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3. COMMENTO LINGUISTICO

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3. COMMENTO LINGUISTICO

3.1. La

traduzione

drammatica:

riflessioni

traduttologiche

Volgere un testo in un’altra lingua, afferma Umberto Eco, significa fargli dire quasi la stessa cosa rispetto all’originale; ed è proprio in quel «quasi» che si consuma il tanto biasimato “tradimento” del traduttore.

Tale infedeltà, tuttavia, non pervade la totalità del testo, ma è circoscritta in modo puntuale ad alcuni livelli, come risultato di una ponderata strategia; il traduttore, insomma, sceglie cosa perdere e

dove.

Infatti, prima di procedere – dizionario alla mano – alla vera e propria trasposizione del testo, è buona pratica individuarne le specificità (convenzioni di genere, peculiarità strutturali, marche linguistiche ecc.), sulla base delle quali elaborare la propria poetica traduttiva.

La più interessante particolarità del dramma riguarda lo scopo per cui viene scritto: contrariamente ai testi letterari, concepiti per la sola lettura, quello teatrale è destinato alla rappresentazione. Ciò spiega anche alcune anomalie nella sua stessa tessitura linguistica; le descrizioni fisiche dei personaggi, per esempio, non sono mai troppo precise, in quanto è l’attore a fornire loro una voce e un volto. E ancora, spesso i deittici sono privi di un riferimento apparente, perché l’oggetto che indicano viene esplicitato da un gesto. Si può dire, insomma, che la natura del testo drammatico sia “virtuale” e che esso raggiunga la sua piena realizzazione soltanto nella messa in scena.

Nello scrivere un dramma, qualsiasi autore ha in mente la propria rappresentazione, i modi in cui le parole che verga sulla pagina devono o possono essere dette, scandite, accompagnate da mimica e gestualità, riferite a personaggi o a oggetti o a spazi scenici o direttamente (e pur sempre nella finzione) al pubblico; e quindi le parole che scrive recano, per così dire, tale intenzione “inscritta” nel loro corpo1.

1 A. SERPIERI, Tradurre per il teatro, in Manuale di traduzioni dall’inglese, a cura

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Così come un testo letterario ammette infinite interpretazioni, un testo teatrale autorizza infinite rappresentazioni, ognuna delle quali costituisce una sua diversa lettura.

La virtualità teatrale del linguaggio drammaturgico […] non obbligherà registi e attori a una sola attualizzazione scenica, fosse anche quella prescritta esplicitamente, con didascalie o interventi paratestuali, dall’autore […]. E tuttavia è quella virtualità scenica a caricare le parole drammatiche dell’energia che dispone il testo alle varie indefinite messe in scena che da esso si potranno ricavare2.

L’attualizzazione del testo drammatico attraverso la messa in scena consiste sostanzialmente nella combinazione dei segni verbali con stimoli visivi e sonori quali la luce, il movimento e la musica.

Come esempio di tale gioco intersemiotico, nei loro studi sulla traduzione drammatica Serperi e Soncini citano un verso dell’Amleto (II.2.157); qui Polonio riconduce la follia del principe al suo amore per Ofelia e, a sostegno della sua tesi, afferma:

Polonius: Take this from this if this is otherwise.

I primi due «this» sono ostensivi, ovvero servono per mostrare un oggetto, mentre il terzo è anaforico, ovvero richiama quanto detto in precedenza. Il significato di questo verso sarebbe quindi «staccatemi questa» – la testa – «da questo» – il busto –, se questo – ovvero che la pazzia di Amleto è dovuta al suo amore per Ofelia – «è diverso da come dico io».

Dinnanzi a un passo come questo, il traduttore dovrà scegliere se “riempire” i vuoti drammatici o lasciarli inalterati, dimodoché acquistino senso combinati con i gesti dell’attore3. Nel suo studio,

Soncini riporta le versioni scelte da due traduttori italiani. Agostino Lombardo risolve così:

Polonio: Staccatemi la testa dal collo se non è altrimenti.

2 Ibidem.

3 Cfr. ivi, p. 73 e S. SONCINI, Intersemiotic Complexities: Translating the Word

of Drama, in Lexical Complexity: Theoretical Assessment and Translational Perspectives, a cura di M. Bertuccelli Papi, G. Cappelli, S. Masi, Pisa, Plus-Pisa

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Nella versione di Alessandro Serpieri, invece, si legge: Polonio: Spiccate questa da queste se questo è in altro modo.

Come afferma Soncini, la traduzione di Lombardo risulta sì più chiara per il lettore, ma, tradotta sulla scena, potrebbe produrre «semantic redundancy». Serpieri, invece, sceglie una versione più ostica alla lettura, ma che «allows meaning to emerge from the relationship between the interlingual and the intersemiotic dimension»4.

Con le sue scelte traduttive Serperi rispetta, insomma, il potenziale teatrale del testo, la sua performatività, che bisogna distinguere dalla performabilità, ovvero la maggiore o minore adeguatezza di un testo ad essere rappresentato, il suo maggiore o minore grado di rappresentabilità.

Le più recenti riflessioni della traduttologia riguardo alla traduzione del testo drammatico sono concordi nel determinare la necessità, per i traduttori, di essere coscienti della performatività, ovvero del potenziale teatrale del testo, mentre assegnano il compito di ottenerne la più completa performabilità alla collaborazione di questi con i professionisti del teatro, ovvero il regista e gli attori.

If the responsibility for ensuring the performability of the target text may well be placed onto the other mediators involved in the process of intersemiotic transfer – director, actors, set designers, and so on – it is however crucial for translators to be aware of the

performativity which is inscribed in the word of drama5.

Serpieri si colloca sulla stessa linea:

Il testo tradotto deve sempre cercare di rimanere denso ed ellittico come l’originale, anche a costo di risultare a volte ostico alla semplice lettura. I grumi del senso si chiariranno nell’attivazione della parola dentro i codici scenici. Mimare le opacità della scrittura drammatica, che diventano punti di forza sulla scena, significa ri-produrre il sistema del testo originale.

Se, invece, ci si lascia tentare da parafrasi, perifrasi, aggiunte, scioglimenti, per risolvere quelle opacità già sul piano della lettura, si potrà chiarire qualche segmento, ma si infrangerà il sistema e si effettuerà una sottrazione di teatralità6.

4 S. SONCINI, op. cit., p. 273. 5 Ivi, p. 276

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Performatività e performabilità, tuttavia, non sono gli unici fattori da tenere in considerazione quando ci si accinge a tradurre un testo drammatico. Non bisogna dimenticare, infatti, che esso deve sempre presentare un alto grado di adeguatezza, ovvero di fedeltà al testo di partenza, così come il livello più alto possibile di accettabilità, ossia di naturalezza e comprensibilità nella lingua di arrivo. La predominanza di uno o dell’altro, ovviamente è dettata dallo scopo per cui viene realizzata la traduzione: per uno studio accademico la priorità dovrà essere data all’adeguatezza, mentre per una rappresentazione teatrale acquisirà maggiore importanza l’accettabilità.

Tenendo conto dell’alto grado di letterarietà della Trilogía, così come degli scopi accademici che mi muovono, nella traduzione presentata in questo studio ho privilegiato i criteri di adeguatezza e accettabilità, cercando, comunque, di non perdere di vista la performatività del testo in vista di un’eventuale rappresentazione futura in Italia.

Qui di seguito cercherò di mettere in luce le peculiarità dello stile di Cortés, per poi evidenziare le maggiori difficoltà che ho riscontrato nel processo di traduzione e le strategie che ho impiegato per superarle.

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3.2.

La lingua della Trilogía: caratteristiche principali

e difficoltà di traduzione

Considerandola nel suo insieme, la Trilogía si caratterizza, in apparenza, per una generale unità stilistica. Al suo interno, infatti non si registra alcuna variazione diatopica – risulta impossibile determinare se il circo di Contadoras, il palazzo di No amanece e la casa di No es la lluvia siano collocati in Andalusia, nelle Asturie o in Catalogna – né diastratica, in quanto tutti, re e servi, parlano allo stesso modo. Le differenze all’interno della Trilogía, tuttavia, esistono e riguardano la variazione diafasica.

Rispetto alle altre due opere, Contadoras è quella con il registro più basso. Il linguaggio, infatti, presenta molte caratteristiche proprie dell’oralità, come per esempio l’uso di marcatori discorsivi.

LA CONTORSIONISTA RETIRADA: ¿Es que quieres matarlo, mujer? ¡45 garbanzos en el plato del domador de leones! ¡45! ¿Qué pretendes? ¡¿Cuántas veces te he dicho que debes poner 43?! ¡43! Más, lo dejan pesado y menos, no le menguan el hambre7.

L’uso di appellativi come «hombre», «mujer» o «hijo/a», «niño/a» è molto frequente nello spagnolo colloquiale; essi sono solitamente collocati alla fine di una frase e servono per verificare l’attenzione dell’interlocutore o per marcare la fine di un turno di parola. Tale pratica è molto usata anche in inglese – si pensi, per esempio, agli appellativi «man», «dude» o «buddy» che popolano i film americani –, mentre nella nostra lingua appare molto più limitata.

Qui una traduzione letterale risulterebbe innaturale in italiano e inficerebbe la vivacità del dialogo in un’eventuale rappresentazione, perciò nella mia versione la scelta del traducente di tale appellativo è stata motivata dalla sua funzione all’interno della frase.

In questo caso, la Contorsionista sta riprendendo la Moglie perché ha sbagliato a contare i ceci nel piatto del Domatore; la parola «mujer» svolge la funzione di mettere l’accento sul suo errore, quindi ho scelto di tradurla con «idiota»:

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LA CONTORSIONISTA RITIRATA: Vuoi forse ammazzarlo, idiota? 45 ceci nel piatto del domatore di leoni! 45! Cosa intendevi fare? Quante volte ti ho detto che ne devi mettere 43?! 43! Di più gli danno senso di pesantezza e di meno non gli placano la fame.

Altre volte, invece, la Contorsionista usa l’appellativo «mujer» semplicemente per richiamare l’attenzione della Moglie.

LA CONTORSIONISTA RETIRADA: ¿Y tú qué propones, eh? ¿Fundar los sindicatos de los excluidos del circo? ¡Ese número sí que es cómico! Te llamas Angustias, mujer. Aprende a llevar tu nombre8.

Qui la mia scelta è ricaduta sull’espressione «mia cara», che ritengo suoni naturale in italiano, oltre a veicolare il senso di superiorità che trasmettono le parole della Contorsionista.

LA CONTORSIONISTA RITIRATA: E tu cosa proponi, eh? Fondare il sindacato degli esclusi dal circo? Questo numero sì che è comico! Ti chiami Angoscia, mia cara. Impara a portare il tuo nome.

In questa battuta è da segnalare anche l’uso dell’interiezione di rimprovero «eh», che contribuisce alla riproduzione del linguaggio parlato.

L’uso di questo tipo di espedienti è limitato alla sola Contorsionista, mentre il linguaggio della Moglie non presenta differenze dalla varietà standard.

È appannaggio esclusivo della Contorsionista anche il turpiloquio, la cui presenza distingue Contadoras dagli altri drammi che compongono la Trilogía.

Oltre a termini volgari come «carajo», «mierda», «malnacido», «follar» e «cachondo», nel testo si registra anche l’uso della bestemmia.

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LA CONTORSIONISTA RETIRADA: ¡Cago en Dios, de mí no se ríe nadie!9.

E ancora:

LA CONTORSIONISTA RETIRADA: ¡Cago en la Virgen, eso sí que no te lo consiento!10.

Il turpiloquio, si sa, costituisce sempre una difficoltà nella traduzione, non per mancanza di una corrispondenza semantica dell’espressione volgare nella lingua di partenza e in quella di arrivo, ma per ragioni di “tolleranza linguistica”. Tale tolleranza dipende non da fattori interni alla lingua stessa, ma da ragioni culturali. L’imprecazione alla divinità, per esempio, risulta meno stigmatizzata socialmente in spagnolo – mi riferisco ovviamente alla varietà europea, mentre in quella latinoamericana accade il contrario – che in italiano; infatti, nelle traduzioni dallo spagnolo all’italiano il turpiloquio passa spesso per un processo di attenuazione, che ha lo scopo di renderlo più accettabile nella cultura di arrivo.

In questo caso, tuttavia, ho deciso di anteporre il criterio di adeguatezza a quello di accettabilità, in quanto ritengo che la bestemmia risponda a una precisa scelta stilistica dell’autore, che la usa per marcare linguisticamente l’aggressività della Contorsionista, contrapponendola alla purezza, anche linguistica, della Moglie. Perciò, ho scelto di tradurre letteralmente con le espressioni italiane «Porco Dio/ Porca Madonna».

Un’altra difficoltà che ho riscontrato nel tradurre Contadoras è rappresentata dal titolo.

La trasposizione letterale, Contatrici di ceci, sarebbe risultata cacofonica per la fitta presenza di c- e i-; tuttavia il termine «contatrici» mi è stato utile per arrivare alla versione definitiva Le

contaceci. Il dizionario, infatti, riporta che esso può riferirsi sia a una

persona che a una macchina – si pensi, per esempio alle «macchine contasoldi»; ho pensato, quindi, che la parola composta «contaceci» avrebbe suggerito bene il concetto, palpabile in Contadoras, della donna ridotta al rango di oggetto, di congegno senza diritti né desideri, a cui è dato soltanto di compiacere il suo uomo e la sua famiglia.

Di segno opposto rispetto a Contadoras sono, invece, le peculiarità linguistiche di No amanece en Génova; se lì, infatti, la

9 Ivi, p. 28 10 Ivi, p. 53.

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variazione diafasica tende verso il basso, qui il registro si eleva notevolmente, tingendosi di lirismo.

Innanzitutto, in questo testo si registra la presenza di termini squisitamente letterari – come «corcel», «rostro», «ocaso» e «bruma» – di cultismi – si veda, per esempio, la parola «hirsuto» – e arcaismi, quali «retar», «trémulo» e «claudicar».

Inoltre, è frequente l’impiego di figure retoriche. Si veda, per esempio, questa metafora utilizzata dall’Infausta:

LA INFAUSTA: Parece que tus labios nunca hubiesen conocido el mar. Sus comisuras son deltas donde escarmienta la ortiga. Esta boca ya solo puede maldecir o insultar. Tan sólo puede escupir11.

In quest’altra battuta, sempre pronunciata dall’Infausta, troviamo anche una sineddoche, in cui «acero» sta per «puñal».

LA INFAUSTA: Desahoga mis ataduras y no tendré que buscar a nadie. Dos descargas de acero me bastarán para acabar con el tirano y un cobarde12.

Un altro aspetto che rivela lo scarto stilistico di No amanece en

Génova rispetto alla lingua standard è l’uso “creativo” che, al suo

interno, Cortés fa del lessico. Nel dramma, infatti, si registrano diverse parole inventate dall’autore.

[La punta presiona levemente la garganta y una gota de sangre real

se acuarela en la hoja. Al fin los yunques se rebelan hoy pretenden ser martillo]13.

In questa didascalia, per esempio, compare il verbo – inesistente in spagnolo – «acuarelarse», derivato dal sostantivo «acuarela», che indica un tipo particolare di colore.

L’immagine, molto suggestiva e poetica, è quella di una goccia di sangue caduta sulla lama di un pugnale, la cui consistenza è simile a quella di un acquarello. Con la tecnica cinematografica che, come ho spiegato in precedenza, caratterizza le didascalie della Trilogía, lo sguardo di Cortés “inquadra” prima la punta del pugnale e poi, in

11 R. CORTÉS MENA, Trilogía del desaliento, cit., p. 99. 12 Ivi, p. 88.

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soggettiva, la goccia, che in questo modo sembra materializzarsi da sola sulla lama, come se questa fosse una tela.

In questo caso, tuttavia, l’italiano offre un traducente perfetto, rappresentato dal verbo «acquarellare».

[La punta preme leggermente sulla gola e un’autentica goccia di sangue

acquarella la lama.

Finalmente le incudini insorgono oggi esigono di essere martello]

Altre volte, invece, non solo la struttura dell’italiano non offre nessun supporto al traduttore, ma il termine di partenza risulta anche ostico alla comprensione. Si veda, per esempio, la didascalia con cui Cortés introduce il personaggio del Poeta:

[¿Quién es ese que llega?

Malaflor trae en la mitad de la cara, en la otra mitad trae sorpresa. Y entrambas un callejón sin salida: corrales de tristeza]14.

La frase che segue la domanda viene divisa da una virgola in due parti, che presentano una struttura speculare; per analogia con il secondo complemento oggetto retto dal verbo «traer», ho pensato che il termine «malaflor» potesse indicare uno stato d’animo. Tuttavia, le emozioni per cui una persona può essere scura in volto sono molte – dolore, tristezza, rabbia ecc. –, e il contesto non offriva nessun appiglio per restringere il campo semantico. Di conseguenza ho chiesto delucidazioni all’autore, che in un’email chiarisce:

«Malaflor» es una especie de giro creativo del lenguaje. En España, o al menos en el sur, se dice que alguien tiene «buenaflor» cuando le ha sonreído la providencia, otorgándole buena fortuna o un carácter destacado por su inteligencia, disposición o carisma. «Malaflor», que yo escribo junto libremente, se refiere a una especie de mal destino que se puede leer en su sola presencia... es una licencia poética, construida a partir del mal (mala) y flor (de planta, sí, pero que aquí toma la connotación de sino).

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Più che a uno stato d’animo, quindi, «malaflor» si riferisce a un cattivo presagio leggibile sul volto del Poeta.

Nella mia versione ho cercato, in italiano, una parola composta con il prefisso mala– indicante un cattivo presagio; inizialmente ho pensato a «malagrazia», in quanto poteva richiamare l’opposizione «buena/malaflor» dell’originale; tuttavia, alla fine ho optato per una parola inventata da me, «malaombra», in quanto ritengo che il riferimento all’oscurità veicoli meglio il significato di presagio, integrandosi anche bene nella logica della simbologia attribuita alla coppia luce/buio all’interno della Trilogía.

Seppure in misura minore che in No amanece en Génova, anche il linguaggio di No es la lluvia può essere definito poetico. Si veda, per esempio, questa sorta di preghiera pronunciata da Roma, in cui Cortés impiega diversi espedienti retorici tipici della poesia:

Repite la lluvia su fanatismo. Repite la gotera en el cubo. Repite el horizonte cautivo. Repite el suspiro.

Y las manos agarrotadas. Repite el nudo en la garganta. Y los tirones de pelo.

Repite el hastío. Repite la ira. Repite el calvario

Repite, repite, repite y me asfixio15.

Scritto in versi, il passo si configura come una vera e propria litania, costruita sullo schema logico della ripetizione; oltre all’anafora del verbo «repite», infatti, si segnala la replica di suoni – frequente è l’allitterazione di «r» – e dell’anastrofe di soggetto e verbo. Il ricorso sistematico alla ripetizione riflette, a livello linguistico, la circolarità del tempo, che in No es la lluvia rimanda simbolicamente alla staticità dell’esistenza umana.

Ma è l’utilizzo delle figure di pensiero che avvicina il linguaggio del dramma alla poesia, come è possibile osservare in questo frammento:

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ROMA: […] Estás anocheciendo con un velo de rencor la calma de mis cosas. Las ideas que antes eran jardín, ahora son sumidero. Ayer tocaba las palmas la misma fe que hoy dobla las campanas16.

L’immagine si articola in tre parti, a cui corrispondono altrettante metafore. In ognuna di queste si può notare un progressivo restringimento del campo visivo – si parte dal cielo per poi passare alla terra e arrivare fino al particolare delle campane e delle mani; la più poetica, a mio parere, è la prima, in cui il rancore del Vecchio avvolge la calma di Roma come l’oscurità fa con la Terra al calar della notte.

Da segnalare, inoltre, l’uso transitivo del verbo «anochecer», poco frequente in spagnolo e definito dal DRAE come un andalusismo17; ugualmente significativo è il particolare – riconducibile al folclore andaluso – della fede che «toca las palmas», espressione usata nell’ambito della musica flamenca per indicare coloro che tengono il ritmo con le mani.

L’inserimento di elementi legati all’Andalusia, terra natale dell’autore, va di pari passo con la presenza, piuttosto fitta in No es

la lluvia, di termini appartenenti al lessico familiare, che

contribuiscono all’abbassamento del registro.

Così come in Contadoras l’uso del turpiloquio è limitato alla sola Contorsionista, in questo dramma è solo il Vecchio a utilizzare termini ed espressioni familiari e colloquiali, che spesso si riferiscono a parti del corpo – si riferisce alla sua pancia con il termine «buche» e alla gola con quello di «gañote» – o al cibo – per tranquillizzare Roma e distoglierla dal suo «tejemaneje», infatti, le offre del «vino peleón».

La funzione di queste espressioni è caratterizzare il Vecchio come un essere tellurico, che si contrappone alla natura eterea di Roma, a cui è perfettamente applicabile il detto spagnolo «tener pájaros en la cabeza».

Un altro aspetto interessante del linguaggio di No es la lluvia è rappresentato dai proverbi; luogo privilegiato della saggezza popolare, spesso legata a credenze di tipo magico-esoterico, nel dramma essi sono curiosamente esclusivo appannaggio del Vecchio,

16 Ivi, p. 121.

17 cfr. REAL ACADEMIA ESPAÑOLA, Diccionario de la lengua española (DRAE),

Diccionario de la lengua española (DRAE), 22a ed., 2001, fonte elettronica

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personaggio che rappresenta la razionalità, contrapposta all’emotività di cui invece è portatrice Roma.

In realtà, quelli che appaiono nel dramma non sono veri e propri proverbi, ma delle rielaborazioni – giocando con il nome di Roma, infatti, il Vecchio dice: «puede que todos los caminos lleven a Roma, pero no siempre las puertas de Roma están abiertas»18 – o semplicemente espressioni dal vago tono gnomico, come per esempio «cordón umbilical que no se corta a tiempo, estrangula»19. Le maggiori difficoltà che ho riscontrato nella traduzione di No

es la lluvia riguardano, appunto, queste espressioni di tipo

colloquiale, gnomico e familiare.

Quando Roma gli dice di aver scoperto un’altra crepa nel soffitto, per esempio, il Vecchio grida «¡No mientes ruina!», espressione con cui si proibisce a qualcuno di nominare una disgrazia, secondo la convinzione che ciò possa poi propiziarne la realizzazione. Invece di una traduzione letterale, che pure sarebbe risultata comprensibile al lettore italiano, per la mia versione ho scelto un’espressione proverbiale, «Non fare l’uccellaccio del malaugurio».

Più complicato, invece, è stato il processo che mi ha portato alla traduzione di questa didascalia:

[¿Otra fantasía?

Esto es cosa de brujas. Avisa a un alzacuello y que prepare la ordalía]20.

La parola «alzacuello» si riferisce al collarino bianco dell’abito talare che qui sta a indicare, per metonimia, il prete. Come traducente per questo termine, il dizionario offre solamente il vocabolo «collarina»; tuttavia, a mio parere, l’espressione risultante «avvisa una collarina», avrebbe potuto confondere il lettore, non attivando immediatamente l’associazione con la figura di un sacerdote, così ho scelto il termine «tonaca».

18 R. CORTÉS MENA, Trilogía del desaliento, cit., p. 140. 19 Ivi, p. 121.

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[Un’altra fantasia? Questa è roba da streghe. Avvisa una tonaca e che prepari l’ordalia]

Dagli esempi qui riportati emerge l’estrema ricchezza dello stile di Cortés, che riesce a riprodurre con sicurezza tutti i registri, creando una lingua che non solo presenta una finissima qualità letteraria, ma che è anche dotata di una fortissima teatralità; una lingua capace, insomma, di prendere vita sulla scena.

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