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SAN GIOVANNI BATTISTA DEI FIORENTINI

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I Popoli ancora che bevono il Serchio invaghiti delle dolci acque del Tebro hanno non meno di quei che gustano quelle dell’Arno e dell’Arba fatta contesserazione nel tributare il Vaticano d’ossequio, e riverenza! e se bene firenze, e Siena fecero in cio molto prima quasi a pietra di paragone conoscere alla Corte Romana la finezza della loro devozione, e pietà con l’instituzioni di Compagnie, et ospedali e con l’erettione de’ Tempij al Grand’Iddio, Lucca non di meno nel Pontificato d’Urbano 8° rinovando l’antica devozione ha in breve tempo con istupor di t(ut)ti eguagliate le più antiche fondazioni […] onde pare, che la’ Toscana, che è finalmente una sola Provinzia tra le molte d’Italia, in qualità di Chiese Nazionali di Compagnie, et opere di pietà che in q(ues)ta Regia del Sommo Sacerdote essercita, vadi a paro con i Regni più ampli della vostra Europa, ò d’altra parte del mondo che stimarono a gran gloria del nome delle loro Nationi d’haver qui fondata Chiesa, et ospizio. anzi dirò, che tre soli Dominij di q(ues)ta sola Provinzia eguagliano incio quattro Regni per haver essa qui […] Chiese Nazionali governate, e mantenute con gran decoro, cioe di S. Gio(vanni) Bat(tis)ta de’ fiorentini […], di S.ta Catherina de’ Senesi, e di S.ta Croce e S. Bonaventura de’ lucchesi […].

1

1 BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 231r. Il documento è riportato in Appendice C, doc. 38.

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CAPITOLO 2.

SAN GIOVANNI BATTISTA DEI FIORENTINI

2.1 «Presso alla compagnia»

2

Da una lettera che Antonio Strozzi, residente a Roma, inviò il 15 settembre 1518 al fratello Lorenzo, residente a Firenze, risulta che a quella data la Nazione fiorentina era «[…] risoluta di dar principio a una bella chiesa con volontà e ordine di Nostro Signore [Leone X] e del R.mo [Giulio] de’ Medici […]», e aveva «[…] disegnato i’

luogo per levarla da’ fondamenti […]»

3

. La ricerca del sito su cui erigere il futuro San Giovanni aveva impegnato Piero d’Arezzo, Filippo Carolli, Jacopo Rucellai, Leonardo Bartolini, Simone Ricasoli e Bernardo da Verrazzano sin dal 21 agosto 1513, giorno in cui i detti Fiorentini ricevettero tale incarico da parte della loro Confraternita.

4

Pertanto durante il pontificato leonino prese vita il progetto di «[…]

fare un luogo nuovo c(i)oe una chiesa onorevole […]»

5

che la Compagnia della Pietà

6

aveva in animo da tempo: risale infatti al 17 agosto 1508 la prima decisione documentata del sodalizio a tal riguardo

7

. Questa risoluzione fu presa dai Fiorentini il

2 Il titolo del paragrafo è estrapolato da una lettera di Antonio Strozzi, di cui si parla nel paragrafo stesso, citata e parzialmente trascritta in Guidi Bruscoli 2006, p. 299.

3 Ibidem.

4 A «[…] sei di nostra chompagnia […] [fu data] piena auttorità di fare detta chiessa a trovare il luogho dove l’avra a fare e in che modo come loro para sia il meglio a onore di dio […]»: AASGF, Libro del Provveditore, 1510-1517, vol. 338, c. 81r.

5 AASGF, Libro del Provveditore, 1496-1510, vol. 337, c. 303v. Il documento è riportato in Appendice A, doc. 1.

6 Come risulta dal primo statuto del sodalizio, approvato l’1 novembre 1456, fu durante il secondo anno di pontificato di Niccolò V Parentucelli (1447-1455) che alcuni Fiorentini si congregarono al fine di offrire una degna sepoltura ai poveri che in quell’anno rimasero vittima della pestilenza e del terremoto che colpirono Roma e le sue campagne. Lo spirito caritatevole che animò quei primi confratelli perdurò anche dopo la fine di quei drammatici eventi, e portò gli stessi ad accrescere nel corso del tempo le opere di pietà verso i connazionali, quali l’assegnazione di doti alle zitelle, tre delle quali venivano maritate ogni anno in occasione delle feste della Purificazione della Vergine (2 febbraio) e di San Vincenzo Ferrerio (5 aprile), l’elargizione di elemosine ai poveri, l’insegnamento domenicale della Dottrina Cristiana e l’assistenza domestica e ospedaliera agli infermi. Il 15 giugno 1606 i Fiorentini decretarono la fondazione di un ospedale nazionale, amministrato dalla Confraternita e innalzato, a partire dal 1607, probabilmente su disegno di Carlo Maderno, in quegli anni architetto di San Giovanni. Sulla Confraternita della Pietà dei Fiorentini vedi Di Mattia Spirito 1984, pp. 137-146.

Sull’ipotesi che Maderno sia stato il progettista dell’ospedale dei Fiorentini vedi Hibbard 2001, p. 145;

Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 120.

7 Per dare seguito alla risoluzione presa il 17 agosto 1508, il 10 settembre dello stesso anno i confratelli emisero il primo decreto di costruzione e aprirono una nota per le offerte. I contribuenti furono il governatore del sodalizio, padre Giovan Francesco Martelli (100 ducati d’oro), Girolamo Gaddi (100 ducati), Mariotto d’Amerigo (50 ducati), Francesco Canigiani (50 ducati), Pandolfo della Casa (500

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giorno stesso della venuta presso la loro sede confraternitale, la chiesa-oratorio di San Pantaleone

8

, dell’architetto Donato Bramante e dei maestri delle strade Domenico Massimo e Girolamo Pichi, intenzionati a demolire gli immobili che sorgevano sull’area corrispondente all’attuale estremità settentrionale di via Giulia. Bramante, incaricato in quell’anno da Giulio II di attuare i punti programmatici della Renovatio cittadina pro maiestate imperii

9

, quali l’apertura di via Giulia, la ricostruzione del ponte Trionfale, la ristrutturazione di via della Lungara e la fondazione del palazzo dei Tribunali, aveva deciso di creare un’ampia piazza-cerniera

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tra la nascente strada e il pons Julio (ponte Trionfale), previa demolizione di quanto ostacolava la realizzazione del piano. Pertanto “disfare” San Pantaleone si poneva perfettamente in linea con il detto progetto bramantesco, il quale non trovò alcuna opposizione da parte del pontefice, interessato a colpire la florida comunità fiorentina. Contrariamente a tale disegno, la chiesa di San Pantaleone fu risparmiata dalle demolizioni grazie

ducati) e Filippo da San Miniato (100 ducati). Vedi AASGF, Libro del Provveditore, 1496-1510, vol. 337, cc. 303v-304r. Il documento è riportato in Appendice A, doc. 1.

8 La chiesa di San Pantaleone, la cui origine si fa risalire al secolo XII, quando compare per la prima volta in una bolla del 1186 di Urbano III Crivelli (1185-1187) tra le filiali di San Lorenzo in Damaso, divenne sede della Confraternita della Pietà dall’11 giugno 1488. A tale data risale infatti la concessione in enfiteusi da parte del Capitolo dei Santi Celso e Giuliano al sodalizio fiorentino della stessa chiesa e di altre proprietà a essa contigue: due orti e una piccola casa. I confratelli avrebbero dovuto versare un canone annuo di 2.15 scudi, corrispettivi di una libbra di garofani, una libbra di pepe e due libbre di cera, per la chiesa e di 10.15 scudi, equivalenti a ducati 10 di carlini, quattro libbre di cera, una libbra di garofani e una di pepe, per la casa (AASGF, Istrumenti e memorie, 1403-1543, vol. 390, cc. 44r, 66v). Gli unici dati noti sulla chiesa di San Pantaleone riguardano le dimensioni contenute, per le quali fu definita anche “cappelletta”, la disposizione del prospetto principale, rivolto verso il Tevere, e l’ubicazione prossima al fiume, che le valse le denominazioni affinem o iuxta flumen. L’area sulla quale sorgeva, la medesima su cui sarà innalzato San Giovanni dei Fiorentini, era caratterizzata dalla presenza di ampi orti, campi e vigneti, tra i quali si distinguevano poche abitazioni. Date le esigue informazioni di cui si dispone, circa l’antico tracciato della chiesa rimangono solo delle ipotesi, tra le quali quella di Julia Vicioso che ha identificato San Pantaleone con il profilo di una chiesa che si intravede nella veduta di Paul Brill (1590), conservata a Berlino (Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, Kdz. 26326v) ed erroneamente attribuita all’isola Tiberina (Vicioso 1992, pp. 74- 75). Come è ormai noto, quando nei documenti d’archivio si menziona l’oratorio dei Fiorentini è da intendersi sino al 1534 San Pantaleone, mentre dopo quella data la chiesa dei Santi Tommaso e Orso, successivamente denominata Sant’Orsola della Pietà, concessa da Clemente VII nel 1526 alla Confraternita, la quale vi si trasferì otto anni dopo (21 maggio 1534) e vi si radunò fino al 1888, quando la chiesa e l’annesso oratorio furono smantellati per dare luogo all’attuale corso Vittorio Emanuele. Le altri sedi detenute dalla Compagnia per esercitare le pratiche cultuali e confraternitali sono state, inizialmente, la chiesa di Santa Lucia in cantu secuta, dove in seguito sorse l’oratorio dei Santi Pietro e Paolo dell’Arciconfraternita del Gonfalone, e, sino al 1488, la chiesa di San Salvatore in Lauro, dalla quale il sodalizio prese in usufrutto due stanze poste nel chiostro. Sulla chiesa di San Pantaleone vedi Adinolfi 1860, pp. 60-62; Armellini 1891, p. 498; Hülsen 1927, pp. 410-411.

9 E’ quanto si legge nell’epigrafe apposta sulla facciata del Banco di Santo Spirito dai maestri delle strade Massimo e Pichi: “IVLIO. II. PONT: OPT: MAX: QVOD FINIB: / DITIONIS. S. R. E. PROLATIS ITALIAQ:/ LIBERATA VRBEM ROMAM OCCVPATE / SIMILIOREM QVAM DIVISE PATEFACTIS / DIMENSIS Q: VIIS PRO MAIESTATE / IMPERII ORNAVIT / DOMINICVS MAXIMVS / HIERONYMVS PICVS / AEDILES.

F. C. MDXII”.

10 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 202.

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all’intervento di alcuni confratelli della Pietà che convinsero “Mastro Ruinante o Guastante” (Bramante) a concedere loro il tempo di trovare un altro luogo su cui erigere una nuova chiesa da dedicare al santo patrono di Firenze.

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L’architetto non solo accolse nell’immediato la richiesta del sodalizio, ma nei mesi seguenti cambiò idea riguardo alla demolizione, tanto che il 31 dicembre di quell’anno consegnò personalmente al governatore della Confraternita della Pietà un proprio disegno per il futuro San Giovanni che sarebbe dovuto sorgere nella stessa area occupata da San Pantaleone.

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Il documento epistolare menzionato all’inizio offre una descrizione del sito

“disegnato” a ospitare la chiesa della Nazione fiorentina: «[…] presso alla compagnia [la chiesa di San Pantaleone] sopra la piazza dove sono tre stradette, che j.ª riesce a Tomaxo Strozzi, l’altra a’ Parenti; e verrà el dinanzi sopra la strada nuova che va all’orto di Farnese e la tribuna di verso el fiume […]»

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. Il luogo su cui sarebbero state gettate le fondamenta di San Giovanni era quindi il medesimo su cui sorgeva San Pantaleone, già scelto dieci anni prima da Bramante per erigere la detta chiesa. Il lotto, delimitato dalla vecchia via dei Banchi, via del Consolato, via Giulia e il Tevere, non doveva superare nel suo sviluppo verso il fiume i 210 palmi. Per i Fiorentini, tale sito, compreso nel quartiere Banchi e tradizionalmente legato alla loro presenza a Roma, aveva assunto negli anni precedenti alla fondazione della chiesa una maggiore valenza identitaria a seguito di una serie di interventi che promosse Leone X, al fine di ristabilire e, al contempo, potenziare la supremazia della sua comunità, da tempo relegata a un ruolo secondario. Infatti, a partire dal pontificato di Alessandro VI i Fiorentini erano stati estromessi dalla gestione delle più importanti attività economiche e finanziarie dello Stato pontificio, tra le quali il tesorierato della Reverenda Camera Apostolica che venne, dapprima, affidato da Borgia agli Spannocchi e, successivamente, da Della Rovere ad Agostino Chigi.

Dato che al momento della sua elezione, l’area circostante all’incrocio delle tre strade sopra indicate era ancora scarsamente urbanizzata, papa Medici decise di

11 AASGF, Libro del Provveditore, 1496-1510, vol. 337, cc. 303v-304r. Il documento è riportato in Appendice A, doc. 1.

12 AASGF, Libro del Provveditore, 1496-1510, vol. 337, c. 309r. Il documento è riportato in Appendice A, doc. 1.

13 Guidi Bruscoli 2006, p. 299.

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riqualificarla, facendovi costruire alcuni edifici a schiera

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– unici esempi degni di nota dell’edilizia minore rinascimentale romana – da destinare ai suoi connazionali.

Ancora oggi in piazza dell’Oro è visibile il nucleo abitativo leonino, riconoscibile in un gruppo di tre case vicine e dall’aspetto omogeneo, per l’edificazione delle quali il pontefice fissò rigide norme costruttive che diedero vita a un’architettura uniforme e fortemente caratterizzante.

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Quasi contemporaneamente alla realizzazione di questi lavori, Leone X istituì, su richiesta di alcuni rappresentanti della Confraternita della Pietà che dal 1513 gli chiedevano un magistrato preposto al governo civile della loro comunità, il Consolato. Questo istituto giuridico, del quale ancora oggi rimane testimonianza nella via che porta il suo nome, agiva in materia sia di diritto civile, regolando i rapporti dei sudditi della Repubblica di Firenze tra loro, sia di diritto penale, processando e imprigionando in tribunali e carceri proprie solo delinquenti e debitori fiorentini, pisani, livornesi e aretini, contrariamente a qualsiasi costituzione pontificia o municipale.

16

Lo statuto consolare

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, approvato dal pontefice il 12 giugno 1515 con la bolla Eas quae pro commodo, regolamentava anche le modalità con cui era possibile finanziare la costruzione della futura chiesa. Qualunque fiorentino residente a Roma che avesse voluto contribuire alla causa, avrebbe potuto farlo devolvendo un’aliquota fissa delle operazioni di cambio e commerciali: ¼ per mille sulle rimesse e tratte; ¼ per cento sulla compravendita e sulle assicurazioni; 1/6 per mille sulle spedizioni di bolle, brevi o “altre cose”

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. L’inserimento in una voce degli Statuta di un fondo da destinare alla fondazione di San Giovanni testimonia quanto tale iniziativa premesse

14 La tipologia del complesso a schiera divenne frequente a Roma a partire dal Quattrocento. Altre case in serie si possono vedere in via degli Amatriciani, via Benedetta e Borgo Nuovo. Per un approfondimento dell’edilizia romana tra i secoli XV-XVIII vedi Tomei 1938, pp. 83-92.

15 Esternamente ogni edificio presenta uno sviluppo sul fronte stradale di circa 5,50 m – i 22 palmi stabiliti da Leone X – e non supera i due-tre piani di altezza, i quali sono collegati da una ripida scala interna che parte alla destra dell’ingresso principale, posto su via del Consolato. A ogni piano corrisponde un solo appartamento che in origine si componeva di due ambienti attigui, collegati tra loro da una porta e che tuttora si affacciano su di un cortile o giardino interno. Anche il sistema di illuminazione è ancora quello cinquecentesco, con il pianterreno che riceve la luce da piccole finestre quadrangolari, mentre i piani superiori da piccole finestre ad arco. Per un approfondimento del complesso abitativo leonino vedi Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 260.

16 La situazione privilegiata di cui beneficiò il Consolato durò fino al 1692, quando Innocenzo XII Pignatelli (1691-1700) decise di sopprimere tutti gli uffici giuridici particolari presenti a Roma. L’unica figura che in quell’occasione non venne abolita fu quella del notaio del Consolato fiorentino, il quale continuò a esercitare autonomamente la professione fino al 1846, quando, durante il pontificato di Pio IX Mastai Ferretti (1846-1878), venne parificato ai notai capitolini.

17 Per la formulazione degli Statuta e i privilegi che furono riconosciuti al Consolato vedi Polverini Fosi 1989, pp. 50-64.

18 AASGF, vol. 321, capp. XXV-XXX, cc. 182r-190v.

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sia alla universitas dei mercanti fiorentini sia a Leone X, quest’ultimo interessato, come ha messo in luce Irene Polverini Fosi, a istituzionalizzare dapprima la sua comunità e in seguito a sacralizzarla.

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2.2 Il concorso leonino

La Vita vasariana di Sansovino, pseudonimo del fiorentino Jacopo Tatti, è l’unica fonte conosciuta dalla quale si evince l’esistenza di un concorso che la Nazione fiorentina bandì su ordine di Leone X al fine di individuare quel progetto che «per magnificenza, grandezza, spesa, ornamenti e disegno» avrebbe dato vita a una chiesa che avrebbe superato «quelle di tutte l’altre nazioni»

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.

Sebbene nessuna fonte esistente offra informazioni precise circa il dato temporale dell’avvenuto concorso, questo si ascrive al biennio 1518-1519. Dalla già menzionata lettera di Antonio Strozzi risulta che al giorno della sua redazione (15 settembre 1518) Raffaello Sanzio, Sansovino e “altri” artisti si erano cimentati nello studio progettuale di San Giovanni.

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Dallo stesso documento epistolare emerge quanto Leone X fosse interessato a dare compimento alla realizzazione della chiesa, visto l’ordine di “sollecitare questa impresa” che lo stesso pontefice aveva impartito al datario Silvio Passerini, presso il quale proprio il giorno della compilazione della lettera si erano recati i rappresentanti della Nazione fiorentina.

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Il sollecito espresso dal datario ottenne i suoi effetti, come dimostra un decreto per edificare la chiesa che i confratelli emisero il 24 dello stesso mese

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, al quale fece seguito tre mesi dopo l’apertura di «[…] una sottoscrizione di offerte allo scopo di costruire ad ineffabilis dei cultum una chiesa degna della nazione fiorentina […]»

24

. Nel Libro dell’elenco delli benefattori, contribuenti e sottoscritti per sovvenimento della fabbrica, compilato quindi a partire

19 Polverini Fosi 1989, p. 67.

20 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 352.

21 «[…] se n’è fatti più disegni di man di Rafaello da Urbino e di Jac(op)o da Sansovino e altri […]»:

Guidi Bruscoli 2006, p. 299.

22 «Ora la Natione, c(i)oe e’ chapi, questa mattina è stata al Datario [Silvio Passerini] il quale à hordine da Nostro S. sollecitare questa impresa e siamo rimasti domenicha mattina andare a desinare con Sua S.ria e fare j.° libretto e ciaschuno sottoscriversi per quella somma che le parrà dover o poter contribuire […] Quello si promette s’arà a pagare in 4 o 5 anni anno per anno e quello mancherà a merchatanti sopiranno e’ R.mi Cardinali e prelati fiorentini e dipoi Nostro S., che si fa contto habia a essere j.ª spesa in tutto di ducati 30 moneta o più»: Guidi Bruscoli 2006, p. 299.

23 AASGF, Dati e Richiamati, vol. 431, [24 settembre 1518]. Il documento è citato in Vicioso 1992, p.

109.

24 AASGF, Dati e Richiamati, vol. 431, [24 dicembre 1518]. Ibidem.

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dal 24 dicembre 1518, il primo nome, tra i circa 220 presenti, è quello di Leone X che elargì subito 500 ducati con la promessa di devolvere mensilmente, dal novembre dell’anno successivo, ulteriori 100 ducati. Come è annotato nello stesso Libro, il pontefice non rispettò però l’impegno preso, versando una somma assai inferiore (ca.

2.300 ducati) rispetto a quella prevista inizialmente (4.100 ducati). Analogamente anche altri finanziatori non tennero del tutto fede alla parola data, mentre taluni addirittura non fornirono alcun contributo.

25

Con la bolla del 10 gennaio 1519, indirizzata ai «Dilecti filii universi mercatores et alii utriusque sexus homines nationis fiorentine romanam curiam sequentes […]»

26

, Leone X diede ufficialmente inizio alla costruzione della chiesa dedicata a San Giovanni Battista e ai Santi Cosma e Damiano, patroni rispettivamente di Firenze e della famiglia Medici. Diciannove giorni dopo, con la bolla Intenta iugiter

27

, lo stesso pontefice elevò la chiesa a parrocchia di tutti i Fiorentini presenti a Roma. Con quest’ultima bolla del 29 gennaio 1519, la chiesa fu dotata inoltre di fonte battesimale, campanile, cimitero nazionale e fu arricchita di privilegi e indulgenze.

Sapendo che già a settembre 1518 alcuni artisti si erano cimentati nella stesura dei disegni di progetto e che il 31 ottobre 1519 l’arcivescovo di Firenze Giulio Medici, cugino del pontefice e futuro Clemente VII, celebrava solennemente la posa della prima pietra di San Giovanni, risulta evidente come i due anni summenzionati delimitino il periodo entro il quale si svolse il concorso.

L’importanza che questo ebbe spiega il coinvolgimento dei più noti architetti dell’epoca, i quali furono, oltre ai già citati Raffaello e Sansovino, Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane.

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I progetti che parteciparono al concorso

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presentavano una soluzione planimetrica a pianta centrale, in cui il tema spaziale del

25 Ad esempio, Giulio de’ Medici e Lorenzo Pucci figurano tra coloro che versarono assai meni di quanto promesso. Il primo elargì 600 ducati a fronte dei 2.000 promessi, il secondo elargì 200 ducati a fronte dei 1.000 promessi. Tra coloro, invece, che non versarono nulla, vi furono Innocenzo Cibo, Giovanni Salviati e Niccolò Ridolfi. Vedi AASGF, Dati e Richiamati, vol. 431, cc. 1r, 3v-4r, 6r-7r.

Polverini Fosi ha sottolineato come la partecipazione finanziaria più generosa interessò quelli che risiedevano da tempo a Roma, e non vi erano giunti solo a seguito dell’elezione di Leone X. Vedi Polverini Fosi 1989, pp. 68-69.

26 Una copia della bolla si trova in AASGF, Istrumenti e memorie, 1403-1543, vol. 390, cc. 21r-26v. Il documento è citato in Nava 1936, p. 339.

27 AASGF, Istrumenti e memorie, 1403-1543, vol. 390, c. 21r. Ibidem.

28 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 498.

29 Per un approfondimento dei progetti presentati al concorso leonino si rimanda al paragrafo conclusivo del presente capitolo, in cui si tratta specificatamente della copiosa serie di disegni per San Giovanni.

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Pantheon si fondeva con quello del battistero fiorentino di San Giovanni. Questo connubio è stato spiegato con precisi dettami impartiti da Leone X, il quale mirava a creare ideologicamente un sodalizio tra Roma e Firenze.

In merito al progetto vincitore, Vasari continua a rimanere la sola fonte a offrirne una descrizione. Dal passo vasariano risulta che Leone X lodò “come migliore” il disegno di Sansovino «[…] per avere egli, oltre all’altre cose, fatto su quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna, e nel mezzo una maggiore tribuna simile a quella pianta che Sebastiano Serlio pose nel suo secondo libro di architettura»

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. Il mancato reperimento del progetto sansoviniano e la sommaria descrizione fornita da Vasari impediscono di documentare criticamente in che modo l’architetto fiorentino rispose al programma ideologico mediceo, tanto da giustificare la scelta compiuta inizialmente da Leone X di affidargli l’incarico e successivamente da Clemente VII di richiamarlo a Roma per riavviare il cantiere che aveva subìto una prima interruzione (1523). Il riferimento vasariano al secondo de I Sette libri dell’architettura di Sebastiano Serlio, ha creato non pochi problemi di interpretazione, cosicché nel corso degli anni gli studiosi hanno preso posizioni differenti. Antonia Nava, prendendo alla lettera il riferimento di Vasari circa la numerazione del volume del trattato serliano, ha riconosciuto nell’illustrazione posta centralmente a pagina 6 del “Secondo libro di prospettiva” una somiglianza con la descrizione vasariana del progetto vincitore del concorso. Pertanto la studiosa, ipotizzando che Sansovino avesse progettato «una chiesa ottagonale inserita in un quadrato», ha proposto che i due disegni contenuti nel foglio Uffizi 502 A (d’ora in poi UA) fossero il progetto originario (figg. 5-6).

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Di opinione differente è stato Herbert Siebenhüner, per il quale Vasari non poteva conoscere il “Secondo libro di prospettiva”, dal momento che questo veniva dato alle stampe in Francia (Parigi, 1545; Venezia, 1560) proprio mentre l’autore aretino si trovava in Italia impegnato nella stesura della Vita di Tatti.

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Pertanto, per lo studioso tedesco il “secondo libro” a cui si riferisce Vasari, sarebbe in realtà il “Libro quinto

30 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 497.

31 Nava 1935, p. 104.

32 Contrariamente a quanto ipotizzato da Siebenhüner, Pedretti ha supposto che Serlio era a conoscenza del disegno di Sansovino, come quelli di Peruzzi e Sangallo il Giovane a pianta centrale, dato che presumibilmente gli erano stati fatti vedere da Leonardo da Vinci quando si era recato a Parigi. Vedi Pedretti 1962, pp. 93-99, 143-144. Negli anni del concorso, infatti, Leonardo non solo si trovava a Roma ma faceva anche parte del sodalizio fiorentino. Sulla presenza di Leonardo come confratello della Compagnia della Pietà vedi Frommel 1964, pp. 369-373; Vicioso 2005, pp. 233-235.

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delli Tempii”, corrispondente come numerazione all’ordine delle edizioni italiane dell’opera serliana. Sulla base di ciò, Siebenhüner ha riconosciuto nella tavola posta al foglio IX del suddetto “Libro” corrispondenze con la descrizione vasariana del progetto di Sansovino. Questa pianta presenterebbe per lo studioso anche analogie con quella posta nel foglio UA 1312.

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Tuttavia tale ipotesi non è stata condivisa, ad esempio, da Gustavo Giovannoni e Manfredo Tafuri, il primo dei quali ha riconosciuto nel detto progetto affinità con i disegni di Antonio da Sangallo il Giovane per la chiesa di San Marco a Firenze. Dagli studi condotti da Julia Vicioso, risulterebbe che il disegno di Sansovino, sempre in merito al quinto “Libro” di Serlio, presentasse una chiesa a pianta ottagonale (fig. 7), perfettamente rispondente alla descrizione fornita da Vasari e chiaro riferimento al Battistero fiorentino. Infatti, per la studiosa, i “quattro canti” sarebbero i quattro lati dell’ottagono, corrispondenti alle quattro “tribune” o cappelle. Tale tesi sembrerebbe avvalorata dalla forma delle fondazioni prossime al fiume che si ritrova in diverse rese grafiche (l’UA 199 di Sangallo il Giovane (fig. 8), la pianta di San Giovanni custodita nell’Archivio Sacchetti

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e la pianta posta al foglio 2 del Catasto Gregoriano, conservato presso l’Archivio di Stato di Roma) e in uno spigolo in travertino ancora visibile sul fianco destro della chiesa.

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Anche se a tutt’oggi non si ha certezza sul reale impianto scelto da Sansovino, è indubbio tuttavia che il suo progetto piacque anche perché oltrepassava i limiti imposti dalla conformazione del sito: infatti, a differenza dei progetti di Raffaello, Peruzzi e Sangallo il Giovane che si adattavano alle dimensioni del lotto, misurando tra i 200 e i 210 palmi, quello di Sansovino aveva un’estensione di 220 palmi, dei

33 Siebenhüner 1956, p. 182.

34 L’anonimo disegno in pianta di San Giovanni dell’Archivio Sacchetti è stato rinvenuto nel 1956 da Siebenhüner e analizzato sette anni dopo da Giuseppe Zander (vedi Zander 1963, pp. 21-29).

Partendo dal suggerimento espresso da questo studioso di comparare metricamente gli elementi più significativi di tutti i disegni della chiesa, e tenendo conto delle didascalie riportate nel disegno – “sono tirati più inanzi rispetto di strada Giulia”; “circhonferentja de fondamenti fatti”; “acomodato chome apare sopra la circonferentia de fondamenti gia fatti molti ani sono enanti”; “qui è un oratorio del quale se ne potria fare sacristia” –, Vicioso è arrivata a concludere che 20 palmi (4,47 m) dei 240 complessivi avrebbero occupato un tratto di via Giulia, come dimostrerebbe la prima scritta summenzionata. Inoltre, il riferimento alle fondazioni circolari, dimostrerebbe che Sangallo avesse portato avanti la costruzione delle fondamenta che Sansovino aveva previsto nel Tevere, sulle quali, secondo l’ipotesi avanzata da Zander, si doveva tentare “l’unione di un sistema a pianta centrale con un sistema longitudinale” (Zander 1963, p. 22; cfr. Tafuri-Spezzaferro-Salerno 1973, p. 214). Per concludere, la studiosa, alla luce della scritta circa la presenza di un oratorio vicino alla chiesa, da lei identificato con San Pantaleone, ha ipotizzato che l’autore del disegno avesse previsto di utilizzare la preesistente sede della Confraternita della Pietà. Vedi Vicioso 1992, pp. 96-97.

35 Vicioso 1992, p. 83.

(10)

quali circa 20

36

(4,47 m) entravano nel greto del limitrofo fiume Tevere. Per questo motivo il progetto sansoviniano si presentava non solo ardito sotto il profilo tecnico, ma anche ricco di significati simbolici, richiamando il sacramento del battesimo, il Battista, il Battistero e l’Arno, in quel connubio tra Roma e Firenze tanto caro a Leone X.

2.3 I primi anni del cantiere tra problematiche costruttive, interruzioni e riprese

I lavori della chiesa di San Giovanni iniziarono il primo febbraio 1520

37

e furono preceduti da alcune prestazioni – tra cui l’esecuzione di un modello – svolte da Sansovino, per le quali fu ricompensato il 7 gennaio di quell’anno. Lo stesso giorno la Confraternita della Pietà nominò due commissari, Lodovico Capponi e Giovan Francesco de’ Bardi, al fine di accertare la fondatezza del sospetto di appropriazione indebita di fondi destinati alla fabbrica che la stessa imputava all’architetto.

38

Circa le prestazioni offerte da Tatti nei mesi intercorsi tra la posa della prima pietra e l’inizio effettivo dei lavori, è verosimile ritenere che queste abbiano riguardato anche le operazioni di trasporto della sabbia necessaria all’interramento di quella parte di Tevere su cui sarebbero sorte le fondazioni absidali dell’erigenda chiesa, le quali sin da quella fase preliminare risultarono difficoltose nella loro messa in opera. Dalla testimonianza vasariana, si viene a conoscenza del fatto che la Confraternita affidò all’“ingenioso” Antonio da Sangallo il Giovane il compito di ovviare alle problematiche costruttive emerse, dato che la “via” della risoluzione non fu trovata da Sansovino, da non attribuirsi, sempre secondo l’autore aretino, all’imperizia dell’architetto bensì al «gran disordine, e poco giudizio […] di chi allora era capo in Roma di quella Nazione» che non avrebbe dovuto «mai permettere che gli architetti fondassono una chiesa sì grande in un fiume tanto terribile, […] per avere a combattere con quel fiume in eterno […]»

39

.

Il 30 gennaio di quello stesso anno Sangallo il Giovane percepiva dalla Confraternita

36 Le misure riportate da Vasari sono assai diverse, ovvero una lunghezza complessiva di 22 canne, delle quali ben 15 (33,51 m) nel Tevere. Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 498.

37 AASGF, Libro Mastro all’anno 1520.

38 «[…] mastro Jachopo Sansovino alias loro architectore el quale asserivano avere preso più danari che ne aveva servito […]»: AASGF, Libro del Sotto operaio della fabbrica, 1518-1534, vol. 708, c. 25v.

39 Vasari-Milanesi1906, V, pp. 454-455.

(11)

il pagamento per un modello che presumibilmente doveva illustrare il progetto per la realizzazione delle fondamenta nel fiume, consistente in un terrapieno, sul quale sarebbero stati impostati i blocchi di travertino e i pali di legno delle fondazioni

40

. L’intervento sangallesco, che riscosse grande ammirazione

41

, richiese da parte dei Fiorentini un esborso di denaro superiore a quello previsto

42

e ciò andò a incidere sulle casse del sodalizio, già sensibilmente compromesse dai lauti pagamenti che in quel periodo lo stesso erogava a favore delle maestranze impegnate nella costruzione della propria chiesa. Per ovviare a questo sperpero di denaro, il 5 novembre 1521 il console, i consiglieri e gli operai della Fabbrica dovettero imporre la riduzione dei compensi.

43

Mentre Antonio portava avanti i lavori di sostruzione, Sansovino lasciò il cantiere.

Ancora oggi persistono dubbi circa tale avvenimento, dato che nessuna fonte documentaria offre dei chiarimenti circa la natura dell’allontanamento – “forzato”, ossia voluto dalla Confraternita per quella causa di appropriazione indebita a cui ci si riferiva prima, o volontario, ossia determinato da una caduta avvenuta in cantiere, di cui l’architetto rimase vittima

44

– e il periodo in cui fece effettivamente ritorno a Firenze. Infatti, se nei mandati di pagamento emessi dalla Confraternita da aprile a settembre del 1520 figurano solo i nomi di Sangallo il Giovane

45

e del suo allievo, l’architetto e scultore Simone Mosca, quest’ultimo impegnato nella realizzazione dei

“diamanti e gigli” marmorei da destinare alla facciata della chiesa,

46

in quelli di

40 Come risulta da un pagamento emesso nel 1520, la Confraternita acquistò in quell’anno 1.000

“carrettate di travertino” e 132 “legni tondi da fichare in sul fiume”.

41 «Avendo intanto la Nazione fiorentina col disegno di Iacopo Sansovino cominciata […] la chiesa loro, si era nel porla messa troppo dentro nel fiume: perché, essendo a ciò stretti dalla necessità, spesono dodici mila scudi in un fondamento in acqua, che fu da Antonio con bellissimo modo e fortezza condotto: la quale via non potendo essere trovata da Iacopo, si trovò per Antonio; e fu murata sopra l’acqua parecchie braccia: ed Antonio ne fece un modello così raro, che se l’opera si conduceva a fine, sarebbe stata stupendissima […]»: Vasari-Milanesi1906, V, p. 455. Il modello a cui si riferisce Vasari, è da intendersi quello per cui Sangallo fu pagato il 30 gennaio 1520.

42 Riguardo alla spesa complessiva delle fondazioni, Vasari contraddice la somma di 12.000 scudi nella Vita di Sansovino, nella quale sostiene che sarebbero stati sufficienti 40.000 scudi «a fare metà della muraglia della chiesa»: Vasari-Milanesi1906, VII, p. 498. In entrambi i casi, l’autore evidenzia lo spreco di denaro.

43 «[…] havendo parlato assai di questi salarii per li ministri della loro prefata fabrica et parendo loro alquanto superflui et inghordi, gli limitorno, tassorono et ridussono […]»: AASGF, Libro del Sotto operaio della fabbrica, 1518-1534, vol. 708, c. 47v.

44 «[…] mentre che di mano in mano si fondava, [Sansovino] cascò, e fattosi male d’importanza, si fece dopo alcuni giorni portare a Fiorenza per curarsi, lasciando a quella cura, come s’è detto, per fondare il resto, Antonio da Sangallo»: Vasari-Milanesi1906, VII, p. 498.

45 AASGF, Libro del Sotto operaio della fabbrica, 1518-1534, vol. 708, c. 30v.

46 AASGF, Libro del Sotto operaio della fabbrica, 1518-1534, vol. 708, cc. 30v, 45rv, 48, 52v, 53v. cfr. Nava

(12)

ottobre dello stesso anno torna il nome di Tatti, risarcito di 5 ducati per il “salario, fatto la festa di S. Giovanni”. Vista la ricorrenza al 24 giugno di tale festività, il pagamento potrebbe riferirsi, come è già stato ipotizzato, ad apparati posticci eseguiti in precedenza da Sansovino e pertanto la fonte né proverebbe né smentirebbe la sua presenza in cantiere fino a tale data.

47

L’unico dato certo è che dopo il 7 gennaio 1521, giorno in cui ricorre un ulteriore pagamento a favore dell’architetto fiorentino, il nome dello stesso non compare più nei documenti inerenti alla fabbrica fino al 1523, quando i lavori ripresero dopo una prima interruzione.

Al di là della mancata presenza in cantiere di Sansovino, Sangallo continuò a portare avanti i lavori sino alla fine del 1521, quando la morte di Leone X, avvenuta il primo dicembre di quell’anno, bloccò il cantiere. Questa situazione di stallo continuò per tutto il breve pontificato dell’olandese Adriano VI Florensz (1522-1523), impegnato in un’opera di rafforzamento spirituale della Chiesa piuttosto che in un’attività di abbellimento di Roma. Solo con l’elezione di Clemente VII, la situazione si sbloccò e nel 1523 i lavori ripresero, ancora una volta in collaborazione tra Sansovino e Sangallo il Giovane. Infatti, per assecondare la volontà del pontefice di dare continuazione al cantiere sul progetto originario, Jacopo dovette far ritorno a Roma.

48

Gli impegnativi lavori sulle fondazioni durarono fino al 1527, quando Roma fu messa a sacco dalle truppe guidate da Carlo V. L’intervento armato contro lo Stato Pontificio significò per la città morte, distruzione e paura. La popolazione si ridusse drasticamente, in molti scapparono; lo stesso Sansovino si rifugiò a Venezia, città che divenne la sua dimora definitiva. Questa situazione ebbe ripercussioni anche sui cantieri edilizi ancora aperti, che furono abbandonati – a eccezione di San Pietro – e che rimasero così incompiuti. Tra questi si ricordano, oltre a quello in oggetto di esame, quelli del palazzo della Zecca e delle chiese di Sant’Eligio degli Orefici e, come si vedrà nel capitolo successivo, di Santa Caterina da Siena della Nazione senese.

1936, pp. 351-353.

47 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 203.

48 «[…] per seguitare il medesimo ordine e disegno, fu ordinato che il Sansovino ritornasse, e seguitasse quella fabbrica nel medesimo modo che l’aveva ordinata prima.»: Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 499.

(13)

2.4 La fabbrica sangallesca

Dopo il terribile sacco, per problemi legati alla mancanza di fondi, la fabbrica di San Giovanni ritornò operante solo nel primo anno del pontificato di Paolo III Farnese (1534-1549), sotto la direzione esclusiva di Antonio da Sangallo il Giovane. La partenza da Roma di Sansovino, con il conseguente abbandono del cantiere di San Giovanni, fece sì che l’impianto a schema centrale da lui adottato venisse sostituito.

Infatti, in linea con le idee dominanti in quel momento per San Pietro, Sangallo optò per una chiesa dallo sviluppo longitudinale, come si può vedere nel disegno UA 175 (fig. 9) di mano di Battista da Sangallo il Gobbo, considerato il disegno conclusivo

49

delle sperimentazioni che Antonio aveva compiuto negli anni precedenti su quella tipologia planimetrica. Rispetto alla serie di disegni riferibili a questo periodo, nell’UA 175 l’architetto propone delle riduzioni circa l’area (torna ai 220 palmi sansoviniani), la zona absidale, il transetto e la cupola ed elimina dai pilastri della navata centrale la parasta semicircolare.

Il passaggio da un impianto centrale a uno longitudinale ebbe certamente delle ripercussioni sulla prosecuzione dei lavori e sul completamento delle opere di fondazione, dato che era mutata la distribuzione dei pesi. Purtroppo non è possibile ricostruire con precisione le tappe di questa fase sangallesca, dal momento che nell’Archivio dell’Arciconfraternita di San Giovanni dei Fiorentini risulta mancante il volume relativo agli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento

50

.

Nel 1546, la morte di Antonio da Sangallo il Giovane, avvenuta il 14 aprile, e l’insufficiente disponibilità di denaro furono le cause della chiusura del cantiere che rimase inattivo per almeno un anno. Come risulta da un documento rintracciato da Francesco Guidi Bruscoli presso l’Archivio di Stato di Firenze, i confratelli ebbero in animo di dare prosecuzione ai lavori sin dallo stesso 1546, quando chiesero a Paolo III di sollecitare i debitori (cardinali, alti prelati, mercanti-banchieri etc.) a contribuire

49 Questo disegno è stato largamente considerato quello definitivo per la chiesa, in quanto corrisponde stilisticamente alla facciata dell’UA 176 di mano di Bastiano da Sangallo detto Aristotele e a quello del disegno conservato a Monaco.

50 A seguito di uno spoglio sistematico del materiale documentario conservato nell’Archivio dell’Arciconfraternita di San Giovanni dei Fiorentini, Vicioso ha ipotizzato che il mancante vol. 404 avrebbe dovuto coprire temporalmente questo periodo.

(14)

con quanto promesso:

51

«Se questi che sono debitori […] pagassino, sarebbe già principio et darebbe grande animo al fabricare di novo decta chiesa et condurla a perfectione, perché con l’aiuto et favore di V. S.tà [Paolo III] si potrebbe sperare dalli prelati et mercatanti che hoggi sono in questa corte consequirne le somme che saranno notate apresso da pagarsi pure con qualche comodità di tempo, secondo si continuasse la fabrica.»

52

In quella circostanza il pontefice si impegnò a devolvere 3.000 scudi. A questa supplica fece seguito il 14 aprile dell’anno successivo una campagna di reperimento fondi, promossa dal console Bastiano da Montauto.

53

Come ha scritto sagacemente Vasari, se inizialmente i Fiorentini «[…] confidarono nelle ricchezze de’ mercanti di quella Nazione, si è poi veduto col tempo quanto fusse cotal speranza fallace: perché in tanti anni che tennero il papato Leone e Clemente de’ Medici e Giulio terzo e Marcello, ancor che vivesse pochissimo; i quali furono del dominio fiorentino; con la grandezza di tanti cardinali e con le ricchezze di tanti mercatanti, si è rimaso e si sta ora nel medesimo termine che dal nostro Sangallo fu lasciato»

54

.

In merito a quanto “fu lasciato” dall’architetto è possibile formulare solo ipotesi alla luce di alcuni riscontri. Alla fine degli anni Cinquanta del Cinquecento, Michelangelo predispose i disegni per la chiesa della Nazione fiorentina tenendo conto solo delle soluzioni absidali, si può quindi presumere che Sangallo avesse portato a termine le fondazioni e i muri di sostegno di tale parte. Inoltre, come si evince dal resoconto

“Dell’Arciconfraternita della Pietà della Natione Fiorentina”

55

di Giovanni Antonio Bruzio e come si osserva nella tela di Gaspar van Wittel di collezione dei marchesi Sacchetti, sembrerebbe che l’architetto avesse iniziato anche la costruzione della facciata sino ai piedistalli, secondo quanto progettato nell’UA 176 (fig. 10), attribuito ad Aristotele da Sangallo.

51 Come ha messo in luce Guidi Bruscoli, nell’arco di venticinque anni il versamento effettivo fu di 1.110 scudi (16,2%), dal momento che i debiti risultavano essere ancora quelli del 1521. Vedi Guidi Bruscoli 2006, p. 305.

52 ASF, Galli Tassi 1868, fasc. 1, c. 1v. Il documento, citato e trascritto in Guidi Bruscoli 2006, è riportato in Appendice A, doc. 2.

53 Nava 1936, p. 342.

54 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 455.

55 BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, cc. 368r- 371v. Il documento, citato e trascritto in Vicioso 1992, pp. 112-114, è riportato in Appendice A, doc.

9.

(15)

2.5 Il coinvolgimento di Michelangelo

Nel primo anno di pontificato di Pio IV Medici di Marignano (1559-1565), i Fiorentini chiesero a Michelangelo Buonarroti di dare «ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo». Già nove anni prima la Confraternita aveva avanzato la medesima richiesta al Maestro, come attesta Vasari nella Vita dello stesso.

Dal passo vasariano risulta che nel 1550 il console Bindo Altoviti, dopo aver riscontrato il favore dell’artista nel dare compimento alla chiesa della Nazione fiorentina, si consultò a tal riguardo con Giulio III Ciocchi del Monte (1550-1555), proponendogli di trasferire in San Giovanni le tombe del cardinale Antonio e di messer Fabbiano, entrambi familiari del pontefice, che Michelangelo e Vasari stavano realizzando in San Pietro in Montorio. Secondo il console, Giulio III avrebbe potuto spesare i lavori della cappella maggiore dell’erigenda chiesa, in modo da creare un precedente che potesse essere seguito dai mercanti fiorentini.

56

La proposta piacque al papa, tanto che il 31 luglio si recò a San Pietro in Montorio per informare Michelangelo della volontà di attuare il trasferimento sopraccennato e per incaricarlo di presentare un disegno per il completamento della chiesa.

57

Nonostante l’interessamento del Maestro e l’iniziale approvazione del pontefice, “nacquero certe difficultà”

58

che impedirono la realizzazione dell’iniziativa e che contrariarono l’artista, come dimostrano le parole usate dallo stesso per esprimere il disappunto provato: «[…] Basta, che nella chiesa de’ Fiorentini non mi par s’abbi più a pensare.»

59

56 «Era messer Bindo Altoviti, allora consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa, e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque questo a messer Bindo, ed essendo molto famigliare del papa, gliene ragionò caldamente; mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella [del Monte], che Sua Santità faceva fare in [San Pietro in] Montorio, l’avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini ed aggiugnendo, che ciò sarebbe cagione che, con questa occasione e sprone, la nazione farebbe spesa tale che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante»:Vasari-Milanesi 1906, vol. VII, p. 229.

57 «[…] iermactina, sendo il Papa andato a decto Montorio, mandò per me. […] Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, e all’ultimo mi disse che era resoluto non volere mecter decte sepolture in su quel monte ma nella chiesa de’ Fiorentini, e richiesemi di parere e di disegnio, e io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo decta chiesa s’abbi a finire»:

Vasari-Milanesi 1906, vol. VII, p. 230.

58 «[…] mentre che queste cose si travagliavano, e che la nazione cercava di far denari, nacquero certe difficultà […]»: Vasari-Milanesi 1906,VII,p.230.

59 Ivi,p. 231.

(16)

Quando nel 1559 il console e i consiglieri della Nazione fiorentina manifestarono nuovamente a Michelangelo la volontà di affidargli l’incarico di portare avanti la fabbrica di San Giovanni, trovarono un’iniziale riluttanza da parte dell’artista, tanto che si dimostrò necessaria l’intercessione di Cosimo I, finanziatore dell’impresa

60

. A seguito di una lettera inviatagli dal duca, il 10 agosto di quell’anno Michelangelo

«promesse loro con tanta amorevolezza di farlo […], perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio, poi per l’amor della nazione, qual sempre amò.»

61

Oltre ad accettare l’incarico, l’artista riuscì a guadagnarsi la piena fiducia del committente che «gli valse autonomia artistica, responsabilità gestionale e controllo finanziario»

62

.

Dallo scambio epistolare intercorso tra il Maestro, Cosimo I e i deputati della Nazione fiorentina Francesco Bandini, Roberto Ubaldini e Tommaso de’ Bardi, si deduce che tra il 10 agosto e il primo novembre 1559 Michelangelo, coerentemente alle scelte planimetriche che stava compiendo per San Pietro, si cimentò nell’ideazione delle famose cinque piante a schema centrale, per la redazione delle quali, non potendo «disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette»

63

, si fece aiutare dall’allievo Tiberio Calcagni. Questa fase progettuale terminò con la presentazione a Bandini, Ubaldini e De’ Bardi delle «piante di tempii bellissimi; che viste da loro, si meravigliorono»: all’unanimità i Fiorentini scelsero la soluzione “più ricca”

64

. Il complesso impianto del progetto prescelto, identificato con il disegno 124 A di Casa Buonarroti (fig. 11), testimonia il talento virtuosistico del pluriottantenne Michelangelo. Partendo da una serie di cerchi, l’artista giunse, dopo alcuni ripensamenti, a impostare centralmente la cappella maggiore, il cui altare era circondato da otto paia di colonne, e angolarmente le quattro cappelle minori.

Il 2 dicembre dello stesso anno, un mese dopo la scelta effettuata dai deputati, Calcagni partì alla volta di Firenze con il suddetto disegno, poiché doveva essere visionato e approvato da Cosimo I. L’approvazione ducale arrivò venti giorni dopo, e così dal 22 dicembre il Maestro e il suo allievo poterono perfezionare il progetto fino

60 Secondo quanto emerge da un documento d’archivio, nel quale è ricordata una lettera del 27 marzo 1560, Cosimo I si era impegnato a versare mensilmente 100 scudi dall’inizio dei lavori. Vedi ASSGF, vol. 300, c. 137r.

61 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 232.

62 Condivi-Nencioni 1998, p. 59.

63 Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 232.

64 Ibidem.

(17)

al 5 marzo dell’anno successivo, quando Tiberio si recò nuovamente dal duca con i disegni di pianta, alzato e sezione, per i quali Cosimo I espresse un sentito apprezzamento, come risulta dalla lettera che questi scrisse all’artista il 30 aprile: «il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato sì […]».

La versione definitiva del progetto è stata identificata col disegno UA 3185 (fig. 12), dal quale Calcagni realizzò in seguito due modelli, uno di creta e uno di legno. «Per esser cosa degna di esser veduta»

65

, il modello ligneo fu collocato inizialmente nelle stanze del Consolato e successivamente nell’oratorio di Sant’Orsola della Pietà

66

, dove rimase esposto sino al 1720, anno in cui se ne persero le tracce. Oggi è possibile ammirarlo, ad esempio, nelle celebri incisioni di Jacques Le Mercier (1607) (fig. 13) e di Valérian Regnard.

Data l’età avanzata di Michelangelo, nel 1560 il compito di sovrintendere alla fabbrica fu affidato a Calcagni, il quale si avvalse dell’opera del capomastro muratore Matteo da Castello. Dai documenti d’archivio risulta che la presenza in cantiere di Tiberio si protrasse fino al 28 giugno 1562, quando fu nominato “architetto et operaio della compagnia maestro Guido”, ossia il fiorentino Guidetto Guidetti

67

.

A seguito della morte di Michelangelo, avvenuta il 18 febbraio 1564, il suo progetto fu abbandonato e il cantiere, nel quale furono impegnati oltre 5.000 scudi, fu nuovamente chiuso.

La nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai; et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria, perché si vegga che questo uomo [Michelangelo] cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all’arte.68

65 Come si apprende da una guida di Roma.

66 Presso l’oratorio di Sant’Orsola della Pietà, i confratelli depositarono, ad esempio, i gigli di Mosca, che rimarranno nel muro del chiostro dell’oratorio fino alla sua demolizione, la statua marmorea di Donatello raffigurante San Giovannino, attualmente collocata in chiesa, e alcuni dipinti che si trovavano originariamente in San Pantaleone.

67 L’identificazione si deve a Nava che aveva rintracciato il nome dell’architetto nella lista dei contribuenti alla fabbrica, stilata nel 1520, con un’elargizione di 80 ducati. Vedi Nava 1936, pp. 343- 344, 349, 355.

68 Ivi, pp. 261-262.

(18)

2.6 L’edificazione definitiva con Giacomo della Porta, Carlo Maderno e Alessandro Galilei

Il 21 marzo 1583, stesso giorno dell’apertura di una nuova sottoscrizione di fondi

69

, i confratelli della Pietà si accordarono con l’allora primo architetto di San Pietro, nonché loro architetto nazionale, Giacomo della Porta, sui disegni e i lavori, comprese le misure e stime, che questi avrebbe dovuto eseguire per portare avanti la fabbrica di San Giovanni. Dalla stipulazione dei “Capitoli” dell’opera di scalpello

70

, risalente all’8 maggio di quell’anno, risulta che la chiesa della Nazione fiorentina avrebbe dovuto essere «[…] ben lavorata e ben finita dalla sorte simile alla fabbricha de sancto Pietro che si fa a opere overo all’opera della fabbricha del Ghiesù […]»

71

. Il riferimento alla Basilica Vaticana e alla chiesa gesuitica, presso la quale Della Porta stava terminando la facciata e la cupola (1575-1584), è sintomatico di quanto i Fiorentini ambissero a inserire il proprio luogo di culto nel panorama artistico romano.

72

Per questo motivo, come ha osservato per la prima volta Giovannoni, la porta laterale

73

di San Giovanni presenta la stessa fattura e disposizione di quella del Gesù.

Con la scelta planimetrica compiuta da Della Porta si chiusero definitivamente le sperimentazioni tipologiche a cui fu soggetta la chiesa della Nazione fiorentina.

Riprendendo gli studi a schema basilicale di Antonio da Sangallo il Giovane, in particolare l’UA 175, e ponendosi in perfetta sintonia con le disposizioni

69 «Nuova sottoscrizione di nazionali per la fabbrica della chiesa alla cui testa figura il Cardinale Ferdinando di Medici, in seguito Granduca, per scudi 3000 e creazione di una deputazione affinché provvenga ai bisogni della fabbrica essendo architetto Jacopo della Porta»: AASGF, vol. 797, fasc. 1, c.

1r. Dopo i quattro anni in cui i lavori erano progrediti su progetto di Michelangelo, si ripresentò per i Fiorentini il problema dei finanziamenti, per ovviare al quale supplicarono il granduca Cosimo I, di poter attingere alle casse del Consolato (4 marzo 1582) (AASGF, vol. 797, fasc. 2, c. 1r) nonché di contribuire egli stesso alle necessità finanziarie (8 gennaio1583) (AASGF, vol. 797, fasc. 1, c. 2v).

70 A una prima misura per lavori di scalpello, datata 2 settembre 1582 (AASGF, vol. 300, c. 25v; il documento è citato in Hibbard 2001, p. 142; Nava 1936, p. 345), ne fece seguito un’altra l’8 maggio dell’anno successivo (AASGF, vol. 296, cc. 233, 235, 240; il documento è citato in Nava 1936, p. 356;

Vicioso 1992, pp. 101, 111). Il 22 agosto 1583, la Confraternita decreta «[…] che le sottoscrizioni quantunque fatte a tempo maggiore siano pagate entro l’anno per affrettare i lavori […]» di scalpello, in modo da poter affidare ai capimastri scalpellini Marchiorre Cremoni, Francesco di Pilossi, Bartolomeo Bassi e Pietro Gucci, una terza nota delle misure. Vedi AASGF, vol. 797, fasc. cc. 12, 18.

71 AASGF, vol. 296, c. 233; il documento è citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 220.

72 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 220.

73 Nel 1853, in occasione di lavori di restauro, la porta venne chiusa, tamponata e coperta di cemento nella parte inferiore e i gradini d’accesso inglobati nell’asfalto. Dall’antico vano d’ingresso laterale verrà ricavata la cappella con il fonte battesimale a base ottagonale, posto originariamente nella cappella di San Sebastiano. Sono da far risalire a questi lavori di restauro la verniciatura a finti marmi dell’interno, la pavimentazione (lastre di marmo bianco e bardiglio scuro) e il rivestimento marmoreo delle basi delle colonne delle navate.

(19)

controriformiste, l’architetto optò per una pianta a croce latina a tre navate, scandite da pilastri arcuati, con cinque cappelle per lato e tre catini absidati al sommocroce.

Come si vede nel foglio 72 dell’album di frà Giovanni Vincenzo di Casale (fig. 14), Della Porta ridusse a linee più armoniose il pesante perimetro sangallesco attraverso un’operazione di semplificazione, che conferiva maggior leggerezza all’insieme.

Inoltre, a differenza del predecessore, allungò il transetto e le due ali laterali del coro (entrambi terminanti a semicerchio come nel progetto di Sangallo il Giovane), in modo che sporgessero all’esterno del corpo chiesastico, e impostò una cupola semicircolare e ribassata sull’intersezione tra la navata centrale e il transetto stesso.

La presenza tra le carte d’archivio, risalenti agli anni in cui Giacomo diresse la fabbrica di San Giovanni (1583-1588), di documenti inerenti alle sole opere di scalpello è già stata letta come la possibilità che l’assetto murario della chiesa sarebbe stato realizzato, almeno in parte, in un periodo precedente l’intervento di Della Porta.

Anche l’acquisto di tre campane

74

, provenienti dall’Inghilterra, e la prima concessione in patronato alla famiglia Scarlatti di una cappella gentilizia

75

, avvenuti entrambi nel 1583, sarebbero l’ulteriore riprova della continuazione dei lavori negli anni intercorsi tra il cantiere michelangiolesco e quello dellaportiano. Se ciò fosse vero, la Confraternita avrebbe deciso di tornare, ancora prima di Della Porta, all’impianto longitudinale sangallesco, probabilmente perché al momento di tale scelta quella tipologia planimetrica rispondeva maggiormente al già mutato clima artistico e culturale post-tridentino.

A causa delle evidenti similitudini che intercorrono tra il foglio 72 e l’UA 175, la critica ha per lungo tempo svalutato il progetto e l’operato dellaportiani, considerandoli la fedele riproduzione di uno dei più anonimi progetti di Sangallo il Giovane e ponendo in evidenza la mancanza di personalità.

76

Tuttavia, se realmente le murature fossero già state parzialmente realizzate sul modello sangallesco, allora si

74 AASGF, vol. 396, c. 36v. Il documento è citato in Vicioso 1992, p. 100.

75 Il 21 giugno 1583 Francesco Scarlatti ebbe in patronato la cappella, dedicata secondo le sue disposizioni testamentarie a san Francesco (AASGF, vol. 311, fasc. 408, c. 6r). Un secolo dopo, a seguito di una lite scoppiata tra la famiglia Scarlatti e l’Arciconfraternita, la cappella fu concessa a Giacomo Palazzeschi (AASGF, vol. 303, fasc. 135), per poi passare, nel 1787, alla famiglia Ranuccini (AASGF, vol. 323, c. 219). La condizione per l’assegnazione delle cappelle era determinata dall’obbligo dei patroni di farsi carico del loro abbellimento entro tre anni dall’avvenuta concessione.

Per la storia decorativa della cappella vedi Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, pp. 231-232; cfr. BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 370r. Il documento, citato e trascritto in Vicioso 1992, pp. 112-114, è riportato in Appendice A, doc. 9.

76 Giovannoni 1959, p. 222; Hibbard 2001, p. 143; Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, pp. 218, 220.

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potrebbe supporre che lo schematismo di Della Porta, privo quindi di qualsiasi virtuosistica soluzione progettuale, fosse dovuto anche alla preesistenza in avanzato stato costruttivo.

Durante i cinque anni in cui Giacomo condusse il cantiere, furono portate a termine le dieci cappelle laterali e fu realizzata la copertura a volta delle tre navate, mentre non giunsero a completamento, come si vede ad esempio nella pianta di Roma di Antonio Tempesta (1593), il transetto, l’abside, la facciata e la cupola

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che troveranno compimento, non senza modifiche, nei due secoli successivi.

Nel 1598 il sodalizio della Pietà nominò Carlo Maderno

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proprio architetto nazionale, rispondendo in tal modo alla consuetudine di avvalersi dell’ingegno di uno tra i più rinomati artisti del tempo, anch’egli legato alla fabbrica di San Pietro come i predecessori Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo e Giacomo della Porta.

Ancora una volta la Confraternita dovette attendere di disporre di ingenti fondi per poter incaricare l’architetto ticinese di dare prosecuzione al cantiere. I lavori principiarono l’11 giugno del 1608

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e consistettero inizialmente nelle misurazioni e stime da parte di Maderno, il quale si fece affiancare dalle stesse maestranze con cui aveva collaborato in altre fabbriche: i capomastri muratori Francesco e Pompeo

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Pagliari e Giovanfrancesco Gherardini, e i maestri scalpellini Matteo Castelli da Melidroccese di Como e Battista Giovanfrancesco de Rossi, poi sostituiti dai rispettivi fratelli Simone (1614) e Bastiano (1611).

Poco più di un mese dopo l’inizio dei lavori, il 22 luglio i guardiani della Fabbrica Camillo del Palagio e Francesco Ticci stipularono i primi contratti per le opere sia di

77 La costruzione della cupola non dovette iniziare prima della primavera del 1584, come dimostra una nota del 26 marzo di quell’anno, la quale attesta che a quella data i confratelli stavano discutendo con l’architetto sul se e come coprire la chiesa. Vedi ASSGF, vol. 300, cc. 28v-29r; il documento è citato in Vicioso 1992, p. 101.

78 Nel 1593 Maderno si trasferì nei pressi della chiesa di San Giovanni, prendendo in affitto la casa che Filippo Covaggini aveva ceduto nel 1589 alla Confraternita della Pietà. La casa era posta in via Paolina, oggi via dei Banchi, ai lati della Zecca. Dal 1601 i confratelli concessero la casa a Maderno ad vitam gratis in cambio di prestazioni professionali, come ebbero l’abitudine di fare in seguito.

79 «Reunita la Congregazione fatta lunedì addi 9 di giugno 1608 con m. Carlo Maderno architetto per stabilire da che parte si deve dare principio, pigliare il Capo Mastro, e convenire con lui e con altri che bisogniassi che daranno le robe et fatiche per detta fabrica. E si dichiara che depositario di questi denari et della detta fabrica fussino li Signori Giovanni Battista Sachetti, Luigi Altoviti et di banco e fu risoluto che mercoledì Mattina [11 giugno] si fussi sul luogo per dare principio»: AASGF, vol. 301, c.

141v. Il documento è citato e parzialmente trascritto in Hibbard 2001, p. 143.

80 Anche dopo l’ultimazione dei lavori, Pompeo Pagliari continuò a ricoprire per l’Arciconfraternita l’incarico di muratore addetto alla manutenzione dei beni immobili di proprietà dello stesso sodalizio (chiesa, case, ospedale).

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scalpello sia di muratura. La sottoscrizione dei “capitoli e pacti d’opera” con i maestri scalpellini Matteo Castelli e Battista Giovanfrancesco de Rossi impegnava gli stessi ad acquistare i travertini da impiegare nella fabbrica, che dovevano essere lavorati sul modello di ciò che avevano realizzato nel palazzo di Asdrubale Mattei.

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A partire dal giorno della capitolazione e per circa due anni, proseguirono i primi lavori di scalpello che, per via della stagione calda e della necessità di reperire fondi aggiuntivi, si conclusero ad agosto 1610.

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Dai mandati di pagamento, emessi parallelamente coll’avanzare dei lavori, è possibile ricostruire la successione dell’operato di Castelli e De Rossi, i quali intervennero nell’ordine inferiore del transetto, dell’abside e delle navate (zoccoli, basi, cornici e mensole).

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Dopo quella prima interruzione, i lavori ripresero all’inizio di novembre del medesimo anno,

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quando fu stipulata una seconda capitolazione

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con i suddetti maestri scalpellini (2 novembre 1610), i quali dovevano intervenire nell’ordine superiore, compreso tra l’architrave e l’imposta della volta e dei capitelli corinzi.

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81 «[…] lavorare le dette Pietre si come promettono secondo il principio già fatto, et secondo li sarà ordinato dal sig.re Carlo Maderno Architetto tanto in far base, capitelli, et ogni altra sorte di lavori, che deve intervenire a detta fabrica, che siano puliti; non magagnati, ne difettosi in cosa alcuna. Item convengono e sono daccordo le dette parti […] che tutti i lavori che farano di quella sorte, che fano, et hanno fatto nella fabrica del sig.re Asdrubale Mattei […]»: ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Dini, vol. 20, c. 298v. Il documento, citato e trascritto in Vicioso 1998, p. 94, è riportato in Appendice A, doc. 3a.

82 «[L’8 luglio 1610] fu proposto che fra pochi diversi sara tirato al’ pari il Muro verso nella fabrica di nostra chiesa, et che per essere la staggione calda et ancora per la scarsità delli danari, di dismetersi il fabbricare sino a ottobre, con questo che non si facci niente senza il parere et consenzo di ni. Carlo Maderno Architetto, in questo messe si attenda a mettere insieme il danari delle sottoscritioni per potere a quel tempo ricorsi a cominciare per poter finire della fabbrica cominciata, con ogni prestezza fu detto che alli libri delli Signori Sachetti et Altoviti come depositari della nostra fabbrica sino molte partite si in debito con in […] neciessarie il assenttarsi alli libri il nostro comp.o pero flor. Giovanni Battista Sachetti disse che ne daria le partite di tutto de verbo ad verbo accio si possi ascutare la sera il frutto a suo luogho, et il procuratore si prese la cura di havere dette partite»: AASGF, vol. 304, c. 6rv.

83 I primi mandati di pagamento agli scalpellini furono emessi il 17 agosto 1608. In quello stesso anno, percepirono 640 scudi, così suddivisi: 200 scudi ad agosto; 90 scudi a settembre; 110 scudi a ottobre;

100 scudi a novembre e 140 scudi a dicembre. Nel 1609 agli scalpellini furono elargiti 825 scudi, così ripartiti: 130 scudi a gennaio; 120 scudi a febbraio; 190 scudi a marzo; 115 scudi ad aprile; 120 scudi a maggio; 130 scudi a giugno e 20 scudi a luglio.

84 ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Dini, vol. 22, cc. 536r-537rv, 546rv. Il documento, citato e trascritto in Vicioso 1998, pp. 95-96, è riportato in Appendice A, doc. 4.

85 Nei capitolati è specificato che i lavori d’intaglio, quali stemmi e inscrizioni sepolcrali pavimentali, dovevano essere stimati separatamente.

86 Per questa seconda fase dei lavori di scalpello, che proseguirono fino a giugno del 1611, Castelli e De Rossi furono ricompensati con 2.200 scudi, così ripartiti: nel 1610, 400 scudi a novembre e 110 scudi a dicembre; nel 1611, 220 scudi a gennaio, 300 scudi a febbraio, 450 scudi a marzo, 380 scudi ad aprile, 160 scudi a maggio e 160 scudi a giugno.

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