la maggior parte delle specie spontanee, risultano caratterizzati da fenomeni di dormienza del seme, evoluti nel tempo per consentire una colonizzazione del territorio in modo scalare e prolungato, allo scopo di sfuggire alla vasta gamma di avversità sia biotiche che abiotiche (Mapes et al., 1989). Tuttavia, la disponibilità di informazioni sulla dormienza e sulla propagazione delle varie specie utilizzabili come wildflowers deriva, allo stato attuale, da studi condotti in ambito agronomico e botanico. Molte specie sono state studiate per la loro attitudine a divenire infestanti delle colture agrarie, come Papaver rhoeas, Centaurea cyanus e Adonis aestivalis. Specie non riscontrabili all’interno dell’agroecosistema sono state oggetto di studio da parte dei botanici con lo scopo di rilevare le diverse strategie di sopravvivenza e diffusione nell’ambiente naturale (Grime, 1979). Molte di queste specie sono caratterizzate da induzione e rilascio di quella dormienza secondaria (Bouwnmeester and Karssen, 1989) che risulta fondamentale nel sincronizzare la loro germinazione nei periodi di crescita più favorevoli (Baskin & Baskin, 1989). E’ questo il caso di specie estive ed invernali che entrano in dormienza per evitare la germinazione in quei periodi che precedono condizioni avverse per il soddisfacimento delle esigenze ambientali, sia da un punto di vista termico che fotoperiodico. Molte specie spontanee, sia autoctone che esotiche, risultano inoltre di interesse officinale come piante aromatiche e medicinali (Hypericum spp., Malva sylvestris, Matricaria chamomilla). Dai diversi studi citati emerge che le caratteristiche di dormienza delle varie tipologie di flora spontanea sono riassumibili nelle seguenti categorie:

· impermeabilità dei tegumenti

· assenza di promotori o presenza di inibitori della germinazione

· immaturità dell’embrione (necessità di lunghi periodi di stratificazione)

· presenza di composti fenolici

La conoscenza delle caratteristiche di dormienza delle varie specie di wildflowers è di fondamentale importanza per poterne rimuovere le cause, siano esse di tipo strutturale o metabolico.

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