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Informare il paziente ambulatoriale come strumento di accoglienza Roma, 12 Giugno a cura di Michela Siciliano E3

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“Informare il paziente ambulatoriale come strumento di accoglienza”

Roma, 12 Giugno 2014 - a cura di Michela Siciliano E3

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Questo il titolo del corso di formazione, tenuto dalla dott.ssa Elisabetta Atzori e da me, per gli infermieri che si occupano dell’accettazione, dell’informazione e dell’accoglienza dei pazienti del San Filippo Neri, del quale resoconterò.

Il Servizio Prevenzione e Protezione Rischi (SPPR) ha avviato una collaborazione con lo SGAA per cercare di trattare le criticità e le possibili linee di sviluppo legati al rapporto tra operatori e pazienti.

Questa collaborazione fa parte di un più ampio progetto finalizzato a migliorare il clima organizzativo, a partire dall’ipotesi che gli operatori sanitari sperimentano vissuti di disagio rispetto alle modalità di relazione con i pazienti. Ciò, ancor di più, per quanto riguarda i pazienti “ambulatoriali”.

Nell’ambulatorio il paziente si muove liberamente e si vive come cliente di un servizio in cui la componente essenziale è ricevere informazioni e, in base a esse, l’utente si orienta, trova una collocazione e attribuisce senso a quello che fa.

Il problema della relazione con i pazienti ambulatoriali spesso si crea perché il personale da per scontata l’assunzione della posizione di paziente nell’utenza: gli utenti non si sentono pazienti, ne per certi versi hanno possibilità di esserlo, perché privi di contenimento e dell’orientamento in cui mette lo stato di ricovero in Ospedale.

Il risultato è un conflitto relazionale tra personale percepito dall’utenza come maleducato e gli operatori che percepiscono gli utenti come troppo pretenziosi.

Dal confronto diretto con gli operatori (anche attraverso l’attività di tirocinio svolta allo SGAA insieme con la collega Cristina Viola), è emerso il desiderio di formarsi per ripensare al rapporto tra la domanda di accoglienza e le modalità di risposta dell’organizzazione ospedaliera.

Si tratta di risaltare il ruolo del front office negli ambulatori, in quanto molto complesso e ad elevato rischio psicosociale, del quale si occupano spesso gli infermieri che sperimentano vissuti di incompetenza e svalutazione del proprio ruolo infermieristico, soprattutto entro un sistema organizzativo in cui la cultura tende a supportare questi vissuti, privilegiando l’azione tecnica-sanitaria a scapito di quella informativa-relazionale.

Su queste premesse, abbiamo pensato di proporre un progetto finalizzato a formare il personale a questa funzione, ossia informare, accogliere e orientare i pazienti ambulatoriali, rendere in grado gli operatori di cogliere l’importanza di intercettare attivamente la domanda dei pazienti.

Il progetto di formazione è stato pensato in due edizioni di tre giornate ciascuna (totale sei) e coinvolge gli operatori appartenenti ai diversi contesti di reparto o poliambulatori, che si occupano dell’accoglienza dei pazienti. Ha un accreditamento ECM, e possono partecipare fino a un massimo di 25 persone a edizione.

E’ organizzato così:

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Prima Giornata

- Nella prima parte della giornata ci si presenta. Chi siamo noi, da dove veniamo, il contesto di riferimento, il lavoro fatto con SGAA, si parla del progetto agli operatori con la stessa funzione in altri contesti. Chi sono loro, da dove vengono, che cosa si aspettano da questo corso. Si cerca di esaminare la domanda formativa che ha determinato la proposta del corso, a partire dalla loro difficoltà di farsi carico degli aspetti problematici della relazione con gli utenti e ancorandosi più agli aspetti tecnico sanitari. 


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- Nella seconda parte della giornata si lavora sulle rappresentazioni dell’informazione, con l’ipotesi che il contesto sanitario ti dice che devi dare informazioni, devi comunicare, devi accogliere, ma non ti chiede per esempio una verifica. Si cerca di capire quali sono le rappresentazioni che loro hanno della loro professione e dei pazienti che si rivolgono al loro servizio.

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Seconda Giornata

- Il lavoro si apre con la suddivisione degli operatori in piccoli gruppi, per una riflessione sul proprio percorso professionale. Si lavora su: motivare la scelta professionale, la storia lavorativa, i momenti di passaggio e la funzione attualmente svolta.

Diverse ipotesi sono sottese a questa parte della giornata:

• ripercorrere il percorso lavorativo degli operatori, condividendolo/elaborandolo;

• trattare le differenze, ossia riflettere sui vissuti legati al passaggio dell’infermiere dal reparto, all’impossibilità di fare i turni per motivi personali fisici, familiari o di rapporti di colleganza, al ricollocamento in altri contesti come, ad esempio, l’ufficio informazioni del poliambulatorio; riflettere sui percorsi formativi (gli infermieri diplomati, quelli con la licenza media, quelli laureati, ecc.);

• ipotesi del trauma, cioè persone che ad un certo punto della loro vita, a causa di un problema personale, si avvalgono di un diritto che magari comporta un profondo cambiamento dello status lavorativo che non viene affrontato a livello emotivo (pensiamo anche alla legge 104 e a chi rivendica tale diritto, magari pretendendo violentemente in quanto disabile);

• l’informazione come promozione di un servizio, tenendo a mente che chi ha scelto di stare in un contesto informativo è diverso da chi ci è stato mandato/ricollocato.

- Nella seconda parte trattiamo le questioni emerse dai piccoli gruppi con un ancoraggio sia allo sviluppo storico dell’assistenza nella professione infermieristica, sia all’importanza dell’informazione come competenza.

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Terza Giornata

- si entra nello specifico della relazione operatore paziente attraverso l’invito dei partecipanti a raccontare casi lavorativi critici o emblematici che hanno generato soddisfazione nei pazienti o conflittualità e incomprensioni nel rapporto. L’intento è quello di rappresentare i casi attraverso un Role Playing (d’ora in poi sarà RP);

- nella seconda parte vengono trattare le modalità relazionali che i partecipanti hanno avuto modo di sperimentare, si cercherà di formare gli operatori su una lettura emozionale della relazione, sull’importanza dell’identità professionale e sui limiti con cui dobbiamo necessariamente avere a che fare per sviluppare competenza.

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Non è stato semplice organizzare questo progetto. Con la tutor abbiamo incontrato più volte i coordinatori infermieristici cercando di lavorare sulla loro domanda formativa, con l’obiettivo di renderli partecipi di un processo a partire da che cosa ne pensano del progetto, delle ipotesi fatte.

I coordinatori sembrano contenti di questa iniziativa ed esprimono gratitudine rispetto a un lavoro che coinvolge i loro operatori. Sentono la possibilità, che attraverso il corso, si possano dotare di strumenti per essere in grado di mantenere i rapporti con l’utenza. Ci aspettiamo che i committenti arrivino da diverse strutture: Radioterapia, Senologia, Ambulatorio Oncologico, Day Hospital oncologico, Preospedalizzazione, Poliambulatorio Sant’Andrea, Ufficio Informazioni SGAA e Radiologia.

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La tutor era inizialmente preoccupata che non si presentasse nessuno, io invece ho l’impressione che il lavoro fatto fino a quel momento era stato impeccabile ed mi sento felice di stare nel processo. Sento che ho a mente tutto, due anni di tirocinio al San Filippo, l’intervento allo SGAA, le riunioni con la dirigenza, gli incontri al Cedro, i seminari al Santa Maria della Pietà. Le facce che diventano familiari, gli operatori che mi riconoscono, sento più forte l’appartenenza. E vivo questo corso di formazione come un altro importante tassello che si aggiunge alla mia esperienza di tirocinio al SFN, che mi sta facendo diventare ricca.

Non mi aspettavo tutto questo, ma sulle aspettative vorrei tornarci dopo, prima mi interessa raccontarvi come sono andate queste giornate.

Le aspettative dell’Atzori vengono chiaramente disattese, arrivano tante iscrizioni ed anche telefonate a SPPR da reparti non coinvolti, i cui coordinatori, incuriositi dalle locandine, chiedono di poter partecipare.

Mi rendo conto che, per una questione di sintesi, devo operare una scelta. Mi accingerò a parlare di due aspetti che mi hanno colpito: i due RP e la differenza tra i due gruppi.

Il primo gruppo ha messo in scena un RP violentissimo, il secondo invece è stato molto aggressivo e violento sin dalla presentazione, ma il RP proposto l’ho trovato calzante, emozionante, coinvolgente.

E’ molto interessante questa cosa perché il RP del primo gruppo l’ha proposto Rodolfo, l’infermiere aggressivo e arrogante dell’ufficio informazioni di SGAA, mentre il RP del secondo gruppo lo porta l’operatrice meno aggressiva del gruppo, ripensando a un’esperienza di tanto tempo fa, che le ha lasciato il segno.

Il secondo gruppo si presenta in maniera aggressiva: parlano tutti insieme, si lamentano, se la prendono con l’Ospedale, coi dirigenti, coi pazienti, con tutti. Il mio vissuto è quello di profonda rabbia. Elisabetta Atzori assume un atteggiamento più autoritario per cercare di contenerli.

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Role Playing primo gruppo

Il RP del primo gruppo, come ho detto, viene proposto da Rodolfo, il quale comincia ad elencare tutti i tipi di utenza che arrivano all’Ufficio informazioni, tutte le domande, le persone che non rispettano la fila, che invadono l’ufficio, la privacy. Per non parlare degli esenti, che li devi accompagnare e devono saltare la fila allo sportello del Cup, coi cuppisti che ti guardano in cagnesco.

Insomma viene descritta una situazione profondamente caotica dalla quale, a detta di Rodolfo, non se ne esce.

Prepariamo il RP secondo la sua idea di come si svolge una giornata tipo allo SGAA.

Ci sono:

- un infermiere al computer;

- un infermiere rivolto all’utenza;

- un utente che deve ritirare le analisi;

- un’esente (interpretato da Rodolfo);

- un utente che chiede informazioni;

- una donna in gravidanza;

- un utente aggressivo;

- un utente disorientato.

Nemmeno il tempo di cominciare, con gli utenti già disposti in fila sull’uscio dell’Ufficio Informazioni, le due operatrici tentano subito di farsi carico della fila, cercando di organizzarla. Una delle due si alza dalla scrivania ed esce fuori a dire “Allora chi deve solo ritirare le analisi si metta di qua vicino al mio sportello!”.

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Ma Rodolfo le dice: “Seeee non è così!” e comincia a spostare gli utenti, a spingerli ad entrare dentro la stanza, a parlare tutti quanti insieme. Anche la seconda operatrice si alza e cerca di dare una mano uscendo fuori dalla stanza, ma la situazione è davvero divertente quanto paradossale. L’utente disorientato viene rappresentato come un matto. Una persona che ogni due secondi ripete “dov’è il mio letto?”, gira su se stesso, si siede e accavalla i piedi sulla scrivania. Un matto. Rodolfo non è riuscito a calarsi nella parte dell’utente esente, ma è stato su un ruolo reale, cioè ha organizzato il RP come se fosse la realtà. Sembrava avere una grossa difficoltà a stare sul compito e il desiderio di comunicare agli altri come secondo lui funziona realmente quel contesto.

L’unica risposta più adeguata sembrava essere la richiesta del ritiro analisi e forse anche dell’utente che chiede informazioni (dico forse perché era proprio l’utente perfetto, quello competente). Tutto il resto una “caciara".

Sono rimasta basita da questa rappresentazione, cercavo di intercettare episodi di questo tipo nei ricordi della mia esperienza lì, allo SGAA, soprattutto se avevo mai visto un utente disorientato/matto. Rappresentare una persona disorientata come un matto equivale a dire che lo posso mettere da parte, che non lo tratto, annulla le competenze ad entrare in rapporto.

La situazione non mi è mai sembrata così grave, e Rodolfo in qualche modo sembra aver manipolato il gruppo, come a volerci dire: le cose stanno così! Non c’è niente da fare.

Gli abbiamo chiesto: “Ma secondo voi è sempre così?”. Non è stato semplice farli ammettere che è rara una situazione del genere, ma dal momento che è stato possibile dircelo, abbiamo potuto riflettere sulle rappresentazioni dell’utenza, su come ce la immaginiamo, su come ce la viviamo.

Siamo partite dalle “cose belle” di questo RP, dai tentativi portati dalle operatrici per cercare di mettere ordine, attraverso le loro competenze relazionali, a una situazione che andava via via degenerandosi. Il “Mi alzo per andare da loro” viene fatto fuori non solo dai tentativi di Rodolfo di farle stare li sedute sulla sedia, ma anche dalle leggi sulla privacy per esempio (le operatrici chiedono “lo posso fare?”).

Cerchiamo di riflettere sull’identità professionale. Se è più chiara, più tutelata, ci sentiamo meno a disagio e più competenti ad intercettare la domanda, a cimentarci in un rapporto, senza stare a domandarsi se posso accompagnare o meno un utente in un posto. Pensiamo che uno strumento utile sia anche avere a mente chi sei, che cosa fai, e per chi.

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Role Playing secondo gruppo

Come già accennato, l’infermiera del DH oncologico, Monica, porta un caso che vorrebbe trattare. Ci parla di un’esperienza con una paziente, moglie di un collega, che incontra in Accettazione. La signora è accompagnata dal marito, ma è evidentemente arrabbiata con lui, rifiuta di ricevere tutte le attenzioni che lui le sta dando, e tratta malissimo l’infermiera, rispondendole male e prendendola a parolacce.

L’infermiera, dopo aver notato la dinamica, invita il marito ad uscire dalla stanza, terminata l’Accettazione, le due si avviano alla Somministrazione.

Nella sala Somministrazione c’è una poltrona dove viene fatta accomodare la signora per la somministrazione della chemioterapia. Non è proprio una poltrona per rilassarsi, la signora si siede ma continua ad inveire contro l’infermiera, le chiede “Che merda mi devi mettere?”,

“Io non lo voglio quel farmaco rosso!”. L’infermiera sente che non ne può più, che forse con quella paziente non riesce a trovare un contatto emotivo, allora le dice: “Mi scusi, ma io in queste condizioni mi rifiuto di somministrarle la terapia, adesso chiamo un mio collega che mi

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sostituisce!”. La signora a quel punto accetta la terapia e si apre a un colloquio con l’infermiera, dove le racconterà la sua storia e i suoi stati d’animo.

Nel rappresentarlo ci sono:

- un infermiere;

- la paziente (interpretata da Monica);

- il marito della paziente e anche infermiere del DH oncologico.

Dopo la rappresentazione il vissuto dell’infermiere è di rabbia e impotenza rispetto all’aiuto che tenta di dare alla paziente.

La paziente non le manda a dire, parla in modo provocatorio, vuole suscitare una reazione.

L’infermiere sembra non stare su questa dinamica, anzi accoglie lo stato emotivo della paziente, anche se si sente impotente. La situazione di provocazione/rifiuto della donna cambia quando l’infermiere si rifiuta di somministrarle la terapia, richiamando la sua identità professionale e restituendo in qualche modo alla donna la possibilità di scelta, che fino a quel momento forse non sentiva di poter avere.

E’ stato molto interessante riflettere anche sul caso come rapporto di consulenza, e provare a immaginare che l’infermiere è un consulente capace anche di dare senso alle domande, non solo a livello di contenuto, ma anche a livello implicito, emozionale.

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Penso a questi due gruppi che mi hanno dato davvero tanto, mi hanno fatto rendere conto del senso della difficoltà di stare sulle emozioni e parlare di tanti fatti, mi ha dato la possibilità di sorprendermi, e passare da un mio iniziale vissuto di incompetenza a sentire che non è così se mi trovo a fare il mio lavoro, se mi occupo dell’altro, piuttosto che fare la segretaria alla Kledi dance.

Mi hanno fatto divertire e pensare, invece, ai gruppi muti, quelli che non parlano, quelli pieni di silenzi, quelli che non resocontano e penso: “Come si fa a lavorare con un gruppo muto?! A che cosa ti puoi agganciare?”, deve essere davvero difficile.

Manca davvero poco alla fine di questo tirocinio, un mese. Non mi aspettavo di essere trattata come una collega, non mi aspettavo che ciò che avevo in mente poteva interessare alla mia tutor, forse mi aspettavo di stare sullo sfondo.

Ci siamo lasciati, con questo progetto di formazione, con la possibilità di sviluppare la committenza attraverso interventi nei contesti specifici dove ognuno di loro si trova ad operare. Accettano tutti volentieri questa proposta, si sentono accolti e sentono che qualcuno si sta occupando anche di loro, non solo dei pazienti. Anche le psicologhe che lavorano nel DH Oncologico tramite un’associazione hanno chiesto di incontrarci.

Sento aprirsi altre possibilità, sto ricevendo tanto e spero di essere stata in grado di dare qualcosa anch’io.

Sono partita per andare verso il SFN con una machina d’epoca, un mezzo rottame, ma con delle potenzialità nascoste. Me ne torno con quella stessa macchina, ma con un motore nuovo. Certo, non è finita, mancano ancora da sistemare gli interni, la carrozzeria, gli specchietti retrovisori, ma per questo c’è il mio prossimo tirocinio!

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Michela Siciliano

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