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NOIA E VIE DI FUGA

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60 Capitolo II

NOIA E VIE DI FUGA

Oh se fossimo i nostri avi primevi.

un grumo di muco in una palude calda.

Vita e morte, fecondazione e parto verrebbero dai nostri muti umori.

Fossimo un'alga, fossimo una duna, che il vento forma, greve verso il basso.

Già una testa di libellula, un'ala di gabbiano sarebbe troppo e già troppo soffrire.

G. Benn

1. Premessa

Nel capitolo precedente abbiamo già avuto occasione di anticipare alcuni degli aspetti più decisivi della riflessione leopardiana sulla noia. In particolare, abbiamo visto come quella tra noia e felicità sia la vera opposizione attorno a cui ruota tutto il pensiero leopardiano

1

. Si tratta ora di chiarire meglio in che cosa consista questa dicotomia fondamentale e di spiegare in che modo essa implichi una risemantizzazione e una redistribuzione di alcuni dei termini che siamo abituati a pensare come opposti irriducibili, in particolare il piacere e il dolore, la vita e la morte

2

. Staccati dal loro usuale sfondo assiologico e inscritti nell’orizzonte etico

3

1 Per la centralità di quest’opposizione cfr. anche L. DERLA, La teoria del piacere nella formazione del pensiero di Leopardi, cit. Questa antitesi ci sembra ancora più fondamentale di quella tra «natura» e «ragione» da cui muoveva la ricostruzione, pur decisiva e di estrema importanza per il presente lavoro, di Luporini in Leopardi progressivo. A differenza dell’opposizione tra natura e ragione, quella tra noia e piacere è un’opposizione veramente irriducibile, assoluta e quasi metafisica.

2 C. LUPORINI, Introduzione al pensiero politico di Giacomo Leopardi, in Il pensiero storico e politico di Leopardi, Atti del VI Convegno Internazionale di Studi Leopardiani (Recanati, 9-11 settembre 1984), Olschki, Firenze 1989, pp. 15-25, osserva come il discorso leopardiano sulla noia implichi un andare «oltre *<+ i contenuti semantici comuni» (ivi, p. 17).

3 Usiamo il termine “etica” in contrapposizione a “morale”, per indicare un sistema non di valori ma di pratiche che scaturiscono dalla considerazione di ciò che è “buono” o “cattivo”

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61 dischiuso dalla teoria del piacere, questi termini acquistano una nuova collocazione, che svuota di significato la loro stessa opposizione. È solo tenendo ferma l’antitesi fondamentale tra noia e felicità che è possibile comprendere davvero il pensiero leopardiano e sciogliere quelle contraddizioni che parrebbero segnarlo irrimediabilmente: prima tra tutte quella tra desiderio di vita e desiderio di morte, tra una tendenza “vitalista” e una “nichilista”.

Dalla mia teoria del piacere – scrive Leopardi – risulta che *<+ non conviene alla felicità possibile dell’uomo se non che uno stato o di piena vita, o di piena morte. O conviene ch’egli e le sue facoltà dell’animo sieno occupate da un torpore, da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate *<+

dall’attività, dall’energia della vita, dall’entusiasmo, da illusioni forti, e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il desiderio vivo, l’amor proprio ardente, senza nessun’attività, nessun pascolo alla vita e all’entusiasmo.

Questo però è lo stato più comune degli uomini4.

Per l’uomo, e forse più in generale per ogni essere vivente, non esiste secondo Leopardi «felicità possibile» al di fuori di questa radicale alternativa tra uno stato di «piena vita» e uno di «piena morte»: o la vita deve essere accelerata e quasi portata alla velocità assoluta, oppure deve essere rallentata, fino alla stasi e all’immobilità. Si tratta, in un caso, di mantenere il desiderio in continuo movimento, nell’altro, di favorire il suo assopimento. Perseguire la felicità, l’unica possibile, vuol dire o intensificare la vita, nell’«efficacia» e

in relazione alla vita stessa (cfr. G. DELEUZE, De la différence de l’éthique avec une morale, in Id., Spinoza philosophie pratique, Minuit, Paris 1981, pp. 27-43).

4 Zib. 1585, 29 agosto 1821 (corsivi nostri). Cfr. anche Zib. 4185-6, 13 luglio 1826: «Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita *<+ e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello *<+ degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione *<+; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra».

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62 nella «copia delle sensazioni» e delle azioni, o attenuarla progressivamente, per raggiungere l’insensibilità

5

. Ogni stato intermedio tra questi due opposti – tra l’intensità massima e l’intensità minima della vita o del desiderio – è necessariamente infelice, vale a dire pieno di noia, perché noia è appunto «il desiderio vivo, l’amor proprio ardente, senza nessun’attività, nessun pascolo alla vita e all’entusiasmo». La noia, in altre parole, è il desiderio di felicità lasciato puro, né spinto al grado massimo della sua intensità e quasi colmato nella pienezza di vita, né ridotto al suo grado minimo, nel torpore e nell’indifferenza. In Leopardi, è la noia, e non il dolore, ad essere l’opposto, l’esatto contrario della felicità, vale a dire del piacere inteso nel suo senso più pieno e più proprio

6

. All’amore della vita e all’odio della morte si sostituiscono, come tendenze originarie e connaturate in ogni essere vivente, l’amore del piacere e l’«odio della noia»

7

.

2. Fisica e metafisica della noia

2.1. Il desiderio di felicità lasciato puro

Sin dalle prime pagine dello Zibaldone, la riflessione sulla noia viene introdotta come un “corollario” della teoria del piacere o, più precisamente, come l’esplicitazione di un suo risvolto rimasto ancora sullo sfondo:

La noia non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell’uomo al piacere sotto qualunque forma, la noia, quest’affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto aborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l’uomo dovrebbe sentirsi male, quando non ha male nessuno? *<+ Non per altro se non per un desiderio

5 Più in generale, per l’alternativa tra questi due estremi rimando a P. GODANI, Estasi e divenire. Per un’estetica delle vie di scampo, Mimesis, Milano 2001.

6 Cfr. in partic. Zib. 140-41, 27 giugno 1820.

7 Sull’odio della noia, rovescio necessario dell’amore del piacere, e sulle varie passioni che nascono come sue modificazioni cfr. in partic. Zib. 2434, 8 maggio 1822.

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ingenito e compagno inseparabile dell’esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato8.

La noia non è che un grado d’intensità del desiderio, una sua estrema manifestazione. Come Leopardi arriverà a precisare meglio alcuni anni più tardi, «filosoficamente parlando» la noia non è altro che il «desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva»

9

. Si tratta di una definizione filosofica generale su cui Leopardi ritornerà più volte, non solo nello Zibaldone ma anche nelle Operette morali, offrendone almeno due possibili declinazioni, che potremmo definire l’una “fisica” e l’altra

“metafisica”.

È bene chiarire subito che, parlando di fisica e di metafisica della noia, non intendiamo qui individuare due diversi tipi di noia, l’uno più superficiale e l’altro più profondo

10

, ma più semplicemente connotare due possibili descrizioni o esemplificazioni (che stanno entrambe sullo stesso piano) di uno stesso fenomeno a cui corrisponde un’unica definizione filosofica generale. Se la prima descrizione è tutta incentrata attorno al parallelo o all’omologia tra il mondo fisico e quello psichico, tra la materia e il pensiero (o, si potrebbe dire anche, tra lo spazio e il tempo), la seconda descrizione considera invece questo stesso fenomeno da un punto di vista più propriamente metafisico, e cioè esclusivamente in relazione con il problema del rapporto tra finito e infinito

11

. Entrambe queste descrizioni della noia possono essere rintracciate a partire dal Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare.

8 Zib. 174-5, 18-23 luglio 1820 (corsivo nostro).

9 Zib. 3879, 13 novembre 1823.

10 Il riferimento implicito qui è alle analisi di M. HEIDEGGER, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 105-220, che individua tre possibili tipi o livelli o stadi della noia. Per una lettura in chiave “heideggeriana”

della noia in Leopardi rimandiamo a R. GARAVENTA, La noia. Esperienza del male metafisico o patologia dell'età del nichilismo?, Bulzoni, Roma 1997.

11 N. JONARD, Leopardi et le sentiment de l’ennui au XVIII siècle, in Leopardi e il Settecento, Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962), Olschki, Firenze 1964, pp. 367-385, aveva distinto, all’interno della riflessione leopardiana sulla noia, un côté «métaphysique», che Leopardi deriverebbe da Pascal, e un côté che preferisce chiamare «phychologique», riconducibile al sensismo di Condillac. Tuttavia, secondo Jonard, l’aspetto più distintivo e originale della riflessione leopardiana sulla noia consisterebbe nell’aver saputo dare «un prolongement métaphysique à l’explication sensualiste» (ivi., p. 372).

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64 2.2. La noia, o dell’impossibilità del vuoto

Lo spunto per la composizione di questo Dialogo è venuto quasi certamente dal Messaggiero di Torquato Tasso. La situazione, i personaggi sono esattamente gli stessi e al centro della scena troviamo ancora il poeta rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna che dialoga col suo genio, o meglio con se stesso. Nell’operetta leopardiana, tuttavia, si accentua la componente allucinatoria e l’atmosfera da magica si fa decisamente onirica. A uno sfondo filosofico di matrice platonica e neoplatonica se ne sostituisce uno di tipo sensista, in cui trovano conferma i punti essenziali della teoria del piacere. Le tre domande fondamentali, poste dal genio, che scandiscono le varie fasi del dialogo sono: che cos’è il vero? che cos’è il piacere? che cos’è la noia? Ma il Tasso leopardiano, poco portato alle speculazioni astratte, risponde di fatto solo all’ultima domanda, ritenendo di avere, almeno sulla noia, qualche esperienza

12

:

A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e un altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E *<+

l’esser vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia, la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto13.

Anche la noia quindi è, cartesianamente, una «passione» e, più precisamente, una passione di riempimento, che «corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere»

14

. Come nel mondo fisico non si dà spazio esteso che non sia occupato da qualcosa (sia corpo o aria), così nella nostra vita, vale a dire per tutta la durata della nostra «esistenza sentita»

15

, non si dà intervallo

12 Cfr. Zib. 141, 27 giugno 1820.

13 Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (TPP, p. 531).

14 Zib. 3714, 17 ottobre 1823. Sul progetto leopardiano di scrivere, tra gli altri, un Trattato delle passioni che includesse anche la noia si veda anche F. CACCIAPUTI, introduzione all’edizione tematica dello Zibaldone, vol. I, Donzelli, Roma 1997. Sulla noia come passione insiste in particolare A. Prete, Il deserto e il fiore, Donzelli, Roma 2004, p. 75-6.

15 Zib. 2494, 24 giugno 1822.

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65 di tempo che non sia occupato da qualche «passione». La noia, in questo senso, ha la stessa natura dell’aria e diventa come una prova, sul piano del pensiero, dell’impossibilità del vuoto

16

: nella nostra mente, «il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà *<+ come non si dava in natura secondo gli antichi»

17

. La noia non è altro che un’increspatura che si produce immancabilmente sulla superficie del pensiero non appena la mente rimane disoccupata, vuota di qualsivoglia altra passione. Per questo, l’uomo preferisce sentire piuttosto che non sentire affatto, «e talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazione di sensazioni»

18

. Noia è infatti sentire di non sentire. In questo senso, essa è «la più sterile delle passioni umane», la «più contraria e lontana alla natura»

19

e la ripugnanza che l’uomo prova naturalmente verso questo stato d’animo – ripugnanza che lo spinge talvolta a cercare riposo o sollievo persino nel dolore

20

– può essere paragonata all’horror vacui, a «quell’orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali»

21

non meno incomprensibili dell’andare spontaneamente incontro ai dolori.

16 Leopardi si era occupato della questione fisica del vuoto nella dissertazione giovanile Sopra l’estensione (TPP, pp. 691-3), dove tuttavia non aveva espresso un’esplicita presa di posizione al riguardo. Nell’edizione delle Operette morali da lui curata (Guida, Napoli 1977, p.

161), C. GALIMBERTI nota come quest’assimilazione tra la natura della noia e quella dell’aria in relazione al problema del vuoto possa essere stata in qualche modo suggerita a Leopardi dal Messaggiero tassiano, dove si legge appunto dell’«inimicizia» tra vuoto e natura:

quest’ultima, «temendo di perire, chiama il più delle volte in suo soccorso l’aria, corpo pronto e leggiero che per tutto è atto a penetrare e a mescolarsi, e d’esso si riempe» (T. TASSO, Dialoghi, a cura di G. Baffetti, 2 voll., Rizzoli, Milano 1998, vol. I, p. 334).

17 Zib. 3714.

18 Zib. 4061, 5 aprile 1824.

19 Si veda rispettivamente Zib. 1815, 30 settembre 1821, e Zib. 2220, 3 dicembre 1821.

20 Cfr. Zib. 239, 12-14 settembre 1820: «Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente il popolo agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di piacevole in se *<+ ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita».

21 Zib. 175 (corsivo nostro). Ma cfr. anche Zib. 2600, 7 agosto 1822. Lo stesso KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., §§ 60-61, aveva definito la noia come un «vuoto di percezioni» che «avvertito come tale desta orrore (horror vacui) ed è come il presentimento di una lunga morte». Le pagine dell’Antropologia dedicate alla noia contengono in effetti numerose osservazioni che si rivelano assai prossime a quelle leopardiane, lasciando per lo meno presupporre l’esistenza di una fonte comune.

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66 La noia è quindi una prova dell’impossibilità per l’uomo di smettere di sentire (o, cosa che per Leopardi è in sostanza lo stesso, di smettere di pensare), dal momento che il non sentire né piacere né dolore è ancora un sentire. Ma perché questo sentire di non sentire è una pena da cui l’uomo cerca di fuggire in tutti i modi, arrivando a preferirle persino il dolore? Il fatto è che, secondo Leopardi, «ogni atto libero della mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo un desiderio attuale, perché tutti cotali atti e pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall’uomo in quel punto è desiderato»

22

. Il desiderio è, come il pensiero, un’operazione continua e inseparabile dalla vita stessa. Ciò vuol dire che l’impossibilità di smettere di sentire è, al tempo stesso, un’impossibilità di smettere di desiderare, e che

“sentire di non sentire” vuol dire fare esperienza del desiderio allo stato puro:

Or che vuol dire che il vivente, sempre che non goda nè soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’e’ non può mai fare ch’e’ non desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando non è nè soddisfatto, nè direttamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione23.

In quanto prova l’impossibilità del vuoto, la noia è dunque, al tempo stesso, «una prova della perpetua continuità»

24

del desiderio. Se l’uomo non sopporta di non sentire né piacere né dolore è perché in ogni istante della sua vita, cioè della sua esistenza sentita, desidera ininterrottamente il piacere o la felicità

25

. Ecco dunque un primo senso in cui la noia si presenta come il

22 Zib. 3843, 6 novembre 1823. Il corsivo è nostro: nel prossimo capitolo vedremo meglio in che cosa consista o come possa darsi, secondo Leopardi, un «atto di pensiero» indipendente dalla volontà (e quindi dal desiderio) e quali conseguenze ciò implichi.

23 Zib. 3714-15 (corsivo mio).

24 Ibid.

25 Forse è per questo che «l’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla» (Zib. 1988, 26 ottobre 1821). Sulla noia come unica eccezione alla forza del tempo e dell’assuefazione, vera e proprio “potenza naturale” che tutto risana, cfr. M. CAESAR, Leopardi e l’organizzazione del tempo come tema nello Zibaldone, in Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati-Portorecanati, 14-19 settembre 1998), Olschki, Firenze 2001, vol. II, pp. 665-71.

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67 desiderio della felicità lasciato puro: “puro” vuol dire in questo caso vuoto, o meglio, disoccupato, cioè temporaneamente sganciato da un fine o da oggetto determinato da perseguire o da fuggire, ma non per questo meno proteso verso la ricerca astratta del piacere o della felicità. Da questo punto di vista, la noia diventa anche la prova del carattere astratto del desiderio, cioè della sua indipendenza e antecedenza rispetto a ogni oggetto che possa venire a iscriversi nel suo orizzonte.

Tuttavia, questo perfetto parallelismo tra mondo fisico e mondo psichico, fondato sulla negazione del vuoto, sembra conoscere, già nelle parole del Tasso leopardiano, una decisiva limitazione:

E però come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione26.

È da sottolineare la distinzione, messa qui implicitamente in campo, tra

«mente» e «uso del pensiero», dove quest’ultima espressione diventa quasi sinonimo di “coscienza”. Per Leopardi sembra esistere un’attività o uno stato della mente libero da un certo esercizio del pensiero e in cui il principio dell’horror vacui appare come invalidato o sospeso: «Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e’ non s’accorge di vivere»

27

. La noia appare dunque legata a certo un «uso del pensiero» che può essere talvolta anche sospeso o interrotto, come accade ad esempio nel sonno profondo, nel letargo, negli stati di ebbrezza o in quelli di rêverie. Tutti questi stati non conoscono la noia, perché in essi l’attività della mente è come riportata al di qua della soglia del pensiero cosciente e della volontà. Ma di questi stati di

«distrazione», in cui l’attività della mente non appare più illuminata dalla coscienza, parleremo meglio più avanti

28

. Torniamo per il momento alla definizione della noia nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare.

26 Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (TPP, p. 531, corsivo nostro).

27 Zib. 3622, 7 ottobre 1823 (corsivo nostro).

28 Cfr. infra, cap. III, § 3.1.

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68 2.3. La noia, o della vacuità di tutti i piaceri

Alla definizione del Tasso, fa seguito, come per completarla o per approfondirla, quella del genio:

E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli;

tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere e non offeso apertamente dal dispiacere. Il quale desiderio

*<+ non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicchè la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune a tutti gli uomini29.

Spingendo un po’ più oltre l’analogia tra noia e aria, Leopardi opera un decisivo spostamento nell’ordine dei problemi dal piano fisico a quello metafisico. Come l’aria occupa non solo gli spazi vuoti tra un corpo e l’altro, ma anche i vuoti contenuti in ciascuno di loro, così la noia si insinua non solo in tutti gli intervalli della vita umana interposti tra i piaceri e i dispiaceri, ma pervade il piacere stesso. La noia diventa quindi non solo una prova dell’impossibilità del vuoto o della «perpetua continuità» del desiderio, ma anche dell’inconsistenza di tutti i piaceri, di tutti i diletti chiamati a colmarlo.

L’insinuarsi della noia viene colto ora non nel tempo, ma nell’istante stesso del piacere, la cui “vacuità” continua tuttavia ad essere pensata in analogia con il mondo fisico e, più in particolare, con la «porosità dei corpi»

30

. Al pari

29 Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (TPP, p. 531, corsivo nostro).

30 Nella dissertazione filosofica Sopra l’estensione, cit., Leopardi si era occupato, oltre che del problema del vuoto, anche delle varie proprietà dei corpi estesi, tra cui appunto la loro

«impenetrabilità, e penetrabilità», dovuta al loro grado maggiore o minore di porosità:

«moltissimi esperimenti dimostrano, che in ciascun corpo si ritrovano siffatti pori, e che per conseguenza tutti i corpi sono penetrabili» in una certa misura. Nella pagina successiva Leopardi cita un passo di Brissons in cui si descrive la penetrabilità di un pezzo di zucchero o di una pietra da parte dell’acqua assimilandoli a una spugna che «riceve, e ritiene una gran quantità d’acqua» che «va a posarsi ne’ vuoti che si trovano fra le parti della spugna» (TPP, pp. 691-3). Per le fonti della dissertazione leopardiana Sopra l’estensione, rimandiamo, oltre che alle note di T. CRIVELLI all’edizione delle Dissertazioni filosofiche da lei curata (Editrice

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69 delle ragnatele, i piaceri umani sono composti da una materia «tenuissima, radissima e trasparente»; per questo la noia li penetra facilmente da ogni parte

31

. Come una spugna immersa nell’acqua, ogni piacere, una volta raggiunto, è subito immancabilmente imbevuto di noia, perché nessuno dei piaceri possibili, che noi possiamo provare, sarà mai all’altezza di quello atteso o immaginato. In questo senso, come si legge nello Zibaldone, talvolta la noia «è maggiore nell’atto e nel punto medesimo del piacere» perché

«maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch’è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere *<+, dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch’è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare»

32

. Nel momento stesso del piacere, quando il desiderio, reso più vivo, non è tuttavia più soddisfatto che d’ordinario, l’uomo può fare esperienza della sproporzione tra il proprio desiderio di un piacere infinito e ogni possibile appagamento. Nel momento del piacere, o meglio del soddisfacimento, quando il desiderio non è più distratto dal suo oggetto e un nuovo oggetto non è ancora subentrato al precedente – in questo momento di sospensione, in cui il desiderio rimane per così dire “vuoto”, senza oggetto – noi possiamo sentire il desiderio allo stato puro, possiamo cioè fare esperienza del suo carattere sempre debordante, sempre eccedente rispetto a ogni possibile appagamento.

Nelle parole del genio, la definizione filosofica generale della noia come desiderio puro di felicità acquista quindi una portata più propriamente metafisica. Noia è sentire il desiderio allo stato puro, è cioè fare esperienza, nell’istante stesso del piacere, della sproporzione tra il desiderio e ogni possibile soddisfacimento, dello scarto incolmabile tra l’infinità del desiderio e la finitezza di ciò che esiste. Per questo, paradossalmente, il piacere può essere provato solo da chi non lo cerca espressamente: «In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e

Antenore, Padova 1995), anche a G. POLIZZI, «…per le forze eterne della materia». Natura e scienza in Giacomo Leopardi, cit., pp. 124-9.

31 Quest’immagine delle ragnatele va ad aggiungersi alla serie delle altre immagini, tutte estremamente materiali e concrete, con cui a Leopardi piace rappresentare i piaceri umani: si pensi ad esempio all’immagine del «carciofo» di cui, prima di arrivare alla

«castagna», bisogna « rodere e trangugiare tutte le foglie» (Detti memorabili di Filippo Ottonieri, capitolo II, TPP, p. 558) o a quella dell’«arena tra le mani» (Frammento sul suicidio, TPP, p. 614).

32 Zib. 3876-7, 13 novembre 1823.

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70 spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi altro fine che il piacere stesso»

33

. Se i bambini sono più capaci di provare piacere, è appunto perché sono ancora distratti da questa intenzione.

La noia sembra presentarsi, da questo punto di vista, come un fenomeno esclusivamente umano, del tutto sconosciuto agli altri animali

34

. Solo l’uomo infatti aspira a un piacere infinito, impossibile da realizzare, che gli fa sentire di volta in volta lo scarto tra il piacere atteso e quello reale: «Dico che l’uomo è sempre in stato di pena perchè sempre desidera invano *<+.

Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch’ella è continua, e l’uomo vi è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l’osserva, e non se ne avvede espressamente, ma non è però men vera.

Quando l’uomo se ne avvede, e ch’ella sia diversa da’ positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha il nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi»

35

. Quale che sia il nome che le si voglia assegnare, la noia sembra essere, come dice il genio, «destino comune di tutti gli uomini», in ogni luogo e in ogni tempo, perché inscritto in quella peculiarità antropologica che è il combinarsi di desiderio e immaginazione, che trasforma il desiderio illimitato di piacere in desiderio di un piacere infinito. Nella Storia del genere umano, dove si passano in rassegna tutti i possibili espedienti messi in opera da Giove per salvare gli uomini dalla noia, non si parla mai, non a caso, degli animali: la loro felicità appartiene a un prima che è fuori dalla storia umana

36

.

33 Zib. 4266, 31 marzo 1827 (corsivo nostro).

34 Cfr. in partic. Zib. 2221, 3 dicembre 1821.

35 Zib. 3876, 13 novembre 1823.

36 In questa operetta, la caduta è da sempre già avvenuta, la noia segna sin da subito la storia del genere umano non in ragione di una colpa commessa ma di un’imperfezione antropologica o strutturale. È questa, al di là di tutte le possibili analogie messe giustamente in luce da N. JONARD, Leopardi et le sentiment de l’ennui, cit., la differenza più decisiva tra la concezione leopardiana e quella pascaliana della noia. Per Pascal la noia ha un significato marcatamente teologico, in quanto è il risultato di un “peccato” di conoscenza, il segno di un distacco dell’uomo da Dio, e se l’uomo, a differenza dell’animale, può provare la noia è in quanto è memore di una condizione originaria ormai perduta. Per Leopardi la condizione da cui la noia ci separa non è la prossimità a Dio, ma la pienezza di vita propria dell’animale. Ne segue un’attitudine completamente diversa nei confronti del «divertimento» con il quale l’uomo cerca di fuggire la noia: se in Pascal (come in Heidegger) il divertimento è ciò che ci separa da noi stessi, in Leopardi, per il quale non c’è nessuna autenticità da ritrovare, esso va perseguito in tutti i modi (cfr. ad es. Zib. 4187-8, 13 luglio 1826). Per la concezione pascaliana

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71 2.4. Una noia a due dimensioni

Abbiamo visto come la noia non sia altro per Leopardi che un’estrema manifestazione del desiderio, prova al tempo stesso del suo carattere inestinguibile (descrizione fisica) e debordante rispetto a ogni possibile soddisfacimento (descrizione metafisica). Al pari del desiderio, la noia sembra allora presentare in Leopardi come due dimensioni, l’una temporale, l’altra spaziale, l’una relativa alla durata, l’altra all’estensione

37

. Se nelle parole del Tasso leopardiano o in alcuni passi dello Zibaldone

38

la noia appare soprattutto legata allo scorrere del tempo, al vuoto di sensazioni o alla mancanza di occupazioni, nelle parole del genio, ma più ancora nel Pensiero LXVIII, la noia appare piuttosto connessa alla piccolezza degli oggetti rispetto all’estensione smisurata del desiderio di piacere. Noia in questo pensiero vuol dire

non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, nè, per così dire, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa di mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo, e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siffatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto39.

La noia, inizialmente definita come «la più sterile delle passioni umane», diventa ora «il più sublime dei sentimenti umani», proprio in quanto estrema, irriducibile e più potente manifestazione del desiderio – di un desiderio che, avendo per oggetto l’infinito, si rivela sempre debordante, sempre eccedente non solo rispetto ai limiti del reale, ma anche rispetto ai limiti di ogni immaginazione possibile. In questo senso, nel carattere ricorsivo

della noia cfr. in partic. i pensieri 131, 139, 164, 171, 264, 355 (PASCAL, Pensieri, Mondadori, Milano 1994; la numerazione è quella dell’edizione Brunschvicg).

37 Questa duplice dimensione della noia leopardiana è stata messa in evidenza da M.

BISCUSO, Leopardi, Kant e il paralogismo del sublime, «Quaderni materialisti», 2, 2004, pp. 123- 54.

38 Cfr. in partic. Zib. 174-77 (12-23 luglio 1820); 2219-21 (3 dicembre 1821); 3713-15 (17 ottobre 1823).

39 Pensieri (TPP, p. 640).

(13)

72 della sua dinamica che si ripete ogni volta a un livello sempre superiore, la noia si presenta come «passione del regresso all’infinito»

40

. Anche in questo essa ha a che fare con il sublime, più precisamente con l’esperienza del sublime così come l’abbiamo descritta alla fine del capitolo precedente. Lungi dal rappresentare l’eclissi del desiderio, la noia si rivela essere la massima espressione del suo carattere vitale e inestinguibile: noia non è assenza, ma eccesso di desiderio

41

.

Per questo, non ci sembra poi così strano o paradossale se in Leopardi la noia possa alla fine presentare una certa affinità con la passione della gelosia

40 Così P. VIRNO, E così via all’infinito, cit., pp. 69-73, definisce appunto la noia. Essa per Virno coincide con il regresso all’infinito, non è che la «proiezione sul piano emotivo» di questa struttura logica fondamentale. Detto altrimenti, ciò che ci annoia non è «il regresso a cui è sottoposta l’una o l’altra esperienza determinata, ma la nuda esperienza del regresso» (ivi, p. 71), esperienza in cui una successione, ripetendosi sempre uguale a se stessa ma a un livello che si fa sempre più astratto e complesso, manca il proprio scopo esattamente nel momento in cui sembrava sul punto di raggiungerlo.

41 In questo senso nella noia così come viene concepita da Leopardi sembra permanere un tratto essenziale dell’acedia e della melancolia, che nelle trattazioni medievali e rinascimentali si presentavano appunto come la manifestazione di un eccesso di desiderio, o del suo essere rivolto verso un oggetto inattingibile. Oltre allo studio di KLIBANSKY, PANOFSKY e SAXL, Saturn and Melancholy, London 1964 (tr. it.: Saturno e la malinconia, Einaudi, Torino 1997), su questo si veda in particolare G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, pp. 5-35, che cerca proprio di recuperare nella noia e nella malinconia moderne il loro nesso essenziale con il desiderio.

Secondo Agamben, questo legame tenderebbe a perdersi nella psicologia moderna, fino all’identificazione della noia con la “pigrizia” e con la “svogliatezza”. Da peccato teologico (quale era l’acedia), la noia diventa sempre più un peccato contro l’etica capitalistica del lavoro.

Si pensi sopratutto alla concezione illuminista dell’ennui e, in particolare, al Candide di Voltaire, che termina con l’esaltazione del lavoro come rimedio contro la noia. Ci sembra che gli articoli CXIX e CXX de Les passions de l’âme, cit., rappresentino da questo punto di vista un momento di transizione o di oscillazione tra l’una e l’altra concezione. Cartesio definisce il

«langueur», come «une disposition à se relâcher et être sans mouvement» prodotta dall’amore o dal desiderio eccessivo di una cosa «dont l’acquisition n’est pas imaginée comme possible pour le temps présent». Come Cartesio ci tiene a precisare, «il faut remarquer, touchant le désir, que la propriété que je lui ai attribuée de rendre le corps plus mobile, ne lui convient que lors qu’on imagine l’objet désiré être tel, qu’on peut *<+ faire quelque chose qui serve à l’acquérir. Car si au contraire on imagine qu’il est impossible *<+, toute l’agitation du désir demeure dans le cerveau, sans passer aucunement dans les nerfs ; et étant entièrement employée à y fortifier l’idée de l’objet désiré, elle laisse le reste du corps languissant» (rispetto all’ed. citata abbiamo normalizzato l’ortografia del francese secondo l’uso corrente). Tuttavia, in una lettera alla principessa Elisabetta del 15 maggio 1646 (riportata in nota nell’ed. cit., p.

150), Cartesio si affretta a riconoscere di aver commesso un errore nell’aver «mis au nombre des émotions de l’âme qui sont excusables, une je ne sais quelle langueur qui nous empêche quelquefois de mettre en exécution les choses qui ont été approuvées par notre jugement».

(14)

73 così come è stata definita e analizzata da Proust. Come la noia, anche la gelosia, nella sua pretesa irrealizzabile di possedere la persona amata in tutta la sua estensione non solo spaziale ma anche temporale, è ciò che nutre instancabilmente l’amore, ciò che rinnova ogni volta lo slancio del desiderio.

Come la gelosia è l’essenza dell’amore per Proust, così si potrebbe dire che la noia è l’essenza del desiderio per Leopardi: essa è ciò lo alimenta e che ne rivela al tempo stesso il carattere fondamentalmente astratto e illimitato.

Tanto la gelosia in Proust quanto la noia in Leopardi diventano la massima espressione di un desiderio irriducibile al suo oggetto e che vorrebbe estendersi incontrastato e al di là di tutti i limiti dello spazio e del tempo.

Non è un caso allora se per Beckett lettore di Proust contro la gelosia non sembra esistere altro rimedio se non quello di una «saggezza» che lui stesso sceglie di esprimere proprio nelle parole di Leopardi – la saggezza che consiste nell’assopimento del desiderio: «Non che la speme, il desiderio è spento<»

42

.

Ma, come abbiamo già visto all’inizio, l’ottundimento del desiderio, la diminuzione della vita, per Leopardi è solo una delle due possibili vie di fuga contro la noia. L’altra, da cui vorremmo iniziare, è quella che consiste nell’intensificazione della vita e nel continuo rilancio del desiderio.

3. Felicità come intensità

3.1. Velocità e accelerazione

Questo primo modello di felicità trova una delle sue espressioni più significative nel Dialogo di un fisico e di un metafisico. Quest’operetta si apre con l’esultanza del fisico, che ha appena scoperto «l’arte di vivere lungamente».

L’importanza di questa sua scoperta viene tuttavia immediatamente ridimensionata dal metafisico, che gli consiglia di tenerla nascosta almeno fino a quando non sarà stata trovata anche «l’arte di vivere felicemente».

Entrano subito in gioco, sin dalle prime battute del dialogo, due maniere completamente opposte di concepire la vita e la felicità. Mentre il fisico

42 S. BECKETT, Proust, SugarCo, Milano 1978, p. 69.

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74 identifica la felicità con la lunghezza o con la durata della vita, affermando che quest’ultima è un bene che ciascuno desidera necessariamente e in quanto tale, il metafisico ritiene, al contrario, che ciò che il vivente desidera per natura è unicamente il piacere o la felicità e che la vita è amata solo secondariamente, cioè in quanto la si considera uno strumento per la felicità.

Per questo, secondo il metafisico, «se la vita non è felice», se essa contraddice apertamente il suo scopo, «meglio ci torna averla breve che lunga»

43

. Non c’è nessuna contraddizione, nessun andare contro le leggi della natura, nel preferire la morte a una vita infelice. Contro-natura, e cioè vera e propria barbarie, sarebbe semmai pretendere di prolungare la vita a tutti i costi, anche se infelice.

Quello che a Leopardi preme maggiormente di dimostrare in questo dialogo è che l’unica tendenza innata nell’uomo, così come in ogni altro essere vivente, non è l’amore per la vita (o l’odio per la morte), ma il desiderio di piacere o di felicità. Ma per far questo occorrerà, innanzitutto, mettere in discussione o per lo meno provare a disarticolare la duplice identificazione, che siamo abituati a pensare come indiscutibile, tra vita e piacere, da una parte, e tra morte e dolore, dall’altra. Solo in questo modo sarà possibile pensare il desiderio come una tendenza che, per quanto inseparabile dalla vita stessa, non ha una funzione puramente autoconservativa

44

.

Il fisico, da cui ci si aspetterebbe forse una certa concretezza e lucidità di ragionamento, si rivela invece, in questo dialogo, un mero portavoce acritico dell’opinione comune, nutrita da quelle astrazioni e da quelle false inferenze che il metafisico si sforza invece di mettere in discussione. Mentre il fisico preferisce ragionare «alla grossa» piuttosto che andare per il sottile e si vanta

43 Dialogo di un fisico e di un metafisico, TPP, p. 525. Cfr. a questo riguardo anche Zib. 351- 2, 25 novembre 1820, dove Leopardi parla «delle lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland, dell’arte di prolungare la vita», arte che in realtà «insegna a prolungare l’infelicità». Una posizione analoga a quella di Hufeland era stata espressa poi anche da MAUPERTUIS, lettera XIX, Sur l’art de prolonger la vie (in Id., Œuvres, cit., vol. II, pp. 339-46). Per la critica di queste idee «chimériques e fabuleuses» che avrebbero dovuto perire con quegli stessi «visionnaires»

che le hanno ideate, cfr. BUFFON, De la vieillesse et de la mort (in Id., Œuvres, cit., pp. 262-94) che doveva aver certamente fornito qualche spunto a Leopardi.

44 Cfr. Zib. 4130-31, 5-6 aprile 1825, dove Leopardi afferma di aver dimostrato, proprio nel Dialogo di un fisico e di un metafisico, come «il fine naturale dell’animale non sia la propria conservazione», ma la felicità, vale a dire il piacere. Ma su questo cfr. anche Zib. 4242, 8 gennaio 1827.

(16)

75 di essere capace di giudicare anche «senza metter mano al microscopio»

45

, il metafisico, dal canto suo, non esita ad avvalersi di esempi e di argomenti tratti dal campo della fisica stessa per sostenere le proprie tesi, caratterizzate da un’esattezza e da un rigore quasi geometrici che mancano del tutto al suo interlocutore

46

. In questo dialogo è il fisico e non il metafisico (come forse ci si aspetterebbe) a costruire i propri ragionamenti sulla base di presupposti favolosi. Del tutto campata in aria è innanzitutto l’idea secondo cui, se l’uomo potesse sconfiggere la morte e vivere in eterno, sarebbe allora finalmente felice. A questa favola, che l’uomo ha inventato solo per nascondere a se stesso un sapere già da sempre inscritto nel proprio corpo e per difendersi da una morte temuta solo per superstizione, il metafisico contrappone la saggezza delle «favole antiche», nelle quali la morte era talvolta considerata il sommo dei rimedi contro l’infelicità o la noia della vita. Aspirando alla perpetuazione illimitata della propria esistenza, l’uomo non si accorge che in questo modo non fa altro che aggravare il male che si illude di sconfiggere, vale a dire l’infelicità. Secondo il metafisico, l’unica morte che l’uomo deve davvero temere e alla quale deve cercare di sfuggire in tutti i modi, perché è la sola che comporti pene e tormenti reali, non è la morte che succede alla vita e che non è altro che uno stato d’insensibilità illimitata, in se stesso privo sia di dolore sia di piacere, ma la «morte nella vita», la morte che investe la vita stessa: quella «morte sensibile»

47

per cui «il nostro essere è piuttosto durare che vivere»

48

. Tale è appunto la noia.

La noia, per il metafisico, non è altro che l’esatto contrario di «quello che forse più degnamente ha nome *<+ di vita», e cioè «l’efficacia e la copia delle sensazioni»

49

. In nient’altro che in questo può consistere la felicità. Ma, poiché la felicità, intesa come intensità e pienezza di vita, si trova ad essere

45 Dialogo di un fisico e di un metafisico, TPP, p. 527.

46 Per tutte queste ragioni, ci sembra che nel Dialogo di un fisico e di un metafisico l’autentico portavoce di Leopardi sia solo ed esclusivamente il metafisico e che, contrariamente a quanto sostiene ad esempio M. FUBINI, Prosa e poesia nelle Operette morali e nei Pensieri di Giacomo Leopardi (saggio introduttivo a: G. Leopardi, Operette morali, Loescher, Torino 1970, p. 127), il fisico non sia altro che un contraltare negativo attraverso il quale far risaltare, per contrapposizione, le proprie tesi.

47 Zib. 2220, 3 dicembre 1821.

48 Dialogo di un fisico e di un metafisico, TPP, p. 527 (corsivi nostri).

49 Ivi, p. 526.

(17)

76 inversamente proporzionale rispetto alla sua durata

50

, ne risulta che la vita più felice (contrariamente a quello che crede il fisico) è necessariamente la più breve. Partendo dall’esempio di un’ipotetica specie di uomini la cui vita «si consumasse naturalmente in ispazio di quarant’anni, cioè nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini», il metafisico dimostra come

essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di questa nostra: perchè, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione, e similmente appassire e mancare, alla metà del tempo; le operazioni vitali della loro natura, proporzionalmente a questa celerità, sarebbero in ciascun istante doppie di forza per rispetto a quello che accade negli altri;

ed anche le azioni volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca, corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d’anni basterebbe a riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto, sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro età;

dove che nella nostra, molto più lunga, restano spessissimi e grandi intervalli, vóti di ogni azione e affezione viva51.

Come il Tasso del dialogo leopardiano, anche il metafisico parla quindi di «vani» da riempire, di «intervalli vóti» da occupare e nei quali altrimenti si insinuerebbe la noia. La vita più felice è quella in cui ci sono meno spazi vuoti, quella più vivace e intensa. Ma la felicità, vale a dire l’intensità o la pienezza di vita, dipende dalla sua velocità, cioè dal rapporto tra la «quantità di vita» e la durata effettiva in cui si dispiega. Più che cercare il modo di prolungare il più possibile la lunghezza della vita, si dovrebbe allora studiare

50 «Si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività» (Zib. 4063, 8 aprile 1824). Leopardi deriva queste considerazioni da BUFFON, De la vieillesse et de la mort, cit. il quale verrà poi esplicitamente citato alcune pagine dopo, in Zib. 4092, 21 maggio 1824. Quello che Leopardi aggiunge alle osservazioni di Buffon è l’applicazione delle sue considerazioni sulle condizioni fisiche della vita a un discorso sulla felicità.

51 Dialogo di un fisico e di un metafisico, TPP, p. 527 (i corsivi sono nostri). Cfr. anche Zib.

4062-64, 8 aprile 1824.

(18)

77 il modo di accelerarla

52

, aumentandone ad esempio la «quantità», cioè moltiplicando il numero e la vivacità delle azioni e delle sensazioni che la costituiscono, in modo da colmare tutti quegli intervalli di tempo che, vuoti di ogni sensazione o passione viva, finiscono per essere occupati dalla noia

53

. La felicità non dipende quindi dall’estensione o dalla durata della vita, ma è invece funzione della sua velocità o accelerazione

54

.

Anche la concezione della felicità esposta dal metafisico sembra quindi rispondere a una logica puramente “fisica” o “quantitativa”

55

. Essa tuttavia va tenuta ben distinta da quella, meramente astratta, adottata dal fisico: se anche per quest’ultimo la felicità sembra essere una questione quantitativa, occorre cionondimeno sottolineare il fatto che abbiamo a che fare con due maniere completamente diverse di intendere la “quantità”. Mentre la logica quantitativa adottata dal fisico concepisce la felicità alla maniera di una grandezza estensiva, misurabile in base al numero dei giorni o degli anni e dunque riducibile a una successione omogenea di unità uguali e distinte, infinitamente sommabili tra loro, la logica quantitativa fatta propria dal metafisico pensa invece la felicità alla maniera di una grandezza intensiva, quale è appunto la velocità

56

. La logica astrattamente quantitativa propria dal

52 Il discorso di Leopardi si trova quindi ad essere doppiamente opposto a quello svolto da Maupertuis nella lettera Sur l’art de prolonger la vie, cit., nella quale il solo mezzo per prolungare la vita sarebbe quello di sospendere o rallentare la vegetazione del corpo (cfr. in partic. ivi, p. 343).

53 In questo senso, come precisa Leopardi, quando si dice che gli antichi vivevano più di noi, questa affermazione deve essere intesa in termini intensivi e non estensivi. Gli antichi non erano più longevi di noi, ma erano dotati di una maggiore vitalità, cioè erano rispetto ai moderni

«più gagliardi, più sani *<.+, meglio adattati alle funzioni del corpo, e più potenti fisicamente»

(Zib. 1331-2, 16 luglio 1820). Essi vivevano di più propriamente parlando e non nel senso che la loro vita aveva una durata maggiore della nostra.

54 Questi due termini, riferiti alla vita, non sono quindi da intendersi in senso metaforico o traslato, ma in senso letterale. In generale, sulla possibilità di un uso letterale di un concetto come quello di velocità al di fuori del dominio della fisica, si veda: F.

ZOURABICHVILI, Deleuze et Spinoza, in : Spinoza au XX siècle, sous la direction de O. Bloch, Puf, Paris 1993, pp. 236-47 (cfr. in partic. pp. 245-6).

55 G. POLIZZI, Leopardi e «le ragioni della verità». Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Carocci, Roma 2003, p. 117, ha parlato a questo riguardo di una «teoria “fisica” e biologica del rapporto tra intensità della vita e la sua lunghezza».

56 Per questo ci sembra che, se verso il finale del dialogo il metafisico, portando l’esempio dei sassolini bianchi e di quelli neri, sembra adottare la logica quantitativa propria del suo avversario, la sua sia solo una concessione dettata da ragioni esplicative, dal momento

(19)

78 fisico è, d’altra parte, esattamente la stessa che sostiene e alimenta l’ottuso ottimismo dei pensatori del «secolo decimonono», sostenitori del progresso e della sua capacità di garantire all’uomo una felicità illimitata e sempre crescente.

Se la felicità non è questione di estensione ma di velocità, ciò significa che gli animali che hanno una vita più breve e intensa sono naturalmente predisposti alla felicità. Gli «insetti effimeri», la cui vita non dura più di un giorno, diventano per Leopardi il paradigma della felicità pensata come intensità

57

. L’uomo, al contrario, in cui la lunghezza naturale della vita si accompagna a un lento sviluppo corporale, è tra gli animali il più portato all’infelicità, vale a dire alla noia

58

. Essa, si potrebbe anche dire, è quella particolare modalità di sentire il tempo a cui l’uomo si trova ad essere maggiormente predisposto in funzione delle caratteristiche vitali della sua specie.

Tuttavia, l’inaugurazione di questa concezione puramente quantitativa o intensiva della felicità, sganciando la noia da ogni riferimento alla coscienza o alla conoscenza, sembra introdurre al tempo stesso la possibilità che essa non sia un fenomeno solo ed esclusivamente umano. La noia in particolare potrebbe non essere sconosciuta a quegli animali dotati di una vita naturale più lunga di quella dell’uomo, come l’elefante, il cervo, la tartaruga, di cui parla Leopardi stesso nello Zibaldone

59

. Forse addirittura, oltrepassando la soglia che separa l’uomo dall’animale e il vivente dal non vivente, la noia si

che il fisico si dimostra del tutto refrattario ai suoi ragionamenti, giudicati troppo sottili e metafisici.

57 «Si osservi che agli animali i quali vivono meno dell’uomo per lor natura, a quelli che vivono al più trent’anni, venti, dieci, cinqu’anni, un anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto *<+, una data porzione di tempo è veramente più lunga e dura più che all’uomo, e tanto più quanto la lor vita naturale è più corta *<+. E veramente una mezz’ora dura per essi indefinibilmente più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni, sensazioni, passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità, per così dire, della loro vita ed esistenza *<+; e la loro esistenza in un minuto è veramente di quantità e d’intensità ec. maggiore che la nostra non è» (Zib.

3510-12, 24 settembre 1823, corsivo nostro). Sulle fonti delle considerazioni leopardiane attorno agli ephemera e sulla trasposizione di questa categoria dall’ambito biologico a quello metafisico, rimando all’accurato studio di P. CORI, Ephemera: The Feeling of Time in Leopardi’s Canto notturno, di prossima uscita per «Italian Studies».

58 Cfr. Zib. 4092, 21 maggio 1824.

59 Cfr. Zib. 3509-14, 24 settembre 1823.

(20)

79 prepara a divenire quasi un fenomeno cosmico, legato alla rotazione degli astri e al ritmo delle stagioni, al loro eterno ritorno

60

. Per questo, nel Canto notturno, sembra quasi che anche la luna si annoi

61

.

Il modello di felicità descritto dal metafisico continua tuttavia a trovare nel mondo animale i suoi esempi più significativi. Gli uccelli sono definiti da Leopardi «le più liete creature del mondo», le uniche alla quali la noia pare essere del tutto sconosciuta. Grazie all’agilità di movimento e alla disposizione al volo, essi «cangiano luogo a ogni tratto; passano da un paese all’altro quanto tu vuoi lontano, e dall’infima alla somma parte dell’aria, in poco spazio di tempo e con facilità mirabile; veggono e provano nella vita loro cose infinite e diversissime; esercitano continuamente il loro corpo;

abbondano soprammodo della vita estrinseca»

62

. A differenza di tutti gli altri animali, il loro stato naturale non è la quiete, ma il continuo movimento, che li preserva dalla noia e determina l’intensità e la vivacità della loro vita. Se gli insetti effimeri e gli uccelli non sanno cosa sia la noia è anche perché la loro esistenza non conosce ripetizione, si sottrae a ogni ciclicità: i primi nascono al mattino e muoiono la sera, i secondi «vanno e vengono di continuo senza necessità veruna; usano il volare per sollazzo»

63

. Ma a fare la felicità degli uccelli contribuisce anche il pieno utilizzo dei sensi, delle loro facoltà e del loro corpo. Gli uccelli diventano in Leopardi il paradigma di una felicità che è tutt’uno con la perfezione, cioè con la piena realizzazione della potenza di vita propria di ciascuna cosa esistente

64

.

60 Sul nesso tra noia ed eterno ritorno cfr. in partic. W. BENJAMIN, La noia, eterno ritorno, in Id., I passages di Parigi, 2 voll., a cura di R. Tiedemann, ediz. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2010, vol. I, pp. 108-29.

61 C. LUPORINI, Introduzione al pensiero politico di Giacomo Leopardi, cit. p. 17, notava appunto come nel Canto notturno si assista ad una universalizzazione poetica della noia.

62 Elogio degli uccelli, TPP., p. 573.

63 Ibid.

64 Cfr. Zib. 3814, 31 ottobre 1823: «La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne’ diversi generi di cose esistenti».

L’infelicità, al contrario, «è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec.».

(21)

80 3.2. I due sensi della vita e della morte

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, accanto alla distinzione tra «vita» ed «esistenza», Leopardi introduca anche un altro tipo di distinzione, che si rivela altrettanto decisiva nel suo pensiero: quella cioè tra due diverse modalità della vita stessa, il «durare» e il «vivere». Alla «pura vita», cioè al «semplice sentimento dell’esser proprio», Leopardi contrappone la «vita vitale»

65

, l’unica degna di essere vissuta, vale a dire la vita intesa come

«l’efficacia e la copia delle sensazioni» e delle azioni

66

. È soltanto in quest’ultimo senso che la vita può essere naturalmente amata e desiderata da tutti i viventi: infatti, come Leopardi non si stanca di ripetere, «non il semplice essere, ma il solo essere felice è desiderabile»

67

. Ne segue che tutti gli esseri viventi, avendo di mira il piacere, non possono che «amare e cercare la maggior vita possibile a ciascun[o] di loro. E il piacere non è altro che vita ec.

E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva»

68

.

Mentre la distinzione tra «vita» ed «esistenza» ha una funzione prettamente descrittiva e serve a identificare due diverse modalità o livelli dell’esistenza (rispettivamente “sentita” e “non sentita”, organica e inorganica), la distinzione tra «durare» e «vivere» sembra avere invece una portata più propriamente etica, perché permette di individuare due diversi gradi d’intensità della vita (o, il che è lo stesso, del desiderio), che corrispondono all’opposizione fondamentale tra noia e felicità, tra noia e piacere

69

. La vita «è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per l’attività, e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni

65 Zib. 2433, 8 maggio 1822.

66 La distinzione tra «durare» e «vivere», sembra quindi corrispondere per certi versi, a quella tra «vita interna» e «vita esterna», di cui non è che una diversa formulazione. Il durare, da questo punto di vista, non è che «la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo» (Zib. 4043, 8 marzo 1824), senza nessuna distrazione o attività che trasporti la vita dall’interno verso l’esterno.

67 Zib. 2411, 2 maggio 1822 (corsivi nostri).

68 Zib. 3814, 31 ottobre 1823.

69 Come ha osservato a questo proposito A. PRETE, Le Operette morali: un libro poetico ovvero morale, saggio introduttivo a: Giacomo Leopardi, Operette morali, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 22, mediante questa distinzione, Leopardi oppone al «tempo del corpo biologico» il

«tempo del corpo sensitivo».

(22)

81 de’ viventi»

70

. Sembra allora che, come per Rilke, anche per Leopardi solo l’animale propriamente viva e che questo privilegio stia soprattutto nella pienezza e nell’intensità della sua vita, tutta interamente rivoltata verso l’esterno

71

. Rispetto all’intensità di vita, propria soprattutto dell’animale, l’attività frenetica con cui l’uomo cerca di vincere la noia, non è altro che una forma di stordimento, il segno di una chiusura o dell’incapacità umana di eguagliare la quiete che talvolta caratterizza lo «stare animale»

72

.

Come esistono due sensi della vita, così esistono due sensi completamente diversi in cui può essere intesa la morte: alla morte come grado zero della vita o del desiderio, alla morte come stato di insensibilità illimitata, Leopardi contrappone la noia in quanto «morte sensibile» o morte che investe la vita stessa. È questa la morte che propriamente deve essere temuta, perché è l’unica che può essere sentita, sperimentata, l’unica di cui possiamo fare esperienza. Per questo, se è vero che «l’essere esistente non può amar la morte, *<+ non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch’ei possa, in verun istante dell’esser suo»

73

, tuttavia, come si precisa, ciò è vero solo nella misura in cui la morte lo riguarda («in quanto la morte abbia rispetto a lui»

74

). Ma l’unica morte che davvero ci riguarda, l’unica morte che può avere qualcosa a che fare con noi è quella prodotta dalla noia, che riduce il «vivere» a semplice «durare», la vita a uno stato di

«morte sensibile». Del resto, solo la noia è propriamente «morte e nulla vero, perchè le morti e distruzioni corporali, non sono altro che trasformazioni di sostanze e di qualità, e il fine di esse non è la morte, ma la vita perpetua della gran macchina naturale»

75

. La natura stessa, nel suo complesso, la natura intesa come totalità delle cose esistenti (come «l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva e non sensitiva, delle cose»

76

) tende alla vita, non alla morte

77

.

70 Zib. 2415, 5 maggio 1821.

71 Cfr. Rilke, Elegie duinesi, VIII, tr. it. M. Ranchetti e J. Leskien: Feltrinelli, Milano 2006.

72 Cfr. Zib. 2221, 3 dicembre 182, e 4180-81, 3 giugno 1826. Come ha scritto A. PRETE, Corpo animale e disegno dell’alterità (in G. Leopardi, Il gallo silvestre a altri animali, cit., p. 11):

«L’attenzione leopardiana alla quiete animale, proprio perché raffrontata alla noia e all’affanno dell’uomo, va al di là dell’opposizione riposo-attività, o abbandono-irrequietezza, e coglie nello stare animale un accordo profondo del corpo vivente con il vivente della natura».

73 Zib. 3814, 31 ottobre 1823.

74 Ibid.

75 Zib. 2220-21, 3 dicembre 1821 (corsivo nostro)

76 Zib. 3814, 31 ottobre 1823.

(23)

82 Entrano quindi in gioco, nel pensiero leopardiano, due sensi completamente diversi della vita e della morte, i quali sembrano corrispondersi tra loro; tuttavia, è solo in uno di questi due sensi che l’una e l’altra possono incontrarsi sul terreno del piacere e diventare oggetto del desiderio. Torniamo così all’alternativa radicale, da cui eravamo partiti, tra uno stato di «piena vita» e uno di «piena morte», pensati come gli unici orizzonti della «felicità possibile» o come estreme vie di fuga rispetto alla noia. Poiché è soltanto sulla prima via che ci siamo fin qui soffermati, si tratta ora di prendere in considerazione anche la seconda, che prende forma in molti luoghi dell’opera di Leopardi e che sembra culminare nella stessa affermazione di un desiderio di morte

78

.

Quello che soprattutto ci premerà in queste pagine sarà mostrare come anche questa seconda opzione si inscriva all’interno dello sfondo vitalista delineato a partire dalla teoria del piacere. In Leopardi, in altre parole, il discorso sulla morte non smette di essere parte di un più ampio discorso sulla vita e sulla sensibilità, sulla ricerca del piacere o della felicità. Per questo, anche il desiderio di morte dovrà essere compreso come estrema espressione di un più fondamentale desiderio del piacere.

3.3. Spazio minimo del piacere

C’è innanzitutto, come si legge in particolare nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, un piacere nel morire: un piacere che consiste nella contrazione dei sensi, nello spegnimento della sensibilità, nel progressivo scivolamento verso quel grado zero della vita che corrisponde a uno svuotamento del desiderio. Ma il piacere del morire non è semplicemente un

“piacere negativo”, perché ciò che si ricerca, attraverso la morte, non è tanto la cessazione di un dolore. Nella morte ciò che si ricerca è ancora, paradossalmente, la vita – la vita che, ridotta al suo grado minimo, può ancora dar luogo a una forma di piacere. I sensi dell’uomo, infatti, «sono

77 «La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita *<+. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe.

Esser morte, son termini contraddittorii» (Zib. 3813, 31 ottobre 1823).

78 Cfr. in partic. Dialogo di Plotino e di Porfirio e il Dialogo di Tristano e di un amico.

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