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A Pisa, con Giovanni Battista

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Academic year: 2021

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Capitolo 3.

A Pisa, con Giovanni Battista

1- Nel carnevale del 1748, nell’ornatissimo palazzo Ceuli in via S. Martino, in un piccolo teatro costruito dai fratelli Melani, che nelle descrizioni dell’epoca ci appare come prodigioso di effetti prospettici mai visti, destinato a diventare una pur domestica “scuola del mondo” per generazioni di architetti di passaggio da Pisa

1

; in quel teatrino dicevamo, andò in scena Il Trionfo dell’Ozio, e della Virtù. In una cantata a due voci tra Ozio e Mercurio celebrante il prestigio dello Studio pisano (fecondo d’ingegni che “sembra palesar la nuova idea/Di richiamar dal cielo in Terra Astrea”), Braccio da Filicaia – docente presso quello stesso Studio - , con un metro un po’ affaticato e ridondante, tese a mostrare come l’Università di Pisa ricoprisse un ruolo centrale e dominante all’interno dello Stato toscano, il luogo di formazione dell’élite intellettuale e di governo

2

.

A pochi metri dal palazzo e dal teatro abitava la famiglia Tempesti. Tornato dall’esilio volterrano nel 1735, Domenico si era trasferito con la moglie Maria Stefania Angeli e i figli Giovanni Battista e Carlo

3

in un’altrimenti incognita casa Mazzantini, situata nella cura della chiesa di S. Cristina, che

                                                                                                               

1

Il teatrino dei Melani – ancora esistente ma privo ormai degli arricchimenti prospettici e scenografici e ridotto a deposito -, minacciò di venire distrutto nel 1785, a causa della decisione di Pietro Leopoldo di ridimensionare il numero dei teatri nel Granducato. Venne salvato grazie ad una protesta di Giuseppe Ceuli direttamente a Pietro Leopoldo, che accettò di preservarne l’esistenza “a condizione però che non dovessero farvisi rappresentanze teatrali …”. Nelle carte redatte per convincere il Granduca si leggeva che il teatro era stato costruito nel 1726 e che aveva un’architettura

“molto stimata dagl’intendenti, [e] considerata uno dei migliori parti del fervido ingegno dei Melani”, fino ad essere servito “di scuola ai giovani, e agli architetti”, e servito da modello per alcuni teatri in Spagna, al punto che poteva considerarsi un “ornamento alla città, e che potesse essere d’utile, e comodo alla Società per le pubbliche adunanze alle scientifiche accademie che sono di già permesse, e per quelle da permettersi dalla R. A. V. […]”: ASF, Presidenza del Buon Governo, Affari Comuni 24, docc. del 17 e 19.10.1785. V. anche PANAJIA 1999, p. 274. Da una lettera successiva si ricava che la chiusura del teatrino era stata sollecitata dai Prini, che avendo edificato il loro teatro (l’odierno teatro Rossi), non accettavano la concorrenza di altri: AFP 204 R, 8.3.1792 (dove si sollecitava di “procurare la sospensione delle recite, che furno fatte dalli scolari, nel decorso carnevale, nel teatrino Ceuli, e che ne ottenne soltanto una moderazione sopra il numero delle recite”).

2

DA FILICAIA 1749. Il nome dell’autore dell’opera si ricava da “Novelle Letterarie”, n. 10, 7.3.1749, p. 153.

3

Carlo Ranieri, di cui ignoriamo gli estremi biografici, ma pure lui volterrano, divenne orefice, distinguendosi in lavori

di apice non formidabile, ma di dignitoso impegno e prestigio. A lui spettarono ad esempio lavori per le monache di S.

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evidentemente fu comoda quanto basta per incrementar l’amore coniugale, se è vero che di lì a poco vi nacque un altro frutto del matrimonio benedetto: Ranieri

4

.

Ovviamente non sapremmo dire se la famiglia degli artisti abbia assistito all’accennato evento in casa Ceuli, ma è pur certo che l’idea di vedere il maturo Domenico con l’allora diciannovenne Giovanni Battista approfittare della circostanza per ammirare gli affreschi del Gherardini e del Ferretti, e soprattutto il piccolo ricetto teatrale dei Melani, è davvero tentazione forte e con una sua logica. Senza contare che quel palazzo era ben noto a Domenico per certe giovanili frequentazioni, quando per l’appunto andava a bottega da Domenico Ceuli, che quel palazzo abitava.

Le fonti antiche sono infatti variamente concordi nell’attestare come Giovanni Battista – nato a Volterra il 9 agosto del 1729

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, appena il tempo per il padre di ambientarsi e di trarvi moglie -, dopo un primo alunnato presso lo stesso padre fosse stato da questi destinato alle cure di Giuseppe                                                                                                                

Martino e per la famiglia Del Testa (ASSAP, Monastero d S. Martino 70; ASP, Del Testa 53, doc. del 22.8.1781). Il suo profilo è però totalmente da ricostruire, come del resto quello delle botteghe orafe nella Pisa del Settecento.

4

La famiglia Tempesti è attestata dal 1735 (1736 pisano, per l’esattezza) in cura di S. Cristina, nella casa detta “dei Mazzantini”, posta a fianco di quella abitata dal proprietario, Pietro Mazzantini. In precedenza era stata occupata da Giovanni Stoppani, di professione orefice. Il nucleo di famiglia era formato da Domenico, dalla moglie, dai figli Giovanni Battista e Carlo. A partire dal 1744 nella “casetta” venne ad abitare anche Giulia, sorella del capofamiglia; nel 1746 anche il fratello, Salvadore. Nel 1748 venne poi al mondo il terzo figlio, Ranieri, e la casa divenne troppo piccola.

A partire dal 1749 Domenico, la moglie e i tre figli andarono ad abitare una nuova casa, sempre nella parrocchia di S.

Cristina, segnalata come facente parte della “Commenda del Grasso”, altrove invece come “Casa dello Spedale del Grasso”. Dal momento che questo era l’Ospedale dipendente da S. Maria della Spina, è ipotizzabile che l’abitazione dei Tempesti si trovasse nei pressi dell’oratorio. A partire dal 1753 l’inquieta famiglia cambiò ancora abitazione, pur rimanendo nella stessa parrocchia, e negli stati d’anime venne registrata nella casa del priore Agostino Bracci. Dal 1757 vi abiterà Maria Maddalena, moglie di Carlo, e anche una “serva”, a testimonianza di una seppur piccola agiatezza economica. Dal 1758 fu possibile contarvi anche il figlio di Carlo – Francesco -, e dall’anno successivo Flavia, la figlia.

Nel 1759 il nome di Giovanni Battista nei registri del parroco sarà però coperto da un frego, che per noi costituisce un modo icastico e molto efficace per registrare l’assenza del pittore, ormai al pensionato romano. Quando il Nostro tornerà dall’Urbe, la casa si rivelerà angusta, anche a causa dei figli di Carlo, ormai non più in fasce, cosa che costringerà i Tempesti a cambiare di nuovo abitazione che, come vedremo, verrà scelta nella parte opposta dell’Arno.

Nel 1761 nella casa Bracci abiterà infatti la famiglia di un certo Bartolomeo Rosati: il trasferimento era ormai avvenuto (su tutto questo v. APSCP, Parrocchia S. Cristina, Stato dell’Anime dal 1731 p. al 1750 p.; Parrocchia S. Cristina, Stato delle Anime dal 1750 s. c. al 1761 incluso, cc. n. n. alle date relative).

5

Sull’atto di nascita di Giovanni Battista, conservato nel registro battesimale di Volterra: FROSINI 1967-68, p. 11 n.

Copia dell’atto di nascita è conservato anche nelle carte di Giuseppe Giuli nell’Archivio Storico dell’Università di Siena

(CIAMPOLINI 1993, p. 162).

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Melani che dei due fratelli pittori era quello orientato verso la pittura di figura, e il primo tra gli artisti pisani

6

.

Negli aggrovigliati referti dei biografi, esiste infatti una generale concordia nell’assegnare al giovane Giovanni Battista un iniziale dressage presso Giuseppe, dopo beninteso aver svolto i primi latinucci facendo i conti con la tradizione di famiglia

7

.

Che cosa possano aver fatto padre e figlio nei primi anni pisani è difficile da dire. Appena tornato definitivamente in città

8

, Domenico lavorò soddisfacendo commissioni assai significative (come quelle per il palazzo arcivescovile e per quello degli Upezzinghi

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), dove però è assai difficile immaginare una presenza attiva del figlio, che non fosse stata quella del semplice apprendistato tecnico: ritto sulle impalcature immaginiamo, pronto a scioglier colori, a nettare pennelli e, nel caso, a metter mano a qualche dettaglio secondario. Era troppo giovane, e pur immaginando un precoce talento, è davvero implausibile pensare ad una sua presenza attiva a circa dieci anni.

Negli anni Quaranta Domenico aveva comunque iniziato una strettissima collaborazione con il quadraturista Jacopo Donati - così stretta che valse poi tutta una vita -, che non sembra avventato ritenere sia stata assai giudiziosa anche per le corde del giovane Giovanni Battista, che così poté godere sin dall’inizio di una doppia disciplina pedagogica.

Jacopo Donati è attestato in un precoce documento del 1725 come un “giovane dei d.i Melani” al tempo del loro lavoro nel palazzo dei Priori

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, e non è dunque incauto ritenerlo come allevato                                                                                                                

6

DONATI 1775 A, p. XLII; DA MORRONA 1812, vol. II, p. 547; PREDARI 1867, p. 676; CIAMPOLINI 1993, p.

166, biografia di Tempesti di B. Benvenuti.

7

“Appena il figlio manifestò di aver ereditato il pittoresco genio paterno, Domenico non fu lento a dare a lui di buon'ora i preliminari dell'arte” (DA MORRONA 1812, vol. II, p. 546). Ma già il Donati aveva sottolineato come Giovanni Battista fu “Educato fra gli esercizj della professione del [sic] Padre, Pittore di vivaci talenti, ma di mediocre nome e fortuna …” (DONATI 1775 A, p. XLII).

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Scriviamo “definitivamente” non a caso, perché dai documenti sappiamo che anche durante gli anni volterrani Domenico non disdegnò i ritorni in città: nel 1732 ad esempio Ippolito Cigna informava il Gori che Domenico aveva appena eseguito “la bozza del vaso pisano”, intendendo questo come quello del Talento, segno di un suo diporto nella sua città di origine (BMF, ms A 13, II, cc. 632-33).

9

I lavori in palazzo arcivescovile impegnarono a più riprese Domenico Tempesti e Jacopo Donati dal 1735 al 1739, sia in pitture parietali (oggi indecifrabili), che nella decorazione della carrozza dell’Arcivescovo, stemmi etc. (AAP, Mensa Arc. E/U 60, c. 33, 14.4.1736 p.; c. 34, 17.7.1736 p. ; c. 41, 11.11.1737 p.; Id. 61, 6.9.1740 p. ). In palazzo Upezzinghi i due sono attestati nel 1739 per la pittura di una volta (RASARIO 1990, p. 181 n.).

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ASP, Comune D 1139, c. 43 (ma v. anche TEMPESTI 1792, p. 380). Fu tenuto in gran conto dai fratelli pittori, se è

vero che alla morte di Francesco sulle impalcature della cappella dei SS. Efisio e Potito in palazzo Arcivescovile, ne

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soprattutto da Francesco – che dei due fratelli ricoprì il ruolo di quadraturista -, e comunque discreto esponente di una cultura figurativa integralmente locale, sebbene aggiornata sulle novità fiorentine (su Jacopo Chiavistelli, principalmente). In questo modo Giovanni Battista poté orientare i suoi primi passi verso la coscienza del sapere pittorico affidato alle figure (intese umanisticamente come “corpi”, e dunque “moti dell’animo” e, nel caso, dell’anima), integrandoli con gli scorci e le architetture tirate in prospettiva.

Sulle conoscenze teoriche di Domenico Tempesti è prudente non far congetture (e pure su quelle del suo maestro Domenico Ceuli, sui cui scritti pare appunto che il primo si fosse formato

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), ma riflettere ad inizio Settecento della decadenza dell’arte e dei suoi rimedi, come pare che il Ceuli avesse fatto nei suoi perduti manoscritti, significava di certo avere in mente l’estetica belloriana – come riferimento prospettico e pressoché filosofico -, ma probabilmente riletta col ragguaglio di Filippo Baldinucci, non solo di quello delle Vite (dove la parabola d’impostazione vasariana dei trionfi e cadute dell’arte era ben evidente), ma forse anche del Vocabolario toscano dell’arte del Disegno, dove il tentativo lessicografico di delimitare il territorio del fare artistico acquisiva una dignità intellettuale profonda e dirimente, tale da farne strumento accetto dall’Accademia della Crusca

12

. Un sapere tecnico, di bottega, che diventava sapere teorico, capace di riaffermare le ragioni di un mestiere, quello dell’artista, non più relegato alla semplice pratica artigianale, ma che diventava così una conoscenza propriamente intellettuale.

Le fonti però sono concordi nello stimare come l’apprendistato di Giovanni Battista presso il padre si fosse limitato ad un’assistenza generica, limitata ai “preliminari dell’arte”

13

. Forse perché in costante movimento (i suoi dettagli biografici al ritorno a Pisa sono crivellati da una grande quantità di lavori, spesso di piccola e media entità, affrontati quasi tutti col Donati, che lo costrinsero ad un

                                                                                                               

ereditò il compito di concluderne le quadrature: DA MORRONA 1793, vol. III, p. 351 (“Deesi qui per altro avvertire, che la quadratura delle arcate fino a terra fu colorita dal Donati …”).

11

Domenico si dolse particolarmente per la decisione presa dal Ceuli di distruggere i suoi scritti teorici, perché secondo il figlio Ranieri “ne sapeva a memoria dei tratti, i quali benissimo mi ricordo, che riguardavano l‘origine della decadenza delle Arti, e i mezzi di ripararla. Quanto sarebbero opportune le sue osservazioni pei nostri tempi!” (BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, 2.1.1790).

12

BALDINUCCI 1681.

13

DA MORRONA 1812, II, pp. 546: “Appena il figlio manifestò di aver ereditato il pittoresco genio paterno,

Domenico non fu lento a dare a lui di buon'ora i preliminari dell'arte. Conciosiaché, educato Giovanni nella professione

del padre”. V. anche GIULI 1841, p. 486.

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continuo viaggiare

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), Domenico avrà pensato bene di affidarne la custodia dei giovanili estri espressivi alla bottega per l’appunto dei Melani, dei quali già allora era nota la granitica impotenza allo spostamento, l’angoscioso disorientamento che li prendeva appena varcati i pur brevi confini della campagna intorno alla città, e dunque solidamente pisani.

La bottega dei fratelli Melani era del resto piena di giovin signori, di nobili in formazione così come di squattrinati anelanti un mestiere, al punto che quello straordinario apparato grafico che corredava il volume del Theatrum del canonico Martini e con cui si aprì il secolo pisano, fu tutto composto su disegni che uscirono dai banchi dei Melani e dei loro allievi, così che si poteva ben dire che quel volume avesse recitato la funzione di un catalogo autopromozionale

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. Certo, gli anni di Giovanni Battista erano ancora da venire, eppure l’impresa costituì ugualmente la spia di una predisposizione pedagogica che fu fatto costante e alto nei Melani

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, sì che negli anni successivi il suo ritorno in città del 1735, Domenico avrà davvero avuto vita facile nel guidare le scelte del figlio.

Infatti, la prima prova di Giovanni Battista di cui si possa vantare un referto grafico sicuro è individuabile nell’intervento in una cappella del ricordato convento di S. Donnino dei frati Cappuccini, nella primissima periferia della città, da porre in qualche modo a metà strada tra il padre e Giuseppe Melani. Come appendice di uno scomparso ciclo di affreschi del padre raffigurante episodi del magistero religioso dei Cappuccini

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, in una data che sarà da situare verso la seconda metà degli anni Quaranta

18

, Giovanni Battista eseguì una scena raffigurante la Madonna col Bambino e S. Francesco, anch’essa distrutta ma testimoniata da un bel foglio, condotto con un

                                                                                                               

14

La notizia dei viaggi di Domenico riportata da Giovanni Mariti è da considerarsi fededegna, giacché le informazioni su Domenico gli venivano fornite dal figlio Ranieri: MARITI 2001, pp. 114-17 (dove si accenna anche ai lavori che il pittore avrebbe lasciato a Pontremoli e a Pistoia).

15

Il Theatrum uscì a Roma nel 1705; l’Appendix ancora a Roma, ma solo nel 1723. Su di essi cfr. ZANOBINI LEONI 1977; MILONE 2004, pp. 220-25.

16

Per la scuola dei Melani v. DA MORRONA 1812, vol. II, pp. 542-45; ma soprattutto TEMPESTI 1792, p. 380:

“Nella frequentatissima Scuola dei Milani, oltre alcuni esteri, si distinsero Tommaso Tommasi, Giuseppe Bracci, Jacopo Donati , Bartolommeo Santini, Ranieri Gabbrielli , e fra i Nobili dilettanti Cammillo Ranieri Borghi, Michele Ricucchi, Pandolfini ec.”.

17

GRASSINI 1838, p. 79: Giovanni Battista prestò “egregiamente l’opera sua al padre ne’ dipinti delle cappelle dell’orto de’ Cappuccini di Pisa”. Sull’ipotesi d’identificare in due disegni di Domenico passati sul mercato antiquario, gli studi per altrettante scene del ciclo per i Cappuccini, v. qui cap. 1.

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Le carte dell’archivio dei Cappuccini non sono generose d’indicazioni, e la datazione dell’affresco può essere solo

congetturale.

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segno che cela dietro la sprezzatura delle posture e delle ombre appoggiate la studiosa compostezza del principiante (fig. 5). Il disegno è tra l’altro molto importante non solo perché costituisce per l’appunto il più antico resoconto tempestiano d’indubbia autografia giunto fino a noi

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, ma anche perché nella sua dichiarata e franca costruzione, esso denuncia a tutta evidenza la derivazione da antecedenti melaniani, in particolare dalla tela d’identico soggetto ancora oggi esistente nella cappella del palazzo Arcivescovile.

Eppure, pur all’interno di un sostanziale rispetto del cortonismo di Giuseppe (arricchito da echi de La Madonna che offre il Bambino a S. Francesco del Berrettini ora alla Vaticana, che fa pensare a un Giovanni Battista pronto a misurarsi anche con disegni di bottega dei due fratelli, che di certo ne avranno fatti nel soggiorno romano), il giovane artista nella sua opera apportò una variante di non poco momento. Perché l’ovalizzazione del volto della Vergine, in posizione pressoché frontale e ben spartito dalla linea dei capelli, era la spia di un’autonoma interpretazione dei repertori melaniani, di una via personale che temperava l’esuberanza cortonesca in una vena che teneva del classicismo gabbianesco, come rivisto attraverso la mano di Antonio Puglieschi, quello ad esempio delle testimonianze lasciate nella vicina Collegiata di Castelfranco di Sotto.

Di questo primo periodo, segnato dall’influenza dei Melani (ma anche di Ranieri del Pace), è probabilmente anche un Sacrificio d’Isacco in collezione privata

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(fig. 1), tradizionalmente assegnato al Tempesti per quanto si faccia un poco fatica a ritracciarne i caratteri identidari, ma che potrebbe benissimo stare in quella fase iniziale della carriera del pittore – gli anni Quaranta dunque – così poveri di referti, ma che sappiamo ben ancorata al linguaggio dei fratelli Melani.

A questo periodo primissimo della carriera di Giovanni Battista – tra Quaranta e Cinquanta - andrà attribuita una tela di non grande qualità ma compositivamente assai ambiziosa, attualmente conservata nell’Aula Magna Seminario di Pistoia, ma proveniente dalla chiesa di S. Chiara della stessa città, da ritenere uno degli incunaboli del pittore. La tela, che raffigura Giovanni Battista                                                                                                                

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Saranno infatti da espungere dal catalogo tempestiano per evidente incongruenza stilistica con il profilo dell’artista, ma anche con quello dell’ambiente che lo circondava, un gruppo di disegni di soggetto sacro pubblicati qualche anno fa:

una Vestale con amorini, un S. Sebastiano, una Madonna col Bambino, una Santa, due Nature morte a tempera, e altro ancora (VALLERINI 1968, pp. 33-41). Lo stesso può dirsi per una modesta matita con la Madonna col Bambino e una santa in adorazione (cm. 30 X 23), già posseduta dall’Arcivescovo di Pisa Benvenuto Matteucci, e recante la firma, falsa, del pittore (“Gio. Batta. Tempesti 17…”), passata di recente sul mercato antiquario pisano.

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La tela – inedita - è in una collezione privata pisana, ed è da Pisa che proviene. In famiglia reca per tradizione

l’attribuzione al Tempesti.

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Basoletti primo Rettore del Seminario Vescovile di Pistoia che presenta i chierici a S. Atto (fig. 2), se non fosse per la decisa attribuzione del Tolomei, sarebbe difficilmente riferibile alla mano del Tempesti, mancando in essa quelle sigle morelliane che ne costituiscono la fisionomia, al punto che in modo per niente peregrino venne catalogata come opera affine alla maniera di Gaetano Piattoli

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. Forti in essa sono infatti i legami con la pittura fiorentina tra Sei e Sette (da Alessandro Gherardini e Pier Dandini, ma con una punta di delizioso arcaismo nella struttura generale alla Matteo Rosselli), sì che la notizia di un’attività pistoiese del padre di Giovanni Battista

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, potrebbe almeno far pensare ad un’opera di collaborazione, che sarebbe circostanza tutto sommato verosimile per il disegno che ci sforziamo qui di descrivere, di un legame artistico ben stretto tra padre e figlio almeno fino alla partenza del secondo per Roma.

Che intorno alla fine degli anni Quaranta Giovanni Battista integrasse l’esempio paterno con quello di Giuseppe Melani è attestato da una ulteriore opera giovanile, la Sacra Famiglia situata in un altare laterale della chiesa di S. Donato a Chianni (fig. 4). In questa tela stilisticamente di plausibile autografia tempestiana – sottaciuta dalle fonti, ma che secondo il parroco della chiesa sarebbe addirittura firmata

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-, Giovanni Battista si orientò nella rilettura del Riposo durante la fuga in Egitto di Giuseppe Melani (ora nei depositi museali pisani, ma già nella chiesa di S. Benedetto), prossimo a diventare l’esemplare par exellence del pittore, come attestato dalla sua pubblicazione nell’Etruria Pittrice del Lastri

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.

Ciò che colpì il Tempesti della tela melaniana non fu evidentemente solo la correttezza del disegno, ma l’infusione cromatica ricca di umori neoseicenteschi, e lo slargo paesaggistico sullo sfondo, che costituirono un elemento centrale della sua elaborazione. Se insomma nel perduto affresco dei Cappuccini Giovanni Battista indugiò sulla sintassi compositiva, sul modo d’intrecciare le figure l’una nell’altra, qui a interessarlo fu invece l’arricchimento cromatico e quel senso d’immersione delle figure nella natura che costituiva una significativa variante degli studi d’interno. La prova del Tempesti fu, ovviamente, ancora acerba – specie nella legnosa torsione del Bambino -, ma la collocazione della Vergine di fronte allo sperone del muro – a scalare i piani prospettici e a darne profondità - era già soluzione degna di nota perché sottolineava l’intenzione di dare esito credibile                                                                                                                

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TOLOMEI 1821, p. 123. Per l’acuto spostamento dell’attribuzione alla maniera del Piattoli, frutto di una scheda catalogafica di R. Roani Villani: Settecento illustre 2009, pp. 186-87, scheda di S. Romagnoli.

22

MARITI 2001, pp. 114-17.

23

Il parroco, don Ugo Gherardi, sosteneva (com. orale) di aver letto la firma in occasione di una pulitura del dipinto di alcuni decenni fa.

24

LASTRI 1795, tav. CVIII (dove non a caso Giuseppe Melani veniva paragonato proprio al Puglieschi).

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alla composizione, mettendone in fila personaggi e a delimitarne gli spazi. E quella torre pur qui presente ma fattasi vicina e incombente, fa pensare a come probabilmente Tempesti nell’esercizio paesaggistico interpolasse lo studio dei maestri di bottega a quello di certi quadri di Anton Francesco Peruzzini, artista che del resto era ben conosciuto a Pisa e dalla famiglia Della Seta, legata ai Melani dalle ragioni di una proficua committenza

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.

Ma la nota dissonante in questo quadro perfetto è costituita proprio dalla personalità artistica di Domenico. Un temperamento che, come abbiamo tentato di far emergere nel primo capitolo, era ben lontano dal confondersi con la più vieta e corriva routine degli artigiani alle prese con i pennelli. Fu un pittore vero Domenico, che frequentò intellettuali ascoltati e fu da questi consultato e coinvolto in imprese che avrebbero fatto la fortuna di chiunque, possibile che si sia disinteressato alla carriera del figlio? Un figlio che, sia detto di passaggio, come dimostrato dalle carte degli Stati delle Anime non cessò mai di vivere nella stessa casa del padre, e di lavorare negli stessi luoghi di questi e per analoghe committenze?

E’ ben possibile che il padre si fosse valso dell’intervento del figlio in alcune parti secondarie del perduto ciclo di affreschi che Domenico eseguì all’inizio degli anni Quaranta nel convento di S.

Donnino (e di cui abbiamo ritenuto d’individuare due disegni preparatori), ma nel pieno del decennio la collaborazione si nutrì di cose ulteriori. Nel primo capitolo abbiamo accennato agli affreschi di Domenico per i Dal Borgo a Pugnano, specie i due ampi e festosi del salone.

Impossibile dire cosa vi abbia eventualmente fatto Giovanni Battista, ma dal momento che l’impresa venne saldata nel 1757, non è davvero improprio immaginare una qualche forma di collaborazione del figlio, che aveva ormai già l’età per qualcosa di più del sillabario

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.

Ipotesi che potrebbe trovare una qualche conferma nel territorio, in episodi minori e inediti dove si riflette il successo delle imprese della villa di Pugnano, in quella fitta orditura d’interventi ancora da ricostruire e addirittura da scoprire (vista la loro collocazione, sovente inaccessibile), che potrebbero aver visto impegnato Giovanni Battista, in varie forme e ruoli. Come ad esempio il caso di villa Scorzi, posta nel territorio di Calci e praticamente sconosciuta agli storici dell’arte, nella cui cappella della Madonna di Loreto si conserva un ciclo di affreschi raffiguranti le Storie di S.

Ranieri, di qualità modesta (ma molto compromessa da ridipinture e abusi), e non riferibile alla mano tempestiana, ma al gusto di questi non estraneo, una sorta di riduzione più rustica delle grandi                                                                                                                

25

Sui rapporti di Antonio Peruzzini con Orazio Felice Della Seta, v. GREGORI 1964, pp. 25-6.

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Penso alle teste di fantasia inserite al centro dei timpani divergenti posti sulle porte del salone, che potrebbero far

pensare ad un intervento diretto di Giovanni Battista.

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scene dipinte da Domenico nel salone di villa Dal Borgo. Una rete di situazioni insomma dove l’assoluta mancanza di una tradizione bibliografica (per tacere di quella archivistica), non consente al momento prese di posizione definitive, ma dove la mano di un artista relativamente ancora giovane e non affermato come Giovanni Battista, poté trovare occasioni di lavoro e di crescita

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. La conferma di questa interconnessione tra padre e figlio (che in futuro potrà trarre vantaggio da studi specialistici su Domenico), è data da altre vicende giovanili di Giovanni Battista. Una, piuttosto importante, è quella della decorazione della chiesa dei SS. Jacopo e Filippo (vulgo S.

Jacopo in Orticaia), appena fuori dalle mura di Pisa, in grande prestigio per il culto pisano per essere stata teatro della vita e della predicazione di S. Ranieri.

La chiesa, d’impianto medievale ma più volte rimaneggiata, conserva ancora oggi al suo interno un ciclo di affreschi assai interessanti. Come attesta una lapide posta sul lato esterno verso il giardino, le pitture del presbiterio furono eseguite nel 1757, nel corso di un lavoro di radicale ristrutturazione della chiesa

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. Si tratta di quattro sovrapporte, arricchite da finte architetture includenti ovali con Angeli e i SS. Antonio Abate e Ranieri (fig. 18). Da un punto di vista stilistico la prossimità delle figure dei due santi con le opere certe e successive di Giovanni Battista sono stringenti: stessi volti affilati, stesse risoluzioni cromatiche luminose ma non caricate, analoghe espressioni estatiche ma non imbambolate. In queste non vi è traccia d’ispirazione cortonesca (e dunque melaniana), ma semmai di quel filo che abbiamo detto aver legato il figlio al padre, e per mezzo di questi ad una tradizione fiorentina più prossima. Gli ovali di Giovanni Battista sono inseriti entro ricche sovrapporte architettonicamente definite da trabeazioni di non ordinaria qualità, sulle quali riposano coppie di angeli recumbenti dipinti a monocromo, che sono stilisticamente assai vicini a quelli reggi

                                                                                                               

27

L’ipotesi potrebbe trovare conferma in un affresco ovale con la Madonna, il Bambino e S. Giuseppe dipinto all’interno della villa, il cui stile più pacato non estraneo allo stile di Giuseppe Bottani potrebbe far pensare ad un’autografia del giovane Tempesti. Da notare poi che la villa è contigua a quella dei Rosselmini, nella cui cappella Giovanni Battista lascerà un dipinto, e nel cui salone vi è un affresco con la Punizione di Prometeo di Domenico, affine nel Pier Dandini di palazzo Orlandini a Firenze, con punte di autentico mimetismo stilistico e formale (v. Il Settecento 2001, pp. 152-53, schede di A. Mercurio).

28

L’iscrizione, posta all’esterno della chiesa, sopra la porta laterale verso il giardino, attesta che la Compagnia dei SS.

Jacopo e Filippo fece eseguire le pitture del presbiterio per l’anima di Giuseppe Antonio Landucci, grazie ad un decreto

arcivescovile del 26.11.1756. Siccome la lapide è datata 1757, le pitture saranno da datare a cavallo dei due anni.

(10)

cortina che ornano lo scalone di palazzo Ruschi, attribuiti alla mano del Donati e di Domenico, ma dove forse intervenne Giovanni Battista

29

.

Domenico aveva del resto esordito nello stesso palazzo Ruschi nel precoce triennio del 1746-49

30

, dipingendovi tra l’altro la volta della galleria con Apollo e le Muse, dove in una struttura pur disgregata in episodi non sempre omogenei e stilisticamente rivolti verso le posture delle figure di Alessandro Gherardini e Anton Domenico Gabbiani Gabbiani, si possono leggere singole frasi che potrebbero attribuirsi alla mano di Giovanni Battista, in un momento segnato da un impegnativo dressage

31

. Circostanza che potrebbe allora spiegare l’episodio della chiesa dei S. Jacopo in Orticaia, come fondata finalmente in modo autonomo sulla riflessione di quanto aveva imparato nella bottega – anche – del padre.

Il dato di una partecipazione di Giovanni Battista all’arricchimento della periferica chiesa pisana potrebbe essere confermato dalla restante decorazione sulle pareti laterali della navata, di poco precedente alla prima, composta da una vasta superficie decorata da figure allegoriche dipinte a monocromo, e da quattro grandi scene raffiguranti altrettanti momenti di una vicenda narrativa le cui ragioni sono ancora da ricostruire: Ultima Cena, Conversione di S. Ranieri, Tentazioni di S.

Antonio, Martirio dei SS. Jacopo e Filippo. La qualità delle scene non è elevatissima e neppure uniforme, giacché vi si alternano parti francamente impacciate ad altre che rivelano la presenza di una mano già sufficientemente evoluta. L’apparato scenografico è ad esempio dominato da finte candelabre, che sono praticamente identiche a quelle che pochi anni dopo torneranno nella cappella della villa Upezzinghi - ora Del Carratore - a Titignano, di sicura pertinenza tempestiana

32

. Ecco                                                                                                                

29

Per i Putti di palazzo Scorzi, databili per via documentaria al 1748 circa v. Il Settecento 2011, p. 96, scheda di B.

Moreschini. Nei primi cicli di affreschi di Domenico Tempesti e Jacopo Donati in palazzo Ruschi (databili appunto agli anni Quaranta) è ben possibile vi sia stata una fattiva collaborazione di Giovanni Battista (come negli stessi Putti ad esempio). I documenti però non ne fanno cenno, circostanza che potrebbe in parte giustificarsi col fatto che a quelle date Giovanni Battista quando collaborava col padre come membro della sua bottega, che nella prassi non prevedeva la registrazione del suo nome nei registri di pagamento.

30

L’attribuzione e la datazione della volta è indubitabilmente segnalata dai documenti: PANAJIA 2001, pp. 70-1 (in questo senso appaiono incomprensibili i dubbi d’identificazione della galleria avanzati in Il Settecento 2011, p. 97, scheda di B. Moreschini).

31

La figura di Mercurio ad esempio sembra anticipare, sebbene in modo quanto più acerbo, una analoga figura in controparte dipinta alla fine della sua carriera da Giovanni Battista nella Sala della Musica di palazzo Pitti (v. qui cap.

10).

32

L’elemento dirimente sulla pertinenza tarocchiana di queste decorazioni è che le finte candelabre verranno replicate

anni dopo quasi alla lettera, questa volta in misura tridimensionale, sul breve sagrato dell’oratorio di villa Del Testa al

Belvedere di Crespina, una delle opere più significative del Tarocchi architetto.

(11)

che allora la tradizionale attribuzione delle decorazioni della chiesa di S. Jacopo alla mano di Mattia Tarocchi, che del Tempesti sarà l’assiduo collaboratore per le quadrature, esce dal limbo fantastico delle dicerie impregiudicate

33

, per assumere invece un profilo di veridicità assolutamente fededegno. Era nato intorno a 1730 Tarocchi e alla fine degli anni Quaranta, probabile inizio delle quadrature

34

, egli aveva di certo l’età giusta per assumersi le prime responsabilità.

Le quattro grandi scene potrebbero allora essere attribuite ad un esordiente Giovanni Battista, posto sotto l’influenza di Domenico Piastrini, le cui cose pisane risultavano intriganti per quella capacità che il pistoiese aveva di divulgare il linguaggio di Benedetto Luti, specie per i colori infusi e luminosi, e di riallacciarsi a quello di Giuseppe Nicola Nasini, per un’analoga noncuranza disegnativa a vantaggio del colore, come bene mostrò nelle tele del Carmine

35

.

Ma nel complesso i grandi riquadri risultano declinati con un assetto stilistico estraneo alle cose note del Tempesti, dove quelle che saranno le sigle più consuete del pittore sembrano essere qui affatto indecifrabili, al punto che o si debbono ritenere assai precoci (poco oltre la metà degli anni Quaranta), quando niente sappiamo della maniera del pittore, oppure in modo più plausibile devono essere ricondotti ad un altro artista: quel Nicola Matraini

36

che di lì a poco sarà compagno di pensionato a Roma del giovane Tempesti, e il cui disegno con l’Orazione di Cristo nell’orto col quale nel 1758 vincerà il premio al Concorso Clementino all’Accademia di S. Luca

37

, mostrerà di                                                                                                                

33

La notazione di un’attribuzione degli affreschi della chiesa dei SS. Jacopo e Filippo al Tarocchi fu rintracciata molti anni fa dallo scrivente tra le carte – purtroppo non ordinate – dell’archivio di Annibale Marianini, conservato dagli eredi. Si trattava di una carta sciolta, non datata, ma probabilmente redatta a cavallo tra Sette e Ottocento.

34

Purtroppo la storia della chiesa è resa assai difficile dalle gravissime lacune esistenti nell’archivio parrocchiale, che, di fatto, è relativo solo alle cose otto-novecentesche (come lo scrivente ha potuto personalmente verificare consultando l’Archivio Diocesano, quello parrocchiale e della parrocchia di S Michele degli Scalzi, che per lungo tempo incorporò anche quello della chiesa in esame).

35

Piastrini, la cui attività pisana non ha ancora meritato uno studio specifico, ha lasciato testimonianze nella chiesa del Carmine e in quella di S. Sisto, per quanto a ragione siano state definite “modeste” (CIARDI 1990 b, pp. 80, 99 n.; v.

anche Da Cosimo III 1990, pp. 23-4, scheda di R. P. Ciardi). Giuseppe Nicola Nasini durante il suo soggiorno pisano non a caso ebbe probabilmente come allievo proprio il Piastrini (ESUPERANZI 1987, p. 65). Intorno al 1697 lasciò anch’egli importanti testimonianze nel coro della chiesa del Carmine.

36

Nicola Matraini era nato a Pisa nel 1737 (NOFERI 2003, p. 57 n.); suo padre, il vetraio Giovanni Gualberto, abitava nella parrocchia di S. Croce in Fossabanda, nel cui convento fu sepolto nel 1796 (ne sopravvive tuttora la lapide).

Considerata l’estrema prossimità tra S. Croce e S. Jacopo in Orticaia, è probabile che il figlio Nicola abbia approfittato della confidenza con i luoghi per ottenere di partecipare ai lavori.

37

Matraini fu a Roma col sostegno della Pia Casa a partire dal 1754 (CIARDI 1990 a, p. 46), e già in quell’anno

partecipò al concorso Clementino dell’Accademia di S. Luca (I disegni di figura 1989, p. 220). A Roma, dove si

(12)

comporsi in una scena rarefatta e un poco impacciata, non priva di recuperi tra Cinque e Seicento, con i volti come ottusi e straniti, che già si ritrovavano in questi affreschi pisani.

Al giovane Tempesti potrebbero semmai essere assegnate le grandi figure monocrome ai lati delle scene, a fianco dei candelabri del Tarocchi e raffiguranti Virtù, alcune di vivida e affascinante dinamicità, risolte in sigle piuttosto eleganti anche se di qualità discontinua, che eventualmente avrebbero il merito di riproporre la questione dell’alunnato del pittore presso i Melani, perché la pingue eleganza dei panneggi e la dolce profilatura dei volti delle figure, certo si allontanano dalle cose analoghe del padre Domenico, per orientarsi invece verso Giuseppe Melani

38

. Ma l’assoluta mancanza di riferimenti documentari, e l’impossibilità di procedere a comparazioni stilistiche per opere così precoci, ci consiglia di tenere la questione in sospeso, in attesa di ulteriori riscontri.

2- La ricostruzione degli esordi pittorici Giovanni Battista è resa ingrata dalla totale mancanza di documenti, seppur parziali ed eccentrici, che ne definiscano qualche seppur minimo passaggio:

niente, il nulla assoluto. Circostanza resa ancor più difficile dalla necessità d’intendere quanto nelle testimonianze biografiche sia stato il frutto di una registrazione di verità, o quanto invece abbia risposto ad una necessità retorica. Certo è, ad esempio, che definire un pittore pisano operante intorno alla metà del Settecento come allievo dei Melani, era come dire che siamo tutti figli della propria madre. Eppure lo scrutinio delle opere assegnabili al Tempesti nei suoi primi anni conferma uno stemma codicum formativo che in qualche modo accerta la tradizione biografica, assegnando a Giovanni Battista, dopo un iniziale incamminamento nella bottega paterna, un periodo di studio dai fratelli Melani. Questa parentesi a nostro giudizio sarà da circoscrivere ad anni difficilmente eccedenti gli stretti confini posti tra il 1740 e il 1742, quando Domenico, in una griglia biografica ormai piuttosto ricca di punti fermi, risultò essere completamente assente da Pisa, e forse impegnato nelle sue tappe pontremolesi e pistoiesi segnalate dai biografi

39

. Solo un’ipotesi beninteso, ma che                                                                                                                

trattenne almeno fino al 1762 (AASL, vol. 33 bis, cc. n. n.), abitava nella parrocchia di S. Andrea alle Fratte, nei pressi di piazza di Spagna (ASVR, S. Andrea alle Fratte, Stati d’anime, anno 1759, cc. n. n., ma 2 r.). Il disegno con l’Orazione nell’Orto vinse il secondo premio di seconda classe nel concorso del 1758 (I disegni di figura 1991, p. 9). A giudicare dai disegni conservati presso l’Archivio dell’Accademia, fu artista dotato di ottime capacità grafiche, espresse in studi anatomici assai rifiniti, sebbene un poco appesantiti da un tratto caricato e penalizzati da incertezze compositive (AASL, diss. B 39; B 114; eppoi quelli segnati 9, 37, 18). Nell’aprile 1755, nel dicembre 1756, nel novembre 1759, nel settembre 1761 e nel marzo 1762, vinse premi nell’Accademia di Nudo, quando direttori della Scuola furono Pietro Bracci, Francesco Caccianiga, Stefano Pozzi, Niccolò Ricciolini e Filippo Della Valle (AASL, vol. 33 bis. cc. n. n.).

38

Non sono invece da ritenere omogenei a questo programma le figure monocrome poste nell’atrio di accesso alla chiesa, di qualità modestissima, e databili ad un’epoca ben più tarda.

39

Come segnalato nella nota 13.

(13)

si accorderebbero anche con la vicenda biografica dei Melani, perché la morte di Francesco, che di fatto segnò la chiusura della loro bottega, avvenne il 21 agosto 1742.

Questa ipotesi formativa, proiettata a ritenere come in buona sostanza il giovane pittore avesse imparato col padre qualcosa in più dello stretto necessario, integrandone gli insegnamenti con quelli di altri, ma non escludendone il consiglio e le cure, si accorderebbe anche all’altro punto fermo dell’iter scolastico di Giovanni Battista segnalato dai biografi, l’alunnato pisano – in date e periodi imprecisati – presso lo stazzemese Tommaso Tommasi.

Ora, dal momento che questo alunnato venne esplicitamente segnalato da Sebastiano Donati nella prima biografia di Giovanni Battista, pubblicata, si noti, lui vivente

40

, c’è da credere che abbia avuto davvero corso (eppoi sarà lo stesso Tempesti a dichiararla

41

), nonostante non si abbia notizia alcuna (né archivistica, né testuale) sul fatto che il pittore lunigianese avesse aperto a Pisa una autonoma bottega. Dunque, quando fu questi maestro del Nostro? E come? Ecco che allora la mano del pittore lunigianese nella formazione di Giovanni Battista deve probabilmente intendersi come riferita al momento della morte di Francesco Melani, all’epoca insomma della dissoluzione della scuola, quando il Tommasi – allievo anch’egli dei due fratelli, e ormai artista maturo -, avrà avuto il compito di gestire la liquidazione della bottega

42

.

Non di vero discepolato si sarà allora trattato, ma di consorzio umano e forse commerciale, di collaborazione tra il vecchio e il giovane, ma non di un più complicato rapporto pedagogico.

Circostanza del resto confermata dai dettagli linguistici, che, come vedremo, quando i due lavoreranno nello stesso luogo a breve distanza di tempo, mostreranno una identità sostanzialmente diversa anche se non avversa. Frangente esemplificato da un dipinto assegnabile alla fase giovanile del Tempesti conservato presso il palazzo che fu quello della Carovana di S. Stefano (e ora sede

                                                                                                               

40

DONATI 1775 A, p. XLII.

41

V. a questo proposito la citazione archivistica in NOFERI 2003, p. 235 n.

42

Anche altri (CIAMPOLINI 1993, p. 171 n.) sono concordi nel ritenere l’intervento del Tommasi nella formazione del

Tempesti come posteriore a quello dei Melani (ma v. anche DONATI 1775 A, p. XLII). Anche in una nota autografa

(ACP, C. 86, ins. 10, cc. sciolte, 7.10.1786), a conclusione di una perizia richiesta dal vescovo Franceschi, Tempesti

elencando i suoi maestri metteva al primo posto Tommasi, ma dal momento che dopo aver fatto cenno a Giuseppe

Melani e a Batoni dimenticava affatto di ricordare Costanzi, non ce la sentiamo di prendere l’indicazione come un

modello di precisione.

(14)

della Scuola Normale Superiore), raffigurante la Madonna col Bambino e S. Gregorio Magno

43

(fig.

3), dove la ricca compresenza stilistica è già di per sé indizio di un profilo in costruzione (vedi le evidenti tracce dandiniane e melaniane), ma con una impostazione strutturale che ricorda da presso il Tommasi

44

, a cui, se non fosse per quei putti così già così vigorosamente tempestiani, potrebbe forse essere assegnato. Si potrebbe addirittura trattare di uno dei suoi primi dipinti noti, non oltre il 1750, che giustificherebbe anche quella fitta tessitura cromatica ricca di variazioni cangianti, che segnano un momento di forte e pressoché isolata riflessione sulla pittura del più illustre pisano fuori porta, quel Ranieri del Pace comunque ben noto al giovane Giovanni Battista per esempi nella campagna toscana

45

, senza voler mettere in conto il bellissimo Riposo durante la fuga in Egitto del del Pace sull’altare della chiesa di S. Giuseppe a Pisa, dove la Vergine è davvero assai prossima a questa più tarda ripresa di Giovanni Battista

46

.

Formazione dunque composita e diramata, ma dove torniamo a dire che un ruolo decisivo venne svolto dal padre Domenico. La complicità famigliare è da mettere in conto anche per quella che è da ritenere la prima articolata impresa pittorica di Giovanni Battista: la decorazione della chiesa di S. Giovanni in Spazzavento. Non ricordata nella Guida per il Passeggiere di Pandolfo Titi (e dunque da ritenere posteriore al 1751)

47

, l’intervento del Tempesti è segnalato nelle carte d’archivio come articolato in un ciclo di affreschi in controfacciata, avente per oggetto l’illustrazione di

                                                                                                               

43

Il dipinto, già esposto in una sala del palazzo, giace ora in un ballatoio, in attesa di una nuova sistemazione. E opera priva di riferimenti e di bibliografia. La presenza di S. Gregorio potrebbe far pensare ad una provenienza dal vicino omonimo oratorio, di proprietà della Misericordia di Pisa.

44

Intendiamo riferirci principalmente alla tela con la Madonna col Bambino e S. Francesco da Paola dell’omonimo oratorio di Crespina, in un luogo cioè assai noto alla famiglia Tempesti per i rapporti intensi che la legheranno ai Del Testa, proprietari in zona della villa che poi sarà affrescata da Giovanni Battista.

45

Non potevano essere sfuggiti a Giovanni Battista due imprese di grandissimo esito di Ranieri del Pace, conservate in luoghi a lungo frequentati dal Nostro: il Martirio di S. Sebastiano nella chiesa della SS. Annunziata del piccolo borgo di Capannoli (dove Domenico Tempesti aveva affrescato la villa Upezzighi), e la volta della chiesa di S. Dalmazio a Volterra, città natale del Nostro: v. rispettivamente Visibile pregare 2001, p. 23, scheda di M. Campigli; Barbera 1979.

46

Sulla tela: Ciardi 1990 b, pp. 73, 98 n. Da segnalare poi che Ranieri del Pace godeva a Pisa di una certa fortuna collezionistica.

47

TITI 1751, pp. 222-23. Nella stessa occasione lo storico citò infatti il gonfalone della Compagnia conservato in

chiesa, ornato da una Decollazione del Battista dipinto da Niccolò Nannetti e giudicato una delle sue migliori opere. Il

dipinto, databile intorno al 1745, quando l’artista era a Pisa per eseguire il Ritratto di Francesco Roncioni e alcuni

restauri ai “quadri di sala” (ASP, Roncioni (135) 369, 15.1.1745), conferma come i lavori di risistemazione del tempio

siano da collocare tra fine degli anni Quaranta ed inizio del decennio successivo.

(15)

episodi delle Vite di S. Giuseppe, S. Giovanni e S. Onofrio

48

. Non più giudicabile perché distrutto assieme alla chiesa nel corso dell’ultima guerra, il ciclo è tuttavia significativo perché segna una netta emancipazione di Giovanni Battista, questa volta alle prese con un’opera non isolata, costretto dunque a dar prova di una matura capacità narrativa, e in un anno per giunta – qualunque sia stato degli anni Cinquanta – dove non poteva più godere della protezione di bottega di Giuseppe Melani, deceduto da pochi anni, al quale si sostituì però ancora una volta il padre, che aveva per l’appunto appena portato a termine la decorazione della volta della chiesa, tra nicchie e stucchi profilati d’oro

49

.

Il ciclo, giudicato con benevolenza dal Da Morrona

50

, era impostato sull’esaltazione di S. Giovanni Battista, ma con una accentuazione della vita eremitica (S. Onofrio, contitolare dell’Oratorio), che ne faceva la vicenda giusta per una chiesa sede della Confraternita di S. Giovanni Decollato (dedita all’assistenza dei condannati a morte), con un riferimento al disprezzo delle cure terrene che doveva servire da ammonimento e da speranza

51

.

Qualcosa comunque possiamo ugualmente indurre sulla configurazione del ciclo tempestiano, usando fonti accessorie. In occasione del Venerdì Santo la Congregazione organizzava per le vie cittadine una solenne processione dietro un Crocifisso che le era stato donato nel 1728 dall’omologa Compagnia di Assisi. Nelle varie descrizioni a stampa dell’evento, il momento dell’esaltazione della Croce veniva svolto con una forte insistenza sugli aspetti eidetici della cerimonia, con una continua interpolazione e alternanza degli elementi dottrinali a quelli visivi, come un costante suggerimento a rivivere la fede attraverso la muta ostensione – e comprensione - delle immagini,                                                                                                                

48

Nel dettaglio: Fuga in Egitto e S. Giuseppe in Egitto; Sacra Famiglia; S. Giovanni che battezza Cristo nel Giordano;

S. Onofrio nel deserto (ACP, mss, C 214, Ruschi-Cambini 1765 ms, c. n. n.: Pisa, chiesa di S. Giovanni in Spazzavento). Da evidenziare che una voce autorevole come quella del Bellini Pietri riconosceva però nelle scene vicende parzialmente diverse: Apparizione dell’angelo a Zaccaria; Battesimo di Cristo; Sacra famiglia; Fuga in Egitto (BELLINI PIETRI 1913, p. 267).

49

ACP, mss, C 214, Ruschi-Cambini 1765 ms, c. n. n. Domenico aveva dipinto delle nicchie ornate a stucco e profilate d’oro dallo stucchinaio Mattia Bertani; in più aveva affrescato la volta della tribuna.

50

DA MORRONA 1793, vol. III, p. 303; DA MORRONA 1816, p. 183; ma v. anche MARIANINI 2007, p. 72.

51

Ci sarebbe poi da approfondire un aspetto piuttosto interessante, legato ad una possibile variante dell’educazione

artistica di Giovanni Battista, perché qualcuno di quei corpi “strangolati” e concessi per le “anatomie” – così nella

minuziosa contabilità della Compagnia -, sarà pur passato sui tavoli delle stanze mortuarie, davanti agli occhi e alle

matite del padre e figlio pittori, a segnarne la pedagogia e l’esercizio disegnativo. Le carte della Confraternita sono

conservate in ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo.

(16)

che nelle canzoni celebrative redatte per l’occasione finivano per assumere una patina ecfrastica

52

. Su questa traccia, non sarà allora improprio immaginare le scene dipinte dal Tempesti come estremamente parsimoniose d’inganni spettacolari, ma semmai piane e comprensibili, didattiche, tali da coinvolgere e commuovere un pubblico abituato a riconoscere nelle immagini un sussidio della pietà.

Ipotesi che esce confermata dall’unico frammento di quel ciclo forse miracolosamente scampato alla distruzione, un affresco staccato con la Madonna e S. Giovanni ora conservato nei depositi del Museo di S. Matteo, di sicura pertinenza tempestiana perché firmato in basso (fig. 7). Le due figure, in adorazione della luce divina, da leggere come poste ai lati del Crocifisso processionale quando veniva riposto in chiesa, mantengono intatta una loro rustica presenza, con una impostazione frontale e di tono neomanieristico, come modulate su una oratoria didattica e piana

53

. Prossimo al padre, ancora una volta.

La presenza congiunta di Domenico e Giovanni Battista Tempesti lungo le pareti della sede della Confraternita di S. Giovanni, ci offre però la possibilità di una riflessione su quali fossero i margini culturali entro cui i due pittori si muovevano, tra anni Quaranta e Cinquanta.

Quella chiesa, nella Pisa del Settecento rivestiva un’importanza per niente secondaria. Intorno al 1745, poco prima del documentato rinnovamento dell’edificio, o forse a introduzione dei lavori, Carlo Goldoni, che a Pisa abitò circa tre anni esercitando la professione di avvocato, scrisse un sonetto dedicandolo appunto alla chiesa e al suo santo

54

.

Non che si voglia amplificare fuor di misura la circostanza – che anche in Storia esistono le coincidenze fortuite -, ma l’attenzione del Goldoni per quella che in fondo fu solo una piccola                                                                                                                

52

Per la divota 1749 (v. il sonetto di Leonardo Pesciolini a p. 14: “E poi che fu quel gran lavor perfetto;/L’Imago a noi lasciò dello scalpello/Onde l’Opra, or s’onora, e l’Architetto”). Cfr. anche AULLA 1746.

53

Per l’affresco, ritenuto parte del ciclo perduto in S. Giovanni, v. FROSINI 1981, p. 148. Proprio la firma, che non comparirà mai altrove nei pur fitti cicli tempestiani, consigliano una sua datazione giovanile, quando il nome andava ben esibito. L’affresco, di modesta qualità, andrà valutato tenendo presenti le non eccellenti condizioni di conservazione, specie per la totale distruzione delle patine e delle ridipinture a secco, che ci consegnano un dipinto scarnificato e privo di quei passaggi attenuati e febbrili, che saranno una caratteristica pressoché costante del pittore.

54

Il soggiorno pisano del Goldoni è stato negli ultimi anni oggetto d’importanti indagini, che hanno consentito di

ricostruire una vicenda di assoluto rilievo per la storia della cultura italiana settecentesca, di cui pochissimo si sapeva. Il

commediografo veneto giunse a Pisa nell’autunno del 1744 per rimanervi fino alla primavera del 1748, esercitando

un’intensa attività di avvocato, pur senza smettere di curare la propria vena poetica e creativa: MORELLI

TIMPANARO 2004; MORELLI TIMPANARO 2005; RICCI 2007; DE FECONDO-MORELLI TIMPANARO 2009.

(17)

chiesa indica come l’importanza della stessa sia da giudicare in senso non tanto artistico, quanto culturale. Il commediografo era diventato un confratello della Compagnia a partire dal 20 maggio 1745, e il ciclo tempestiano secondo una coeva fonte manoscritta venne favorito dall’essere l’artista iscritto alla medesima pia associazione

55

, così che non è ardito immaginare che i due abbiano sostato sullo stesso banco in preghiera, che abbiano pensato visto e pensato le stesse cose.

L’avvocato veneziano era stato ammesso alla Compagnia lo stesso giorno in cui vi era entrato anche il poeta Bartolomeo Gaetano Aulla, mentre l’altro importante lirico pisano del primo Settecento e grande amico del Goldoni, Ranieri Bernardino Fabri, poteva dirsi addirittura un veterano, perché affiliato dal 1717 e insignito della carica di vice-custode perpetuo

56

. Circostanze queste che bene ci fanno intendere come il tempio, al di là del suo lugubre e inospitale pretesto, fosse diventato luogo d’incontro per alcuni dei nomi più importanti della cultura locale, e pretesto per un verseggiare certo d’occasione (come molta della poesia settecentesca, anche alta), ma tuttavia ben legato a valori espressivi, e soprattutto luogo dove, per un contrappasso bellissimo e davvero barocco, era possibile vedere in preghiera e in processione coloro che risultavano essere membri del serbatoio locale dell’Arcadia: la Colonia Alfea. Dal Sannazzaro in poi, che cosa vi era di più stimolante del contrasto tra i doni della vita e la sua finitezza? Della percezione del contrasto tra i doni arcadici e il buio della morte?

Non si ha notizia di un’adesione di Domenico Tempesti all’Arcadia, mentre quella di Giovanni Battista sarà del decennio successivo. Ma tuttavia alcune delle prove di Domenico degli anni Cinquanta (le sovraporte ad esempio di villa Upezzinghi a Capannoli, o quelle di palazzo Ruschi

57

), mostrano un franco aggiornamento su una pittura di tono aggraziato e divagante, arcadico per l’appunto, con raccordi di tono e di atmosfera della poetica di Paolo Rolli, che niente avevano a che fare con i soggetti della sua pittura fino ad allora conosciuta, che dicono tutto il perimetro di una società mai come quella ristretta.

Certo, sbaglieremmo se cedessimo alla tentazione di un rispecchiamento simpatetico tra testo scritto e quello figurato; tuttavia non vi è dubbio che nella pittura di Domenico intorno agli anni Cinquanta vi fosse come un cedimento a una narrazione non necessariamente declamatoria, ma anche sensibile alla frase divagante e perbene. Pastorelle insomma, e boschi pettinati e amici, come quelli ad                                                                                                                

55

ACP, mss, C 214, Ruschi-Cambini 1765 ms, c. n. n.

56

MORELLI TIMPANARO 2004, p. 405 n. Sul Fabri, qualche cenno biografico in PANAJIA 2009, p. 63.

57

Per le sovrapporte di Capannoli v. cap. 1 (ma anche CIARDI 1990 c, pp. 111, 145 n.). Per quelle di palazzo Ruschi v.

Settecento 2011, p. 98, scheda di B. Moreschini (dove vengono però assegnate a Giovanni Battista).

(18)

esempio – e siamo appena nel 1756 – che il pittore dipinse nella cappella delle Giuseppine, dove il mondo ostile a un ispiratissimo S. Bruno divenne una foresta quieta e senza segreti

58

. Eppoi quel rintocco tra raffigurazione religiosa e divagazione naturalistica, propria in questo frangente della produzione di Domenico, dal punto di vista di una considerazione puramente estetica non fu così estranea, anzi, ai sonetti del poeta arcadico Gaetano Bartolomeo Aulla, dove pur nei gravi referti contenutistici (Dio, Maria), s’intendeva il puntiglio del contrapposto naturalistico, il senso insomma di una fede ben corroborata dai riscontri terreni, una sorta di panteistica fede nel riconoscimento dell’Eterno nelle cose create

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.

La sensibilità letteraria e figurativa dell’Aulla si rispecchiava del resto nelle propensioni collezionistiche, dal momento che nella sua casa di via S. Frediano conservava due quadri di Luca Giordano “al naturale”, uno dei quali raffigurante Armida e Rinaldo nel giardino incantato, ma anche un intenso S. Bartolomeo dello Spagnoletto

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. Si trattava beninteso di attribuzioni che, sebbene convalidate da uno che come il Da Morrona procedeva per pratica e per sapere, andrebbero sicuramente riesaminate; ma pur nella cautela autografica, le tele rivestivano un notevole interesse per il ventaglio culturale che sottintendevano. Le eleganti proposizioni tassesche e le sofferte esibizioni del martirio e della contrizione religiosa: il cielo di Dio e la terra degli uomini.

Temi tasseschi dicevamo, come quelli che il fiorentino Giuseppe Grisoni, reduce dall’Inghilterra e da Roma, aveva appena pubblicato in città, subito dopo il S. Paolo che predica nell’Areopago realizzato nel 1749 per la chiesa di S. Anna. Le due ampie scene tassesche licenziate per il salotto del centralissimo palazzo D’Angiolo, evocanti il clima di una Arcadia domestica risolta con accenti monumentali, che bene ispirarono un sonetto al pastore alfeo Francesco Catalani, e, c’è da scommetterlo, grida di ammirazione per la spericolata sprezzatura espressiva e tecnica del Grisoni, ma anche i toni di una pittura che bene si prestava alla comparazione verbale e poetica in senso stretto

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.

                                                                                                               

58

ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 326, 11.10.1758 (v. anche LAZZARINI 1990, p. 192 e p. 205 n.).

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AULLA 1752; AULLA 1754. Su Bartolomeo Gaetano Aulla v. GIANNECCHINI 1999, pp. 98-103.

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DA MORRONA 1798, p 115-16. Niente più sappiamo della collezione Aulla. In particolare i due quadri del Giordano, veri o presunti che fossero, andavano ovviamente messi in relazione alla fortunata presenza fiorentina del Napoletano.

61

Per la pala d’altare: Da Cosimo III 1990, pp. 26-7, scheda di C. M. Sicca. I dipinti in casa D’Angiolo raffigurano

Erminia tra i pastori, Erminia e Tancredi ferito (ma al Grisoni può essere attribuita anche la tela ovale sul vano scale

raffigurante Ercole con la clava dopo aver ucciso il leone nemeo): FROSINI 1974 (al quale si rimanda anche per una

(19)

Contesti che ci aiutano allora ad intuire come anche la formazione artistica di Giovanni Battista avesse potuto alimentarsi di quella letteraria, e come questa si sostenesse con quella; e che l’aria un po’ svagata da bohémien avanti lettera che il figlio Ranieri

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attribuirà poi al padre Domenico, non era dopotutto frutto dell’affetto filiale, ma che poggiava probabilmente su una solida base formativa e caratteriale.

3- Degli affreschi in S. Giovanni come detto non resta più niente, così come dell’affresco con S.

Marco dipinto lungo la tribuna della chiesa omonima nel quartiere periferico in via Fiorentina, che era stata progettata da Jacopo Bussagli e arricchita dagli stucchi di Giovanni Frullani

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. Questa impresa non fu certamente memorabile, ma è ugualmente significativa se solo valutiamo il ruolo assunto da Jacopo nella Pisa settecentesca, a metà tra il fornitore di marmi, l’imprenditore e quello di evoluto capomastro – quasi un architetto, insomma -, che riuscì a ritagliarsi un ruolo di primo piano, se è vero che venne sepolto nel pavimento della chiesa di S. Sisto, sotto una lapide latina piena di attributi e di carezze

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. Ma ancora più importante è che Bussagli venne scelto da Giuseppe Melani come suo esecutore testamentario

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, segno di confidenza e di stima, ma anche della conferma di una qualche intimità tra la bottega dei Melani e Giovanni Battista, come se l’aiuto al giovane pittore fosse rientrato in qualche modo negli obblighi testamentari.

Ancora una volta dunque l’identità di Giovanni Battista sembrò spiegarsi all’interno di una strada delimitata dal padre e da Giuseppe Melani, così che il disegno ideato per l’acquaforte con Ranieri eremita che adora il Crocifisso (fig. 11), incisa nel 1755 da Niccolò Mogalli per l’antiporta della Vita di S. Ranieri del carmelitano Francesco Maria Sanminiatelli

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, nella sua franca devoluzione                                                                                                                

attenta disamina del sonetto e dell’ambiente arcadico di riferimento). Sull’attività pisana del Grisoni e sui caratteri romani della sua pittura v. ora anche GRIFFO 2000, p. 172.

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V. qui cap. 1.

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I lavori vennero eseguiti nel 1753 (RENZONI 1995, p. 151). La tribuna originaria non esiste più, ma l’affresco del Tempesti già nel 1826 era stato restaurato dal figlio Raffaello, probabilmente perché in cattive condizioni di conservazione.

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Sul Bussagli v. CIARDI 1990, p. 35. Dall’iscrizione tombale del Bussagli, indicato come architetto, si ricava che morì nel 1774 (PALIAGA – RENZONI 2005, p. 140).

65

FANUCCI LOVITCH 1991, p. 163.

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SANMINIATELLI 1755. Sull’incisione cfr. Da Cosimo III 1990, p. 108, scheda di L. Tongiorgi Tomasi – A. Tosi;

TONGIORGI TOMASI - TOSI 1990, p. 311. E’ circostanza priva ovviamente di riscontri, ma è suggestivo immaginare

che Tempesti per questo disegno si sia servito di qualche carta sopravvissuta all’alienazione dello studio dei Melani.

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