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SATIRA IV a messer Giustiniano Nelli

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SATIRA IV

a messer Giustiniano Nelli

La satira, come la I destinata al padre adottivo Giustiniano, è tutta costruita sulla

figura retorica della preterizione: lamentandosi di dover forzatamente essere un

“uccel di gabbia”, vale a dire «pasciuto acciò ch’egli taccia», l’autore elenca uno

dopo l’altro, con stile arguto e mordace, gli episodi e i casi di cui avrebbe potuto

scrivere se solo avesse potuto.

S’io avessi ’l spirto di Pietro Aretino, del Bernia o d’un di questi semidei

che rompon tutto ’l dì il culo a Pasquino1,

verrei a star per quatro mesi o sei

costì a Piombin, per cavarmi la rabbia, 5

per dir de’ fatti d’altri e far de’ miei2.

Può fare ’l Ciel che la Fortuna m’abbia per ch’io non canti ingabbiato a cantare, e sia contrario a ogn’altro ucel di gabbia?

Si sogliono a contanti conparare 10 le scotte e i corvi, non ad altro effetto,

se no che in gabbia imparino a parlare. E quel corvo ingabiato è più perfetto

ch’è più loquace o, bene o mal che soglia,

gracchiar un nome dalla fame astretto. 15 Se tace, tosto il signor se ne spoglia,

ma se sia linguacciuto, ognun lo brama, né del suo dir mordace è chi si doglia.

1 L’autore riprende il verso d’apertura di un sonetto del Berni (cfr. Al cardinale

Ippolito de’ Medici, v. 1: «S’i’ avessi l’ingegno del Burchiello») per enunciare il

proprio programma satirico; a quello dell’Aretino e del Berni, s’aggiunge, inoltre, il nome di Pasquino, attribuito in età rinascimentale al torso marmoreo a cui venivano affisse le cosiddette pasquinate (componimenti satirici in versi o in prosa che esprimevano il malcontento del popolo romano sul malcostume ecclesiastico).

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Anzi, tal or che più spidito chiama

“becco” e “puttana” i suoi padroni in faccia, 20 è nodrito del cibo che più ama.

Et io che (grazie a questa naturaccia) cinguetterei quant’altro barbagianni, son in gabbia pasciuto acciò ch’io taccia.

Or, se l’Aretin fosse ne’ miei panni, 25 o io ne’ suoi, vorrei venirvi appresso

per cantarvi ’l Vangel di san Giovanni. E se volete ch’io vi dica espresso

quel ch’io direi, rendetevi pur certo

che non mal né di voi né di me stesso. 30

Non direi d’un’abbate bene merto3

che fa i monachi suoi morir di fame per che ’l fratel tenga ’l fondaco aperto, né che fin a i facchin bascia ’l forame:

paga ’l Mattana per tener in bando 35 quei che san la sua vita e le sue trame;

e in tanto è tolta, non pur va mancando, la limosina a’ poveri di Cristo, e delle messe il rito venerando,

per che per mille spirienze ho visto 40 non far mai casa a tre palchi i nepoti

che de’ ben della chierca han fatto acquisto. Già gl’antichi buoni uomini e divoti

lasciavan ricche le chiese e i conventi

per mantenervi i casti sacerdoti, 45 per dar l’avanzo alle povere genti,

ma non già perché, tolto uso sì pio, un prelato ne ingrassi i suoi parenti. Ma non vedeste mai né voi né io

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arrivar quel guadagno al terzo erede, 50 però di ciò non saria il parlar mio.

Pur senza ch’io ne parli, oggi si vede l’ombra del campanil far grande tale che alto più su che ’l campanil non crede,

tal pur ieri era quasi all’ospedale 55 che in virtù di quell’ombra oggi sperona

mule e giannetti4 di stalla reale.

Or, conchiudendo, assai se ne ragiona

senza me in corte, e sa trovarne ’l guado

se ben la corte vostra è bella e buona; 60 e stimate un uom degno di quel grado

che sa tener la via de’ gran prelati:

spogliar Cristo, e vestire ’l parentado5.

Pur domandando a questi tali abbati

perché vendono i calici e la croce, 65 perché lascian morir di fame i frati,

vi risponderan tutti ad una voce: - La santità del Papa n’è cagione, l’avarizia de’ preti a’ frati nuoce:

Sua Santità mette ogn’anno un taglione, 70 decime e annate, e altre gravezze strane,

e fa pel Turco gran provisione - . Non vi diranno: - Io vendo le campane per far mercante e ricco un mio fratello

che già pativa carestia del pane - . 75 Non vi vorrei travagliare ’l cervello

(s’io costì fosse) del costume santo

che ’l mondo vuol tornar più che mai bello. Voi altri dotti sempre fate ’l pianto

4 Il giannetto (o ginnetto) è il cavallo di razza spagnola, agile e snello.

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all’età di Saturno e della moglie, 80

e affermate che d’oro aveva ’l manto6.

Or, io, cercando ove un dotto raccoglie quella felicità di tempi, trovo

ch’alor potea ciascun trarsi le voglie,

che, sendo nato il mondo allor di nuovo, 85 gl’uomini andavan dietro a un viver lieti

né cercavan veder busche nell’uovo: non eran leggi, cannoni, decreti,

clementine, statuti o decretali,

scomuniche e interdetti, arme da preti; 90 non Bartoli, non Baldi o questi tali

venuti con paragrafi e con chiose a torbidar l’acqua chiara a’ mortali, ma potean quelle genti avventurose

senza tema d’infamia o di censura 95 amare, e trarsi le voglie amorose.

E perché il dover vuol, vol la natura che più s’ami chi è più parente stretto, e di colui si debbia aver più cura,

in quell’etade, in quel viver perfetto, 100 era virtù l’amar fratel sorella,

non pur d’ogn’altro grado oggi interdetto. Venne l’età d’argento, e doppo quella

il rame, e poi questo tempo sciapito,

quest’età che di ferro ha la gonnella, 105 nel qual si mostra come un boia a dito

un che seguendo quell’usanza antica sazia con le parenti ogni appitito, quando merta che ognun lo benedica

6 Allusione all’età dell’oro, durante la quale l’umanità non aveva ancora corrotto

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perch’egli ama ’l suo sangue e li compiace, 110 senza incorrer pericoli o fatica.

Però s’io ben conosco un che si ghiace con la cognata, e che stanno in riposo tre in carne, una in caritade e in pace,

nol direi che un amor tanto succhioso 115 chiama due mila miglia di lontano

quel secol d’oro santo e glorioso. E niun ch’abbia la mente e ’l cervel sano dovria biasmar sì intera fratellanza,

raro essempio d’amor, vero e cristiano. 120 Ben hanno tolta su tal dolce usanza

quei nostri in Siena, ove a comune entrata

abitan più fratelli in una stanza7.

Non direi ch’una donna maritata

in cortigiani il capo sì gl’adorna 125 che si scorge assai men la Montumiata,

perché un buon cortigian non teme corna anzi, si pavoneggia e n’ha favore, oltra che util non poco gliene torna:

or al papa, ora a Cesare oratore, 130 va per tal mezzo, per tal mezzo è fatto

nobile e ricco, e soccio del signore8.

Né direi del miracol contrafatto di molti vostri che, per maneggiarsi

con la lupa, son ricchi sì in un tratto. 135 Non vi direi che sogliono vantarsi

tanto quissi cupidi dello Regno

di quel che mai non fer, n’é mai per farsi, con quel parlar cacascio ogn’ora pregno,

7 Riferimento non meglio specificato a un’usanza senese.

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con quei sospir d’un vecchio ch’abbia l’asma, 140 da far crepar di risa un uom di legno.

Quisso che chilla traditora spasma9,

quello fa il Giorgio10, un altro lo sdegnoso,

a coda ritta come la fantasma11.

E che più? Fin quel goffo che ’l francioso 145

s’ha comprato a gl’Orbachi12 ha chi lo prega

(udendo lui) che faccia l’amoroso. La saria ben come le gatte in frega quella ch’avesse sì strani appititi

o ch’a sì sciocca gente gl’occhi piega. 150 Ma, di grazia, sicurinsi i mariti,

ché in ciò si mostra quei trarsi le voglie, come i furbi, all’odor de’ lor conviti: se (come soglion dir) godon la moglie

di questo e di quell’altro gentilomo, 155 ond’esce il mal francioso con le doglie?

Il papa fa scoprir le bolle al Duomo, Francia non già, peroché Borgo franco e san Martin grideriano a corr’uomo.

Ma, per seguire, io non vi direi anco 160 che questi bravi a’ conventi fan guerra

per dar di ponta e di taglio al pan bianco. Né vi direi che in questa vostra terra

son cagion venti al più giovani o trenta

che la giustizia e due miglia sotterra. 165 Io temo (e voglia il Ciel pur ch’io ne menta)

che Dio, ch’or dorme o a maggior cosa è intento,

9 «Quisso» e « chilla» riproducono forme dialettali napoletane che l’autore usa

per meglio rappresentare il personaggio introdotto, che di quella particolare area geografica viene considerato tipicamente originario.

10 Fare il Giorgio vale “comportarsi in modo arrogante e prepotente”.

11 Cfr. Boccaccio, Decameron, X 10; ma anche Aretino, Ragionamento.

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con mal di tutti un dì non si risenta. L’ira sua ben procede a passo lento,

non sempre paga il sabbato13, ma poi 170

la tardezza compassa col tormento. Questo perché mi spiace, e so che a voi spiace non meno, io nol direi, più tosto vo’ tacer che dir cosa che v’annoi.

Non direi quel che disse l’Ariosto 175 che il dormir co’ poeti sia periglio,

e tener lor le schiene troppo accosto14,

che Cassio mio mi turberia il ciglio

e direbbe ch’io ho ’l dir troppo arrogante,

come fosse in lui sol quel peccadiglio: 180 di grazia, messer Cassio mio galante,

non crediate ch’a Parma sol si giostri con sopraveste l’adietro davante,

ché, non pur gl’uomin dotti a’ tempi nostri,

ma in Siena fino a’ vil pizzicaroli 185 seguano ’l stil de’ parmegiani vostri,

(ho fallito) volea dir “ciraioli”.

Né son passati ancor sei giorni, ch’uno morse per troppo amar gl’altrui figliuoli,

e se bene il morir duole a ciascuno, 190 non molto dolse a lui, non fe’ querele

già ch’el morir fu al vivere opportuno.

L’ape desia finir suoi dì nel mele15,

nel buco il grillo, sotto l’onde il pesce,

la pulce in sen di donna empia e crudele, 195

13 Il proverbio popolare veneto Dio no paga al sabo, cioè “Dio non paga al

sabato”, vuol dire che Dio non paga a fine settimana, come erano, invece, abituati a fare i padroni con i loro dipendenti.

14 Cfr. Ariosto, Satire VI, vv. 31-33.

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al calabrone il morir meno incresce se nel sterco li vien l’ultima sera ove sol gode, si nodrica e cresce. Così non diè parer gran fatto fiera

la morte, uscendo a un ceraiolo il fiato 200 nella propria bottega, e nella cera.

Credo ch’el caso a voi fosse narrato tosto che voi foste arrivato a Siena, e so ch’anco a Piombino è divolgato,

però non vel direi, basta che piena- 205 mente visse e morì nella sua arte

et ebbe i degni frutti alla sua cena. Or, volendo pur dirvi in qualche parte quel ch’io direi, direi cose da spasso,

senza notar gl’altrui difetti in carte. 210 Se pur avessi a trar quel rider grasso

de’ denti al signor nostro per tal via,

noterei ’l maggior domo babbuasso16:

direi che tien in Piombin ostaria

per terza mano, e perch’abbia gran corso 215 a viva fame i cortigiani invia.

Com’escon di tinello hanno ’l soccorso di suoi segreti agenti che a minuto

vendono a chi ne vuol razzese17 o corso,

così il vino che in corte hanno bevuto, 220

acqua tinta, cercone18 o muffo, trova

per l’anima de’ soldi qualche aiuto. Ma il dir mal non mi piace e non mi giova, però direi del venerabil piombo

mostrando che può star con l’oro a prova. 225

16 Babbuasso vale “sciocco”.

17 Il razzese è un vino genovese.

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Celebrerei le treglie, i polpi e il rombo,

le murene, le rauste e le sardelle19,

già ch’io non gusto quaglia né colombo. Informerei ’l signor talvolta delle

negromanzie di Damiano e prove 230

che Pier d’Abano20 mai non fe’ più belle,

col pulirsi una calza, co’ rare e nuove ispirienze, a questa donna e a quella fa grattar gl’occhi ove lor prude altrove.

Non so s’avete udito che il Gonella 235 sapea quest’arte, e rompea con un cenno

più d’un boccale e più d’una scodella. Ma l’opre sue comparar non si denno a queste, egli col trarsi la berretta

facea far le pazzie, questo dà l’ senno. 240 Che s’a caso pulisse la brachetta

come la calza, e fosse alla presenza di donne, gratterian con tanta fretta gl’occhi, che forse rimarrebber senza.

19 Allusione ad alcuni capitoli di lode paradossale scritti dal Berni (cfr.

soprattutto il Capitolo de’ ghiozzi o il Capitolo dell’anguille).

20 Pietro d’Abano, professore di medicina all’università di Padova, fu spesso

sottoposto a persecuzioni per sospetti di eresia, che gli procurarono, infine, una definitiva condanna.

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