Capitolo II
Gli Statuta Civitatis: i disegni e le illustrazioni
2.1. Gli statuti. Lo specchio della città.
Nel capitolo precedente si è voluto delineare un panorama – rapido ma efficace – di quelle che sono le diverse tipologie di scritture fornite dalle diverse componenti della società nell’Aquila tardo–medioevale: i mercanti, gli uomini di Chiesa, notai o cronisti che produssero con traboccante vitalità – per motivi, necessità o finalità differenti – tale rigoglio di testi.
Tra tutte le manifestazioni della vita collettiva e della cultura non solo aquilana, ma dell’intero mondo tre e quattrocentesco, una delle più spettacolari e significative è indubbiamente quella statutaria, sulla quale esiste una bibliografia ormai sterminata, da importanti saggi di storia del diritto a notevoli lavori che inseriscono il fenomeno statutario entro cornici di storia politica e sociale.1 In generale, tale peculiare produzione di testi normativi è generata dalle città – oltre castelli o villaggi, corporazioni o enti religiosi di ogni tipo – con una stupefacente abbondanza di elaborazioni: un quadro cognitivo di tale produzione, a livello nazionale, è coperto – seppur con diversa aspirazione sistematica – dall’Istituto della Biblioteca del Senato della Repubblica.2
Statuti, leggi, decreti, ordini, privilegi, a partire dal XII e poi con una intensità che giunge tra XIV e XV al suo massimo splendore, contribuiscono come pochi altri elementi a realizzare una ricostruzione estremamente puntuale dei più svariati elementi del corpo sociale e delle istituzioni del tempo.
1 Cito per la storia del diritto: M. Ascheri, I diritti del Medioevo italiano. Secoli XI–XV, Roma
2000, pp. 311–328; E. Cortese, Il Basso Medioevo, in Il diritto nella storia medievale, tomo II, Roma 1995, pp. 247–304; R. Dondarini (a cura di), La libertà di decidere: realtà e parvenze di
autonomia nella normativa locale del medioevo, Atti del convegno, Cento 1995.
2 Bibliografia statutaria italiana 1985–1995, a cura della Biblioteca del Senato della Repubblica,
Roma 1998, e Catalogo della raccolta di statuti, consuetudini, leggi, decreti,ordini e privilegi dei
comuni, delle associazioni e degli enti locali dal medioevo alla fine del secolo XVIII, Voll. I–VI
(A–R), a cura di C. Chelazzi; vol. VII (S), a cura di S. Bulgarelli e G. Pierangeli; vol. VIII (T –U), a cura di S. Bulgarelli, A. Casamassima e G. Pierangeli. Biblio teca del Senato, Roma 1943–1999, consultabile all’indirizzo internet:___________________________________________________
Restringendo il campo all’ambito cittadino (che è la sede storicamente più vistosa anche se, come abbiamo visto, non esclusiva del fenomeno), è facile osservare come lo statuto non sia un elemento statico, ma piuttosto una realtà in continuo mutamento: molte sono le norme via via redatte, aggiornate, rielaborate e sostituite, e moltissime sono le leggi che a quei testi si aggiungono idealmente (e non di rado anche materialmente), emergendo ogni giorno dall’espressione di una vita politica “drammatica” ma fecondissima.3
Il principio fondamentale dell’acquisizione della legittimità dei poteri è inteso essere dunque l’autonomia, in quella particolare congiuntura storica prima accennata cui L’Aquila tanto aveva teso: «…fin quando dai molti nascerà l’uno, e dalle parti il tutto, quasi che in esse vi sia quella concordia propria dell ’amore recente […], gli abitanti della città potranno senza impedimenti […] esserci obbedienti; e […] godano della libertà…».4
Ecco apparire l’idea di libertà, ovvero la facoltà di darsi proprie leggi: ma tenendo sempre ben presente lo scopo di ricondurre tale intuizione entro un «disegno universale razionale e coerente, in una cultura profondissimamente intrisa di universalismo cristiano».5
Quanto detto può senza dubbio essere considerato il “concetto chiave” che anima, con esuberante dinamismo, il pensiero giuridico e politico di allora, accomunando L’Aquila a quel mondo tardo–medioevale appena accennato.
La necessaria volontà di configurare i poteri cittadini, e contemporaneamente sancire il principio dell’autonomia sono dunque i presupposti dell’“esplosione” statutaria. Ecco perché senza dubbio posso affermare che gli Statuti rappresentano certamente uno specchio, senz’altro un po’ appannato ma fedele, dell’Aquila di quel tempo.
Premetto, seguendo ora la genesi delle raccolte statutarie, una importante considerazione, che apparentemente può darsi per scontata.
Per quanto attiene la datazione dei codici a noi giunti – cui rimando al successivo paragrafo – non bisogna confondere la datazione degli statuti sotto l’aspetto
3 L.Tanzini, Sistemi normativi e pratiche istituzionali a Firenze dalla fine del XIII all’inizio del
XV secolo. Tesi di dottorato di ricerca, Università di Firenze a/a 2003/2004, pag. 1.
4
Dal diploma di fondazione della città (1254) nella traduzione riportata in R. Colapietra, M. Centofanti, Aquila dalla fondazione alla renovatio urbis, Sambuceto 2009, pp. 78–85. Cfr. cap.1, nota 23.
5 L. Tanzini, Sistemi normativi e pratiche istituzionali a Firenze dalla fine del XIII all’inizio del
materiale della loro redazione, dall’elaborazione giuridica delle norme in essi contenute. Affrontare una breve digressione sulle dinamiche circa la nascita delle normative aquilane ci aiuterà a leggere meglio i codici a noi giunti ed a comprendere approfonditamente non solo i testi ma soprattutto le immagini che essi custodiscono.
Il Regno di Sicilia, pur avendo nelle Costituzioni di Federico II norme che disciplinavano le funzioni delle magistrature locali, non aveva norme che in modo uniforme stabilissero la organizzazione interna di tutte le comunità (universitates) e fissassero i diritti e doveri e in definitiva la loro posizione nei confronti della Corona.
Sicché la vita delle varie universitates, già in partenza distinte in demaniali e feudali, nel concreto era disciplinata secondo disposizioni specifiche e particolari – i privilegi o i capitoli – per la cui formulazione erano determinanti i rapporti di forza esistenti in un particolare momento tra il sovrano e una particolare comunità.
Lo status giuridico della città è dunque definito in tal modo da concessioni e privilegi, come già indicato in più occasioni nel capitolo primo.
La natura di tale tipo di legislazione spiega anche la sua precarietà, per la quale la città doveva chiedere la conferma dei suoi privilegi, cioè del suo status, non solo ad ogni successione di re, ma talvolta al medesimo re che aveva concesso i privilegi, sia perché… non si sa mai (ad maiorem cautelam), sia perché spesso le concessioni erano esplicitamente dichiarate valide fino a quando fosse sembrato opportuno al sovrano.6
Sotto re Roberto il Saggio (1309–1343) compare il primo diploma che sanziona per la città dell’Aquila il diritto di creare degli Statuta: è il 1315, ed il documento reca la firma del protonotario Bartolomeo di Capua; nella medesima congiuntura sta trovando corpo tutta una serie di privilegi regi in favore della città, decisivi per lo sviluppo dei propri commerci.7
Anton Ludovico Antinori,8 illustre aquilano, vescovo ed importante storiografo settecentesco, ci informa che già nel 1290 si procedette ad una prima stesura di
6
L. Lopez, L’Aquila, panorama storico, in L’Aquila nella storia e nell’arte, Teramo 1974, pag. 33.
7 A. Clementi, Statuta civitatis Aquile, Roma 1977, pag. IX.
8 A. L. Antinori (L’Aquila, 1704–1778). Sacerdote, nel 1740 si trasferì a Roma per approfondire i
norme regolamentanti la vita cittadina: si trattava di un “ordine” per la edificazione di chiese nella città ed anche per l’edilizia civile.9
Queste disposizioni avevano lo scopo di regolamentare ed incoraggiare l ’attività edilizia alle diverse scale. In particolare prescrivevano, oltre una normativa che riguardava gli aspetti urbanistici, le caratteristiche generali delle costruzioni, le caratteristiche dei materiali da mettere in opera, nonché la regolamentazione per la produzione degli stessi.10 Si fissavano, in definitiva, le caratteristiche generali e le dimensioni delle abitazioni per ciascun locale; parimenti veniva stabilito che ogni famiglia facoltosa avrebbe dovuto edificare la propria abitazione costruendola con “buona pietra”, con “calce e sabbia”, coprendo il tetto con le tegole (dette coppi o pinci), di cui si definiranno le caratteristiche tecniche e dimensionali negli Statuti stessi (cfr. scheda 28H).
Inoltre si suggerivano le caratteristiche delle pubbliche fontane da innalzare nelle piazze, indicando inoltre come dovesse essere realizzato il sistema delle fognature e l’acquedotto cittadino.11
Peculiare nell’ordinamento primitivo del comune aquilano – città e contado – era la presenza di sindaci e massari che amministrano il demanio distintamente per
localia. Il sindaco, pertanto, non era che un rappresentante del popolo (da cui
veniva eletto) di ciascun particolare castrum formante il Comitato Aquilano, e si occupava degli affari specifici di esso, sia dentro che fuori le mura.12
Sindaci e massari si riunivano nel Consilium maxariorum (più tardi prenderà il nome di Consiglio dei Sessantotto): ad esso spettava il potere legislativo della
Scienze in Bologna. Eletto nel 1745 vescovo di Lanciano, e successivamente (1754) di Acerenza e Matera, tornò all’Aquila in vecchiaia e si dedicò alla composizione di studi storici abruzzesi raccolti in 56 volumi manoscritti. Compilò anche ed una raccolta di iscrizioni lapidarie unitamente alla descrizione dei monumenti più significativi della città; opere tutte conservate presso la Biblioteca Provinciale “S.Tommasi” in L’Aquila. Cfr. cap. 1, nota 1.
La sua figura, di vero e proprio connaisseur, giganteggia nel settecento aquilano; visitò tutti gli archivi abruzzesi, raccogliendo notizie, documenti e scritti d’ogni genere, moltissimi dei quali, perduti in seguito, ancora parlano agli studiosi attraverso la trascrizione o la critica che egli ne fece. Nessuno studioso di cose abruzzesi può ignorare i suoi volumi manoscritti, l’ultimo dei quali contiene trascrizioni e sintesi di ben seicentosessantasei documenti dell’antico archivio aquilano.
9 A. Clementi, Statuta civitatis Aquile, Roma 1977, pag. X.
10 M. Centofanti, R. Colapietra, C. Conforti, P. Properzi, L. Zordan, L’Aquila città di piazze,
Pescara 1992, pag. 82 e ss.
11 Ivi, pag. 84.
12 Il sindaco veniva eletto tanto dagli abitanti in città che da quelli delle borgate rurali, e la cosa
dunque non stupisce. Si veda A. De Matteis, L’Aquila e il Contado. Demografia e fiscalità, Napoli 1973, pag. 8 e ss.
città che, insieme al Camerlengo o Camerario, costituiva la prima pubblica Magistratura del governo della città.13
Quest’ultima carica venne istituita, secondo L’Antinori, intorno al 1295, e rappresentava, in ottemperanza alla Concessio di Carlo II del 1294, l’unitarietà fiscale del Comitato Aquilano.
In buona sostanza il Camerlengo era il custode del denaro pubblico, costituito da quello derivante dal pagamento del fisco e da quello derivante dal pagamento delle ammende – dalle tipologie più diverse – come ad esempio le multe inflitte ai bestemmiatori, a coloro che lavoravano nei giorni festivi ed a coloro che disturbavano con rumori molesti lo svolgimento delle cerimonie religiose.14 Oltre ad essere dunque il “fiduciario fiscale”, egli aveva inizialmente anche il compito di far rispettare le disposizioni concesse attraverso i privilegi; in seguito i suoi poteri diventarono sempre più ampi, man mano che la città stessa formava la coscienza di sé.
Tale carica era semestrale e doveva essere ricoperta da un religioso o secolare, onesto ed esperto di leggi; il Camerlengo aveva alle sue dipendenze i Notai dei
Capitoli, ovvero gli esecutori delle sue disposizioni.15
Gli Statuti stabiliranno – al capitolo 56 – che il Camerlengo abbia l’obbligo di registrare il denaro che riceve in un registro in duplice copia e, cosa più importante per questa ricerca, deve conservare presso di sé il testo ufficiale degli Statuti, mentre l’altra copia sarà conservata presso i cinque rappresentanti delle Arti, che vedremo in seguito.
Il Camerlengo era tenuto altresì a vigilare, nel periodo della Perdonanza,16 affinché i pellegrini in arrivo e sulla via del ritorno non subissero danni o venissero derubati lungo l’insidiosa “via degli Abruzzi”.
Tale ruolo si presenta dunque in costante evoluzione, tanto che il Camerlengo assumerà il ruolo di portavoce della comunità; infatti – nel capitolo decimo – è
13 G. Vitolo, Corso di storia diretto da G. Galasso, Milano 1995, vol. I, pag. 563. 14
A. Clementi, Statuta civitatis Aquile, Roma 1977, pag. XXVII.
15 L. Lopez, Gli ordinamenti municipali dell’Aquila dalle origini al 1806, L’Aquila 1982, pag. 23
e ss.
16 La Perdonanza fu istituita nel 1294 da papa Celestino V: si tratta di un’indulgenza plenaria che
viene concessa a coloro che nei giorni 28 e 29 agosto di ogni anno si recano confessati e pentiti presso la basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila. Una vasta bibliografia locale è dedicata alla Perdonanza. Preziosi sul significato profondo di tale indulgenza sono i contributi di: C. Frugoni, Due papi per un giubileo, Milano 2000; F. Bologna, A. Clementi e G. Marinangeli,
La Perdonanza Celestiniana a L’Aquila, Atti della giornata di studio, L’Aquila 1983. L. Lopez, Celestino V, la Perdonanza, Collemaggio, L’Aquila 1987.
stabilito che spetta ad esso invitare formalmente, anno per anno, il vescovo ad intervenire alle cerimonie della Perdonanza in Santa Maria di Collemaggio.17 La Magistratura attraverso cui sovrani, prima angioini, poi aragonesi, esercitavano il loro controllo sulla città dell’Aquila è rappresentata dalla figura del Capitano Regio, la cui origine giuridica va di pari passo con l’origine della città.18
Il Capitano – longa manus del potere centrale – amministrava principalmente la giurisdizione penale e si occupava delle riscossioni delle imposizioni fiscali. La tappa successiva, che non solo aiuta a costruire l’autonomia legislativa aquilana, ma in qualche modo la consacra, è rappresentata dalle Costituzioni cittadine approvate nel 1355; ovvero le prime formulazioni statutarie organicamente raccolte che diverranno gli Statuta Civitatis successivamente realizzati.19
Senza addentrarmi nell’interessantissimo dibattito storico, in questa congiuntura il governo cittadino si trasforma da organismo rappresentativo di esigenze locali in organismo rappresentativo degli “interessi di categoria”, ovvero le Arti, già organizzate da una ventina d’anni.20
Inoltre si deve evidenziare che queste normative furono anche il primo tentativo – con la regia del potere centrale – per contenere il potere di alcune prestigiose ed emergenti famiglie aquilane (come ad esempio i Pretatti, i Camponeschi), le quali avrebbero potuto davvero, nella realtà dei fatti, trasformare con una certa facilità la città libera in signoria, ad evidente danneggiamento politico della complessa geografia del nord del Regno.21
Difatti la regina Giovanna I d’Angiò (1343–1381) con diploma del 1371 e con lo scopo di ridurre ed arginare questa sorta di “patriziato cittadino”, privilegiò il crescere ed il consolidarsi del predominio della classe mercantile, autorizzando gli aquilani a nominare, ogni due mesi, un determinato numero di uomini: delle Arti dei Letterati; dell’Arte della Lana coi Mercanti; dei Ferri; delle Pelli e dei
17 L. Lopez, Gli ordinamenti municipali dell’Aquila dalle origini al 1806, L’Aquila, 1982, pag.
31.
18 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, pag. LXXXIV. 19
L. Lopez, L’Aquila, panorama storico, in L’Aquila nella storia e nell’arte, Teramo 1974, pag. 23.
20 Ibidem. Si danno per costituite le Arti già nel 1327, anno in cui sono citate riguardo la
traslazione del corpo di San Celestino V in città.
21
Macellai. Tra essi il Capitano regio avrebbe scelto un rappresentante per ciascuna arte ai quali affidare il governo della città.22
Ecco dunque introdursi al vertice del Comune l’altra grande Magistratura, a carattere esecutivo: i Cinque delle Arti,23 reale espressione delle forze produttive, commerciali, culturali cittadine.
La scelta operata dal Capitano in tale rosa di nomi divenne una sorta di formalità: le Arti governavano davvero, e la forte autonomia si evince dalla lettura dei capitoli riguardanti i rapporti tra città e magistratura del Capitano: emerge una relazione, de facto, della sua subordinazione nei confronti degli illustri aquilani:
civitas superiorem non recognoscens.24
Altre magistrature esecutive importanti erano i Notarii custodiae che vigilavano sulle mura della città, ed i Comestabuli che per conto del Camerlengo riscuotevano le tasse e denunciavano coloro che detenevano armi proibite e controllavano l’ingresso dei forestieri in città.25
Si è così dunque dipinto il ritratto di questa città, che ha raggiunto una maturità istituzionale tale da configurarsi capace di agire sul piano della politica come su quello della propria organizzazione interna, prescindendo praticamente del tutto da ogni potere superiore. E questa volontà costerà cara in più occasioni agli audaci aquilani.26
Come appare ormai evidente, gli Statuti incarnano il cuore non solo della vita pubblica, ma anche, nel contesto delle vicende aquilane, della propria auto– coscienza cittadina.
In conclusione, desidero evidenziare che per l’Arte della Lana, la cui fondamentale importanza economica è stata prima delineata, prenderanno corpo – verso la metà del Cinquecento – propri Statuti.
Questi ultimi raccolgono e disciplinano la materia attraverso disposizioni molto particolareggiate (come ad esempio i prezziari od il modo in cui tessere); elencano inoltre un nutrito gruppo di artigiani: accimatores, sutores, tiratores,
22 Ivi, pag. 128.
23A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, pag. LI e ss.
24 A. Clementi, I capitoli degli Statuti volgarizzati, in «Archivi e Cultura», 9 (1977), pp. 23–73. 25 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, p. XX.
26
Fu questa, in sostanza, la causa delle riforme costituzionali del 1476 i mposte da re Ferrante per mezzo del Cicinello; circa cinquant’anni dopo il potere aragonese imporrà la costruzione del Castello interamente a spese dei cittadini, così si narra, ad reprimendam audaciam Aquilanorum. Per un rapido excursus riguardo le alterne vicende della città: L. Lopez, L’Aquila, panorama
drappieri e così via discorrendo, protetti da San Celestino V, la cui effigie miniata campeggerà nell’Incipit statutario. Per coloro che non rispettavano tali norme erano stabilite pene da pagarsi al Camerlengo della città. I mercanti giuravano onestà nell’esercizio dell’arte; l’autorità marcava i panni con il sigillo del Comune, il mercus che aveva come immagine l’emblema cittadino.27
27
2.2. Il Codice Hoepli ed il Codice Ciompi: vicende dei ritrovamenti e problemi di datazione.
Gli Statuti della città dell’Aquila ci sono giunti in tutte e due gli esemplari noti agli storici. L’Archivio del Comune è un luogo della memoria di cui gli aquilani sono sempre stati gelosi; anche se gli Statuti sono giunti a noi in maniera davvero avventurosa.
Come accennavo, l’interesse da parte del Comune per le proprie scritture e per la loro conservazione fu speciale, essendo luogo di identità e memoria della città intera: il fatto che fossero conservate in un luogo ritenuto sicuro (dopo l’incendio del convento di San Francesco l’Archivio fu trasferito nel convento di San Bernardino) e dentro casse lignee, chiuse a chiave, al riparo dai danneggiamenti per i non insoliti scontri di fazioni.
Tale interesse «si era intensificato quando il profondo rinnovamento economico e politico aveva portato nel governo cittadino le Arti, che esprimevano, con l’elezione del Camerario e dei Cinque, la Camera Aquilana. Ma è il nuovo secolo che porta un fervore di novità».28
Nei primissimi anni del Quattrocento un preciso disposto consiliare – che si desume dalla lettura del capitolo cinquantasei (cod. Hoepli) – ordina che gli Statuti venissero duplicari seu exemplari in quodam alio volumine, quod sit
huiuis simile, quod reponatur et conservetur per Quinque Artium in archivio Communis e la motivazione di questa disposizione è immediatamente esplicitata: ut quotiens esset dubitum de tenorem ipsorum, recurratur ad illud.29
Una copia degli esemplari viene dunque affidata alla esclusiva consultazione dei componenti della Camera Aquilana: essi hanno facoltà di utilizzarla per controllare la lezione esatta del testo scritto sull’altro esemplare, che il Notaio dei Capitoli doveva rendere accessibile alla pubblica consultazione.30
La doppia redazione dei medesimi testi legislativi, dunque, risponde principalmente ad una necessità giuridico–politica di controllo.
28 M.R. Berardi, I monti d’oro, Napoli 2005, pag. 73.
29 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, pag. CIX e pag. 57. 30
Ogni qualvolta la Camera Aquilana legiferava deliberando aggiunte o modificazioni legislative di qualsivoglia statuto, i nostri testimoni documentano e raccolgono tale attività, anche se non sempre in maniera puntuale.
Non di rado le aggiunte o le correzioni sui testi rendono oscura la lectio dei capitoli stessi, oppure alcune variazioni appaiono su un testo e non sull ’altro; frequenti inoltre sono gli errori materiali di numerazione, interpolazioni od omissioni e così via discorrendo.
Dunque, il fatto che le due copie non siano perfettamente “gemelle”, non ci stupisce poiché le consideriamo, come abbiamo già detto, un “organismo” vivo ed in continuo divenire lungo lo scorrere della storia cittadina.
Alla necessità appena espressa si affianca quella, di pari importanza, legata alla conservazione materiale dei manoscritti ed al loro deterioramento.
Il fatto che questo problema fosse considerato dall’autorità cittadina con una certa attenzione, merita una breve riflessione.
Certamente la consultazione davvero frequente – potremmo immaginare quotidiana – delle norme aquilane poteva rapidamente rovinare i volumi pergamenacei ed ovviamente si cercava di salvaguardare – attraverso la riproduzione nella seconda copia – il contenuto legislativo piuttosto che il supporto.
Il codice affidato al Notaio dei Capitoli veniva difatti portato, ogni giorno di mercato, nella Piazza Maggiore della città, e lì certamente… doveva essere sfogliato parecchio!
La piazza, di dimensioni eccezionali poiché copre come superficie ben tre localia cittadini, era – fino al terremoto del 2009 – il centro economico e religioso della città: intorno ad essa si aprivano fondachi e botteghe, “bancarelle”, osterie e macellerie; il governo cittadino provvide (nei primi anni del Trecento) a far selciare la piazza stessa e le vie adiacenti.
Il Notaio dei Capitoli sedeva in una sorta di tribuna di legno, con alle spalle la Cattedrale e vigilava sulle transazioni dei mercanti. Consultando le norme statutarie egli controllava l’effettivo rispetto di pesi e misure: per disposizione degli Statuti, sulla porta del palazzo vescovile furono esemplati il destro, misura di superficie, e la canna, misura di lunghezza, affinché gli acquirenti potessero
controllare e non essere defraudati, rivolgendosi per qualsiasi controversia al notaio stesso, già presente sul luogo, codice alla mano.31
L’esemplare che restava nella sede della Camera era custodito dai Cinque delle Arti insieme al Camerlengo, il quale aveva presso di sé anche un esem plare delle Costituzioni del Regno, affinché provvedesse ad osservare e far osservare scrupolosamente le leggi generali che le norme locali dovevano ossequiare , ed affinché (in virtù di concessione regia, significativa della riconosciuta autonomia del Comune Aquilano) potesse costantemente sorvegliare che anche il rappresentante del re in città, il Capitano regio, fosse ligio alle medesime Costituzioni.
Le vicende storiche, le indagini scientifiche e la critica storiografica di questi documenti sono state affrontate con caparbietà da Alessandro Clementi, professore emerito di Storia Medievale nell’Ateneo aquilano, il quale pubblicò a Roma nel 1977, presso l’Istituto Storico per il Medioevo, col titolo Statuta
Civitatis Aquile, il testo integrale dei manoscritti e i risultati del suo straordinario
lavoro. Io cerco di riportare una sintesi di questo percorso, che conduce gli Statuti al giorno d’oggi, concludendo questo paragrafo con la questione della datazione della redazione dei codici.32
Oggi i due esemplari sono conservati presso l’Archivio di Stato Aquilano, ma sono stati recuperati solo nel secondo quarto del Novecento, ed in maniera avventurosa: essi scomparirono dalla città in epoca imprecisata.
L’ultima notizia a noi pervenuta sui codici è un Inventario delle scritture
dell’illustrissima e fedelissima città dell’Aquila […]. Per Gregorio Gobbi, 1652,33 tuttora strumento preziosissimo ad uso degli archivisti aquilani e di coloro che si inoltrano nella ricerca di antichi documenti. Quindi è tacito che fino a tutto il 1652 essi fecero parte dell’Archivio.34
Il tempo che corre tra il Seicento ed il Novecento è notevole, ed il vuoto di notizie circa i codici lascia aperte tutte quelle ipotesi, minimamente documentate, a cavallo tra il possibile ed il probabile.
31 M.R. Berardi, I monti d’oro, Napoli 2005, pag. 164.
32 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma, 1977, pp. CIII–CXI. 33
G. Gobbi, Inventario delle scritture dell’illustrissima e Fedelissima Città dell’Aquila fatto in
tempo dei Signori Baroni Lorenzo Alfieri Ossorio Cam.; Dottor Giuseppe Angelini; Marcantonio Miccheletti et Innocentio Guglielmi, Eletti al Magistrato di det ta Città. Per Gregorio Gobbi.
Aquila 1652.
34
L’ipotesi storiografica più accreditata fu avanzata da parte dello studioso Luigi Rivera.35
Nel 1799, nel pesante clima di occupazione nel Regno borbonico da parte dei Francesi, gli Aquilani insorsero contro le truppe d’oltralpe assediate nella fortezza cittadina. Giunti rinforzi da Rieti e dalla Marsica, il 23 marzo, sabato santo, e i due giorni successivi, i Francesi diedero sfogo alla loro ira, e la città venne messa a ferro e fuoco. Nel convento di San Bernardino ventisette frati e ventidue cittadini inermi furono trucidati all’interno dell’edificio; incalcolabile il valore del bottino, che – tra le razzie – comprendeva anche la teca d’argento cinquecentesca contenente il corpo del santo senese.36 Fu ingente la spoliazione di beni depredati in città; ed è dunque sia possibile che probabile che in questa circostanza i codici fossero stati trafugati; fatto sta che un esemplare ricomparve a Milano nel 1929; l’altro fu ritrovato a Firenze nel 1946.
Il codice rinvenuto a Milano si usa definirlo Hoepli, perché l’editore librario Ulrico Hoepli (H) ne fu l’ultimo possessore; per quello ritrovato a Firenze si usa la denominazione Ciompi, per il medesimo motivo: ne fu l’ultimo proprietario un tal Alfredo Ciompi (C).
Il codice Hoepli (H) fu acquisito – non si sa come – all’editore librario Ulrico Hoepli, il quale, presso la sua libreria antiquaria, lo mise in vendita all ’asta del 29 dicembre 1929, come si desume dal Catalogo relativo dei Manoscritti dal secolo
IX al XVI.37
Accertatane la provenienza furtiva, il codice fu acquisito al Comune dell’Aquila, ma non finì la sua odissea. Nel 1931 il manoscritto fu trasferito nell’Archivio Apostolico Vaticano, perché si era deciso di pubblicarlo, ma l’edizione non si realizzò a causa del fallimento della casa editrice aquilana incaricata della pubblicazione.38 Ci fu un altro tentativo per la pubblicazione del codice H, che ebbe per protagonista il signor Pietro Fedele, il quale fece trasferire l ’esemplare presso la Biblioteca del Senato. Questa volta fu fatta una riproduzione foto grafica
35 L. Rivera, Le vicende degli antichi Statuti di Aquila, Paganica, Castelnuovo, Aragno,
Santanza, Pizzoli in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria» , annate XXXVIII
– XL, 1947–1949, Roma 1950, pp. 227–235.
36 Le vicende delle razzie francesi del 1799 sono anche descritte in: L. Lopez, L’Aquila,
panorama storico, in L’Aquila nella storia e nell’arte, Teramo 1974, pp. 56–58.
37 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, pag. XCII.
38 Ivi, pag. XCII: la pubblicazione fu desiderata dalla Deputazione Abruzzese di Storia Patria, la
quale diede l’incarico di edizione al sig. P. Sella dell’Archivio Vaticano; l’incarico di pubblicazione fu rivolto alla casa aquilana Vecchioni, che però nel frattempo fallì.
del codice, nel 1941, tuttora conservata presso tale biblioteca.39 Il manoscritto poi venne restituito al Comune dell’Aquila ed ora si trova presso l’Archivio di Stato della città, con segnatura V47.
L’altro codice, cioè il Ciompi, fu ritrovato nell’estate del 1946 a Firenze. L’autore del ritrovamento, anche in questo caso in fortunate circostanze, fu Corrado Chelazzi, bibliotecario del Senato.
Egli tramite un «gioielliere sul ponte vecchio» entrò in contatto con Alfredo Ciompi che possedeva antiche pergamene, volumi e statuti tra cui quelli aquilani. Chelazzi riuscì a recuperare il codice con l’aiuto del Soprintendente archivistico per la Toscana, l’aquilano Antonio Panella,40 subito informato della circostanza. La quotazione dell’esemplare era di 1650 Franchi Svizzeri: Chelazzi e Panella riuscirono dopo lunghe trattative durate mesi, ad ottenerlo per lire 79960 dell’epoca.41
Tramite il Comune Chelazzi depositò l’esemplare nell’Archivio di Stato aquilano, dove si trova tuttora con collocazione V48.
39 L’esistenza presso la Biblioteca del Senato è stata da me verificata; si trova con collocazione:
“Serie Statuti, segnatura n. 2593 – anno 1941”.
40 Antonio Panella nacque nella nostra città nel 1878; terminati gli studi, iniziò la carriera
nell’amministrazione degli archivi e fu assunto al Regio Archivio di Firenze nel 1902, dove avrebbe svolto l’intera sua attività fino alla morte nel 1954. Fu docente di Archivistica alla scuola dell’Archivio di Stato; diresse l’Archivio fiorentino dal 1932 al 1939, quando lasciò l’incarico per divenire Soprintendente archivistico per la Toscana. Fu anche libero docente presso la Facoltà di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori, e si dedicò a lungo a ricerche storiche sulle istituzioni fiorentine, collaborando con P. Villari e con l’Archivio storico italiano. Al suo interesse per la documentazione medicea si deve in gran parte la compilazione degli inventari dei due grandi fondi (Mediceo Avanti il Principato e Mediceo del Principato), punti di riferimento imprescindibili per la ricostruzione della storia fiorentina dal XV secolo. Una sua interessante documentazione biografica è di: L. Tanzini, in Dizionario degli Storici di Firenze, a cura dell’Università degli Studi di Firenze, in http://www.dssg.unifi.it/SDF/dizionario/Panella.htm.
41 Per poter fare una valutazione quanto più aderente alla realtà è apparso coerente e credo
metodologicamente corretto consultare molteplici fonti, storiografiche ed economiche , tenendo ben presente che la cifra in questione riguarda un oggetto di notevole interesse documentario ed artistico. Le variazioni del potere di acquisto della moneta nel corso del tempo possono essere calcolate, con sufficiente approssimazione, studiando ed utilizzando i cosiddetti numeri indici dei prezzi relativi a particolari aggregati di beni e servizi, adottati per misurare le variazioni medie nel tempo dei prezzi che si formano nelle transazioni commerciali. L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) dispone di serie storiche sufficientemente lunghe, che assicurano la necessaria continuità temporale nella misura del potere di acquisto della moneta, prendendo in considerazione i prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, denominati “indici del
costo della vita”(dal 1968 denominati Indici dei prezzi al consumo). Aggiungo inoltre che ad essi
la legislazione italiana assegna gli effetti amministrativi più importanti. Nel 1946, con l’Italia appena uscita dalla guerra, uno stipendio di un operaio era di circa nove – dieci mila lire, un grammo di oro costava 818 lire; un chilo di pane 40, mentre un biglietto del tram quattro lire. Pertanto il prezzo pagato da Chelazzi e Panella per l’acquisto del codice dovrebbe aggirarsi attorno ai duemilacinquecento euro odierni. Rimando comunque a: Il valore della moneta in
Italia, a cura dell’ISTAT, in «Informazioni», n. 21 (2004); W. Cavalieri, L’Aquila dall’Armistizio alla Repubblica, L’Aquila, 1994, pp. 44–53.
Nel medesimo anno (1946) egli ne fece fare una riproduzione in microfilm, custodita tutt’oggi presso la Biblioteca del Senato.42
E’ interessante riportare ampi stralci di una lettera del sig. Ciompi del 22 giugno 1946, indirizzata al Chelazzi, nella quale racconta il “suo” ritrovamento:
«…Comprai quel codice a Foligno nel 1917 (ero militare allora a tempo di guerra) e lo scopersi per puro caso nella bottega di un vecchio e maligno artigiano, dove mi ero rifugiato sorpreso da un temporale. Il marrano fabbricav a rozzamente delle scatole coperte di carta colorata […]. Su di uno scaffale scorsi un rotolo di pergamena antico e subito volli esaminarlo. Come sempre, anche allora ero a caccia di cose antiche, specialmente di libri, passione che gravava sulle mie spalle fino da ragazzo. Non mi ci volle molto a capire che si trattava di un manoscritto trecentesco, e chiesi al vecchio di cedermelo; egli rifiutò decisamente, […] aveva capito che quel cimelio mi interessava altamente. […] Riuscii a comprarlo per 700 lire (oro a quell’epoca). Ricordo chiaramente tutto lo svolgimento della faccenda perché fu quella una delle più difficili transazioni della mia vita di bibliofilo. […] Alla prima occasione portai il manoscritto a Firenze dove potei riordinarlo, farlo riparare e rilegare degnamente; forse ho speso 120 lire in tutto. […] Ora penso che è impagabile…».43
Dunque, veniamo indirettamente a sapere anche che il codice, qui definito rotolo, fu oggetto di restauro in un laboratorio fiorentino; informazioni che saranno appresso analizzate.
Ritengo che la spesa fu piuttosto consistente, permettendomi di valutare – senza addentrarmi in più approfondite riflessioni sociologiche o di sensibilità piuttosto che di critica verso i fatti d’arte44 – come già in quegli anni si andava costituendo nella coscienza comune un concetto di “bene culturale” anche riguardo preziosi documenti come questo: in tempo di guerra e di generalizzata povertà, le cifre spese dal Ciompi cifre hanno dunque un particolare senso e sapore.
42 La collocazione presso la Biblioteca del Senato è stata da me verificata e si trova nella serie
“Statuti, segnatura n. 2678 – anno 1946”.
43
Il testo integrale della lettera è pubblicato in L. Rivera, Le vicende degli antichi Statuti di
Aquila, Paganica, Castelnuovo, Aragno, Santanza, Pizzoli in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia patria», XXXVIII–XL (1947–1949), Roma 1950, pag. 230 e ss.
44 Ricordo le illuminanti riflessioni di L. Venturi, Storia della critica d’arte, nell’edizione
Giungiamo infine alla datazione degli esemplari, tenendo ben presente le distinzioni tra genesi e redazioni normative.
Gli elementi interni (le norme) si scontrano con loro stessi e con elementi esterni: sappiamo per esempio che già nel Cinquecento l’autorità politica decise di volgarizzare settantasette capitoli degli Statuti, trascrivendoli alla fine del volume C; traduzione necessaria alla vita quotidiana della città.45
Tali additiones, reformationes e modifiche lasciano perciò preziosi indizi e tracce in questi “organismi in divenire” che, opportunamente riscontrati ed interpretati, conducono verso alcune certezze.
Inoltre verso queste medesime convinzioni conduce la ricerca critica delle indicazioni di carattere paleografico provenienti dagli stessi testi, delle quali riporto qualche accenno in seguito.
L’indagine storica ha ampiamente affrontato la genesi statutaria, ed ha trovato compimento nella straordinaria opera del Clementi del 1977.46 I suoi studi sono degnamente meritori, e ne riporto brevemente i risultati: il Clementi fa proprie le riflessioni di Chelazzi,47 che abbiamo già incontrato, e degli studiosi che già avevano affrontato in precedenza gli Statuti, Monti48 e Cerulli.49
Sottoponendo tali considerazioni a rigorosa critica, egli determina quattro punti fermi nella genesi normativa e redazionale degli Statuti: il 1315 (diploma di Bartolomeo da Capua), 1372 (norme 346 e ss. del codice H); 1375 (desunta da un gruppo di norme e correzioni aggiunte al nono quinterno del codice C, recanti il nome del Capitano Giovanni degli Obizzi da Lucca, venuto a reggere le sorti della città); e infine la data del 1404, quando re Ladislao di Durazzo (1400–1414) conferma omnia ista Capitula.
Tutto ciò premesso, al Clementi accorre in aiuto l’Antinori che, nei suoi manoscritti, al volume XIII, capitolo 472 [1404] afferma: «La città dell’Aquila compilò di nuovo gli Statuti suoi. Se ne erano aggiunti alcuni ai presentati al Re
45 S. Boesch Gajano, M.R. Berardi, Civiltà Medioevale negli Abruzzi, vol. II, L’Aquila 1990–92,
pp. 400–499.
46 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977. 47
C. Chelazzi (a cura di), Catalogo della raccolta di Statuti, Roma 1958, vol. IV, pp. 23–30.
48 G.M. Monti, in Atti e memorie del Convegno storico Abruzzese Molisano, 25–29 marzo 1931,
Casalbordino 1933, vol. I, pag. 265.
49 M.T. Cerulli, Il Comune dell’Aquila studiato nei suoi Statuti del secolo XIV, Tesi di laurea,
Roberto nel 1315 e fra gli altri [quelli] i fatti sotto il regno della regina Giovanna».50
Lo storico Clementi si chiede dunque il Clementi che cosa si debba intendere con l’espressione “compilò”. Ed argomenta che si tratta non di una redazione di nuove norme, ma la pura e semplice raccolta di tutte quelle norme che col tempo si erano sedimentate nella legislazione locale.
Il 1404 è dunque il termine ante quem questa redazione materiale degli Statuti
(omnia ista capitula) è pronta per essere approvata da re Ladislao nel 18 di
giugno, il cui diploma è nella Seconda Raccolta dei Privilegi presso l’Archivio di Stato, a carta 66v. E il termine post quem è desunto da quegli statuti “fatti sotto il regno della regina Giovanna”, morta nel 1380.
Quindi l’Antinori non fa altro che parlarci di quella disposizione consiliare51 che ordina la redazione congiunta di entrambi gli esemplari esistenti nell’unica compilazione organica e strutturata della legislazione vigente.
Nell’atto della trascrizione, il Clementi osserva con acume come i copisti abbiano avuto di fronte a loro più codici e fonti, che avrebbero necessitato una reductio ad
unum: cosa che non avvenne (o avvenne in maniera parziale, poiché il copista del
Ciompi è più sensibile del copista Hopeli), poiché trascrivono norme che non hanno più senso, oppure ripetono normative che appartenevano a codici ed epoche diverse senza dar loro un rigoroso ordine sistematico.
Per un’analisi dettagliata della “strutturazione testuale” statutaria rimando alle schede di catalogo, desiderando qui evidenziare come essi siano suddivisi in 586 costituzioni effettive, seppur raggruppate in modo non organico in varie sezioni – e presentando errori di numerazione, come detto – che coprono tutti gli aspetti della vita cittadina.
Infine, nel valutare l’esito della datazione – tra il 1380 circa ed il 1404 – il Clementi stesso, pur “spingendo” verso i primi anni del Quattrocento, vuole comunque lasciare aperta agli studiosi tale formulazione storiografica, la quale rimane tuttavia plausibilissima: su di essa nessuna critica storica successiva – ormai da più di trent’anni a questa parte – ha mosso alcuna obiezione.
50 A.L. Antinori, Annali degli Abruzzi dall’epoca preromana al 1777 dell’era nostra, L’Aquila
1777, L’Aquila Biblioteca Provinciale “S. Tommasi”, mss. Y167 e Y168.
51
2.3. Indagine sui manoscritti
Dei due codici, il Ciompi si ritrova ad essere chiuso nelle casse dell ’Archivio: è ben conservato e molto più pulito a differenza del codice Hoepli.
L’esigenza di continui richiami, chiose al testo e integrazioni normative ha arricchito di scritture e disegni il codice Hoepli e l’ha ovviamente consunto essendo utilizzato quotidianamente nella Piazza del mercato.
Il codice Ciompi è pergamenaceo, la membrana è ruvida e imperfetta nella levigatura ed eliminazione dei fori, le carte non sono tagliate in modo uniforme malgrado siano state rifinite al momento della rilegatura dei quaderni, rilegatura che deve essere avvenuta in epoca antica poiché ci è giunta integro e con una numerazione coerente delle pergamene.
Il codice che analizziamo è frutto dell’ultimo restauro, concluso il 2 settembre 1963 presso il laboratorio “Giovanni Di Giacomo”, in Pescara, di cui parlo oltre. Il codice attualmente misura mm 342 x 250 ed è chiuso per mezzo di una semplice copertina in assi di legno rivestite di pelle, evidentemente sostituita rispetto alla precedente in quel restauro.
Difatti Salvatore Piacentino, studioso ed allora degnissimo direttore dell’Archivio di Stato, in un documento autografo – del maggio del medesimo anno 1963 – conservato presso l’Archivio conferma una testimonianza anteriore, del Chelazzi. Chelazzi descrive il codice «legato con tavole ricoperte in pelle ornate con cornice impressa a fuoco [e con] filettature in oro sui piatti e cinque nervi sul dorso, fra i quali è riportato il titolo Capitula Civitatis Aquile».52
Dunque la testimonianza del Piacentino si rivela piuttosto preziosa: egli probabilmente deve avere tra le mani la copia degli Statuti così come restaurata in Firenze da Alfredo Ciompi e passata per le provvidenziali mani di Corrado Chelazzi.
Attualmente il codice consta di 112 carte, numerate da una matita copiativa, la quale corregge una antica, a penna, che va da c. 1 a c. 106. Il testo degli Statuti
52
inizia a carta 6 della nuova numerazione ed è preceduto da un indice degli argomenti trattati in ciascun capitolo.53
Sia il mezzo che la grafia della nuova numerazione inducono a pensare che sia stata elaborata nel momento di consegnare il volume al restauro nel 1963.
La vecchia numerazione risale probabilmente al sedicesimo secolo e fu eseguita da una stessa mano in due tempi; il secondo tempo della prima numerazione sarà stato quello in cui le carte vennero ritagliate per essere ben rilegate, e se il numero si trovava al margine troppo esterno, la stessa mano lo riscrisse sotto al numero preesistente.54
Ma cosa vide allora Alfredo Ciompi nella bottega di Fabriano? Egli trovò in quella bottega “un rotolo antico”: cosa dobbiamo intendere con tale affermazione?
Sono indotto ad ipotizzare che il Ciompi abbia trovato sì il codice, inoltre lo abbia recuperato integro per il fatto che non manca nessuna carta, ma lo a bbia rinvenuto con i fascicoli sciolti, ovvero non legati ad alcuna copertina, e magari tenuti insieme da un’assicella di legno, il “rotolo”. Tornato a Firenze, egli lo fece restaurare e “rilegare degnamente” facendovi apporre quelle copertine che doveva avere tra le mani ancora il Piacentino nel 1963. Trova così maggiore comprensione anche la notevole spesa di quelle 120 lire sborsate dal Ciompi. Il codice è composto da dieci fascicoli: dal primo al quinto quinterni; il sesto sesterno; dal settimo al nono quinterni; il decimo quaderno, legati sul dorso da cinque nervi.
Al fascicolo 9 fu aggiungo in epoca di fatto coeva alla realizzazione del manoscritto il terniorne mancante di una carta nel quale è nominato Giovanni degli Obizzi; pertanto il nono fascicolo, la cui grafia è conforme a quella dei capitoli principali, risulta essere costituito da 15 carte e non da dieci.55
Il testo dei capitoli è preceduto da un foglio cartaceo e da cinque carte membranacee che riportano l’indice incompleto, mentre le ultime due
Reformagioni furono redatte posteriormente alla formazione del codice, in un
arco di tempo che va dal 1414 al 1477, ma l’utilizzo regolare del codice ci spinge oltre, fin nel pieno del XVI secolo, come dimostrano le carte 111 e 112 che
53 A. Clementi, Statuta Civitatis Aquile, Roma 1977, pag. XCVI. 54 Ivi, pag. XCVII.
55
recano la trascrizione delle norme, tradotte in volgare, di più frequente applicazione.
Il tipo di scrittura in cui è redatto il codice è una cancelleresca gotica, tuttavia sono presenti delle sfumature di derivazione umanistica che trovano accordo nel collocare il manoscritto tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV.
Fino al capitolo 51 la lettera iniziale di ogni capitolo è alternatamente in rosso e in azzurro, dopo il capitolo 51 l’iniziale viene omessa. Il capitolo primo presenta il capolettera “A” allungato fino ad occupare l’altezza di sei righe56
.
Il Clementi attribuisce ad un’unica mano la redazione del volume, e conta almeno altre sei mani per le correzioni e gli ampliamenti degli statuti.
Il codice Hoepli è pergamenaceo e la scarnitura è stata seguita in modo ineguale, alcuni fogli sono privi di flessibilità.
Le sue misure attuali sono mm 325x215 ma il codice reca segni di resecature effettuate forse con l’intento di rendere uniformi le dimensioni dei quaderni.57 Anche questo manoscritto è figlio del restauro concluso presso il laboratorio “Giovanni Di Giacomo” di Pescara il 2 settembre 1963.
Il manoscritto è costituito da 115 carte, racchiuse in una copertina del tutto simile a quella del codice Ciompi, costituita da due piatti in tavole di legno rivestite in pelle.
Anche in questo codice la numerazione attuale, in matita copiativa, sostituisce una più antica, a penna. E’ da ritenersi, per gli stessi motivi dell’altro esemplare, che la numerazione in matita sia stata apposta nel momento di consegnare il volume al restauro del 1963.
Le carte sono raccolte in 14 fascicoli quaderni legati sul dorso da cinque nervi; si rileva un perfetto parallelismo tra recti e versi. All’interno del quinto quaderno fu inserito in epoca posteriore alla formazione del codice un foglio membranaceo che reca due miniature: una crocifissione ed un’aquila araldica, risalenti al primo trentennio del XVI secolo. Di queste due carte si parlerà diffusamente in seguito. A partire dal secondo quaderno, le carte recano una numerazione non coev a in inchiostro nero, da carta 1 a carta 105. Rimane escluso da questa numerazione il
56 Ivi, pag. C.
57
primo quaderno, le cui carte sono talmente deteriorate dall’uso e dal tempo da sembrare quasi frammenti.58
In questo Codice, piuttosto rovinato, consumato e con le pagine sporche ed annerite, la materia degli Statuti risulta raccolta in modo non organico perché sotto ai titoli in inchiostro rosso sono raccolte norme solo in parte aderenti alla titolazione; inoltre già abbiamo visto che questo “disordine”, sommato alle aggiunte, ai nota bene ed alle chiose si spiega per il fatto che questo è il volume che veniva consultato quotidianamente.
La scrittura è una minuscola gotica, e gli amanuensi risultano essere principalmente tre, e nei margini compaiono annotazioni, commenti ecc. redatte da numerose altre mani.
Il Clementi inoltre puntualizza che il copista principale di H non è quello di C.59 Le iniziali, soprattutto la “i” e la “q”, sono mancanti in quanto sicuramente ne era stata progettata la rubricatura che poi, per qualche motivo, non venne mai realizzata.
Il primo capitolo presenta una A in inchiostro nero che occupa quattro righe di scrittura, al di sopra di essa appare un cartiglio con un’invocazione a San Bernardino da Siena, e una data: 1451.60
58 Ivi, pag. CI.
59 Ivi, pag. CXI 60
2.3.1. I restauri
Il direttore dell’Archivio Salvatore Piacentino tra il 1962 e il 1963 avviò presso il Ministero dell’Interno (dal quale dipendevano allora gli Archivi di Stato) diverse pratiche per far restaurare tutta una serie di codici, cartacei e pergamenacei, comprendente gli Statuti e la Raccolta dei Privilegi. L’Archivio conserva tutto il carteggio,61 finora inedito.
Il “legatore e restauratore di libri antichi” Giovanni di Giacomo, esercente in Pescara, offre il 25 marzo 1962 un preventivo per restaurare e rilegare il codice Ciompi (V 48) per 76.100 lire dell’epoca, ripartite nel modo che segue.
Per pelle e legatura, 10.500 lire; per la pergamena per braghette e restauro, 10.000 lire; per gelatina, 2.500 lire; per acido acetico 600, alcool 3.500; per carte varie 500; per colla, spago e fettuccia 500.
La manodopera è stimata in centoventi ore di lavoro, al prezzo di 48.000 lire. Il preventivo che Di Giacomo offre per il codice Hoepli (V 47) è di 108.000 lire. La ripartizione delle spese è così descritta: 3.500 lire per la legatura; 15.000 lire per pergamena per “brachette e restauro”; 3.000 per gelatina; 1.500 per acido acetico; 4.000 per alcool e detersivi; 500 per carte varie e 500 per colla, spago e fettuccia. La manodopera è stimata in duecento ore di lavoro, al prezzo di 80.000 lire.
I preventivi sono inoltrati al Ministero dell’Interno il 30 maggio 1962, garantendo il Piacentino – insieme alla soprintendenza regionale alle belle arti – «le più ampie rassicurazioni sulla competenza e sull’esperito senso di responsabilità del Di Giacomo».
Il Ministero autorizza il restauro ben un anno dopo, il 21 giugno 1963; e così Di Giacomo può venire a L’Aquila l’undici luglio e prendere in consegna i volumi, per i quali firma un verbale e si impegna alla loro restituzione entro due mesi.
61 Il carteggio consiste in trentotto documenti – tra minute di lettere, preventivi, verbali di
collaudo, corrispondenza – conservati nell’Archivio di Deposito, anno 1964, segnatura VI, faldone 10.
Analizzando la ripartizione delle spese preventivate dal restauratore, e gli interventi che ne conseguono, troviamo molte conferme riguardo il lungo percorso compiuto dagli Statuti nel corso dei secoli.
La cosa più evidente è che Di Giacomo acquista della pelle per rilegare il codice Ciompi, cosa che non fa per il codice Hoepli. E’ la prova che egli è intervenuto sul volume sostituendo totalmente le copertine, a conferma delle testimonianze del Chelazzi e del Piacentino.62
E’ plausibile che egli abbia foggiato la copertina del Ciompi avendo per modello – con tutta probabilità – quella dell’Hoepli, sulla quale è certamente intervenuto (per rinnovare le legature) ma senza sostituirla.
Manca del tutto, come già visto, una documentazione sul codice Hoepli comparendo il volume improvvisamente presso la libreria dell’editore milanese nel 1929; ma sappiamo che egli aveva certamente l’intenzione di venderlo. Viene facile pensare – e comunque volendo rimanere sospesi nel puro, ma fertile, campo delle ipotesi – che la copertina che tuttora racchiude il volume sia stata posta in essere in quegli anni, magari dall’Hopeli stesso, in un probabile intervento necessario per renderlo idoneo alla messa in commercio.
Riscontriamo inoltre che il codice Ciompi doveva in verità godere di buona salute rispetto all’altro volume: ciò si desume – oltre da un’analisi visiva – non solo dalla sostanziosa differenza sui costi complessivi dei restauri (circa trentamila lire dell’epoca) ma soprattutto dal fatto che manodopera richiesta per intervenire sul Ciompi è di ben ottanta ore in meno rispetto all’Hoepli.
Inoltre, per la pulizia delle pergamene del codice Hoepli, Di Giacomo utilizza acido acetico ed alcool in quantità piuttosto notevoli e maggiori rispetto al Ciompi: la prova dunque che il codice doveva risultare molto sporco; oltretutto appaiono in preventivo dei “detersivi” – non meglio specificati – non citati nell’altro.
Certamente una relazione alquanto dettagliata sui restauri e soprattutto sui tipi di solventi e collanti utilizzati ci avrebbe aiutato a conoscere meglio il peso effettivo degli interventi, seppur le informazioni in nostro possesso evidenzino uno scenario già esaustivo.
62
I segni visibili del restauro sia sul codice Ciompi che sul codice Hoepli sono delle integrazioni ai buchi ed alle lacerazioni della membrana, che ricostruiscono un profilo piuttosto uniforme in quelle pagine che presentavano ampie porzioni strappate; la pergamena utilizzata è piuttosto spessa, priva di flessibilità e di una colorazione naturale ovviamente più chiara rispetto a quella quattrocentesca. Per il codice Ciompi – oltre la sostituzione delle copertine – si nota che le integrazioni sono presenti in numero maggiore in quasi tutte le costituzioni da 101 a 138; probabilmente erano queste le pagine più consultate che riguardavano le notazioni delle nuove leggi e le punizioni per coloro che mandavano in giro animali di grossa taglia che danneggiavano i campi altrui. Le integrazioni si trovano per la maggior parte nell’angolo inferiore destro della pagina, e cioè dove la mano del lettore si appoggia per sfogliare.
Nel codice Hoepli, è presente una guardia cartacea, antica: i suoi bordi sono molto consumati e, nello specchio di scrittura, c’è un buco, non colmato.
Appaiono visibili gli interventi di restauro a partire dalla carta 2, che è per buona parte restaurata in particolar modo nell’angolo inferiore destro. Fino a carta 11 sono tutte integrate nell’angolo inferiore destro.
Le carte 29, 30, 33, 34, 36, 39, 43, 44 e fino a carta 52 sono piuttosto spesse, e presentano una certa rigidità.
Le carte 53, 55, 56 presentano una larga integrazione situata nell ’angolo inferiore destro.
Le carte 71, 72, 73, e da 76 a 85 hanno tutte l’integrazione all’angolo inferiore destro; in queste carte vengono presentate le norme che regolavano la vendita del pane, quella delle bevande nelle taverne e quella della carne; si è indotti a pensare che esse probabilmente fossero le norme più consultate.
La carta 94, che riguarda le misure dei pesi, presenta una larga integrazione nel margine inferiore destro, oltre ad una lacerazione che parte dal basso, a metà pagina, e giunge fino al centro della stessa.
Le carte 103, 104, 106 e da 108 a 114, sono integrate nell’angolo inferiore destro. Il 29 agosto dello stesso anno 1963 Di Giacomo comunica che il restauro è in via di ultimazione, e una settimana dopo, il 5 di settembre, riconsegna i volumi all’Archivio Aquilano.
2.4. I Disegni negli Statuti
2.4.1. Una nota introduttiva
I disegni presenti nei due volumi degli Statuti, che a causa del tempo e del deterioramento non sono svaniti nell’inchiostro e pertanto sono oggi ancora riconoscibili e documentabili, sono complessivamente centosessantasette. Ne compaiono precisamente centonove nel codice Hoepli e cinquantotto nel codice Ciompi. Alcuni di essi, per praticità di catalogazione, sono stati descritti e “coagulati” in un’unica scheda di catalogo.
Essi formano un corpus davvero organico, di un valore documentale sicuramente notevole il quale mostra una precisa volontà comunicativa che andrò ad illustrare. Come ho ampiamente argomentato nella premessa di questo lavoro di ricerca, non esiste alcuna bibliografia di pertinenza storico artistica che abbia affrontato questi fatti d’arte.
Nessuno storico dell’arte ha finora soffermato la propria attenzione sugli Statuta
Civitatis: le uniche – ed alquanto sporadiche – riflessioni sui disegni e sulle
illustrazioni che compaiono in questi manoscritti aquilani provengono dalla citata esemplare opera del Clementi del 1977.
Se l’autore abbozza brevissimamente alcune considerazioni sul carattere funzionale dei disegni (pagine C e CIII del suo volume), egli, nel perseguire i suoi obiettivi giustamente storiografici, si abbandona semplicemente a qualche valutazione dettata dalla sua sensibilità e dal suo gusto personale, senza esprimere giudizi di ricerca storico–artistica.
Il rapporto tra il testo e l’immagine è un argomento fondamentale per comprendere la presenza dei disegni negli Statuti: nell’affrontare tale corpus figurativo, si è rivelata fondamentale, e risolutiva, la necessità di esaminare i disegni sotto alcuni aspetti contemporaneamente.
Da un lato ho cercato di comprenderne i significati, emersi da un’indagine primariamente iconografica e semiotica (“cosa raffigurano”); parimenti ho voluto
rintracciare le funzioni strettamente connesse ad essi (“a che servono”), in ultimo ho brevemente analizzato i materiali e le tecniche d’esecuzione.
Problema più complesso è stato invece il voler individuare le diverse mani che hanno decorato le pagine degli Statuti: non è stato possibile dare con certezza dei nomi ai diversi autori, ma le lunghe osservazioni visive, le riflessioni a lungo meditate e le idee che me ne sono fatto possono aprire la strada verso la formulazione di alcune ipotesi, soprattutto per una possibile attribuzione ed orientativa datazione di gran parte di essi.
Il cuore dell’indagine è dunque rappresentato da tale metodologia di ricerca, che mi auguro possa portare buoni frutti.
Certamente questi disegni non nascono con scopi meramente “decorativi” del testo, ma con finalità strettamente funzionali alla comprensione del testo stesso: nondimeno, posso affermare con buon grado di sicurezza che alcuni di essi raggiungono anche una qualità artistica, e forniscono uno straordinario contributo alla riflessione sul mondo dei “disegni notarili”, spesso sottovalutati ma ampiamente diffusi nel libro laico medievale.
Essi diventano infatti un campione eccezionale per poter ricostruire le forme dell’immaginario e delle capacità rappresentative di un ceto notarile (come si vedrà di seguito), vale a dire dei maggiori professionisti della cultura grafica di quell’epoca.63
Se l’esigenza di esprimersi tramite le immagini nasce con l’uomo, l’elaborazione grafica del disegno costituisce l’espressione più semplice ed immediata dell’artefice, poiché è praticabile con mezzi elementari, permette una elaborazione di un linguaggio del tutto personale ed è disponibile a qualsiasi sperimentazione.64
Nel caso particolare degli Statuti, ritengo che ci troviamo in una situazione nella quale già si riconosce al disegno un valore autonomo e fortemente intellettuale,
63 Su tale argomento rimando a M. Vallerani, I disegni dei Notai, in Duecento. Forme e colori del
Medioevo a Bologna, a cura di M. Medica, Venezia 2000, pp. 75–83; B. Klange Addabbo, Illustrazioni in alcuni “statuti” dello stato senese, in «Rivista di Storia della Miniatura», 1–2 (1996–
1997), pp. 187–194.
64 Per una panoramica riguardo tale tecnica rimando al contributo di: E. Parma Armani, Il disegno, in
Le tecniche artistiche, a cura di C. Maltese, Milano 1973, pp. 236–255, ed a G.C. Sciolla (a cura di), Il disegno, in tre voll., Torino 1991.
seppur esso continui ad assolvere a quelle funzioni assai pratiche che andrò ad indagare.65
In conclusione, mi piace pensare che gli autori delle illustrazioni degli Statuta abbiano già maturato quella consapevolezza che vede – all’incirca negli stessi anni della datazione dei disegni – Cennino Cennini compiere la prima riflessione critica sul disegno, da egli stesso definito «fondamento»66 dell’arte insieme all’inizio della pratica pittorica, unito al colorito, che tuttavia precede: è un dono naturale – ma guidato dalla ragione – che nondimeno richiede grandissima applicazione, per rendersi abili non solo nella mano, ma anche «dentro la testa».67
65
F. Tasso, Disegno, in L’arte, critica e conservazione a cura di R. Cassanelli, A. Conti, M.A. Holly, A. Lugli, Torino 1996, pp. 91–95; A. Petrioli Tofani, Nota introduttiva, in Il disegno. Forme,
tecniche, significati, vol. I, a cura di G.C. Sciolla, Torino 1991, pp. 6–7.
66 C. Cennini, Il libro dell’Arte, a cura di F. Brunello, Vicenza 1993, cap. IV, pag. 6. 67
2.4.2. Forme e Significati
Ho prima evidenziato che, nel caso particolare dei codici aquilani, questa forma di linguaggio è strettamente legata ad una precisa volontà semantica e comunicativa.
Quando ho sfogliato per la prima volta le pagine degli statuti ho potuto sperimentare in prima persona quanto ebbe formulato il grande studioso Erwin Panofsky con i suoi innovatori studi d’iconografia ed iconologia, efficacemente teorizzati e profondamente sviluppati ne “Il significato nelle arti visive”.68
I quasi centosettanta disegni compaiono con maggiore frequenza nel le 115 carte del codice Hoepli (109 raffigurazioni), e con minore frequenza nelle 112 carte del codice Ciompi (58 raffigurazioni); questa diversità potrà comunque trovare una spiegazione.
Essi sono realizzati in proporzioni davvero minute, di pochi centimetri di larghezza ed altezza,69 poiché vanno a collocarsi lungo i margini di testa o di piede, esterni oppure di cucitura, delle pagine statutarie, con qualche esemplare posto entro lo specchio di scrittura, interpolato negli spazi di suddivisione dei capitoli. Inoltre tali disegni sono resi attraverso pochi e rapidi tratti di penna, alcuni piuttosto enigmatici al primo approccio di lettura.
Ma non possiamo dire che si tratti di schizzi o abbozzi intesi come la manifestazione più immediata dell’idea o di un concetto e propedeutici alla realizzazione di qualcos’altro: seppur nell’essenzialità dei loro tratti essi possono considerarsi “finiti”.
Dunque il primo approccio per individuare ed analizzare gli oggetti della mia ricerca è consistito nella sistematica lettura di questo particolare “testo” fatto di immagini.
Mi piace attribuire al termine “testo”, in relazione ad un’opera d’arte, il valore assegnatogli da Howard Singerman, il quale afferma che “essere testo” non è una
68 E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Torino 1962 e 1996. 69
proprietà inerente a determinati oggetti, ma piuttosto è una proprietà assegnata da chi produce o chi analizza un fatto d’arte.70
Cruciale nell’idea di testo, e nella scelta di questa parola come sinonimo di “opera d’arte”, è il fatto che un’opera d’arte può e deve essere letta.
L’insieme di queste raffigurazioni considerate dunque come un testo, consi ste in un insieme di segni che hanno richiesto un’interpretazione.
Un’interpretazione che è stata davvero una ricerca semiotica, necessaria per interpretare la forma ed il contenuto dei disegni stessi, ovvero i significati più profondi voluti dagli autori.71
L’analisi per individuare i «soggetti primari o naturali» – come avrebbe detto Panofsky – raffigurati nei disegni, si è sviluppata con più o meno gradi di facilità nel riconoscimento di quelle forme con le quali il mio “bagaglio esperienziale” ha avuto familiarità.
Una lettura preiconografica, descrittiva, che è diventata iconografica “nel senso più stretto della parola” nel momento in cui ho dovuto interpretare la volontà del disegnatore nel riconoscere nel soggetto primario – chiarissimo nei suoi aspetti formali – un contenuto significante, ovvero il “soggetto secondario o convenzionale”.
I disegni che appaiono sui nostri Statuti appartengono alle più diverse tipologie, ma tutti legati alla cultura materiale rappresentata da elementi pratici della vita: oggetti d’uso quotidiano, animali, arnesi e così via discorrendo.
In questa fase di osservazione descrittiva li ho ordinati seguendo elementari categorie tematiche.
Sul codice Hoepli (con segnatura V47 nell’Archivio di Stato Aquilano) compaiono, come già detto, centonove disegni.
In gran numero i recipienti per liquidi: undici brocche, un bicchiere, una bottiglia, sette botti o barili, un vaso. Seguono gli strumenti di misura ponderale: quattro bilance, due stadere, sette pesi.
70 H. Singerman, Testo, in L’arte, critica e conservazione, a cura di R. Cassanelli, A. Conti, M.A.
Holly, A. Lugli, Torino 1996, pp. 357–359.
71 L’arte, critica e conservazione, a cura di R. Cassanelli, A. Conti, M.A. Holly, A. Lugli, Torino,
Numerosi sono i disegni raffiguranti il mondo dell’allevamento: nove animali, tra cavalli, suini, ovini ed uno appeso per essere macellato; sette pesci, una colombaia con un allevamento avicolo.
Compaiono numerosi disegni che “fotografano” diverse attività lavorative, sia agricole (arnesi da lavoro come zappe o forconi), che artigianali (per la bottega di calzolaio e per l’industria laniera), che per la produzione alimentare (sette occorrenze di pane, ed una pianta di vite).
Riguardo l’edilizia compaiono due fontane pubbliche, un edificio, quattro tegole, un pozzo nero, una torre, un edificio fortificato.
Legati alla vita religiosa troviamo rappresentate due mitrie vescovili, tre croci, nove ceri o candele, un calice oltre ad un’iscrizione invocante il nome di Gesù, il cosiddetto “monogramma bernardiniano”.
Infine, legati alla vita sociale degli aquilani del primo Quattrocento sono raffigurati due profili di donna, dieci dadi da gioco, un pugnale e un drappo con due figure virili, oltre ad un disegno zoomorfo ed un disegno decorati vo.
Nei cinquantotto disegni del codice Ciompi (con segnatura V48 nel medesimo Archivio) troviamo, tra i recipienti per liquidi, tre barili e cinque vasi di differenti sagome. Sono raffigurate due bilance per pesare, una pianta di vite, una tramoggia, una mannaia, una padella, un forno a legna e varie tipologie di pane; otto animali ed una colombaia con un allevamento avicolo.
Riguardo l’edilizia compaiono due tegole, un edificio, una cloaca, un muretto ed una siepe. Una croce ed una candela sono le uniche occorrenze legate alla cultura religiosa, mentre legati alla vita sociale cittadina appaiono dei dadi da gioco, due bandiere, tre figure virili, un lebbroso, due balestre, due cartigli e qualche piccolo disegno decorativo (due cuori trafitti).
Compaiono inoltre in questo codice sette urne per votazione, del tutto assenti nell’altro, e alcuni nota bene degni d’annotazione.
Questa lunga disamina non gioverebbe a nulla se si trattasse di un mero elenco di forme che significano ciascuna semplicemente il proprio “soggetto naturale”. In realtà c’è molto di più.
Ecco allora che si è sviluppato un altro importante aspetto della mia indagine, che ha avuto per oggetto lo studio dell’aspetto funzionale dei nostri disegni; ovvero il