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Dottorato di ricerca in Filosofia (XXXI ciclo)

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Academic year: 2021

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Dottorato di ricerca in Filosofia (XXXI ciclo)

Curriculum: Filosofia Morale e Politica

Settore scientifico disciplinare: M-FIL/03

PENSARE LA FINE

LA FILOSOFIA DI HEIDEGGER E ROSENZWEIG

COME ESCATOLOGIA

Candidato: Supervisore:

Dott. Francesco Del Bianco Ch.mo Prof. Adriano Fabris

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Indice

Prologo: Al di là del cielo ... 3

I: Delimitazione del concetto di escatologico ... 3

II: Il moderno come età della “riduzione” ... 8

III: Escatologia del Novecento ... 12

Parte Prima: L’escatologia di Martin Heidegger ... 16

Capitolo 1: Dal 1945 al 1929 ... 17

1.1: La “questione” di Davos ... 19

1.2: I dubbi di Cassirer ... 33

1.3: La risposta di Heidegger ... 44

Capitolo 2: Denkweg ... 53

2.1: L’esigenza filosofica fondamentale ... 58

2.2: L’approccio impuro alla fenomenologia ... 64

2.3: La tematizzazione di un “qualcosa” pre-teoretico e pre-mondano ... 75

2.4: Problemi fondamentali ... 80

2.5: La questione dello “storico”... 86

Capitolo 3: Il primato dell’esperienza religiosa ... 94

3.1: Caratteri di un’esperienza fondamentale della vita... 102

3.2: Direzione e orientamento della ricerca ... 110

Capitolo 4: Kulturkampf... 116

4.1: La radice nella lotta ... 129

4.2: Il posizionamento escatologico ... 141

Capitolo 5: L’“ἑρμηνεύειν” e l’angustia escatologica ... 159

5.1: Storia dell’ermeneutica ... 164

5.2: La soglia dell’esperienza religiosa nell’angoscia ... 178

Capitolo 6: La vita cristiana ... 193

6.1: Galati, ossia il senso della Umwelt di Paolo. ... 195

6.2: Prima Tessalonicesi, ossia il senso della Mitwelt di Paolo. ... 207

6.3: Seconda Tessalonicesi, ossia il senso della Selbstwelt di Paolo ... 215

6.4: Conclusione: ossia l’attuazione della vita cristiana come unità formale. ... 224

Parte Seconda: L’escatologia di Franz Rosenzweig ... 227

Capitolo 7: Vita e morte di Rosenzweig ... 228

7.1: Ritorno alla Montagna Magica... 235

7.2: Da Heidegger a Rosenzweig ... 251

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8.1: Profezia e compimento ... 264

8.2: Momento di conversione ... 269

8.4: La questione del “Leipziger Nachtgespräch” ... 277

Capitolo 9: Rifiuto del mondo o sua redenzione? ... 283

9.1: La Lettera del giovane Hegel ... 290

9.2: Shekinah ... 297

9.3: Halbhunderttag ... 301

9.4: Eretico del diciottesimo sermone ... 307

Capitolo 10: Sacro e profano ... 317

10.1: Il problema del Cantico ... 325

10.2: Vicenda esegetica del Cantico ... 331

10.3: La via dello spirito ... 339

10.4: La via della carne ... 343

10.5: Il pensiero dialogico ... 345

Conclusione: Il dilemma escatologico ... 350

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Prologo: Al di là del cielo

I: Delimitazione del concetto di escatologico

«Il trentesimo anno, il quinto giorno del quarto mese, mentre mi trovavo presso il fiume Chebar, fra i deportati, i cieli si aprirono, e io ebbi delle visioni divine. Il quinto giorno del mese (era il quinto anno della deportazione del re Ioiachin), la parola del SIGNORE fu rivolta al sacerdote Ezechiele, figlio di Buzi, nel paese dei Caldei, presso il fiume Chebar; in quel luogo la mano del SIGNORE fu sopra di lui. Io guardai, ed ecco venire dal settentrione un vento tempestoso, una grossa nuvola con un fuoco folgorante e uno splendore intorno a essa; nel centro vi era come un bagliore di metallo in mezzo al fuoco»1.

La citazione con cui apriamo il nostro lavoro è il celebre incipit del Libro di Ezechiele che, venendo dopo quello di Isaia e di Geremia (e prima delle narrazioni, più brevi, dei dodici “profeti minori”), è raccolto dalla tradizione ebraica come il terzo fra i “profeti posteriori” (Nevi’ìm Acharonim) della Bibbia.

Come vale per tutti gli altri componimenti associati a tale novero, questa “posteriorità” con cui il canone individua la vicenda profetica di Ezechiele è da riferire all’evento della “fine di un’epoca” che, circa a metà del VI secolo a.C., metteva “fuori circuito” tutta una serie di certezze fondanti per il contenuto di quei testi più antichi che, fin nel titolo sotto cui sono ad oggi raccolti, rimandano invece a una capacità profetica (e quindi ad una comprensione dell’elemento temporale) “anteriore” rispetto a questa cesura storica (i Nevi’ìm Rishonim, ovvero: Giosuè, Giudici, I e II Samuele, I e II Re)2.

Le vicende narrate da o a proposito di Isaia, Geremia, Ezechiele (così come vale per tutti gli altri dopo, da Osea a Malachia) sono infatti testimonianza del tempo della distruzione dei

1 Ez 1, 1-4

2 Per quanto riguarda un’analisi introduttiva circa gli aspetti storico-critici, teologici ed esegetici dei testi

dell’Antico Testamento che citiamo si vedano almeno: R. Rendtorff, Das Alte Testament. Eine Einführung (1983), trad. it. a cura di D. Garrone, Introduzione all’Antico Testamento, Claudiana, Torino 20013; R.

Rendtorff, Theologie des Alten Testaments. 1. Kanonische Grundlegung (1999), trad. it. di M. Di Pasquale, Teologia dell’Antico Testamento 1: i testi canonici, Claudiana, Torino 2001; R. Rendtorff, Theologie des Alten Testaments. 2. Thematische Entfaltung (2001), trad. it. di M. Di Pasquale, Teologia dell’Antico Testamento 2: i temi, Claudiana, Torino 2003; Circa Ezechiele, libro che cui ci riferiamo in modo privilegiato, si vedano: J. Blenkinsopp, Ezekiel (1990), trad. it. di E. Bernardini e S. Frache, Ezechiele, Claudiana, Torino 2006; W. Eichrodt, Der Prophet Hesekiel, Kapitel 1-18 (1984), trad. it. di F. Ronchi, Ezechiele, Capitolo 1-18, Paideia, Torino 2001; W. Eichrodt, Der Prophet Hesekiel, Kapitel 48, trad. it. di F. Ronchi, Ezechiele, Capitoli 19-48, Paideia, Torino 2001.

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regni d’Israele e Giuda, della cui edificazione, del resto, si parla negli “anteriori”. Il contesto di questa nuova letteratura è, dunque, quello della “rovina del mondo” in cui gli “autori” (o perlomeno le tradizioni religiose e culturali che si rifacevano ai loro nomi) erano radicati e da cui, ora, venivano invece strappati dalla mano di un re straniero, alla volta della Diaspora in terre ignote.

E, per l’appunto, se i “profeti anteriori” (anche detti: “libri storici”) parlano dell’edificazione progressiva di un mondo (la conquista della terra, la sua suddivisione fra le dodici tribù, la scelta di un re al di sopra di esse, e poi il presentarsi di tutti i problemi legati alla manutenzione e alla prosecuzione di tale “costruzione” comunitaria e, con essa, della presenza di Dio in mezzo ai suoi figli), i “profeti posteriori” raccontano della “distruzione” di tale orizzonte e del deragliare di ogni progetto gettato entro esso (il frantumarsi della comunità, l’“abbandono” della sua gente da parte del Signore, il tradimento dei re, la capitolazione e il saccheggio delle città, la dissacrazione del tempio, lo sradicamento degli ebrei da quella terra che era stata loro “promessa”, infine la dispersione del popolo dell’Alleanza). In virtù di questa cesura fra gli “anteriori” e i “posteriori”, fra il prima e il

dopo della profezia biblica, cambia anche il “segno” della sua funzione per e nella società

israelitica.

Prima la profezia era un contrafforte per la sicurezza dell’opera collettiva di costruzione

della comunità umana in terra, al di sotto di un cielo oltre il quale restava congelato nient’altro che lo spettro della minaccia, eternamente “sospesa” dalla promessa fatta da Dio3, delle acque del caos primevo. Alla luce di questo, la missione dei “profeti” (tutte figure di capi, re o consiglieri volti alla trascendenza di Dio e, proprio da questa, ri-volti verso il governo della mondanità) si inverava nel controllo, nel disciplinamento e nella “messa a frutto” di quel mondo di tutti i giorni (stretto fra le alture del Golan e il deserto del Sinai) che gli israeliti erano chiamati a governare per conto del Signore.

Dopo il disastro, invece, la profezia non può esser più pronunciata se non a margine del

lamento che sorge dalle “rovine” di Israele e Giuda: il nuovo profeta è, perciò, figura che si muove inquieta nello spazio fra il già della fine del suo mondo e il non ancora del riscatto di esso da parte di Dio. Non più condottiero, né sovrano né consigliere di re, ma semmai un reietto che mette sotto accusa, assumendole sulla sua stessa carne, le storture del proprio mondo. La sua missione, non di meno, non ha più a che fare con il governo e la manutenzione positiva di un regno nel e del presente, ma con l’attesa (per antonomasia negativa, in quanto

3 Cfr. Gen 9, 11-15

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sospesa fra ciò che non è più e ciò che non è ancora) dell’instaurazione futura di una pace che, ormai, soltanto il Signore può concedere contro ogni logica e lecita aspettativa mondana, nella redenzione finale di ciò che, ad oggi, resta l’ora della Sua intollerabile assenza. Quelli della profezia post-esilica sono, così, uno spazio e un tempo vuoti, in cui l’uomo non è né vivo né morto, dove non c’è con-vivere possibile se non quello che spetta ad esuli e fuggiaschi.

Per l’appunto, questo “né-né”, che tiene assieme in inquieto paradosso vita e morte, ieri e domani, sonno e veglia, prima e dopo, diventa ciò che di per sé contraddistingue il profeta, in quanto unico contenuto del suo annuncio alla propria gente, ma anche come drammatico elemento di scissione che la sua esistenza è chiamata ad assumere su di sé. La profezia, per l’appunto, non concede più risposte, ma semmai consta in una nuova e disperata domanda:

come si può vivere in questo “tempo finito” (in ogni senso), in un presente che si è fatto solo

cesura fra passato e futuro, entro il mondo eppur oltre esso?

Ed ecco, dunque, che fra questi libri di profezia e lamentazione, come tali né di vita né di morte, anzi incentrati sull’impossibile coincidenza “in sospeso” delle due dimensioni, spicca in particolar modo quello di Ezechiele. I motivi di “eccezionalità” dello scritto sono effettivamente numerosi.

Solo per citare il più evidente e generale: Ezechiele è l’unico, fra i tre grandi libri profetici, a mostrare una struttura di stile e contenuto pressoché unitaria che, proprio per questo, dà maggior sostanza alla figura del presunto autore, o perlomeno credibilità all’idea di una scuola (radicata anche nella “tradizione sacerdotale”) che si sia curata di trasporre quanto più era possibile di un effettivo lascito scrittorio di un “maestro” vissuto, durante il VI secolo d. C., in esilio a Babilonia4.

E ancora, per passare a elementi meno immediati: in questo specifico libro, il Signore si rivolge al suo profeta chiamandolo “figlio dell’uomo”, in ebraico ben-‘adam. È quindi qui che si trova la prima occorrenza d’uso del nome del progenitore Adam (appunto: uomo) in un senso che non indica più l’umanità genericamente, ma soltanto l’individuo esatto, in carne ed ossa: un vero e proprio “io sono” interpellato da Dio in quanto tale5.

Al di là di questi dati notevoli che emergono dall’analisi storico-critica del testo, ciò che ci interessa è però la straordinarietà (letteraria e concettuale) dell’incipit che abbiamo

4 Cfr. ad esempio: R. Rendtorff, Introduzione all’Antico Testamento, cit., pp. 275 ss. 5 Cfr. ibidem

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richiamato in apertura: Ezechiele, infatti, non si limita a lamentare la fine del suo scenario di vita e a prefigurarne, in questo, il riscatto futuro di esso. Egli si spinge oltre: proprio in quanto vive la “fine” del suo mondo e si trova, così, agli “estremi termini” dell’orizzonte rispetto a cui è punto focale, il profeta guarda oltre l’“ultimo confine”, fino a veder tremare il cono di luce entro cui si dà ogni fatto della sua vita, e problematizza il buio che sta fuori da quella scena come suo tutt’altro.

Il suo sguardo, cioè, non si limita a constatare lo scenario del suo mondo di esule, né soltanto si ferma a chiedere giustizia per il dramma che vi va in scena, fra la patria perduta alle sue spalle e il destino d’esilio davanti a sé. Egli, piuttosto, solleva gli occhi in alto, fino a scrutare il cielo: l’“ultimo confine”, l’“estremo termine” dello scenario entro cui tanto Gerusalemme che Babilonia, la “terra della promessa” così come il “paese dei Caldei”, non sono che “personaggi in scena” del dramma che sta vivendo. E il cielo, per l’appunto, si apre. Come se, con quell’impudenza dello sguardo, egli avesse bussato all’ultima porta che chiude la scena del suo mondo, essa si spalanca, mostrando cosa ci sta dietro. Ed è così che incomincia la vicenda di profeta di Ezechiele, mettendo fine, significativamente, a quella di sacerdote che gli era appartenuta finché era in patria (finché c’era una patria). Ora, proprio perché egli, oltre le “cateratte celesti”, non vede affatto le “acque del caos”, ma semmai il tutt’altro da ciò che è il mondo, tale alterità permea la sua vita, irretendo essa circa la necessità di annunciarla. Ed essa non è né un qualcosa né un mero nulla, né ciò che c’è né ciò che non c’è, ma un “che” qualificantesi solo secondo i caratteri paradossali del “né-né”.

La trascendenza del Signore, a cui il vivere di Ezechiele viene rivolto e collegato, non rimanda semplicemente il profeta nel mondo con una missione di governo che gli permetta di orientarvisi. Qui, semmai, l’accoglimento della missione si dà come paralisi e spaesatezza, mutismo e storpiatura, dell’esistenza mondana di questo uomo (ancora, ben-‘adam, “figlio d’uomo”): né contrafforte né fuga dalla vita, ancora né vita né morte, ma soltanto l’incerta ambiguità, enigmaticamente imperativa, di questo “né-né” che Dio pretende dal suo servo. E appunto, tutto ciò che segue, dalla descrizione incomprensibile delle figure fiammeggianti dei cherubini6, del carro7, del trono e della gloria di Dio8, fino all’assunzione degli strani comportamenti simbolici9 , al patimento degli stati patologici fisici e mentali che

6 Cfr. Ez 1, 6-11

7 Cfr. Ez 1, 16-21 8 Cfr. Ez 1, 26-28

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tormenteranno il protagonista10, non è che il tentativo del profeta di testimoniare con parole, e di inverare in una condotta di vita, il nuovo comandamento spaesante che è significato dal panorama che ha scorto affacciandosi oltre gli “estremi termini” del suo orizzonte, mettendolo definitivamente fuori fuoco.

Il primato di Ezechiele è, dunque, nient’altro che questo: qui si dà la prima testimonianza di escatologia nella Bibbia e, quindi, un presagio dei caratteri della cultura occidentale che, cinquecento anni dopo, verrà definitivamente forgiata quando i cristiani verseranno questa stessa “materia spirituale” nello stampo delle categorie di pensiero della grecità11.

Perché, da questo punto di vista, ciò che va in scena con il cristianesimo non è che l’allargamento, e così la vera e propria radicalizzazione, di questa prima intuizione profetica che in Ez 1,1-4 si accenna già escatologica. Leggendo le parole di Paolo di Tarso, il grande “escatologico” del protocristianesimo, diviene evidente come il paradosso significato dalla Croce del Cristo12, e l’inveramento di esso nella tormentata esistenza apostolica13, non siano altro che un nuovo annuncio, e un ancor più drammatica assunzione sulla propria vita, di quello stesso “né-né” che è il contenuto della rivelazione giunta, da dietro i cieli, ad Ezechiele presso il fiume Chebar.

La “novità”, appunto, sta nella definitiva radicalità con cui questa trasformazione del “passaggio d’epoca” in “ἐποχή” circa un mondo avviene a partire dalla Croce di Cristo: poiché a inchiodare il Messia a quel legno sono i chiodi dell’impero il cui dominio coincide con l’intero esistente, i colpi di martello dei soldati di Ponzio Pilato non bussano soltanto agli “estremi confini” del mondo israelita, ma ormai a quelli dell’intero cosmo, trasformando l’andar “fuori fuoco” dell’orizzonte del fariseo Saul («non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!» 14), nella “trasvalutazione di tutti i valori” dell’antichità15.

E, in vero, tutto ciò è già riassunto nell’accenno di dialogo tronco fra il governatore della Giudea e lo stesso Gesù di Nazareth in Gv 18,38, quando Pilato chiede: «che cos’è la verità?». Non è questa domanda, infatti, lo stesso che il bussare alle ultime e decisive porte

10 Si parla spesso della “mano del Signore” che viene sul profeta (1, 3; 3, 14; 8,1; 37,1; 40, 1). Ezechiele,

inoltre cade più volte a terra (1, 28; 3, 23; 9, 8; 43, 3; 44, 4); viene risollevato dallo “spirito” (2, 2; 3, 24) e quindi altrove trasferito (3, 12-14; 8, 3; 11, 1-14; 40, 1 e ss.; 43, 5); mangia un rotolo scritto (3, 1 e ss.); attraversa delle acque (47,3 ss.); parla alle ossa dei morti (37, 4).

11 Cfr. ad esempio: P. Sacchi, Israele in epoca ellenistica: l’uomo di fronte all’eterno, in C. Ciancio, M. Pagano,

E. Gamba (a cura di), “Filosofia ed escatologia”, Mimesis, Torino 2017, pp. 93 ss.

12 Cfr. 1 Cor 1, 20-25 e 26-28

13 Cfr. ad esempio: 2 Cor 2, 4 e 12, 7-10; Gal 4, 29 e ss.; 1 Ts 2-18 14 Gal 2, 20

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che chiudono, mostrandocelo come il Tutto, il mondo in cui eravamo fino ad allora di casa? E, ancora, non è forse l’inquietante assenza della risposta di Gesù, il tacere del nazareno, nient’altro che quello stesso silenzio, quel tutt’altro silenzio, che comanda la sua testimonianza terribile anche ad Ezechiele da dietro i cieli? Non è questa, di già, la domanda, e quindi l’evento, dell’“ἐποχή” non solo circa un mondo, ma verso la mondità in quanto tale? A partire da qui, ciò che noi intendiamo per escatologia, prima che un discorso circa i “contenuti” attesi e sperati delle “ultime cose”, è questo pensiero nella fine e del confine per cui un uomo, colto in quanto il suo più proprio “io sono”, mette in questione la metafisica del suo mondo, ossia i contrafforti della sua esperienza di vita, trasformando un “passaggio d’epoca” in una vera e propria “ἐποχή”. Escatologia è, così, la riflessione circa il “mettersi fuori fuoco” dell’orizzonte di senso vigente, e quindi il porsi “fuori circuito” di ogni supposta trascendenza oltre i fenomeni, fino al punto in cui l’uomo, il mondo e Dio stesso vengano tematizzati secondo la possibilità del tutt’altro da ciò che erano fino ad allora.

Ancora una volta, e in una battuta, escatologico è quel pensiero che, bussando contro le più esterne pareti del mondo in cui era di casa, chiede “chi?” e “che cosa?” vi stia dietro, decidendosi poi ad assumere su di sé, come un ordine imperativo, quell’assoluto silenzio (un

tutt’altro assoluto, un tutt’altro silenzio) che riceve in risposta.

II: Il moderno come età della “riduzione”

Alla luce di ciò che si è detto circa l’escatologia, essa è per noi un moto del pensiero che invera un “passaggio d’epoca” in un’“ἐποχή” circa un mondo e la mondità in generale. Forti di questa “definizione”, si potrebbe esser tentati di dire che la modernità tutta, in effetti, sia un fenomeno spirituale e vitale di questo tipo. Non è forse il “moderno” quel cammino di “secolarizzazione” che fa cadere i presupposti metafisici dell’epoca cristiana del mondo, sugellando il “passaggio” della sua scena a tutt’altra cosa? E il suo carattere non è quello di un chiedere conto della “verità”, di ciò che “sta dietro” l’esperienza vitale che l’uomo, come tale, “innanzitutto e per lo più” presuppone? E quindi: non sono, forse, anche il “dubbio metodico” cartesiano, così come il “tribunale della ragione” kantiano, ulteriori episodi di “ἐποχή” in cui un uomo, colto come il proprio “io sono”, bussa agli estremi termini del suo mondo?

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Se così fosse, per l’appunto, il drammatico fenomeno esperito dal profeta potrebbe esser semplicemente ricondotto, attraverso una sana addomesticazione razionale, a quel “distanziarsi” dai fenomeni per meglio guardarli che, da che mondo è mondo, fonda l’atteggiamento filosofico. E non di meno, se così fosse, il passo di Ezechiele 1, 1-4 potrebbe esser letto come niente più che una nota a margine di Metafisica 1,2 982b, facendo dell’“alterità” rivelata al profeta nient’altro che una figura di quel “θαῦμα” che la filosofia, per iniziare in quanto tale, non deve semplicemente testimoniare o additare, ma semmai “disinnescare” e ricondurre al “proprio”.

Proprio per evitare questo rischio, che vedrebbe la nostra “definizione” dell’ambito escatologico farsi tanto ampia dall’esser vana, decidiamo di individuare i gesti (variamente copernicani) che costituiscono l’“incedere” del moderno, parlando non già di “ἐποχή”, quanto semmai, prendendo a prestito un altro termine della tradizione fenomenologica, di “riduzione”. Con questa parola intendiamo un’esperienza del pensiero simile, ma tutt’altro che sovrapponibile, a quella fin ora descritta16.

L’“ἐποχή” di cui si è parlato circa Ezechiele e Paolo di Tarso è da noi intesa, infatti, come un “evento” che, irrompendo dalle “retrovie” dello scenario di vita quotidiano, ingiunge la sua testimonianza all’uomo che ne è interessato. Per l’appunto: il tremare del cono di luce in cui si danno i fenomeni, nell’apparire effettivo di un’ombra che fa sì che il campo dell’orizzonte, in cui l’“io sono” è implicato come punto focale, smetta di funzionare. Essa non è, così, qualcosa che l’uomo possa mettere liberamento in atto, poiché niente ha a che fare con l’esemplificazione di una sua capacità mentale o dote spirituale. Si tratta, semmai, dell’esser travolti da una “effettività esistenziale” o, addirittura, dall’effettività più propria dell’esistere.

Nel caso della “riduzione” operata dalla filosofia moderna, invece, la “κένωσις” circa i presupposti metafisici del mondo è inerente all’assunzione di un metodo, ed è, così, un esperimento intentato dall’uomo in condizioni di controllo totale. Per l’appunto, non “esperienza vitale”, ma “esperimento sulla vita”: il tutt’altro che è in gioco non si dà secondo i caratteri dirompenti del “né-né” atterrente, dell’enigmatico “come se non”17 che mette in scacco le significatività della vita apostolica, ma è semmai una “situazione limite” costruita nel pensiero, entro la fantasticheria dell’“e-e”, nell’infingimento del semplice “come se”.

16 Circa il nostro uso, diversificato, dei termini husserliani e fenomenologici quali “epochè” e “riduzione”

seguiamo da vicino: S. Bancalari, Logica dell’epochè. Per un’introduzione alla fenomenologia della religione, ETS, Pisa 2015, pp. 57 ss.

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Non l’esperienza di un “assurdo esistenziale” che ammonisce la vita, ma la sua rassicurazione tramite una “dimostrazione per assurdo” della dimensione “media e quotidiana” in cui essa si svolge.

L’“ἐποχή” (escatologica) ha a che fare, così, con l’esperienza di chi, entrando in casa propria e non riconoscendola più come sua, scopra tutt’altra cosa che la sua vita ad attenderlo in soggiorno; la “riduzione” (filosofica), invece, è quell’esercizio mentale e spirituale che permette a qualcuno, per quanto sia inequivocabilmente nella sua “stanza ben riscaldata”, di far finta di trovarsi in qualunque altro luogo, al posto di chiunque altro, senza che colpo ferisca. L’una appartiene, per così dire, ad una dimensione di “empirismo assoluto”18 del pensiero, mentre l’altra è per sua essenza il progetto di un “idealismo”19. Se l’evento dell’“ἐποχή” concerne lo smarrimento di se stessi e uno scoprirsi tutt’altro da sé; la “riduzione” è un “esercizio spirituale” che concede ad un uomo di “mettersi in altri panni” allo scopo di familiarizzare con quelli che si trova addosso, già da sempre, cuciti su misura. Della rovina di Giuda e di Israele, del “passaggio d’epoca” e di quanto è “epocale” di per sé, quindi di quello sradicamento che solo può “fondare” un vero momento di sospensione escatologico, nel moderno semplicemente non vi è traccia, se non nella forma di un segreto obliato, di un “rimosso traumatico”20. Il topos della “riduzione” non è lo spazio vuoto dell’esule fra Gerusalemme e Babilonia, ma “la casa”, “lo studio”, “la stanza”: il luogo di un radicamento sicuro che, di fatto, è fin da subito messo al riparo dalla reale possibilità della sua “rovina”, in quanto la sua “fine” viene solo e sempre simulata, immaginata, per assurdo. Non per niente, il carattere proprio della modernità è quello di pensare lo storico come un

continuum, secondo i caratteri ordinati di un incremento graduale di consapevolezza e

perfezione (se non, addirittura, come il variamente declinato inveramento progressivo di un

apriori), e non già come un che di spezzato da “cesure e salti”. Niente è, così, mai

problematizzato in quanto “rovina” di un mondo, poiché ciascun mattone che cada dall’edificio cosmico è immediatamente riutilizzato (e ri-attualizzato) in una nuova costruzione che è sempre ampliamento e risignificazione (non importa quanto innovativa) di

18 Ci riferiamo, ovviamente, all’espressione con cui Franz Rosenzweig qualifica la sua proposta di “nuovo

pensiero”.

19 Ancora in riferimento a F. Rosenzweig, ci riferiamo alla sua concezione per cui l’idealismo tedesco

(culminante in Hegel) non fa che compendiare quello che è il progetto di un pensiero del Tutto (con la “riduzione” dei tre elementi Dio, uomo e mondo ad unum) che qualifica tutta la filosofia dalla Ionia a Jena. Cfr. GS II, p. 7 (trad. it. di G. Bonola, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2013, pp. 6-7).

20 Circa il rapporto di “inveramento” che la “riduzione” fenomenologica di Husserl sembra avere rispetto a

certi aspetti e tendenze della filosofia moderna, si veda ancora: S. Bancalari, Logica dell’epochè. Per un’introduzione alla fenomenologia della religione, cit., pp. 26 ss.

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ciò che già c’era. Il presupposto della “tabula rasa” dell’Ego cogito di Cartesio, fino alla “stanza buia”21 in cui deve avventurarsi l’Io di Kant, è che l’uomo, in quanto tale, non può mai realmente perdersi o “restare al buio”, in quanto l’orientamento è una qualità soggettiva e, quindi, a priori: elemento costitutivo, quindi, del suo stesso stare-al-mondo che, in tal modo, non si scopre diverso dall’esservi, nonostante tutto, sempre “di casa”22.

Il presupposto di ogni “riduzione” circa la metafisica che avvenga nella modernità è, così, che non vi siano “passaggi d’epoca”, momenti “fuori circuito” e, quindi, che non si dia affatto la possibilità dell’“ἐποχή” del profeta. Poiché l’uomo, con questa “riduzione”, resta pur sempre nel suo orizzonte, qualunque oggetto egli conosca in esso, o qualunque Dio egli veda affacciarvisi, rimangono pur sempre il suo oggetto e il suo Dio ed egli, così, incontra ogni volta soltanto il suo, e nient’altro, in ogni cosa23. In tal modo, dunque, gli “esercizi spirituali” di dubbio e di critica metodica della modernità non arrivano mai a risalire oltre il

presupposto, per essa davvero fondante, che non si diano affatto “cose” quali un “al di là del

cielo” dove l’uomo resti davvero al buio, disorientato.

E, circa il rapporto complesso e tormentato fra il ricordo dell’“ἐποχή” di Ezechiele e la pratica di questa “riduzione” illuministica, è ben esplicativa la celebre introduzione di Löwith al suo libro che, Da Hegel a Nietzsche24, racconta dell’ultimo scorcio della vicenda

della filosofia moderna. Nel parlare, infatti, del travisamento di Hegel e Goethe rispetto all’emblema luterano della Rosacroce25, Löwith non fa altro che cogliere, concretato nelle personalità dei due autori, il carattere più proprio del pensiero moderno. Esso, infatti, non è altro che quel sospetto verso l’idea di “trascendenza”, fondato sulla lealtà al proprio mondo, che porta sia Hegel che Goethe (l’uno nella forma della storia, l’altro in quella della natura) ad elevare quest’ultimo ad assoluto, così che non vi sia un confine al di là del quale l’eternità dell’ente possa esser minacciata da un qualche “altrimenti”26. Ancora una volta: una

21 Mi riferisco qui al celebre esempio che Kant usa, nel suo scritto del 1786, dal titolo: Was heißt: Sich im

Denken orientieren?. Di esso, del resto, avremo più volte modo di riparlare nello sviluppo di questo lavoro. Cfr. I. Kant, Was heißt: Sich im Denken orientieren? (1786), trad. It. di P. Dal Santo a cura di F. Volpi, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, Longanesi, Milano 1996, pp. 47-49.

22 Questo è, poi, ciò che sostiene Martin Heidegger, al riguardo del precedente esempio kantiano, nel celebre

paragrafo 23 di Sein und Zeit. Cfr. HGA II, § 23 (trad. it di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19764, § 23, pp. 142 ss.).

23 Al riguardo rimandiamo alla teoria dell’“idolo” di J. L. Marion: cfr. J. L. Marion, Dieu sans l’être (1982),

trad. it. di A. Dell’Asta, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 1984, pp. 26 e ss.

24 Cfr. Karl Löwith, Von Hegel zu Nietzsche (1941), trad. It. di G. Colli, Da Hegel a Nietzsche: la frattura

rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino, 19592. 25 Cfr. ivi, pp. 42 ss.

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“riduzione” che, nella fantasticheria del “come se” e dell’“e-e”, procede a metter in salvo ogni cosa dissolvendola in un Tutto che, come tale, non conosce fine e non può morire27. Ma, appunto, la generazione di Hegel e di Goethe, che aveva portato a termine questo progetto filosofico di eversione rispetto al mai riassorbito trauma dell’escatologico è anche quella con cui esso, infine, fallisce e muore. Perché, citando direttamente Löwith:

«mentre Goethe e Hegel, respingendo di comune accordo il “trascendente”, avevano ancora saputo fondare un mondo in cui l’uomo poteva trovarsi a suo agio, già i loro prossimi discepoli non si sono più sentiti a casa propria in quel mondo ed a torto hanno visto nell’equilibrio dei loro maestri nient’altro che il prodotto di una semplice armonizzazione. La medietà, di cui visse la natura di Goethe, e la mediazione, in cui si mosse lo spirito di Hegel, si sono nuovamente separate in Marx e in Kierkegaard, nei due estremi dell’esteriorità e dell’interiorità, sino a che alla fine Nietzsche, rifacendosi da capo, volle riprendere gli antichi, partendo dal nulla della modernità, e in questo esperimento scomparve nelle tenebre della follia»28.

Ma, appunto, la risoluzione di Nietzsche di “invertire” la “trasvalutazione di tutti i valori” operata dall’apostolo Paolo, del resto, era tanto vana quanto il più che centenario progetto della filosofia, culminato proprio in Hegel e Goethe, di trasformare in contrafforte di questo mondo (e quindi in sigillo dell’Anticristo29) proprio quel rompicapo del “né-né” nascosto nell’anello luterano della Rosacroce.

Della ripresa, invece, di questo “mistero” si rese protagonista gran parte della filosofia europea del Novecento. Nella misura, infatti, in cui alcuni pensatori si considerarono post-moderni, questi compresero la loro filosofia come una “profezia posteriore” ad una cesura che, come tale, costringeva nuovamente ad andar a bussare agli “estremi confini” della mondità e dell’ente, assumendo su di sé la possibilità di una nuova “epochè” e di una nuova escatologia.

III: Escatologia del Novecento

Fra questi autori novecenteschi che, ancora una volta leali alla lezione di Karl Löwith, intendiamo quali nuovi “profeti anteriori” dopo il passaggio dell’epoca di Hegel e di Goethe, scegliamo di parlare di Martin Heidegger e di Franz Rosenzweig.

27 Cfr. GS II, p. 3-4 (trad. it. cit., p. 4).

28 Cit. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche: la frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, cit., p. 57. 29 Cfr. 2 Ts 2, 3-4

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E, sia chiaro fin da subito, nell’inserirli sulla scena che abbiamo fin ora apparecchiato, non intendiamo affatto che Heidegger e Rosenzweig accolgano, manifestano o nascondano “elementi” e “componenti” escatologiche entro la loro filosofia, come qualcuno che aggiunga un ingrediente fuori programma in una ricetta di una pietanza ben rodata che, proprio per questo, alla fine risulta avere un “non so che” d’altro, più o meno gradito, nel suo sapore.

Semmai, ciò che sosteniamo è che il pensiero di questi due autori sia in quanto tale un pensiero del “confine” e della “fine” di un mondo, nonché degli “estremi termini” della mondità in generale. Entrambi, cioè, fondano la loro riflessione sulla ricerca, e poi sulla testimonianza, di quell’esperienza di “ἐποχή” esistenziale che è tutt’altra cosa che la “riduzione” propria della tradizione moderna. La filosofia di entrambi è, quindi, secondo i crismi che abbiamo fin ora indicato, un’escatologia in senso proprio. Per quanto riguarda, poi, il vaglio della nostra tesi circa i due specifici nomi chiamati in causa, esso dovrà differenziarsi in base al tipo di ostacoli che, di volta in volta, ne minacciano la riuscita. Circa Heidegger, infatti, i posteri concedono all’autore di essere il filosofo (o uno dei filosofi) più grandi del Novecento e, del resto, riconoscono a pieno la volontà e il merito di novità che contrappongono il suo “sistema” alla tradizione della filosofia moderna. Ogni supposto “carattere escatologico” della proposta di pensiero heideggeriana viene, però, circoscritta all’utilizzo effettivo delle fonti protocristiane, quindi, marginalizzato circa la sua importanza per la riflessione dell’autore: Heidegger si è, infatti, occupato davvero di “escatologia”, intendendo quest’ultima come un oggetto di studio esterno alla sua riflessione, soltanto in due corsi tenuti a Friburgo nel semestre invernale 1920/21 e in quello estivo 192130.

Il nostro lavoro circa Heidegger, quindi, si articolerà verso questo scopo: mostrare come i caratteri generali del Denkweg dell’autore, lungi dall’incontrare l’“escatologico” come un che di esterno o accidentale, siano gli stessi di quella ricerca dell’“ἐποχή” che abbiamo individuato come propria di un autentico pensiero degli “estremi termini” del mondo e della mondità. In tal modo, inoltre, l’effettivo interessamento di Heidegger per le fonti dell’escatologia cristiana verrà letto in una nuova luce.

30 I manoscritti dei corsi, integrati con alcuni appunti e scritti preparatori sono pubblicati come: Cfr. M.

Heidegger, HGA LXVI (trad. it. a cura di G. Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003).

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Per quanto riguarda Rosenzweig, invece, le cose sono in qualche maniera invertite. In questo caso, infatti, non si sono dubbi presso i posteri sul carattere escatologico del pensiero dell’autore di Kassel, in quanto esso è generalmente stimato come nulla più che una riflessione religiosa di carattere ebraico, in cui la filosofia, per l’appunto, ha una parte inevitabilmente “ancillare” visto l’esito fideistico finale. Di più, anche l’eventuale alternatività di Rosenzweig (in quanto pensatore coevo e ugualmente protagonista di una critica ai “moderni”) all’Heidegger degli anni ’20, viene letta alla luce di una presunta via di fuga religiosa da esiti che, in nome della sua autonomia, la filosofia non potrebbe che assumere come propri. Il nostro lavoro con Rosenzweig sarà, quindi, quello di un “riscatto” del suo pensiero, per presentarlo come la nuova filosofia che vuol essere in virtù della sua caratterizzazione escatologica, e non già nonostante essa.

La chiave di volta per risolvere la doppia missione è, appunto, quell’“aria di famiglia”, per la prima volta tematizzata da Karl Löwith, fra Heidegger e Rosenzweig stessi. Avvicinando gli autori e percorrendo in termini di confronto, l’una dopo l’altra, la genealogia concettuale di Essere e tempo e quella de La stella della Redenzione, riusciremo al fine a dimostrare come il primo sia anche un libro escatologico, nonostante l’ateismo dell’orizzonte che costruisce, e che l’altro, del resto, abbia una dignità filosofica più che profonda, non impedita dal suo fondarsi in un’esistenza credente.

Data, ad ogni modo, la sproporzione immensa circa la dimensione dell’opera dei due autori (Rosenzweig ha, di fatto, scritto un libro soltanto), procederemo innanzitutto con lo smontare nei suoi pezzi elementali il lavoro dello Heidegger degli anni ’20, incominciando dal fondo di essi e risalendo fino alla prima giovinezza dell’autore. Infine, quando la “decostruzione” sarà stata compiuta, ripuliremo ciò che sarà rimasto e dimostreremo come, a partire proprio da questo recondito nucleo escatologico della proposta heideggeriana, si possa procedere a ricostruire tutto l’universo concettuale di Rosenzweig, trovando infine la via che conduce allo Stern e all’alternativa filosofica ad Heidegger stesso.

Ad ogni modo, in questo complesso marchingegno che andiamo progettando, per cui torneremo più e più volte indietro alle questioni fondamentali e alle radici del pensiero dei nostri autori, il punto di partenza non cambierà mai. Esso è, cioè, il dato di quel “passaggio d’epoca” che solo può fondare, nello sradicamento, la possibilità dell’“ἐποχή” escatologica. Per inquadrare, dunque, questo carattere di “crisi” del tempo che Heidegger e Rosenzweig condivisero e pensarono, lo introduciamo innanzitutto là dove esso si rende più visibile, quindi dove la luce dell’orizzonte di senso di quel mondo trema di più, subito prima del

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sopraggiungere del buio. Inizieremo, cioè, dal 1929, “annus mirabilis” per eccellenza circa la crisi che condusse il vecchio mondo al suo “estremo termine” e i nostri due autori a pensare, quindi, le “ultime cose”.

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Capitolo 1: Dal 1945 al 1929

«Nella mitologia babilonese una leggenda descrive la creazione del mondo. In essa si dice che Marduk, il più alto dio, prima di cominciare l'opera sua aveva dovuto sconfiggere, in un terribile combattimento, il serpente Tiamat e gli altri draghi dell'oscurità. E con gli arti di Tiamat aveva foggiato il mondo, e gli aveva dato la forma e l'ordine che esso possiede. Aveva fatto il cielo e la terra, le costellazioni e i pianeti, e ne aveva fissato i movimenti. La sua opera finale era stata la creazione dell'uomo. In tal modo era sorto l'ordine cosmico dal caos primevo, e sarà conservato per l'eternità. “La parola di Marduk” dice il canto epico babilonese della creazione “è eterna”; il suo comando è immutabile, e nessun dio può alterare ciò che procede dalla sua bocca.

Il mondo della cultura umana può essere descritto con le parole della leggenda babilonese. Essa non poteva sorgere finché l'oscurità del mito non fosse combattuta e vinta. Ma i mostri mitici vennero usati per la creazione del nuovo universo e sopravvivono in esso, sia pur soggiogati da forze superiori. Finché tali forze – intellettuali, etiche, artistiche – sono nel loro pieno vigore, il mito è domato. Ma non appena esse cominciano a perdere di vigore, il caos ritorna. Allora il pensiero mitico riemerge e pervade tutta la vita culturale e sociale dell'uomo.»31

Il 30 aprile del 1945 Adolf Hitler si toglieva la vita e i sovietici, vinta l'ultima resistenza, conquistavano Berlino. Alla fine di tutto, della città capitale, dei simboli d’orgoglio e di follia del potere nazista, come delle vite dei tedeschi e della totalità degli europei, non restava che un cumulo di macerie fumanti, adombrato dallo stendardo comunista che sventolava dalla cima dello scheletro del Reichstag. Due giorni prima, nei dintorni di Como, anche Benito Mussolini trovava la morte: il dittatore italiano, catturato il giorno precedente mentre si nascondeva fra i ranghi di una colonna tedesca in fuga verso la Svizzera, venne infine fucilato dal comandante partigiano Walter Audisio. In quello stesso 28 aprile, del resto, le truppe alleate liberavano Friburgo, città simbolo per le controverse vicende della filosofia del Novecento.

Di tali “controverse vicende”, per l'appunto, pagava il prezzo Martin Heidegger che della locale Università era stato il primo rettore nazista: con l'arrivo degli alleati, il pensatore di

Meßkirch veniva avviato sulla strada che, in estate, lo avrebbe condotto dinnanzi al “comitato d'epurazione”, all'allontanamento dall'insegnamento e al momento più difficile della sua vita32. Del resto, qualche giorno prima che si mettessero in moto questi eventi, la

31 Cit. E. Cassirer, The Myth of the State, Yale University Press, New Heaven 1946, pp. 297-298 (trad. it. C.

Pellizzi, Il Mito dello Stato, SE, Milano 2010, pp. 315-316).

32 Ci riferiamo qui alla circostanza che vide Martin Heidegger andar preda di un collasso nervoso nell'arco del

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18 vicenda di un altro filosofo si muoveva verso un epilogo più definitivo: il 13 aprile 1945, infatti, a New York City moriva d’infarto Ernst Cassirer. Le parole che abbiamo citato in apertura costituiscono le ultime righe del libro che egli terminò pochi giorni prima di morire: esse sono, quindi, le sue “ultime parole” da un punto di vista filosofico. E, non di meno, esse trattano realmente di ciò che sembra: un'analogia fra il mito babilonese della creazione e l’opera di costruzione del “mondo della cultura umana”. Al contempo, e questa è la nostra tesi iniziale, tali “ultime parole” costituiscono un giudizio su ciò che aveva portato Cassirer a morire negli Stati Uniti, Heidegger a venir arrestato a Friburgo in quel 1945, nonché i due a scontrarsi, sedici anni prima, durante i seminari di Davos del 1929. Ma che collegamento vi può essere, infine, fra la leggenda mesopotamica chiamata in causa da Cassirer nel ‘45 e la pregressa vicenda comune ai due autori?

Per poter rispondere dobbiamo prender la questione alla larga, interessandoci in primo luogo agli aspetti più esteriori del libro da cui è tratta la citazione: la lingua in cui è originariamente scritto, quindi l'inglese, e il luogo in cui è stato concepito e pubblicato, ossia gli Stati Uniti d'America. La prima domanda è, dunque, quella circa il perché dell’uso di questa lingua da parte dell’ebreo tedesco Cassirer, nonché il motivo della presenza oltreoceano dell’autore sul finire della sua esistenza. Entrambe le occorrenze con cui il libro si presenta non sono, infatti, casuali o irrilevanti per il suo significato.

Fin dal 1933, con l'ascesa del nazismo, Cassirer era dovuto fuggire dalla Germania: dapprima riparato in Inghilterra, egli si era poi da qui trasferito in Svezia. Nel 1941, infine, egli era giunto negli Stati Uniti, dove morirà quattro anni più tardi nelle circostanze che abbiamo ricordato. Nello spazio di questi pochi “anni americani”, Cassirer si dedicò a due progetti che si tradussero in altrettante opere: per entrambe egli decise di abbandonare il tedesco e scrivere nella lingua del nuovo paese, affidando così l’eredità del suo pensiero alla comunità filosofica d'oltreoceano. Se il secondo progetto americano di Cassirer si concretò, per l’appunto, nelle pagine postume dell’opera che stiamo indagando (e di cui avremo un’idea chiara solo più avanti), il primo fu quello di una “traduzione”, in qualche modo di una “riedizione”, della filosofia antropologica che l’autore aveva elaborato in Germania a partire dagli anni '20: ciò portò, nel 1944, alla pubblicazione di An Essay on Man33. Il progetto

campo di lavoro condussero infatti Heidegger all'esaurimento e a concepire pensieri suicidi. Questo lo portò dunque ad accettare un ricovero a Zollikon, località svizzera vicino a Berna, sotto le cure di Medard Boss. Alcuni anni più tardi, tra il 1959 e il 1969, Heidegger tenne i famosi seminari di Zollikon, la cui riflessione era figlia di quest'esperienza distruttiva.

33 E. Cassirer, An Essay on Man, Yale University Press, New Heaven 1944 (trad. it. C. D'Altavilla, cur. M.

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19 originario, che ora trovava nuova vita in quest'opera americana, aveva impegnato Cassirer fin dal 1924 nell'elaborazione di una risposta sistematica alla domanda kantiana circa l'identità umana nell'ottica della tradizione illuminista europea. Nel 1929 tutto questo era culminato nella pubblicazione di Philosophie der symbolischen Formen, e Cassirer aveva portato i suoi risultati alla ribalta internazionale, presentandoli presso i seminari di Davos. All'epoca di tali eventi, dall'“altra parte” rispetto alla posizione di Cassirer, vi era quello stesso Martin Heidegger che negli anni seguenti, mentre il neokantiano fuggiva dal nazismo, decideva invece di aderire al nuovo corso degli eventi, legandosi al regime di Hitler in modo sì controverso, ma anche incontrovertibile.

Ma per l’appunto, cosa andò effettivamente in scena nell’incontro del 1929 fra Heidegger e Cassirer, e cosa significò, poi, l’occorrenza del loro dibattito per i destini della filosofia occidentale? In cerca di lumi al riguardo, non ci resta che addentrarci più profondamente nella materia e nel confronto fra i due personaggi che abbiamo, fin dall’inizio, evocato sulla scena, scegliendo di legare la sorte dell’uno a quella dell’altro.

1.1: La “questione” di Davos

Ed ecco, ricominciamo dal principio: dal 17 marzo al 6 aprile del 1929 si tenne a Davos un “corso universitario internazionale” che raccolse, interrogandola sul suo destino, tutta la scena filosofica europea. Il convegno culminò, appunto, nel confronto fra Martin Heidegger ed Ernst Cassirer, due pensatori che, in ogni senso, provenivano ed erano incamminati su strade del tutto differenti. Tuttavia, proprio in questa occasione, i loro cammini trovavano un punto di tangenza nella forma di una contesa diretta ad impossessarsi delle chiavi dell’eredità kantiana, di cui Cassirer era il conclamato custode, e rispetto a cui Heidegger, non di meno, si candidava ad essere un imprevisto beneficiario.

I giudizi su quanto accaduto a Davos si sprecano, tendendo generalmente a inquadrare il carattere di bivio filosofico degli eventi del ’29, ma intendendolo non di meno come se la posta in gioco riguardasse un esercizio filologico sui testi di Kant. La divergenza di direzione delle interpretazioni fornite dai due autori, in questo modo, viene riportata dai supporters di entrambe le parti ad una differenza statica, relativa ad una misurazione di quanto ciascuno di loro conoscesse la filosofia di Kant nel senso della capacità di citarlo più accuratamente.

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Un giudizio più interessante fu dato “a caldo” da Franz Rosenzweig che, morendo nell’inverno successivo al dibattimento di Davos, lasciò due pagine di commento su quanto era avvenuto in Svizzera. Più tardi ci interesseremo in maniera approfondita di tale autorevole “recensione”, resa celebre da un articolo di Löwith: per adesso basti che il merito di essa, considerata la circostanza che vedeva Rosenzweig e Cassirer essersi entrambi formati alla corte di Hermann Cohen, risulta decisamente sorprendente. L’aria di famiglia che condivideva con Cassirer, infatti, non impedì a Rosenzweig di vedere in Heidegger il vincitore di Davos e non certo per motivi accidentali: per l’illustre commentatore, infatti, proprio il filosofo di Meßkirch appariva come l’erede spirituale del maestro Cohen nell’approccio a Kant.

Il giudizio di Rosenzweig diventa più comprensibile se si entra nel merito effettivo del dibattimento, e si considera come la disputa sull’eredità kantiana non concernesse una stima generale del suo contenuto, ma piuttosto l’opportunità di “metterlo a frutto”. Cassirer e Heidegger, infatti, non si confrontarono circa una generale presentazione della filosofia kantiana. In quell’occasione i due autori proponevano al mondo, semmai, il proprio impossessamento filosofico dell’autore conteso, alla volta di una difesa e di un approfondimento delle loro opposte e originali idee circa un’esigenza che proprio il ricorso a Kant permetteva di riconoscere come punto di partenza comune e, non di meno, presagio di discordia finale. Per entrambi si trattava, cioè, di dar risposta alla domanda circa l’identità dell’uomo e il suo orientamento nel mondo. È alla luce di questo, come osserva Valerio Verra, che si spiega il respingersi ultimo delle idee di Cassirer e Heidegger, nonché «l'andamento del dibattito di Davos»34: in esso non si scontrarono «soltanto due interpretazioni di Kant, ma due diverse concezioni delle origini e delle funzioni della razionalità che ha animato di sé gran parte della storia della filosofia»35.

Se vogliamo, dunque, capire cosa abbia significato la disputa di Davos per i destini della filosofia, occorre comprendere fin da subito come Cassirer e Heidegger, a quel crocevia, si presentassero come campioni di alternativi modelli antropologici che avevano elaborato nell’arco degli anni ’20 e che, non di meno, avevano una chiara genealogia nella storia del pensiero occidentale. Da una parte c’era l’uomo simbolico di Cassirer, chiamato a compiere l’epopea del soggetto moderno iniziata con il cogito cartesiano; dall’altra il Dasein

34 Cit. V. Verre, Introduzione, in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, p.

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heideggeriano, fino ad ora potenza oscura, che dal punto di vista del suo ideatore non aveva reali antecedenti alle sue spalle, ma solo occasionali e incompleti “prototipi” provenienti da testimonianze religiose e letterarie, di cui del resto egli si era ampiamente servito.

Quello kantiano era così, per entrambi, un terreno da cui far emergere la centralità della propria domanda guida, utile fra l’altro ad operare la necessaria traduzione dei rispettivi punti di vista nella lingua franca del tempo, allo scopo di render comprensibile l’alternatività di due risposte che chiamavano in causa un orizzonte molto più vasto. Circa tale orizzonte, per l’appunto, Rosenzweig collocava se stesso nella parte di cielo difesa da Heidegger: quella dei contestatori della tradizione moderna e del suo modo di pensarsi figlia della ragione greca, in nome di un’idea meta-etica dell’uomo di cui il Dasein era l’incarnazione filosoficamente definitiva e di cui l’uomo in “status corruptionis” di Paolo di Tarso, Agostino e Lutero rappresentava, con la mediazione dei vari Kierkegaard, Hölderlin e Rilke, un’antica profezia.

Ciò su cui, dunque, si consumò il disaccordo dei due autori a Davos era la risposta circa questo punto di partenza comune: la domanda sull'identità dell'uomo, che era il centro del loro lavoro del decennio e che per l’occasione veniva ricalibrata in modo da emergere, nella sua centralità, sul terreno di scontro scelto. Come argomenta Costantino Esposito, infatti, nell'interpretazione heideggeriana di Kant «l'orizzonte trascendentale del pensiero critico consiste nel progetto originario della trascendenza con cui l'esserci comprende l’essere»36. Dato che la struttura trascendente dell'essere-umano stesso è l'“apriori” di ogni conoscenza degli enti metafisici speciali (le idee di uomo, di mondo e di Dio), ciò comporta che «la

metaphysica specialis deve fondarsi nella metaphysica generalis»37. Ciò faceva sì, poi, che l'analitica esistenziale dell'esserci fosse coincidente con una sorta di “metafisica della metafisica”, in quanto fondazione di ogni fondazione del domandare circa l'essenza dell'uomo38. D'altra parte, Cassirer condivideva la necessità di «riconoscere l'importanza centrale dell'immaginazione trascendentale e, quindi, della dottrina dello schematismo della filosofia kantiana»39, e si trovava a empatizzare con questa volontà di Heidegger di spostare l'attenzione sull'interrogativo riguardo l'uomo. Valida era così, per entrambi, l'affermazione del filosofo di Meßkirch riguardo il fatto che:

36 Cit. C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia all'ontologia

fondamentale, in “Guida a Heidegger”, cur. F. Volpi, Laterza, Bari 2005 (seconda edizione), p. 165.

37 Cit. ibidem

38 Cfr. HGA III, p. 1 e 230 (trad. it. a cura di M. E. Reina e V. Verre, Kant e il problema della metafisica, cit.,

p. 11 e 198).

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22 «Quando Kant dice: le tre questioni fondamentali possono essere ricondotte alla quarta e cioè alla questione “che cos'è l'uomo”, la questione è divenuta problematica nel suo carattere di questione»40.

Ma tale consonanza inziale era, per così dire, funzionale solo alla scelta del campo di battaglia e, una volta che esso era disposto, divampava la definitiva divergenza fra i due autori. Cassirer, infatti, traeva dall'individuazione della domanda circa l'uomo come punto di partenza necessario per ogni prospettiva metafisica:

«lo spunto per sviluppare il suo concetto di simbolo quale fondamento dell'intersoggettività, quale principio di uno “spirito oggettivo” che metta la finitezza al riparo dal rischio di relativismo e di incomunicabilità»41.

La risposta di Cassirer alla “questione di Davos” coincideva, così, con quella che Levinas individuò come propria del “pensiero della via francese” nel suo scritto di commento ai seminari di Davos alla luce degli eventi del 193342 e che, appunto, Rosenzweig rifiutava fin dall’incipit del suo capolavoro del 1921, La Stella della Redenzione. Quella risposta, cioè, per cui l'uomo è “il soggetto conoscente”, consimile secondo ragione al mondo con il quale è in gioco una reciproca attività di costruzione, e dunque aperto a una dimensione di universalità nel “mondo della cultura”43. Alla domanda postagli dall'uditorio su come fosse data all'essere-umano la possibilità di partecipare di una qualche forma di infinità, Cassirer rispondeva, infatti, che «non c'è per l'uomo altra via che quella mediata della forma»44.

Con questo egli intendeva che:

«l'uomo, in quanto trasforma la sua esistenza in forma, cioè in quanto deve trasferire in una qualche figura oggettiva tutto ciò che in lui è esperienza vissuta – figura oggettiva in cui egli si oggettiva – non si libera certo radicalmente dalla finitezza del punto di partenza (...), ma venendo fuori in crescita dalla finitezza, la porta oltre in qualcosa di nuovo, che è l'infinità immanente»45.

40 Cit. HGA III, p. 288 (trad. it. cit., p. 230).

41 Cit. V. Verre, Introduzione, in Kant e il problema della metafisica, cit., pp. XIX-XX.

42 Cfr. E. Levinas, La compréhension de la spiritualité dans les cultures française et allemande (1933), “Cités”,

25, 2006; trad. it. a cura di G. Pintus, Comprensione della spiritualità nelle culture francese e tedesca, Inschibbolet, Roma 2017.

43 Cfr. ivi, pp. 62 ss.

44 Cit. HGA III p. 286 (trad. it. cit. p. 228). 45 Cit. ibidem

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Se dunque, per Cassirer, l'essere-umano non poteva certo «compiere il salto dalla sua propria finitezza in un'infinità realistica»46, non di meno egli «deve compiere quella metabasi che dall'immediatezza della sua esistenza lo introduce nella regione della forma pura»47. Cassirer soggiungeva inoltre, attraverso una citazione di Schiller, che «dal calice di questo regno degli spiriti affluisce a lui – (all’uomo) - l'infinità»48, intendendo tale “regno degli spiriti” come la dimensione oggettiva della cultura che l'uomo stesso crea aprendosi, in essa, a un inveramento eternamente in divenire della sua finitudine altrimenti cieca. Il percorso del pensatore neokantiano cercava, quindi, la sua risposta circa la natura dell'uomo in una via d'accesso non “alla prima persona” (che, come tale, si aprirebbe prendendo sul serio la finitudine di questa), ma piuttosto in quella che si muove alla volta dell'oggettività ragionevole emanata dalla “terza”: ciò che importa è “l'Io che è”, non “l'io che sono”, o meglio il secondo deve, infine, riconoscersi nel primo. Al riguardo, egli soggiungeva che:

«nell’infinità non si costituisce soltanto un contrasto alla finitezza, ma, proprio, in un certo senso, la totalità del compimento della finitezza stessa. Ma proprio questo compimento della finitezza costituisce l'infinità»49.

Heidegger, dall'altra parte, si presentava a Davos provenendo da un tour de force che, facendolo avvicinare in ultima istanza proprio a Kant, lo portava alla conclusione opposta rispetto all’eccellente interlocutore. Per inquadrare il percorso che lo conduceva sui binari di Davos, dobbiamo richiamare proprio quello stesso 1924 in cui Cassirer cominciava a scrivere la grande opera che, in un certo senso, esauriva le ultime possibilità dell'ego cogito cartesiano sulla scena filosofica occidentale. In quell'anno Heidegger era stato chiamato a insegnare all'Università di Marburgo. Qui si era compiuto il “cambio di passo”50 ontologico della sua ricerca, e il lavoro iniziato con il Natorp-Bericht51 (1922), e proseguito in un gran

46 Cit. ibidem

47 Cit. ibidem

48 Sono i versi di Schiller (L'Amicizia) con i quali già Hegel aveva chiuso la Fenomenologia dello Spirito.

Nell'originale di Schiller l'espressione era leggermente diversa, in quanto richiamante al “regno delle anime”: Cassirer cita per l'appunto la versione modificata da Hegel, in cui si dice “regno degli spiriti”. Si veda in riferimento la nota 1 dell'appendice II di: Kant e il problema della metafisica, cit., p. 228.

49 Cit. HGA III, p. 286 (trad. it. cit. p. 229).

50 Preferiamo non interpretare questo passaggio come una vera e propria “svolta”. Infatti, non bisogna pensare

al percorso di pensiero di Heidegger, nel passaggio dalla prima produzione friburghese a quella marburghese, come se egli fosse passato ad interessarsi principalmente di una faccenda antropologica per poi passare a interessi maggiormente ontologici. Come avremo cura di mostrare più avanti, dedicandoci alla genealogia del Denkeweg heideggeriano, l'interesse ontologico e quello “antropologico” (che chiamiamo così in maniera del tutto inappropriata per chiarirci) sono intrecciati fin dal suo primo approccio alla filosofia dopo la formazione teologica. Cfr. A. Fabris, L' «ermeneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in “Guida a Heidegger”, cit., p. 59.

51 Cfr. HGA LXII (trad. it. a cura di V. Vitiello, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele (Indicazione

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numero di corsi precocemente divenuti “leggendari”, si concretizzava nel 1927 con la stesura di Sein und Zeit. E nel lavoro marburghese, fino al compimento di esso rappresentato dall'opera maggiore, Heidegger muoveva dal “punto zero” che aveva raggiunto a Friburgo alla volta di una vera e propria “costruzione” esplicativa di come i caratteri di “gettatezza”, “ermeneuticità” e “storicità” dell'uomo (ormai “esserci”) si estrinsecassero nei vari “modi d'essere” nel mondo. Se nella fase friburghese si era assistito, quindi, all'orientamento della fenomenologia verso il “fatto originario” della vita, a Marburgo andava in scena la definitiva radicalizzazione ontologica del metodo di Husserl, alla volta di un'esplicitazione “costruttiva” dei modi in cui, a partire da questo sguardo assolutamente fissato sul particolare, si può risalire alla ricerca dell'universale e problematizzare gli altri modi d'essere degli enti, fino al modo fondamentale in cui si dà l'Essere in sé e per sé.52

Come è noto, tuttavia, il percorso di Essere e tempo si era interrotto alla seconda sezione

della seconda parte, lasciando l'opera mancante di gran parte di ciò che era stato, del resto, promesso fin dai primi paragrafi del libro53. La difficoltà che aveva costretto Heidegger a disattendere al programma è ben espressa nell'ultimo paragrafo dell'opera incompiuta, dove l'autore dice che:

«per quanto illuminante appaia la differenza tra l'essere dell'esserci esistente e l'essere dell'ente non conforme dell'esserci (ad esempio la mera “sussistenza”) essa costituisce però solo il punto di partenza della problematica ontologica, e non qualcosa i cui la filosofia si possa acquietare»54.

L'ontologia fondamentale aveva, infatti, messo in evidenza due caratteri strutturali circa l'esistere dell'esserci:

1) In primo luogo, come esso si risolvesse in un vivere “comprendente” rivolto tanto al

proprio essere quanto all'essere degli altri enti, e quindi del “qualcosa” preteoretico

ma pur sempre mondano55.

2) In secondo luogo, proprio questo “modo d'essere comprendente” dimostrava d'aver il suo orizzonte di senso nella temporalità originaria rispetto a quella cronologica della quotidianità inautentica.

52 Cfr. F. Volpi, Vita e opere, in Guida a Heidegger, cit., p. 24.

53 Ossia la terza sezione della seconda parte e l’intera terza parte del libro. 54 Cit. HGA II, p. 576 (trad. it. cit. p. 618).

55 Cfr. HGA LVI-LVII, p. 115 (trad. it. a cura di G. Auletta, Per la determinazione della filosofia, Guida,

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Qui, tuttavia, i progressi di Heidegger tornavano a farsi problema nel momento in cui l’autore era costretto a chiedersi se questo orizzonte temporale, a partire da cui si comprende l'essere dell'esserci, coincidesse con il senso generale dell'Essere in quanto tale. Esplorata quindi fino in fondo la “via” d'accesso al problema dell'Essere dal punto di vista dell'esserci, Heidegger era così costretto a interrompere il suo progetto e a riavvolgerne la trama, domandandosi se vi fosse poi un'altra «via che conduca dal tempo originario al senso dell'essere?» e, ancora, se «il tempo si rivela forse come l'orizzonte dell'essere?»56.

A questi interrogativi, che chiudevano in modo aporetico il progetto di Essere e tempo, Heidegger aveva tentato di rispondere con gli ultimi corsi tenuti a Marburgo sulla strada che lo condusse a Davos ad affrontare Cassirer. Il ciclo di lezioni caduto sotto il titolo di Die

Grundprobleme der Phänomenologie57 (1927), quello sul problema della metafisica in Kant (1927/1928) e la pubblicazione del libro riferito a queste58 (1929), assieme alla prolusione del reinsediamento a Friburgo alla fine di quell'anno (Was ist Metaphysik?59), rappresentano così l'ultima fase del percorso che Heidegger andava esaurendo in quel decennio e che sarebbe stato rivoluzionato dalla nota “Kehre” a partire dagli anni '3060. È fondamentale, dunque, inquadrare in che cosa consista questa “ultima fase” prima della “svolta”, per intenderci circa ciò che Heidegger intese opporre a Cassirer nel loro dibattimento.

Il corso del '27 voleva incarnare in tutto e per tutto quell'“altra via” circa il “problema dell'Essere in generale” che era mancata in Sein und Zeit e che aveva costretto l’autore a interromperne la stesura: esso era, così, una «nuova elaborazione della III sezione della prima parte di Essere e tempo»61. La “novità” in gioco consisteva, poi, nel fatto che Heidegger qui riprendeva il ragionamento circa il passaggio dalla temporalità originaria al senso generale dell'Essere non a partire dal punto dove si era fermato nell'opera maggiore,

56 Cit. HGA II, p. 577 (trad. it. cit. p. 620).

57 Per valutare tali lezioni in quanto “seconda parte” di Essere e tempo si rimanda al testo di F. W. von

Hermann: Heideggers „Grundprobleme der Phänomenologie. Zur „Zweiten Hälfte" von „Sein und Zeit". Klostermann, Frankfurt am Main 1991.

58 É il libro Kant e il problema della metafisica che abbiamo fin ora citato, in originale pubblicato da

Klonstermann come terzo volume delle opere complete di Heidegger. Cfr. HGA III.

59 Cfr. M. Heidegger, HGA IX/4 (trad. it. a cura di A. Carlini, Che cos'è la metafisica?, La Nuova Italia,

Perugia, 1979 – prima edizione 1953 -).

60 Circa l’effettività e il modo in cui vada considerata la presenza di questa cesura fra un “primo” e un

“secondo” Heidegger, parleremo diffusamente nei prossimi paragrafi e capitoli di questo lavoro. Per il momento citiamo la “Kehre” come niente più che una coordinata utile a orientarci e navigare nel vasto mare della letteratura secondaria circa il nostro autore di riferimento.

61 Cit. HGA XXIV, p. 1 (trad. it. a cura di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, il

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ma per «la via traversa di una discussione di determinati problemi particolari»62. Questi “problemi particolari” sono, appunto, i “fondamentali della fenomenologia” a cui rimanda il titolo del corso. Per ricavarli, Heidegger imposta una:

«discussione fenomenologico-critica di alcune tesi tradizionali sull'essere», ossia di quei capisaldi del pensiero ontologico occidentali così come essi erano stati espressi «nel corso della storia della filosofia occidentale a partire dall'antichità»63.

È fondamentale notare, dunque, come il cammino heideggeriano cambi qui il livello della sua indagine. Essa, dal privilegiare la via ontologico-esistenziale, si sposta ora alla ricerca di un accesso ontologico-storico: in tal modo le acquisizioni preparatorie dell'analitica dell'esserci trovavano la loro “ripetizione” in quanto «questioni latenti al fondo dei concetti metafisici tradizionali»64. Ciò che in Sein und Zeit era l'analisi della “quotidianità” dell'esserci in quanto scenario in cui la questione dell'Essere viene a darsi nel suo continuo nascondimento, qui si allarga in una direzione panoramica fino a inglobare la stessa tradizione filosofica d’Occidente, che viene inquadrata come «luogo del nascondimento e insieme del tramandamento della domanda sul senso dell'essere in generale»65. È dunque così che Heidegger, dopo quelle della «riduzione» friburghese (1) e della «costruzione» marburghese (2) circa il modo d'essere dell'esserci, inaugura la fase del suo pensiero nota come «distruzione della storia dell'ontologia»66 (3).

Alla luce di questo, le tesi tradizionali sull'Essere che Heidegger prende in esame, e dalle quali estrae altrettanti “problemi fondamentali della fenomenologia”, sono quattro:

a) Dalla tesi kantiana circa il fatto che l'essere non è predicato reale, egli mette in evidenza il problema della “differenza ontologica”.

b) Dal problema della non conformità di essentia ed existentia nella tradizione medievale e nell'aristotelismo in essa presente, Heidegger evidenzia poi la questione dell’“articolazione fondamentale dell'Essere”.

62 Cit. ibidem

63 Cit. ivi, p. 1 e 20 (trad. it. cit. p. 1 e 13).

64 Cit. C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia all'ontologia

fondamentale, in Guida a Heidegger, cit., p. 161.

65 Cit. ibidem 66 Cit. ibidem

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