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Geografie della terra e dell’anima: autobiografia, spazio e autopoiesi individuale

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CAPITOLO QUARTO

Geografie della terra e dell’anima: autobiografia, spazio e autopoiesi individuale

The consciousness of being had grown hourly more indistinct, and that of mere locality had, in great measure, usurped its position. The idea of entity was becoming merged in that of place. The narrow space immediately surrounding what had been the body, was now growing to be the body itself.

E.A. POE, The Colloquy of Monos and Una, 1841

Je suis l’espace où je suis.

N. ARNAUD, L’état d’ébauche, 1950

4.1. Ermeneutica spaziale e critica autobiografica

Tra gli anni ’60 e ’70 è cambiato non soltanto il modo di intendere la specificità del sentire umano all’interno delle aree disciplinari della geografia, ma sono al contempo cambiate, sul côté letterario, le modalità di lettura del testo artistico. Se quindi da un lato le scienze geografiche si dimostrano sempre meno refrattarie all’inglobamento nel proprio corpus documentario di quei dati sull’uomo e sull’ambiente attingibili dalla letteratura, dall’altro la teoria letteraria manifesta una maggiore propensione all’analisi di temi e contenuti secondo una linea che valorizzi l’interrogazione teorica e la riflessione sulla percezione estensiva e contrastiva della spazialità1, sia che si parli dello spazio della letteratura (lo spazio fisico del testo, quello determinato dalla descrizione di uno spazio reale, e infine quello poetico) sulla scia di Maurice Blanchot e Gérard Genette2, sia che

1

Sui parallelismi esistenti nell’evoluzione della storia della geografia e della critica letteraria insiste anche Marc Brosseau in op. cit., pp. 345-46.

2

Dobbiamo a Blanchot l’introduzione della metafora dell’espace littéraire, con la quale il critico intende esprimere il forte vincolo che lega lo spazio dell’opera (lo spazio materiale della pagina) al linguaggio da cui esso trae origine (cfr. M. BLANCHOT, L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955). Negli anni ’60 Genette si è invece occupato dello spazio letterario (nello specifico del rapporto tra

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l’attenzione ricada sulle concettualizzazioni dello spazio reale lungo le piste aperte da Foucault, Lefebvre e De Certeau3.

Come premesso altrove, una delle categorie più produttive degli studi sollecitati da questa significativa svolta ermeneutica è stata almeno all’inizio quella del cronotopo bachtiniano, sulla cui potenza euristica hanno di nuovo insistito Cesare Segre4, e in tempi più recenti Paul Smethurst, che avvalorando implicitamente quanto già affermato da Segre in merito alla funzionalità della tipologia cronotopica, ne propone l’innesto nella temperie postmoderna. In The Postmodern Chronotope, l’autore segnala infatti:

The chronotope as a method for perceiving relations between the cultural and literary-artistic sphere has already been foreseen by Bakthin, and although his work applies to classical and

early modern literature, the idea that the chronotope might be an «optic for reading texts as x-rays of the forces at work in the culture system from which they spring» […], is surely no

less valid in the literature of any period. Indeed, it seems […] that Bakthin chooses a history of time-space relations in literature as optic for reading the cultural systems that produced it because space relations are always present in literature and are reliable indicators of time-space relations in the cultural sphere. Narrative art is always chronotopic, and the chronotope is always sensitive to larger cultural shifts5.

Sebbene il cronotopo sia tuttora «una tassonomia aperta»6, e dunque foriera di stimolanti implicazioni anche per le analisi più aggiornate, ciò non esclude che negli ultimi decenni la dimensione dello spazio nelle sue declinazioni descrittive e nelle sue articolazioni simboliche sia stata oggetto di nuovi orientamenti critici.

Uno di essi, quello della geocritica, ha promosso ultimamente il valore teoretico dello spazio partendo dall’assunto preliminare che i “mondi” della letteratura – a prescindere dallo statuto ontologico degli spazi di cui offrono svariate figurazioni – siano un ausilio indispensabile per il racconto della complessità e della dinamicità del reale.

spazio e linguaggio, spazio e letteratura, narrazione e descrizione) nel breve ma fondamentale contributo dal titolo «Espace et langage» (Figure I, Seuil, Paris 1966, pp. 101-108), cui vanno ad aggiungersi, tre anni più tardi, «La littérature et l’espace» e «Frontières du récit» (entrambi raccolti in Id., Figures II, Seuil, Paris 1969, rispettivamente alle pp. 43- 48 e 49-69).

3

A tali indagini si sono sommate quelle di marca semiotica sul linguaggio spaziale. Nell’impossibilità di trattare nel dettaglio le complesse dipendenze intercorrenti tra linguaggio e spazio, rinviamo alle opere di due dei caposcuola di siffatte ricognizioni: A.J. GREIMAS, «Pour une sémiotique topologique», in Id., Sémiotique et sciences sociales, Seuil, Paris 1976, pp. 129-57 e

J.M. LOTMAN, La semiosfera: l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pesanti, tr. it. a cura di S. Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985 [1984].

4

Il saggio in questione è il seguente: C. SEGRE, «Dal cronòtopo alla Chanson de Roland», in Id.,

Ritorno alla critica, Einaudi, Torino 2001, pp. 259-72. 5

P. SMETHURST, The Postmodern Chronotope. Reading Space and Time in Contemporary Fiction, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 2000, p. 70.

6

(3)

Modelli di «spazializzazione del pensiero», per citare Soja, si trovano naturalmente presenti in molte espressioni della critica letteraria, alcune delle quali hanno anticipato le metodologie su cui si è poi assestata la geocritica.

Nella sua topoanalisi Bachelard ha per esempio fatto della fenomenologia la base di una ricerca sugli spazi rivelatori dell’essenza dell’animo umano, che come la casa o il nido

sono «potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni dell’uomo»7. Le intime topografie dell’essere – i luoghi (meglio ancora «gli spazi felici e lodati», per

parafrasare Bachelard)8 esperiti nel quotidiano, così pure come gli spazi immaginati e immaginari9 – sono indagati dallo studioso, per l’esattezza, in nome di quel sentimento di topofilia che sta all’origine del serbatoio immaginifico di ogni individuo e costituisce per l’artista una fonte di ispirazione continua (i luoghi dove l’essere ha più soggiornato «sono diagrammi psicologici che guidano gli scrittori e i poeti nell’analisi dell’intimità»)10.

Con largo anticipo rispetto alle dottrine umanistiche e agli studi letterari, le considerazioni di Bachelard mettono in luce che lo spazio non consiste in un contenitore inerte dove si sedimentano eventi e vissuti individuali, bensì nell’unica coordinata capace di restituire, grazie al suo costante rapporto con l’incosciente e la memoria, i frammenti del passato che la patina opacizzante del tempo altrimenti disperderebbe. «Uno psicoanalista», conclude Bachelard,

dovrebbe dunque accordare la sua attenzione a[lla] semplice localizzazione dei ricordi [questa è l’analisi connotabile con il nome di topoanalisi, n.d.a.]. Nel teatro del passato che è la nostra memoria, lo scenario mantiene i personaggi nel loro ruolo dominante. Si crede talvolta di conoscersi nel tempo e non si conosce che una sequela di fissazioni negli spazi della stabilità dell’essere, di un essere che non vuole passare, che, nello stesso passato, quando va alla ricerca del tempo perduto, vuole “sospendere” il volo del tempo. Lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo. […] il calendario della […] vita può stabilirsi solamente nel suo complesso di immagini. Per analizzare [l’]essere […] è indispensabile […] desocializzare i […] ricordi e attingere al piano delle rêveries che conducevano negli spazi delle […] solitudini. Qui lo spazio è tutto, perché il tempo non anima più la memoria11.

Per quanto la poetica di Bachelard incentivi lo spostamento delle basi concettuali di un discorso critico ancora imperniato sul tempo, dobbiamo tuttavia attendere gli anni ’60 perché vengano formulate teorie ad ampio raggio sulla coordinata spaziale.

7

G. BACHELARD, op. cit., p. 34.

8

Ivi, p. 26.

9

Ognuno dei capitoli in cui l’autore organizza la propria discussione è incentrato su un preciso aspetto della semantica spaziale (la casa, la cantina, la soffitta, il cassetto e l’armadio, il nido, gli angoli). Avremo comunque modo di soffermarci su alcune delle immagini spaziali scrutinate da Bachelard nei prossimi capitoli, quando affronteremo nel dettaglio l’argomento specifico della nostra discussione, ossia il rapporto tra spazio e autobiografia.

10

G. BACHELARD, op. cit., p. 65.

11

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Scuole di pensiero come l’imagologia, la geopoetica e l’ecocritica nascono e si sviluppano, infatti, nel momento in cui il Postmodernismo si assesta sulle rovine del ventesimo secolo e, con la sua ontologia dell’incertezza, impone alle arti di emanciparsi dal proprio confinamento estetico12: «Dans ce contexte devenu – ou rendu – mouvant, le rôle des arts qui sont susceptibles d’entretenir avec le monde une relation mimétique revêt une importance nouvelle. [...] on postulera [...] que si la perception du cadre spatio-temporel de référence s’estompe, le discours fictionnel que véhiculent les arts trouve ipso facto une portée originale»13.

L’imagologia – il primo degli indirizzi speculativi costituitisi come metodologia critica per la rilettura dello spazio – è una forma di letteratura comparata che si dirama dalla Germania agli altri Paesi europei (soprattutto Belgio, Olanda e Francia) nei tardi anni ’6014

, e ha per oggetto la genesi di quelle strutture imagotipiche (immagini, pregiudizi, stereotipi e opinioni) che un testo letterario costruisce quando si propone di illustrare i territori dell’Altro, ovvero luoghi, Paesi e culture estranei alla quotidianità dei lettori15

.

Gli altri due approcci letterari alla dimensione spaziale sono invece più recenti: la geopoetica, portata all’attenzione internazionale dal poeta scozzese Kenneth White,

affianca gli studi di poetica a una «coscienza geografica»16 dove vengono fatti convergere, senza alcun intento normativizzante, i saperi sul territorio, sulla natura e sul mondo dei quali si nutre la produzione lirica17; l’ecocritica, che Bertrand Westphal non esita a designare con il nome alternativo di ecoletteratura, consiste nell’applicazione di un punto

12

Cfr. B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction, espace, cit., pp. 12-13.

13

Ivi, p. 13.

14

In realtà è con gli anni ’50 che, in Francia, i due maggiori esponenti della cosiddetta French School, Marius-François Guyard e Jean-Marie Carré, propongono l’imagologia come un compito della letteratura comparata. Sebbene le vicende dell’opposizione tra la scuola francese e quella americana sembrino far soccombere la riflessione interdisciplinare da loro inaugurata, dalla metà degli anni ’60 in poi Hugo Dyserinck riprende la proposta di Guyard-Carré e fonda la scuola critica di Aquisgrana (dal nome dell’università tedesca in cui tale approccio analitico è tuttora praticato), impegnandosi in un’operazione di rifondazione teorica dell’imagologia.

15

Nella linea adottata dalla scuola di Aquisgrana, le strutture imagotipiche devono essere studiate a partire non dalla realtà oggettiva, ma dalla finzione letteraria, dove le images (le immagini, i dati di fatto rilevati dalle scienze storiche) si confondono con i mirages (i miraggi, le distorsioni generate dall’ideologia dominante). Cfr. per approfondimenti B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction,

espace, cit., in particolare le pp. 183-86. 16

E. DARDEL, L’homme et la terre. Nature de la réalité géographique (1952), cit. in J.M. Besse,

Vedere la terra: sei saggi sul paesaggio e la geografia, tr. it. a cura di P. Zanini, Mondadori,

Milano 2008 [2000], p. 110.

17

Secondo White lo studio approfondito della biosfera, che trova le proprie premesse e suggestioni nella geologia, nella botanica e nell’ecologia, offre ai sensi e alla mente prospettive nuove, tali da mettere continuamente in moto un processo di «trascrizione poetica degli spazi umani», una sorta di «scrittura creativa del territorio» (cfr. B. WESTPHAL, «Pour une approche géocritique des textes», Vox Poetica, 2005. Il testo completo del presente articolo è reperibile e consultabile al seguente sito web: http://www.vox-poetica.org/sflgc/biblio/gcr.htm).

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di vista critico e creativo alle relazioni che in un’epoca di transizione come quella attuale insorgono tra gli ecosistemi e la società umana, o se vogliamo tra la natura e «quelle opere che si focalizzano sui luoghi, sulle migliaia di paesaggi locali che costituiscono non uno scenario, ma piuttosto un contesto quotidiano»18.

È stata infine la geocritica – cui abbiamo poc’anzi alluso – a dare prova di come la spazialità sia un elemento ineliminabile e intrinseco di qualsiasi dibattito intorno al

rapporto che l’oggetto referente istituisce con la sua rappresentazione artistica. Nutriti dalle prospettive ermeneutiche indette dallo spatial turn e dalle trasformazioni

profonde del paesaggio culturale19, gli argomenti al centro del concetto di géocritique presuppongono tra spazi umani e letteratura un’interrelazione continua:

La trajectoire géocritique, parce qu’elle éviterait la terre ferme où n’est mouvant que le sable, sera virevoltante. […] Il ne fait aucun doute […] que tout espace, […] apparaîtrait comme un amas d’atomes – un archipel. Sur le mode de l’optatif, on dira que la géocritique, coordonnant et renouvelant les différentes approches de l’espace humain, devrait être [un] instrument de visée micrographique qui permettrait de percevoir en tout espace l’archipel qui le fonde. Par la géocritique, on prétendra scruter, sans l’entraver, la foncière mobilité des espaces humains et des identités culturelles qu’ils véhiculent. Par ses affinités avec certains pans de la philosophie, de la psychanalyse, de la géographie humaine, de l’anthropologie, de la sociologie, et des sciences politiques […], la géocritique est interdisciplinaire20.

Diversamente però dalle strumentazioni teoriche elaborate su altri fronti, la geocritica abbraccia come feconda ipotesi di lavoro quella di poter stilare, su basi internazionali («par-delà les frontières nationales du champ critique»), interlinguistiche («par-delà les confins linguistiques du corpus fictionnel») e intersettoriali («par-delà […] les seuils disciplinaires»), un repertorio «spaziologico» che si evolve a partire dalla ricontestualizzazione della letteratura entro un apparato teorico in cui trovano opportuna collocazione discipline come la geografia e l’urbanismo21

.

18

La citazione è tratta da un articolo (A.B. WALLACE, «What is Ecocriticism?») presentato in occasione della conferenza dal titolo Defining Ecocritical Theory and Practice tenutasi a Salt Lake City (Utah) nell’ottobre del 1994. Per ulteriori approfondimenti in materia rinviamo al sito dove sono contenuti gli atti della suddetta conferenza: http://www.asle.org/site/resources/ecocritical-library/intro/defining/.

19

Sono chiari e riconosciuti i debiti della geocritica nei confronti delle letture filosofiche e sociologiche dello spazio (essa riconosce il fondamentale apporto critico di autori quali Foucault, Lefebvre, Deleuze e Guattari inter alia), della geografia culturale postmoderna (Soja in primis), e dei discorsi minoritari condotti nell’ambito degli studi postcoloniali e dei gender studies. Per un quadro completo e dettagliato delle ascendenze teoriche della geocritica, cfr. B. WESTPHAL, La

géocritique: réel, fiction, espace, cit., in particolare le pp. 19-64. 20

B. WESTPHAL, La géocritique mode d’emploi, cit., p. 18. 21

B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction, espace, cit., p. 18. Un punto di vista analogo lo troviamo in Moretti, che si è concentrato in un progetto teso alla formulazione di un atlante storico della letteratura nel quale la geografia e lo spazio vengono identificati come una variabile, un ingrediente indispensabile all’inventio letteraria (cfr. F. MORETTI, op. cit., p. 5).

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Westphal, al quale si deve la strutturazione delle metodologie di questo indirizzo, puntualizza che, nell’ottica geocritica:

L’espace informe le texte lorsque s’agence la répresentation fictionnelle d’un référent spatial. Inversement [...] l’impact du texte (fictionnel) sur l’espace est patent lorsque se met en place une chaîne intertextuelle qui associe la “réalité” spatiale et la fiction. L’écrivain étant auteur [...] [d’]une répresentation donée, même – et surtout? – fictionnelle, finit par exercer en retour son action sur le réalème, dont elle peut contribuer à faire bouger la perception. Dans un contexte de mobilisation permanente [...] une nouvelle répresentation [...] intègre le surcroît de fiction qu’apporte l’écrivain [...] dans un monde soumis à un processus de déréalisation [...]22

.

In contrasto con le procedure investigative dell’imagologia, della tematologia23

e della mitocritica24, e con il soggettivismo sotteso agli spazi dell’intimità bachelardiani, la vocazione primaria della geocritica consiste conseguentemente nel pervenire a una percezione plurale e intertestuale dello spazio, che si compone di suggestivi attraversamenti di luoghi eterogenei, immaginari quanto reali.

Sono in sostanza tre gli elementi che coadiuvano le ricerche sugli spazi di rappresentazione. In prima istanza, il profilo dell’orizzonte geocritico è contrassegnato dall’attenzione per un quadro geo-centrato delle rappresentazioni di un luogo (spazi di rappresentazione globali): il critico si rivolge quindi alla realtà, ma lo fa esaminandola nella sua dimensione sincronica e diacronica, in rapporto alle visioni transculturali che ne sono state offerte, e di contro a un metodo ego-centrato (spazi di rappresentazione individuali), ossia connesso alle poetiche autoriali su cui invece vertono ancora le ricerche della geografia letteraria.

In seconda istanza, la geocritica contrappone un’ipotesi di lavoro sistematica ai metodi di lettura orientati in modo aprioristico – è il caso questo della geopoetica – al rilevamento di tracce e motivi “spaziali” cui fa da collante la prospettiva monologica dello scrittore: «la geocritica smette di privilegiare un punto di vista dato e porta avanti una completa, o almeno una vasta, possibilità di sguardi su uno stesso posto. […] L’ibridazione tra

22

B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction, espace, cit., pp. 273-74.

23

Altro campo di studio della comparativistica letteraria, la tematologia nasce in ambito positivistico, ma solo dagli anni ’60 del secolo scorso, con il lavoro di personalità straniere come Raymond Trousson, Elizabeth Frenzel e Harry Levin – il quale per primo ha introdotto il termine – è riuscita ad affermarsi più stabilmente nel terreno della critica letteraria. La lettura tematica si fonda sullo studio particolare di una o più unità di contenuto (i temi) che “attraversano” trasversalmente lingue, epoche e opere differenti.

24

La mitocritica è una metodologia interpretativa propria degli studi letterari e culturali, che come variante autonoma della critica tematica e dell’ermeneutica si propone di rilevare la presenza di miti all’interno dell’immaginario individuale e collettivo, per poi indagarne le trasformazioni in rapporto alle epoche e ai sistemi culturali che li hanno recepiti.

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differenti focus (multifocalizzazione) tende a relativizzare l’Alterità e ad identificare i principali stereotipi di un luogo»25.

A questo si aggiunge, da ultimo, l’impegno nel voler attuare un’indagine decostruttiva dei dati topologici che proceda lungo gli assi dello spazio e del tempo, perché solo la collocazione dei luoghi «in una profondità temporale» è in grado di «portare alla luce (o scoprire) identità multistrato» ed «evidenzia[re] la variabilità della dimensione temporale negli spazi eterogenei»26.

L’approccio intertestuale e multiplanare di cui da circa un decennio a questa parte Westphal dà felice prova – il 2001 segna di fatto il momento di piena attività della codificazione geocritica per l’équipe di Limoges da lui coordinata – dimostra di aver sortito tra i risultati attualmente più produttivi nell’interrogazione ermeneutica dei luoghi della letteratura, trascorrente dall’opera seminale di Bachelard al coacervo di poetiche

fiorite dal secondo dopoguerra: questo soprattutto perché la geocritica è riuscita «a collegare riflessioni teoriche molto astratte o sistemiche a questioni concrete e

specifiche dei testi», e a rivedere il «rapporto tra spazio reale e spazio rappresentato o [la] profondità storica acquisita da alcuni luoghi nella letteratura», consentendo indagini che fanno da fondamento a «nuove ipotesi di leggibilità dei luoghi»27.

Nel percorso generale verso tali «nuove ipotesi di leggibilità», anche il ricco e variegato versante degli studi sulla scrittura autobiografica – per ricongiungerci così all’argomento specifico della nostra analisi – ha interpretato lo spazio quale strumento coordinatore di senso, e lo ha fatto con considerazioni atte al delineamento della sua incidenza sul processo costruttivo dell’identità.

Spunti alquanto validi, in direzione di una ricerca di questo tipo, emergono da indagini che hanno teso a sottolineare come lo spazio, quando esaminato rispetto alla componente identitaria, si carica di connotati definiti dal soggetto e da esso personalizzati tramite la creazione di uno spazio proprio, o per meglio dire “soggettivo”, uno spazio in altri termini non riducibile a una semplice astrazione o rappresentazione mentale, ma connotabile piuttosto come un luogo reale, disseminato di quei segni che il soggetto lascia dietro di sé nel corso della vita28.

25

B. WESTPHAL, «La geocritica: un approccio globale agli spazi letterari», in F. Sorrentino, op. cit., pp. 115-25, qui p. 123.

26

Ivi, p. 124. Per approfondimenti relativi agli elementi costitutivi dell’analisi geocritica, cfr. B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction, espace, cit., pp. 183-240.

27

F. SORRENTINO, op. cit., p. 17.

28

Il forte legame che unisce l’individuo agli spazi da lui esperiti non è soltanto corporale, ma coinvolge in primo luogo la memoria, dove i ricordi acquistano una maggiore solidità «quanto più e meglio vengono spazializzati»: è infatti dalla localizzazione nello spazio del ricordo che, come sostiene anche Bachelard, «il tempo assume una fisionomia» (E. CORIGLIANO, Tempo, spazio,

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Come d’altronde ci insegnano anche Lasch e Augé, oggi più che mai «[l]’identità legata al luogo […] diventa una questione importante e necessaria, perché ciascun individuo occupa uno spazio di individuazione (un corpo, una stanza, una casa, una comunità, una nazione) e l’identità si modella in relazione al modo in cui ciascuno individua se stesso in un luogo»29.

Ne discende che nell’odierno «collage di immagini spaziali sovrapposte», pronte a «implod[ere] sulle collettività sociali»30, ogni individuo deve dimostrarsi capace di orientare e conoscere se stesso per conquistare degli appigli sicuri ai luoghi con i quali entra in contatto: «L’identificazione», chiarisce Archetti, «è la base del senso di appartenenza a un luogo, cioè avere un punto di appoggio esistenziale, in senso concreto e quotidiano. L’identità dell’uomo presuppone l’identità del luogo. Orientamento e identificazione sono aspetti primari dello stare al mondo: occorre comprendere la vocazione del luogo, in quanto è il luogo che conferisce la nostra identità collettiva»31.

Con il ripristino del ruolo della soggettività umana e la messa a tema del concetto di sense of place, la geografia umanistica è fecondamente intervenuta, si è detto, nel dibattito sul significato e le implicanze del rapporto tra uomo e spazio, dotando il terreno interpretativo della critica di un’esaustiva esemplificazione degli elementi che permettono di identificare e descrivere gli «spazi di individuazione» su cui ognuno di noi riversa il proprio investimento emotivo e sensibile.

E giacché l’uomo è un «animale semiologico»32 che nel rapportarsi allo spazio «[dà] vita alla costruzione di un’impalcatura semiotica, [un] sistema dinamico di segni e di sociali esistono indagini alquanto nutrite sull’interazione tra memoria, spazio e coscienza di sé (cfr. soprattutto gli studi sulle prestazioni della memoria episodica o autobiografica), che solleverebbero una serie di problematiche di indubbio interesse. Richiedendo tali indagini ben altro spazio, ed esulando in ogni caso dallo scopo della presente dissertazione, preferiamo rinviare, senza alcuna pretesa di esaustività bibliografica, ad alcune opere sull’argomento: D.C. RUBIN (ed.),

Autobiographical Memory, Cambridge UP, Cambridge-New York-Melbourne 1986, B.M.ROSS,

Remembering the Personal Past. Descriptions of Autobiographical Memory, Oxford UP, New

York 1991, G. COHEN – M.A. CONWAY (eds.), Memory in the Real World, Psychology, Hove (East

Sussex)-New York 2008. Sul tema della memoria restano inoltre fondamentali i lavori di Maurice Halbwachs (M. HALBWACHS, La memoria collettiva, tr. it. a cura di P. Jedlowski, Unicopli, Milano 1987 [1968]) e Aleida Assmann (A. ASSMANN, Ricordare: forme e mutamenti della memoria

culturale, tr. it. a cura di S. Paparelli, Il Mulino, Bologna 2002 [1999]), che avremo modo di

menzionare più avanti.

29

M. ARCHETTI, op. cit., p. 46.

30

Ibidem.

31

Ivi, p. 86.

32

Claude Raffestin descrive più esattamente l’uomo come un «animale semiologico la cui territorialità è condizionata dai linguaggi, i sistemi di segni e i codici» (C. RAFFESTIN, «Punti di riferimento per una teoria della territorialità umana», in C. Copeta (a cura di), Esistere ed abitare.

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codici, tra cui spicca in primo luogo il linguaggio»33, molti geografi hanno desunto che il legame degli esseri umani con il territorio dovesse di necessità implicare anche la disamina dei paradigmi culturali che influenzano la percezione dell’identità in relazione al luogo.

Il coinvolgimento della sfera antropica e il potenziamento concettuale della centralità dello spazio all’interno di complessi quadri simbolici – quadri imbevuti di significati di non sempre facile comprensione, sui quali agiscono l’immaginazione e la sensibilità sia collettive che individuali – hanno quindi aperto nuove prospettive alle successive teorizzazioni sul concetto di radicamento, altrimenti definibile nei termini della mutua e duplice appartenenza tra uomo e terra.

Un’espressione organica di questo interessamento per lo spazio nella sua dimensione più espressamente umana e culturale, la si ritrova in Relph, per il quale il senso di attaccamento al luogo è uno strumento di identità, che veicola il posizionamento di individui e gruppi sociali nel mondo. Alla stregua di Tuan, Relph nota che la maturazione di un legame intenso con i luoghi è un bisogno umano primario, destinato ad aumentare in corrispondenza di quei luoghi carichi di una pregnanza affettiva che deriva loro dall’essere percepiti come “casa” («to have a home is to “dwell” – which is for Heidegger […] the essence of human existence and the basic character of Being»)34. Osserva lo studioso:

In both our communal and our personal experience of places there is often a close attachment, a familiarity that is part of knowing and being known here, in this particular place. It is this attachment that constitutes our roots in places; and the familiarity that this involves is not just a detailed knowledge, but a deep care and concern for that place. […] to have roots in a place is perhaps a necessary precondition for the other “needs of the soul”. […] [it means] to have a secure point from which to look out on the world, a firm grasp of one’s own positioning the order of things, and a significant spiritual and psychological attachment to somewhere in particular. The places to which we are most attached are literally fields of care, settings in which we have had a multiplicity of experiences and which call forth an entire complex of affection and responses35.

Per meglio isolare alcune questioni utili alla messa a fuoco dei nodi teorici addensatisi intorno al senso di appartenenza, Relph attribuisce al luogo un’identità variabile sulla scorta di tre elementi: la statica base naturale («physical features or appearance»), le attività che vi si svolgono («observable activities and functions») e i caratteri simbolici («meanings or symbols»)36. Il valore differenziale tra l’esperienza di un luogo e di una porzione qualsiasi di spazio sta nel diverso rapporto che l’uomo ha con essi:

33

M. DE FANIS, op. cit., p. 41.

34

E. RELPH, op. cit., p. 39.

35

Ivi, pp. 37-38. Corsivi nel testo.

36

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nell’esperienza del luogo esso può ipso facto qualificarsi come un rapporto di interiorità (insideness), oppure restare confinato alla pura esteriorità (outsideness).

Quest’ultimo rapporto può essere di tipo esistenziale, e comportare un non coinvolgimento conscio, un sentimento di nostalgia e alienazione da determinati luoghi e da coloro che li abitano («in existential outsideness all places assume the same meaningless identity and are distinguishable only by their superficial qualities»)37; oppure di tipo oggettivo, nel caso in cui dia adito a un atteggiamento di volontario distacco dal contesto territoriale, che sfocia in una profonda separazione tra luoghi e persone («[s]elfconsciously places are changed from facts of immediate experience into things having certain attributes, within systems of locations»)38; infine di tipo incidentale, se il distacco avvertito permane a livello inconscio e i luoghi vengono pensati semplicemente come lo sfondo delle attività umane («[i]ncidental outsideness applies only to those places in which we are visitors and towards which our intentions are limited and partial»)39.

Il rapporto di interiorità è suddivisibile in altrettante tipologie, anch’esse contraddistinte da una certa percezione del sense of place: si dice vicaria l’interiorità che un individuo prova dinanzi ai luoghi di cui non ha avuto esperienza diretta, ma verso i quali nutre comunque sensazioni di coinvolgimento e appartenenza, (sensazioni spesso innescate da artisti e poeti, che dipingono un luogo «to convey what it is to live there, to give a sense of that place»); comportamentale il tipo di interiorità che consiste nell’essere in un luogo e sperimentarne in modo deliberato le componenti («[i]n itself behavioural insideness tells us merely that we are somewhere, but it is the patterns, structures and content [e.g. objects, views, and activities] of this inside that tell us we are here rather than somewhere else»)40; empatetica l’interiorità nella quale, oltre all’attenzione volontariamente rivolta al luogo, affiora una volontà di apertura nei confronti dei simboli e delle espressioni culturali dei suoi abitanti («[t]his involves not merely looking at a place, but seeing into and appreciting the essential elements of its identity»)41; esistenziale l’interiorità nella sua forma più

37

Ivi, p. 51.

38

Ibidem. Questa specifica posizione intellettuale è ciò che secondo Relph contraddistingue la geografia accademica e i pianificatori territoriali, le cui inchieste sono indirizzate all’individuazione di proposte «for reorganising places […] according to principles of logic, reason, and efficiency» (ivi, p. 52).

39

Ibidem. Non è questa la sede per ripercorrere la dettagliata analisi del concetto di sradicamento

fornita dall’autore. Sarà sufficiente ricordare che col termine placelessness Relph intende «a weakening of the identity of places to the point where they not only look alike, but feel alike and

offer the same bland possibilities for experience» (ivi, p. 90). Si tratta di un processo innescato da una serie di fattori – dallo sviluppo dei mezzi di trasporto, a quello conseguente della maggiore mobilità umana e del turismo – che come sottolinea lo stesso Augé portano all’omologazione di luoghi tra loro diversi, obliterandone le specificità.

40

Ivi, p. 53. Corsivi nel testo.

41

(11)

importante, in cui il rapporto con il luogo è inconscio e molto significativo («it is part of knowing implicitly that this place is where you belong»)42.

I «paesaggi della mente», ossia i luoghi con i quali l’individuo riconosce dei profondi e sotterranei legami43, sono in sintesi spazi «elaborat[i] da strutture logico-concettuali e da queste orientat[i] in base a sistemi di riferimento autoreferenziali e [sic] egocentrati»44. Dal momento che l’elemento spaziale è inevitabilmente condizionato dalle inclinazioni percettive ed emozionali di chi lo esperisce e, in modo altrettanto inevitabile, passa attraverso i filtri di una data cultura, esistono modalità distinte di rapportarsi a esso e di esprimerne i significati.

Interessanti sull’argomento sono le riflessioni di Douglas Porteous, che dalla ricombinazione delle nozioni di interiorità e alterità esistenziale proposte da Relph sortisce quattro binomi, ognuno dei quali in grado di descrivere una particolare attitudine psicologica e comportamentale rispetto al luogo:

home-inside(r)ness: è il grado di radicamento più intenso, quello dell’«intima appartenenza espressa dalla perfetta identità semiologica tra la propria cultura e il proprio territorio»45;

home-outside(r)ness: richiama la sensazione, riassunta da Tuan con la parola topofobia, del sentirsi intrappolati a luoghi di cui tuttavia si riconosce l’appartenenza;

away-inside(r)ness: si tratta dello stato di inquietudine che induce l’uomo a intraprendere viaggi verso nuove terre per conseguire un arricchimento interiore;  away-outside(r)ness: coincide con un livello di sradicamento totale (placelessness),

dove a nulla può l’incontro con culture e territori altri46

.

Il radicamento e il suo opposto, come si evince dalle teorie di Relph e Porteous, sono intrinsecamente vincolati al concetto di spazio vissuto47, termine con il quale Frémont

42

Ivi, p. 54.

43

Si tratta dei luoghi che Lando definisce, attingendo al vocabolario anglosassone, con il termine

inscapes (cfr. F. LANDO, op. cit., p. 243).

44

M. DE FANIS, op. cit., p. 42.

45

F. LANDO, op. cit., p. 11.

46

Per maggiori approfondimenti relativi alle quattro condizioni qui delineate, cfr. D. PORTEOUS, «Literature and Humanistic Geography», Area, 17(2), 1985, pp. 117-22. Con il vocabolo «placelessness» si indica generalmente uno stato di estraniazione spaziale dai luoghi con i quali l’individuo entra in contatto. Attenendoci alla definizione fornitane da Relph, esso descrive in particolare una condizione tipica della cultura di massa, «both an environment without significant places and the underlying attitude which does not aknowledge significance in places. It reaches back into the deepest levels of place, cutting roots, eroding symbols, replacing diversity with uniformity and experiential order with conceptual order» (E. RELPH, op. cit., p. 143).

(12)

assegna nuovo valore alle microgeografie, alle topografie del quotidiano, ai paesaggi ordinari che l’individuo di continuo esperisce senza però prestare la dovuta attenzione.

Accade infatti non di rado che il legame con i luoghi sia nascosto, latente, e che pertanto l’uomo possa dimenticarlo, così come spesso accade che si dimentichi della propria vita organica48. Eppure le risonanze affettive del luogo sono pronte a risvegliarsi in qualsiasi istante, soprattutto quando per effetto dell’allontanamento, dell’esilio, o dell’invasione l’ambiente esce dall’oblio e risveglia sentimenti che si credevano sopiti49

. Sentimenti ai quali romanzieri e poeti sanno dare voce meglio di altri, ponendosi nel ruolo di abili e sapienti intermediari nella decifrazione delle simbologie umane connaturate ai territori, ai luoghi o ai paesaggi che, metaforicamente paragonati a un testo, si rivelano una massa intricata di «soggetto e oggetto, personale e sociale»50.

Da qui appunto si è prospettata la necessità per il geografo di estendere il proprio sguardo alla letteratura, che è sede di testimonianze «autentiche ed indispensabili» per carpire, anche a dispetto delle sollecitazioni immaginifiche e trasformative cui il dato reale viene sottoposto dalla parola artistica, «i profondi legami che legano un gruppo umano ad un determinato luogo o paesaggio»51.

Nell’analisi interdisciplinare sul senso di radicamento e appartenenza intrapresa dalla geografia, si sono dunque innestati ulteriori punti di convergenza con gli studi letterari52, che sono stati alimentati – e continuano a esserlo – dalla produzione di scrittori che hanno dato una rappresentazione del mondo in termini primariamente spaziali, recando con sé come bagaglio sia le loro radici che la loro geografia, pur nella temporalità del loro impegno rievocativo53.

47

È in questa accezione, e non in quella di entità geometricamente astratta, che la parola «spazio» sarà prevalentemente impiegata nei successivi capitoli, nell’intento di convogliarne l’idea di palinsesto in cui confluiscono significati di matrice fisica, emotiva e ideologica.

48

Cfr. E. DARDEL, L’homme et la terre: nature de la réalité géographique (1952), cit. in Y.F. TUAN, «Spazio e luogo: una prospettiva umanistica», in V. Vagaggini (a cura di), Spazio

geografico e spazio sociale, Franco Angeli, Milano 1978, pp. 92-130, qui p. 127.

49

Cfr. ibidem. 50

D. COSGROVE, op. cit., p. 34.

51

F. LANDO, op. cit., p. 183. Non ci dilungheremo oltre su questo punto, che è stato già affrontato in dettaglio nel precedente capitolo, al quale dunque rinviamo per eventuali approfondimenti in materia.

52

A conferma di tale convergenza, Kathleen Boardman e Gioia Woods fanno notare che «recently […] have scholars of both autobiography and geography begun theorizing location and identity

together, attending to the ways geographical metaphors can illuminate studies of the self» (K. BOARDMAN – G. WOODS (eds.), Western Subjects. Autobiographical Writing in the North

American West, Utah UP, Salt Lake City 2004, p. 18). 53

Emblematici sono gli esempi della letteratura regionalista e della cosiddetta literature of place (conosciuta anche con il nome di nature o landscape writing), sviluppatasi ultimamente negli Stati Uniti (alcuni ne rintracciano tuttavia gli antesignani in scrittori quali Herman Melville ed Henry Thoreau) e resa oggi oggetto di un rinnovato interesse critico. Trattandosi di un sottoinsieme

(13)

Su questo aspetto insistono Kathleen Boardman e Gioia Woods, le quali constatano come sulle forme di scrittura del sé fiorite in area nordamericana agisca un nesso, evidente e strutturante, che fa centro sulla «nostalgia e la preoccupazione per il luogo»:

when we spotlight western American autobiography, we must necessarily address the issue of western identity, or “a sense of self” shaped in, or in reaction to, a “sense of place” in the West. For many readers, one marker of autobiography produced in and about the North American West is a preoccupation with place, along with a focus on identity issues directly related to place: rootedness, anxiety, nostalgia, restlessness. For better or worse, readers and publishers often expect memoirs emerging from the West to be «noteworthy addition[s] to the literature of place»54.

È su alcune di queste speculazioni – l’articolazione letteraria dell’elemento spaziale, la definizione dei lineamenti territoriali dell’identità, l’espressione dei legami di carattere affettivo e sentimentale radicati in un determinato luogo – che la critica autobiografica ha rivolto il proprio interesse, contrastando in tal modo l’eloquente mancanza di un “censimento” teorico sulle modalità con le quali le forme di scrittura autoreferenziale articolano la diade costituita da spazio e identità, ove il primo termine copre entrambe le accezioni, scritturale (lo spazio della pagina) e geografica (lo spazio vissuto ed esperito dal soggetto).

Nonostante una disamina sistematicamente rivolta al ruolo dello spazio in relazione ai generi autobiografici sia stata avviata in tempi piuttosto recenti55, nel panorama della critica letteraria alcuni studi hanno avuto occasione di segnalare le potenzialità dispiegate dall’intersezione tra dimensione spaziale e narrazione del sé: Leonard Lutwack include autobiografie illustri (il Walden di Thoreau, il Prelude di Wordworth) in seno a una più ampia trattazione sull’«uso formale del luogo in letteratura»56

; Gillian Tindall mostra la produttività del concetto di spazio all’interno di autobiografie, diari e travelogues, che al pari del romanzo vengono addotti quale esempio dei modi con cui vari autori del diciannovesimo e del ventesimo secolo hanno riprodotto le proprie «mental landscapes» a letterario alquanto eterogeneo, non è un caso che alcuni dei case studies su cui ci soffermeremo più avanti (le autobiografie regionaliste e quelle postcoloniali in particolare) possano rivelare caratteristiche affini ai testi connotabili come literature of place.

54

K. BOARDMAN – G. WOODS, op. cit., p. 3. 55

Nell’autobiografia e nei generi attigui «i critici hanno infatti privilegiato a lungo l’esperienza e la rappresentazione della temporalità, a discapito di quella dei luoghi, degli elementi caratterizzanti lo spazio, del “movimento”» (V. CAVONE (a cura di), Geografie della coscienza: rappresentazioni

dello spazio e raffigurazioni dell’io nella letteratura inglese, Graphis, Bari 2007, p. 133). Non si

può in ogni caso prescindere dall’illustre e quanto mai fondamentale precedente di Walter Benjamin (cfr. infra), i cui studi sulla città hanno trattato diffusamente il legame non soltanto tra letteratura e spazio, ma anche quello tra spazio e identità.

56

Cfr. L. LUTWACK, The Role of Place in Literature, Syracuse UP, Syracuse-New York 1984, p. vii.

(14)

partire dai luoghi, reali o immaginari, da cui sono stati maggiormente suggestionati57; e sempre intorno all’uso della topografia nella letteratura di marca auto/biografica, lo

stesso Westphal richiama l’attenzione sulla comparsa, da circa due decenni, di testi che sembrerebbero far auspicare la nascita di «una nuova categoria generica nel panorama letterario [europeo]», una sorta di finzione geografica situata, come il Danubio (1986) di Claudio Magris (la «pietra miliare di questo nuovo “genere”»)58

, a metà strada tra il racconto di viaggio, l’auto/biografia e il racconto finzionale.

Soltanto da poco, però, la critica ha cominciato a disporre, circa l’aspetto che ci riguarda più da vicino, di riflessioni autenticamente decisive, in larga parte mostratesi concordi sul fatto che lo spazio rientra per tradizione tra i «nuclei […] rilevanti e tipici» attorno ai quali ogni autobiografia si specifica59.

Nella scrittura dell’io il luogo assolve in effetti funzioni emergenti o dominanti rispetto ad altre, oppure più funzioni concomitanti – di organizzazione diegetica, di strutturazione dell’impianto semantico-metaforico del testo, e di orientamento cognitivo ed esperienziale del soggetto narrante.

Sul piano strutturale il dato topologico può anzitutto permettere l’identificazione di sequenze narrative cronologicamente disomogenee, secondo una tendenza che ha avuto inizio con l’autobiografia classica, con i modelli illustri di Rousseau e Goethe, ed è andata consolidandosi con l’autobiografia moderna, dove la successione dei luoghi ai quali il narratore affida la scansione del proprio vissuto diviene un principio organizzativo di siffatta importanza da influire sulla suddivisione stessa dei capitoli, come avviene nell’Educazione di Henry Adams (1907) o in Ruskin60

.

Ancor più che per la sua funzionalità di centro propulsore di narrazione e creatore di intreccio, la dimensione spaziale si distingue per il vasto spettro di connotazioni simboliche che può assumere: molte sono le trame che associano al cambiamento di luogo il topos biblico del viaggio verso la Terra Promessa (tali sono le peregrinazioni di Ignazio di Loyola, Malcolm X e, in maniera meno esplicita, di Wordsworth nel Prelude), o che si snodano attraverso due poli assiologici opposti, rappresentanti ora l’inferno e il paradiso (così avviene, per esempio, nei racconti degli schiavi neri d’America), ora «opposizioni

57

Cfr. G. TINDALL, Countries of the Mind. The Meaning of Place to Writers, Hogarth, London 1991, in particolare il capitolo intitolato «A Piece of Autobiography at Best», pp. 188-219.

58

Cfr. B. WESTPHAL, La géocritique: réel, fiction, espace, cit., pp. 189-90.

59

F. D’INTINO, op. cit. p. 165. Su posizioni analoghe si intrattengono Smith e Watson, che a circa dieci anni dall’uscita della prima edizione di Reading Autobiography ne hanno arricchito la ristampa – quella del 2010 – con un’intera sezione dedicata allo spazio e ad alcune delle sue più significative declinazioni: space as material surround or place, social spaces, geopolitical space,

spatial rhetorics, spatial tropes and topoi, memory and spatialization. Per maggiori

approfondimenti in merito, cfr. le pp. 42-49 del saggio sopra menzionato.

60

(15)

topiche binarie» afferenti a ulteriori campi semantici (si pensi alle polarizzazioni che strutturano le autobiografie di Franklin e Thoreau)61.

Può pure succedere che tropi e topoi si prestino alla messa a punto di una ben precisa strategia enunciativa, dove le connotazioni spaziali del linguaggio non mirano soltanto alla caratterizzazione del palinsesto esperienziale di chi scrive (esemplari in merito sono gli Essais di Montaigne)62, ma arrivano anche a codificare metaforicamente particolari generi autobiografici, facendo così subentrare le topografie dell’interiorità a quelle esterne:

spiritual life narrators from Teresa of Avila to Thomas Merton, from Christianity to Buddhism, draw on [a spatial metaphor, as with the “interior landscape”]. Such narratives conduct

self-examination according to protocols of mystic practice for developing a space within. The spiritual autobiographer often retreats from a hostile external world and creates a verbal

landscape as the site for expressing devotion to an otherworldly being or idea. […] the apology […] often uses the courtroom as a spatial metaphor, imagining the setting of a trial at which arguments for and against the speaker are rehearsed and the reader acts as a jury rendering the verdict. Spatial contexts are similarly implied in the confessional narratives of Augustin and Rousseau, which juxtapose sites of self-exposure and contrition with scenes of flagrant sinning in intimate back rooms63.

A volte poi l’ingerenza di temi, linguaggi e strutture topiche sul resoconto di una vita è tale da introdurre forme narrative di tipo alternativo64. Ciò emerge con particolare chiarezza nell’auto-géographie di Julien Gracq (La forme d’une ville, 1985)65 o nelle topografie autobiografiche di Walter Benjamin (Berliner Kindheit, 1950) e Georges Perec (Espèces d’espaces, 1974), il primo dei quali propone minuziosi cataloghi di luoghi e immagini interamente centrati sull’esperienza della propria città natale, letta nelle

61

Cfr. ibidem. Alcune delle più frequenti strutture topiche bipolari prevedono opposizioni tra nord e sud, centro e periferia/frontiera/confine, città e campagna, spazi pubblici e spazi privati, interno ed esterno, o ancora tra luoghi connotabili come casa/patria/nazione – e quindi forieri del sentimento di home-inside(r)ness descrittoci da Porteous – e luoghi dell’esilio/dell’erranza/della prigionia.

62

«In his Essais, Montaigne […] often uses a metaphorics of dynamic space to characterize his self-experience», sottolineano al riguardo Smith e Watson (S. SMITH – J. WATSON, Reading

Autobiography, cit., p. 47). 63

Ivi, pp. 47-48.

64

Cfr. F. D’INTINO, op. cit. p. 165. Alle memorie di viaggio (altrimenti note come racconti di

viaggio), che costituiscono una delle forme in cui secondo D’Intino «la struttura topica prende il

sopravvento e si espande» (ibidem), non avremo modo di accennare in questa sede se non con rimandi occasionali. Per eventuali approfondimenti sull’argomento rinviamo perciò al glossario in appendice, alla voce travel narrative.

65

Il termine «auto-geografia», proposto da Lecarme in alternativa al più generale «geografia del sé» (géographie du moi), intende più esattamente definire la «rêverie autobiografica» di Gracq, dove «[on] définit la cöincidence miraculeuse d’une topographie ressuscitée par la mémoire et d’une autobiographie allusive» (J. LECARME, op. cit. p. 32).

(16)

dimensioni del legame con strade, edifici, appartamenti e stanze66; il secondo diletta il lettore con un variegato e alquanto sperimentale inventario di luoghi urbani e oggetti, cui si sommano un’altrettanto composita rassegna dei gesti, delle abitudini e dei rituali caratterizzanti l’individuo nello spazio, e una serie di riflessioni che vanno dallo spazio originario della pagina a quelli utopico-nostalgici della campagna, o ancora agli spazi “altri” di frontiere e città straniere.

Su un piano di maggiore complessità semantica, l’elemento topologico può infine corroborare la capacità dell’autobiografo di inserirsi in uno spazio definito – lo spazio reale, così pure come lo spazio testuale che egli ritaglia per sé, riversando sulla pagina il proprio immaginario e la propria memoria – da e per mezzo del quale poter proclamare una più stretta relazione di appartenenza al mondo, e magari realizzare una simultanea iscrizione e resistenza nei confronti di un’ideologia.

Tema a lungo relegato in una posizione periferica, quello della categoria spaziale è diventato un paradigma che ha obbligato, quindi, al ripensamento delle istanze tipiche del discorso autobiografico. Difatti tramite lo spazio non si fissano più soltanto le canoniche coordinate ambientali della narrazione, calata in un preciso arco temporale che secondo una diffusa tradizione teorica godeva di una maggiore priorità e dignità, ma di ricostruire i codici anche simbolici e ideologici delle rappresentazioni spaziali.

Il modello propostoci da Gusdorf, il quale nei tardi anni ’50 aveva trattato il soggetto autobiografico come un monumento statico, e l’autobiografica come la creazione dell’edificio del sé67

, risulta così abbandonato in favore di indagini che, allo stato attuale, tendono invece a demarcare analiticamente

the mobile and flexible versions of subjectivity embedded in social relations that both individual and collectivized subjects take up in their autobiographical practices of self-narrative. […] Theorists now assert that life narrators are situated in relation to others, often at cultural margins or intersections, and deploy autobiographical discourses for a wide range of purposes: to chronicle, to justify or exculpate, to negotiate communities of membership, to memorialize, to testify and to bear witness in ethical acts of disputing or reframing dominant narratives. Thus, the focus on both the location and the position of an autobiographical narrator has importantly reshaped thinking about autobiography68.

66

Una situazione del genere la si ritrova anche nella ben più recente Istanbul. Memories and the

City (2005) di Orhan Pamuk, autobiografia che fin dal titolo si connota come una biografia della

città, oltre che come la storia di vita dell’autore.

67

Cfr. G. GUSDORF, «Conditions and Limits of Autobiography», cit., p. 31. Sull’argomento, si veda inoltre quanto già esposto nel cap. 1, § 2 della presente dissertazione.

68

J. WATSON, «The Spaces of Autobiographical Narrative», in A. Bähr – P. Burschel – G. Jancke (Hrsg.), Räume des Selbst. Selbstzeugnisforschung transkulturell, Böhlau Verlag, Wien 2007, pp. 13-26, qui p. 15. Corsivi nel testo.

(17)

È quanto testimoniano i “posizionamenti” multipli dei soggetti femminili e postcoloniali69, gli uni e gli altri impegnati nel costituire un terreno comune per l’elaborazione di strategie argomentative dirette alla contestazione di tutte quelle forme di essenzialismo identitario che ottundono l’esistenza di individualità ibride, marginali e migranti: mentre per alcuni il luogo «is a problem to be solved [or] the basis […] for a claim to authenticity», per altri – e le identità subalterne ne sono un esempio – esso diviene una causa politica da sostenere «and […] memoirists become advocates»70

.

Sull’operatività ideologica dell’iscrizione del soggetto nel territorio (lo spazio reale) e nella scrittura (lo spazio testuale) insiste particolarmente Frédéric Regard, che propone di guardare all’uso dei dispositivi retorici occorrenti nel discorso autobiografico come a un atto («an agency»)71 di “spazializzazione” poetica del sé («a poetic spacing of the self»), il cui fine consisterebbe nello scardinamento delle posizioni assegnate dai sistemi discorsivi e dagli ordini geografici dominanti72. Il soggetto che narra la propria vita è così equiparato a un attore/agente attivamente partecipe nella costruzione di spazi eterotopici – nel senso foucaultiano del termine – in cui possono stabilirsi nuove relazioni, sia intime che sociali.

Un’indagine centrata sulle esigenze che fondano l’affabulazione delle scritture di vita, ipotizza Regard, è in grado di propiziare sviluppi interpretativi tanto più articolati se oltre a quelle di Foucault vengono accolte le tesi fondamentali di Lefebvre, il quale ha dato prova di come la «funzione-autore» («the “functio[n]” of the autobiographical author, logically

69

Homi Bhabha fa notare in proposito che: «The move away from the singularities of “class” or “gender” as primary conceptual and organized categories, has resulted in an awareness of the

subject positions – of race, gender, generation, institutional location, geopolitical locale, sexual

orientation – that inhabit any claim to identity in the modern world. What is theoretically innovative, and politically crucial, is the need to think beyond narratives of originary and initial subjectivities and to focus on those moments or processes that are produced in the articulation of

cultural differences» (H.BHABHA, The Location of Culture, Routledge, London-New York 1994, p. 1. Corsivi nel testo). Per ulteriori approfondimenti in materia, cfr. infra, § 2.

70

K. BOARDMAN – G. WOODS, op. cit., p. 3. 71

Il termine, che non ha un esatto corrispettivo nella lingua italiana, si riferisce agli esseri umani intesi come «agents of or actors in their own lives rather than passive subjects of social structures or unconscious transmitters of cultural scripts and models of identity» (S. SMITH – J. WATSON,

Reading Autobiography, cit., p. 54). Circa un’analisi critica del concetto di agency, così come

appare anche in Regard, cfr. le pp. 55-61 del volume qui indicato. Considerazioni analoghe a quelle di Regard sono inoltre reperibili in Boardman e Woods, le quali affermano che «[a]utobiographers or not, subjects are constantly shaping “selves” in relation to context, or location. The process of

locating the self involves – but is not limited to – physically placing the self», per poi aggiungere

poco oltre: «Physical location, then, is significant […] just as important, though perhaps less obvious, is rhetorical location. If we have turned to rhetoric to understand how postmodern subjects are constructed through discourse, even located in discourse, we may also use rhetoric as a way to

find a place from which an autobiographical subject can speak, asserting identity and agency» (K. BOARDMAN – G. WOODS, op. cit., rispettivamente p. 17 e p. 22. Corsivi nel testo.).

72

Cfr. F. REGARD (éd.), Mapping the Self. Space, Identity, Discourse in British Auto/Biography, Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 2003, p. 18.

(18)

called upon to situate himself or herself in pragmatic fashion»)73 sia vincolata alla pratica spaziale, alle rappresentazioni dello spazio, e agli spazi di rappresentazione74.

Dall’adattamento degli strumenti metodologici lefebvriani alla critica autobiografica risulta che:

we can no longer see in autobiography a kind of “Home” for the author’s self, an absolute space in which writing functions as the ontological site of a “revelation”, a birthplace of uniqueness, a monument of self-presence. The process of self-writing would rather consist of aligning the modalities of an “author-function” with the dialectics of Lefebvre’s triad. Autobiographies should then be approached as the fruit of a given societal formation characterized by determined spatial practices through which subjects would be positioned by dissociation or by homogeneity75.

Il potere della narrativizzazione autobiografica, o meglio e ben più correttamente del posizionamento dell’autore all’interno di un discorso che è frutto di una scelta deliberata, è allora il sintomo palese dell’apertura di uno «spazio operazionale in cui il soggetto è prodotto», e da cui possono essere messe in atto potenzialità molteplici e differenziate di alternative e forme di resistenza nei confronti di geografie e sistemi prestabiliti76.

Le osservazioni fin qui condotte dimostrano che perfino il corredo lessicale vigente fa corrispondere allo spazio una locuzione ben integrata nel contesto degli studi sull’autobiografia77, dove i concetti di positionality – usato per designare «how subjects are situated at particular axes through the social relations of differential power»78 – situatedness79 e location sono stati ormai da tempo assimilati come validi supporti ermeneutici da affiancare alle più tradizionali consuetudini analitiche.

73

Ivi, p. 15.

74

In merito alle teorizzazioni di Lefebvre, cfr. cap. 3, § 1.

75

F. REGARD, op. cit., p. 23.

76

Queste sono le conclusioni cui perviene Regard attingendo alle teorie sull’opposizione tra spazio e luogo messe a punto da De Certeau ne L’invention du quotidien. Per un concreto riscontro analitico delle tesi enunciate da Regard si veda, oltre al volume da lui curato, il seguente articolo: F. REGARD, «Autobiography and Geography. A Self-Arranging Question», Reconstruction, 2(3), 2002, reperibile e consultabile al seguente indirizzo web: http://reconstruction.eserver.org/023/ regard.htm.

77

Per una più generale discussione sulla spazializzazione del linguaggio e sul riflesso di tale spazializzazione nella letteratura e nell’arte contemporanea, cfr. G. GENETTE, «Espace et langage», cit.; per un’altrettanto fondamentale ricognizione teorica sull’uso metaforico del linguaggio “spaziale” nel metalinguaggio della cultura, cfr. inoltre J. LOTMAN, La struttura del testo poetico, tr. it. a cura di E. Bazzarelli, Mursia, Milano 1976 [1970].

78

S. SMITH – J. WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 15. Alcune considerazioni preliminari sul concetto di posizionalità sono state già avanzate nel cap. 2, § 1 della presente dissertazione, al quale pertanto rinviamo per eventuali approfondimenti in merito.

79

Si veda in proposito quanto discusso da David Huddard in Postcolonial Theory and

(19)

E non potrebbe essere altrimenti, poiché qualsiasi discussione sulle basi della soggettività umana implica la considerazione di categorie, come appunto quella dello spazio, che abbiamo notato essere preposte alla comprensione della realtà in quanto variabili ineludibili dell’esperienza fenomenica e della percezione intima di tutti gli individui.

Karen Kaplan, che nel suo Questions of Travel ha dato ampia risonanza alla nozione di soggetto situato, spiega:

as postmodern theories of identity have emerged in Euro-American contexts, the politics of placement have become as important as the politics of displacement. In the discipline of geography, debates about the predominance of theories of time and space have produced reassertions of spacialized terms such as «location», «locale», and «place». As cultural studies, feminist theory, and geography borrow and exchange terms and concepts, critiques of such postmodern conditions as flexible accumulation of time-space compression offer new analyses of the ways in which spatial and temporal axes intersect and interact. When a “place on a map” can be seen to be a “place in history” as well, the terms of critical practice have made a significant shift. […] the recent circulation of the term «politics of location» […] depends upon

several contradictory but linked discourses of displacement. The notion of a politics of location

argues that identities are formed through an attachment to a specific site – national, cultural, gender, racial, ethnic, class, sexual, and so on – and that site must be seen to be partial and not a standard or norm80.

A conclusioni simili pervengono anche Smith e Watson, le quali specificano che:

We as subjects are bodies inhabiting space; but more important, we are positioned subjects, in and of place. Emplacement, as the juncture from which self-articulation issues, foregrounds the notions of location and self-position, both concepts that are inescapably spatial. The concept of location emphasizes geographical situatedness; but it is not just geographical site. It includes the national, ethnic, racial, gendered, sexual, social, and life-cycle coordinates in which [life-writers] are embedded by virtue of their experiential histories and from which they speak. Location expands to include what Susan Stanford Friedman [in Mappings. Feminism and the

Cultural Geographies of Encounter, 1998] terms «the geopolitics of identity within differing

communal spaces of being and becoming»81.

Comunque la si voglia interpretare, e qualsiasi sia il suo ambito di applicazione, la dimensione spaziale – e il concetto di posizionalità a essa sotteso – reca dunque con sé una rete capillare di significati ideologicamente e culturalmente connotati, che nell’autobiografia trovano frequenti rispondenze e possono esprimersi attraverso varie combinazioni figurative e testuali82.

80

C. KAPLAN, Questions of Travel. Postmodern Discourses of Displacement, Duke UP, Durham-London 1996, p. 25. Corsivi nel testo.

81

S. SMITH – J. WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 42.

82

Negli esempi che seguono, l’attenzione ricadrà prevalentemente sulle autobiografie prodotte in quest’ultimo scorcio di secolo, che, si è puntualizzato altrove, coincide sintomaticamente non soltanto con il periodo in cui alcuni dei temi e motivi caratterizzanti la scrittura del sé hanno subìto

(20)

Nelle autobiografie regionali americane la singolarità geografica del luogo, còlto nella sua più stretta materialità, viene ad esempio invocata per alimentare e modulare le configurazioni identitarie dello scrivente. Configurazioni che All but the Waltz (1991) di Mary Clearman Blew esibisce stabilendo tra topografia e identità un rapporto di suggestiva complementarietà (in tal senso suonano emblematiche le parole «I am bone-deep in landscape», che danno esplicita conferma del sense of place dell’autrice)83, la cui evoluzione si interseca con gli spazi della diacronia temporale, lungo gli snodi della storia di cinque generazioni cresciute a contatto con i paesaggi naturali e umani del Montana.

Depositarie di ricordi e immagini distillate dai racconti della protagonista e delle persone a lei care, le aspre e selvagge terre di Fergus Country84 rappresentano per Blew un medium paradigmatico di narrazione, al quale quest’ultima si aggrappa per ancorare un’esistenza che sembra affidare la memoria alla localizzazione più che al tempo, come ci induce a pensare, fin dall’inizio, la focalizzazione sul movente spaziale:

In the sagebrush to the north of the mountains in central Montana, where the Judith River deepens its channel and threads a slow, treacherous current between the cutbanks, a cottonwood log house still stands. It is in sight of the highway, about a mile downriver on a gravel road. From where I have turned off and stopped my car on the sunlit shoulder of the highway, I can see the house, a distant and solitary dark interruption of the sagebrush. […] from here the house looks hardly changed from the summer of my earliest memories, the summer before I was three, when I lived in that log house on the lower Judith with my mother and father and grandmother and my grandmother’s boyfriend, Bill85

.

una risemantizzazione alquanto manifesta, ma anche con il momento in cui l’elemento spaziale è stato valorizzato quale strumento costitutivo del discorso letterario. Ciò non toglie, tuttavia, che le riflessioni dei successivi paragrafi abbiano carattere retroattivo e possano attagliarsi, con i dovuti adattamenti (adattamenti che dipenderanno dalle idiosincrasie di ogni singolo autore, dalla considerazione dei diversi orizzonti di attesa del pubblico, del sistema letterario e culturale entro il quale una data opera si inscrive), a testi prodotti in epoche diverse. Così avviene in Regard (cfr.

Mapping the Self, cit., passim), dove le teorie sulla «spazializzazione poetica del sé» vengono

applicate a forme di life writing di varia provenienza e natura: per quanto concerne soprattutto le opere a carattere precipuamente autobiografico, l’attenzione ricade ad esempio su alcune approfondite ricognizioni degli spazi geografici e testuali tracciati, per non dire “attraversati”, da autori quali Thomas De Quincey, John Ruskin, il cardinale John Newman, D.H. Lawrence e Virginia Woolf.

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M. C. BLEW, All But the Waltz. A Memoir of Five Generations in the Life of a Montana Family, Oklahoma UP, Norman 2001 [1991], p. 7.

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Si tratta della regione centrale del Montana, della quale l’autrice ha cura di mettere in rilievo, mediante una carta topografica da lei riprodotta, quei luoghi che costituiscono i nodi focali della narrazione. È agevole constatare che l’inserimento nella carta di dettagli e dati attinti dalla storia personale (e.g. le immagini e le relative posizioni dei ranch posseduti dalla famiglia Blew) inerisce alla natura profondamente interiorizzata del rapporto tra spazio e soggetto.

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M. C. BLEW, op. cit., p. 3. Mentre infatti il tempo scorre come le acque del Judith River, lasciando dietro di sé tracce incerte e frammentarie di ciò che è stato («[t]he past eases away with the current. I cannot watch a single drop of water out of sight», ivi, p. 4), lo spazio funge da valida base memoriale nell’arco dell’intera narrazione.

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