CAPITOLO II
Il cane
“… e poi l’ululo del cane di legno è il mio, muto..”128
Quella del cane è una delle presenze animali più prolifiche all‟interno dell‟opera poe-tica montaliana. Lo studio delle concordanze ne ha reso evidente la presenza già a partire dalle primissime raccolte.
Per completezza è giusto aggiungere una piccola postilla: “Galiffa”, uno dei cani che Montale possedeva da ragazzo, è nominato anche nella poesia dispersa postuma
Nes-suno ha mai visto in viso129 e nel racconto Sul limite130 (FD), mentre in L’angoscia131 (FD) vengono menzionati altri tre cani: “Passepoil”, “Buck” e “Pippo”.
Riporto di seguito le presenze all‟interno dell‟opera in versi:
- Ora sia il tuo passo (OS); - Verso Vienna (OC);
- La canna che dispiuma (OC); - Punta del Mesco (OC); - Eastbourne (OC);
128 Cfr. Eugenio Montale, Ballata scritta in una clinica, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 217.
129 Cfr. La casa di Olgiate e altre poesie, a cura di Renzo Cremante e Gianfranca Lavezzi Milano, Mondadori, 2006, p. 24: “Nessuno ha mai visto in viso / la morte. / Solo si sa che sia / scomparsa e putrefazione. / Il mio cagnuolo Galiffa / è morto da sessant‟ anni / ora saltella felice / nell‟ orto del suo paradiso”.
130
Cfr. Sul limite (FD) Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e varianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 187-192.
131 Cfr. L’angoscia (FD) in Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e va-rianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 207-210.
- Elegia di Pico Farnese (OC); - L’Arca (BU);
- Madrigali fiorentini (BU); - Da una torre (BU);
- Ballata scritta in una clinica (BU); - Non ho mai capito se io fossi (SA); - La morte non ti riguardava (SA); - Laggiù (SA);
- Corso Dogali (DI); - I nascondigli (DI); - Il grande affare (DI); - Un millenarista (DI);
- Nei miei primi anni abitavo al terzo piano (QQ);
-
Appunti (QQ);- Al mare (o quasi) (QQ);
-
Ah! AV);- Lettera levantina (PD);
- L’immagine del diavolo può sembrare (PD); - L’hapax (PD).
Prima di entrare nel vivo del discorso, vorrei soffermarmi sui numerosi valori simbo-lici attribuiti a quest‟animale nel corso dei secoli.
Il cane, infatti, ha assunto molteplici significati spesso discordanti tra loro, anche se generalmente prevale la fedeltà. Già Plinio132 ricorda che, insieme al cavallo, il cane è il più fedele compagno dell‟uomo. Esso è il più antico animale domestico e
132
senta simbolicamente, oltre la fedeltà, anche la vigilanza. Non di rado viene consirato guardiano dell‟aldilà (Cerbero, il cane a tre teste), oppure viene sacrificato ai de-funti per poter servire loro da guida anche nell‟altro mondo. I cani sono considerati in grado di vedere gli spiriti e quindi di salvaguardare dai pericoli invisibili. Più ra-ramente ci si esprime in modo negativo, come nel caso del cane di Hell Garm che, nella mitologia dei Germani settentrionali, alla fine del mondo uccide il dio Tyr e contemporaneamente viene da lui ucciso. Nella mitologia greca, invece, la dea dell‟oscurità Ecate era accompagnata da cani da battaglia. Tuttavia i cani neri erano considerati anche accompagnatori demoniaci di streghe o maghi. In alcune culture primitive il cane, a causa della sua intelligenza e della facilità di apprendimento, vie-ne considerato portatore di molti beni per la civiltà umana. Nell‟antichità si citavano “l‟adulazione e la spudoratezza dei cani”133
, ma si sottolineava soprattutto il loro at-taccamento alla casa e le loro doti come guardiani del gregge. Ad esempio Esculapio e Ermes erano accompagnati da cani, come più tardi i santi Uberto, Eustachio e Roc-co. Il cane appare in ambito mitologico quale attributo di Diana, dea della caccia, e di altri cacciatori come Adone, Cefalo e Atteone. Un episodio mitologico frequente-mente raffigurato è proprio quello che riguarda il giovane Atteone, trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver osato osservare Diana e le sue ninfe mentre, nude, si bagnavano presso una fonte. In oriente si pensava che i cani, preda-tori e ladri, si cibassero di cadaveri, e anche nella Bibbia questi animali sono consi-derati in termini negativi e associati a meretrici, maghi e idolatri. Per quanto concer-ne l‟iconografia religiosa con valenza positiva, un caconcer-ne accompagna Tobia durante il viaggio con l‟arcangelo Gabriele e può apparire anche nelle raffigurazioni della Na-tività, dell‟Adorazione dei pastori e dei Magi. Assume invece una valenza negativa
133 Ad esempio negli Opuscoli Morali (Moralia) di Plutarco (Cheronea, 46 / 48 d. C. - Delfi, 125 / 127 d. C.) si legge al cap. XXVIII: “Alla lepre il cane, all‟amico l‟adulatore debbe stimarsi naturalmente avverso”.
in alcune rappresentazioni dell‟Ultima cena, ritratto ai piedi di Giuda, oppure mentre sta affrontando un gatto, alludendo in questo caso al contrasto, all‟inimicizia. Con il medesimo significato può apparire anche nell‟episodio della cena in Emmaus. Per ciò che riguarda l‟iconografia profana, è possibile scorgere il cane come fedele amico dell‟uomo soprattutto nei ritratti. In grembo a una figura femminile, così come nei ritratti di coniugi, diventa simbolo di fedeltà coniugale134. Il cane nell‟area culturale islamica è considerato invece “impuro”, ma viene tollerato come cane da guardia. Nell‟antico Egitto un grande cane simile allo sciacallo era la forma presa dal dio Anubi, circostanza che ricollega ancora una volta il cane al ruolo di guida delle ani-me nell‟aldilà. Nel ani-medioevo, il cane appare soprattutto coani-me immagine della fedeltà feudale e coniugale anche sulle lapidi. Nelle sculture è il simbolo dell‟incrollabile prontezza della fede, ma in senso negativo è anche la personificazione dell‟ira sfrena-ta. Cani infernali accompagnano Satana, il cacciatore di anime. Uno strano effetto fanno le raffigurazioni medioevali di un “Cristoforo cinocefalo”135, con la testa di cane, certamente influenzate dall‟immagine dell‟egiziano Anubi. Nel calendario a venti giorni delle culture dell‟America Centrale il cane è l‟animale simbolo del cimo giorno; nell‟antico Messico i cani venivano sepolti nelle tombe, accanto ai de-funti, come animali sacrificali e guide nell‟aldilà. I nati sotto questo segno sarebbero
134 Cfr. Lucia Impelluso, op. cit., p. 203.
135 Raffigurazioni molto diffuse, come ad esempio S. Cristoforo che viene raffigurato in moltissime icone e affreschi bizantini con le fattezze di Cinocefalo. Nella Passio Sancti Christophori martyris, un testo presente in varie opere di patristica che ebbe molta diffusione in epoca medioevale, viene narrata la leggenda del santo che sarebbe proprio un cinocefalo convertitosi al Cristianesimo. San Cristoforo Cinocefalo presenta caratteri comuni sia al dio egizioAnubi (San Cristoforo traghetta Gesù bambino, così come Anubi "traghetta" le anime fra il regno dei vivi a quello dei morti), sia ai molteplici racconti di Cinocefali (talvolta San Cristoforo viene rappresentato come un gigante, attributo condiviso da di-verse popolazioni di uomini-cane). La figura di San Cristoforo, sebbene acquisisca alcuni tratti del mi-to dei Cinocefali (il gigantismo, l'abbrutimenmi-to prima della conversione) ne ribalta completamente lo status morale nella sua santità. La figura di San Cristoforo sarebbe, anche, un retaggio di culti pagani legati al moto astronomico di Sirio, stella appartenente alla costellazione del Cane Maggiore. La festa del santo cade il 25 luglio e il riferimento astronomico riguarderebbe il periodo della "canicola", quel-lo in cui il sorgere e tramontare di Sirio coincidono con quelli del Sole. In quel periodo cadeva anche la festa di un "santo" cane, S. Guinefort di Lione.
predestinati al dominio e alla distribuzione di ricchi doni. Il cane era anche la forma del dio Xolotl, per questo i morti che dovevano attraversare i “nove fiumi” erano ac-compagnati da cani. Anche il Sole, che a Ovest cala nelle fauci della Terra, ha Xolotl come accompagnatore. Egli lo riporta attraverso gli Inferi al punto in cui sorgerà, quindi muore esso stesso e resuscita. Da questo doppio ruolo ha origine il suo nome, fulmine. Nell‟antica Cina il cane è l‟undicesimo segno dello zodiaco; il suo significa-to simbolico-mitico ha invece caratteri diversi. In primo luogo i cani dovevano scac-ciare i demoni, ma in alcune regioni venivano ritenuti carne commestibile. In altre zone, Cina meridionale e occidentale, si considerava il cane portatore di alimenti (ri-so o miglio). Per la popolazione dello Yao, nella Cina meridionale, il cane è progeni-tore del popolo, e questo ricorda le rappresentazioni di totem. Le leggende di uomini dalla testa di cane sono molto diffuse in Cina. I santuari giapponesi mostrano spesso cani coreani come figure di guardiani. Il cane veniva stimato in maniera particolare fra i popoli slavi; ancora intorno al 1560 un vescovo rimproverava l‟adorazione del cane ai suoi concittadini, ma non ci è noto il significato mitico-simbolico di questo rito. Il cane aveva un‟importanza mitologico-simbolica anche fra i Celti, come ac-compagnatore di Epona, dea dei cavalli e della caccia, e in relazione al dio Nodens / Nuadu. L‟eroe delle leggende irlandesi dell‟Ulster porta il nome do Cu- Chulainn, il cane dell‟ Ulster136
.
Riassumendo, il cane racchiude in se i seguenti significati simbolici:
- Fedeltà; - Devozione; - Invidia; - Male; 136
- Olfatto;
- Attributo delle figure allegoriche di: contrasto, fedeltà, investigazione, memo-ria, Spia.137
Si può dire che la figura del cane in Montale riassuma in sé i principali significati simbolici analizzati fino ad ora: la fedeltà, la devozione, la memoria e in extremis il male. Anche se quest‟ultima sfumatura è rintracciabile solo in scritti più recenti.
In realtà il rapporto tra Montale e il cane è un rapporto che si esplica soprattutto in frequenti implicazioni memoriali da parte del poeta, che spesso lo utilizza da
trans-fert per ripercorrere i tratti salienti della sua infanzia.
A questo proposito, riporto di seguito un breve estratto da L’angoscia, prosa conte-nuta in Farfalla di Dinard, dove il poeta, immaginando di rispondere alle domande di un‟intervistatrice, elenca i nomi di tutti i suoi cani, approfittando dell‟occasione per ribadire che essi rimangono intatti nella propria memoria, nonostante apparten-gano ad un tempo passato:
La mia conversione è recente, è dovuta al fatto che i cani (più che i gatti) restano nel ricordo, chiedono di sopravvivere in noi. Teoricamente sono contrario alla sopravvi-venza e credo che sarebbe sommamente dignitoso se l‟uomo o la bestia accettassero di sombrer nell‟eterno Nulla. Ma in pratica, per eredità sono cristiano e non so sot-trarmi alla idea che qualcosa di noi può o addirittura deve durare. Il cane Galiffa di cui posso esibirvi la fotografia, egregia collega, è morto più di quarant‟anni fa. In questa foto, che è l‟unica di lui esistente, figura accanto a un amico mio, morto an-che lui. Io sono dunque la sola persona an-che conservi il ricordo di quel festoso bastar-do di pelo rossiccio. Mi amava e quanbastar-do fu troppo tardi l‟ho amato anch‟io. “Passe-poil” proseguii “fu il mio secondo cane, uno scottish terrier di purezza molto dubbia. Non ci amammo molto e lo cedetti ad alcuni amici. Non ne ho il ritratto, ma lui forse
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nei Campi Elisi dei cani, ricorda che lo salvai in uno scontro automobilistico. Il terzo cane fu Buck, un lupo. Era buono, molto affezionato a una mia tartaruga con la quale divideva i pasti. Quando fu incimurrito riuscii a mandarlo presso certi contadini, in Val di Pesa, presso Firenze. Ma la notte successiva egli fuggì e tornò a casa, dopo un viaggio di trenta chilometri. Il cimurro cresceva e una puntura avvelenata lo tolse di mezzo. Non lo vidi morto. Eutanasia o quasi, Frau Brentano, come vede siamo quasi in argomento. Il quarto cane era Pippo. Uno Shnautzer di razza. È nato nella villa di Olga Löser, una casa tra gli ulivi con dentro otto quadri di Cézanne. La vecchia pa-drona è morta, io sopravvivo. Pippo vive pure in una città delle Marche. Era molto permaloso e non mi perdonò mai di averlo regalato. Ma a un certo punto la vita mi impedì di tener cani.138
Procedendo con ordine, bisognerà innanzitutto schedare con cura i dati riguardanti Galiffa, il cane appartenuto al poeta nel periodo della sua infanzia monterossina. Es-so oltre a comparire già nelle prime raccolte, ritorna in una poesia del Quaderno di
quattro anni:
Nei primi anni abitavo al terzo piano e dal fondo del viale di pitòsfori il cagnetto Galiffa mi vedeva
e a grandi salti dalla scala a chiocciola mi raggiungeva. Ora non ricordo se morì in casa nostra e fu seppellito e dove e quando. Nella memoria resta solo quel balzo e quel guaìto né molto di più rimane dei grandi amori
138 Cfr. L’angoscia (FD) in Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e va-rianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 207-210.
quando non siano disperazione e morte. Ma questo non fu il caso del bastardino di lunghe orecchie che portava un nome inventato dal figlio del fattore
mio coetaneo e analfabeta, vivo
meno del cane, è strano, nella mia insonnia139.
Dal testo emergono chiaramente i tratti distintivi di Galiffa: ha lunghe orecchie; è un bastardino, d‟incertissima razza; si slancia, festosamente abbaiando, su per le scale, per raggiungere, al terzo piano, il padrone bambino. Inoltre si evince che il nome Ga-liffa fu inventato dal figlio del fattore. Oltre al nome, alcuni di questi segni di ricono-scimento appartengono già al cane del racconto Sul limite: anche lì, di Galiffa, si dice che era il cane prediletto, nell‟infanzia, da Montale, e di incertissima razza; in più, dal racconto, sappiamo che era di pelo rossiccio140.
Molti dei caratteri connotanti il Galiffa del Quaderno erano stati attribuiti ad un altro cane (o, almeno, ad un cane di altro nome), comparso anch‟esso come un dato della memoria e post mortem, nella poesia Da una torre, apparsa nel n. 6 del “Politecni-co”, il 3 novembre 1945141
, nemmeno un anno prima che sul “Corriere della Sera”
139 Cfr. Eugenio Montale, Nei primi anni abitavo al terzo piano, Milano, Mondadori, 1977, p. 529. 140 Cfr. Sul limite (FD) in Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e va-rianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 187-192 “Accanto al giovane era bella-mente seduto un cagnuolo rossiccio, d‟incertissima razza, che abbaiò lungabella-mente verso di me […]. Il canino mi fu addosso festoso, ritto sulle zampe, trafelatissimo, p. 200: “Son venuto con Galiffa, il ca-ne che prediligevi da bambino”.
141 In prima pagina, col titolo complessivo Una poesia di Montale, comprendente, oltre Da una torre e alla prosa di cui mi occuperò fra poco, anche una notizia bio- bibliografica ed un breve commento senza firma, a cura del giornale.
fosse pubblicata Sul limite142. In questa poesia, insieme col cane c‟erano anche (nella prima quartina) un merlo acquaiolo e (nella terza) un paese di scheletri.
A questa poesia era premessa una prosa, se così possiamo dire, illustrativa, che sarà bene riportare per intero143:
Un merlo, e anche un cane morto da anni, possono forse tornare, perché per noi essi contano più come “specie” che come individui. Ma è ben difficile ritrovare un paese di-strutto o far risorgere “un labbro di sangue”. In Liguria s‟intende per merlo acquaiolo l‟uccello che Giacomo Leopardi e gli ornitologi chiamano “passero solitario”. (Molti professori ingannati da “te solingo augellin” lo credono un passerotto, cioè un uccello lontanissimo dalla solitudine e dall‟austerità di questo melodioso volatile color lava-gna). Quanto al Perrito (che vuol dir cagnolino) il nome spagnolo e l‟accenno ai lunghi orecchi ci fanno supporre trattarsi di un Cocker Spaniel. Ma chissà?
Come si vede, i tratti di questo Perrito (con la maiuscola, promosso dunque da nome comune a proprio) sono in gran parte gli stessi di Galiffa: festoso e orecchiuto, come “festoso” appunto (oltre che “ritto sulle zampe, delirante, trafelatissimo”) questo, nel racconto, e “di lunghe orecchie”, nel Quaderno; d‟altra parte, se per Perrito si formu-la l‟ipotesi nelformu-la chiosa che fosse un cocker spaniel, il dubbio che formu-la corona (“Ma chissà?”) finisce per corrispondere alle qualifiche più esplicite, con cui, per questo rispetto, Galiffa è definito così nel racconto (“d‟incertissima razza”) come nella tarda poesia (“bastardino”), quindi il dubbio finale della chiosa sembra avallare l‟incertezza espressa altrove sulla sua razza. Ma quel che più conta è che ambedue, e Perrito e Galiffa, si slanciano a pazza corsa su per la scala: perché questa scala non può essere altra se non diversa da quella della casa dove, a Monterosso, Montale pas-sava le vacanze da bambino. Se infattila cosa è, nel Quaderno, dichiarata esplicita-mente, per Da una torre ogni dubbio viene spazzato via da quei “ vetri a colori” di
142 L‟articolo uscì sul “Corriere della Sera” dell‟ 11 agosto 1946. 143
cui si parla nella terza strofa (“Ho visto nei vetri a colori / filtrare un paese di schele-tri”), vetri realmente presenti nella casa del poeta a Monterosso144.
Secondo un‟ipotesi del critico Mario Martelli, le cose si complicano ulteriormente quando la lirica Da una torre confluisce nel terzo libro montaliano, dove la sua se-conda strofa fu sottoposta ad un cospicuo rimaneggiamento, dal quale fu interessato il nome del cagnetto che da “Perrito” divenne “Piquillo”.
Piquillo è ancora un nome spagnolo, diminutivo di “pico”, che significa “piccola punta”: quindi, trattandosi di un cane, ci vuole poco a capire che esso si riferisse al muso a punta, aguzzo, della bestia. La conferma ci viene, secondo il critico, inaspet-tatamente, dalla prosa Sul limite, inaspetinaspet-tatamente, perché in questa prosa si parla in realtà di Galiffa e di un‟“arca privata”:
Sono all‟ufficio smistamento, a Limite […] e quando ho sentito il tuo nome mi son fatto girare subito il film della tua vita. L‟avevo già ripassato altre volte, perché era inciso e completo fino ad oggi, e perciò avrei potuto attenderti in perfetto orario. Ma che vuoi, il daffare è molto e il personale scarseggia. Avrei potuto venire con tutti gli animali della tua arca privata, Fufi e Gastoncino, Passepoil e Bubù, Buck e la Valentina…Non temere potrai rivederli tutti145.
Quest‟arca privata nominata nella prosa ospita solo animali, ma un‟altra arca, quella della poesia omonima L’arca, presente in Finisterre e poi in La bufera e altro, non mette in salvo solo cani, ma anche vecchie serve, da una non meglio precisata tempe-sta primaverile. Ed è proprio in quetempe-sta lirica che sono nominati “i volti ossuti, i musi
144 Cfr. Mario Martelli, I cani (o il cane?) di Montale, in Le glosse dello scoliasta. Pretesti montaliani, Firenze, Vallecchi 1991, pp. 43-52: 44–46.
145 Cfr. Sul limite (FD) in Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e va-rianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 187-192.
aguzzi”; e tal “muso aguzzo” secondo Martelli, probabilmente dovette essere proprio quello di Perrito – Piquillo.
A questo punto, il problema emerge in tutta chiarezza. È possibile pensare a due cani, l‟uno dal muso appuntito (Piquillo = “musetto aguzzo”), l‟altro dalle lunghe orec-chie?
La distinzione resiste ben poco: Piquillo, oltre alla caratteristica indicata dal nome, ha anche orecchie lunghe: ed è anche “festoso”, come Galiffa; e, non diversamente da questo, si slancia su per le scale della villa di Monterosso. Il dubbio è, insomma, questo: il cane fu unico, e Montale l‟ha sdoppiato nella diversità dei nomi e nel vario rimescolamento dei tratti caratterizzanti? o cani diversi, pur conservando diversi no-mi, tendono a ricongiungersi in uno?
La risposta che prova a dare il critico è a mio parere molto interessante: “Quel cane, inizialmente non più che „specie‟ (un Perrito, seppur con la maiuscola), tende a ritor-nare individuo, trasferendo nel nome, Piquillo, un carattere che vuol individuarlo. Ma l‟altro nome, ammesso che il cane, all‟origine, fosse un solo cane, dovette essere quello vero, inventato dal figlio analfabeta del fattore: anche se, stranamente così vi-cino allo spagnolo Califa (“califfo”), sembra ricondurci vagamente, o piuttosto con estrema labilità, nell‟area iberica in cui si collocano così Perrito come Piquillo”.
Anche se Martelli poco dopo ritorna sui suoi passi, riflettendo, in un certo senso, su quel che può essere definito il tipico “fallimento” mnemonico montaliano con le se-guenti parole: “La pista, prima o poi, s‟interrompe inevitabilmente: il volto, se un volto ci fu, non può essere ricostruito […]. I cani, nel nostro caso, restano brandelli di cani: di Perrito–Piquillo, e di Galiffa; e la lacerazione si denuncia come lacerazio-ne, proprio perché quei nomi si scambiano i caratteri fisici e testimoniano così il
pre-supposto vissuto irrimediabilmente perduto nella disorganicità e nell‟inorganicità della cristallizzazione memorizzante”146.
Tutto questo discorso sembra riportarci alla vera essenza della lirica montaliana, che fin dagli esordi si concentra sul valore della memoria; anche se in questo caso, più che in altri, sembra dirigersi in maniera inequivoca verso una memoria della “dimen-ticanza” piuttosto che verso una memoria dell‟“esperienza”.
Generalizzando si può dire che nelle prime tre raccolte montaliane, Ossi di seppia, Le
occasioni, La bufera, i cani appartengono sempre a una sfera salvifica. Unica
ecce-zione è il “cane lionato” che “si allunga nell‟umido orto” in Elegia di Pico Farnese, che oltre ad essere una sorta di simbolo araldico, d‟immagine decorativa, fa parte, in-sieme ai “molli soriani”, della “pigra illusione” nella quale si cullano immobili le donne del piccolo paese. In tutte le altre poesie, invece, il cane è sicuramente un sim-bolo di segno positivo. Il “negro cane” che non sa staccarsi dalla tomba del padrone nel fregio funerario di Ora sia il tuo passo, il “bassotto festoso che latrava” di Verso
Vienna, il “cane trafelato” di La canna che dispiuma, il “cane inquieto” al quale si
paragona il poeta in Punta del Mesco, i “cani dagli orecchi lunghi” di Eastbourne, il “festoso e orecchiuto Piquillo” di Da una torre sono tutte immagini connesse con un “miracolo” dai confini incerti ed inquietanti, inteso come frattura del tempo e dello spazio normale e come presagio di una realtà completamente “altra” e spesso ambi-guamente crudele. Un valore emblematico e nello stesso tempo un‟evidenza eccezio-nale assumono a questo riguardo i cani di L’arca (La Bufera, I “Finisterre”), ricorda-ta precedentemente, e di Ballaricorda-ta scritricorda-ta in una clinica (La Bufera, II “Dopo”). I cani dell‟Arca sono perlopiù presenze ctonie; appartengono ad una sfera larico - protettiva insidiata e nello stesso tempo esaltata dalla violenza devastante e totale della
146
sta primaverile”. Loro compagni sono “i morti” e le “vecchie serve” di Montale, che ricompaiono poi in altre poesie della Bufera, presenze salvifiche rassicuranti legate al passato ed alle profondità della terra, opposte ma complementari alla salvificità sconvolgente e solare di Clizia147. Il “bulldog di legno” di Ballata scritta in una
cli-nica, insieme alla “sveglia col fosforo sulle lancette”, appartiene alla serie dei
tali-smani, cioè a quegli oggetti poveri, apparentemente casuali e superflui che la donna, in questo caso Mosca, porta con sé, nella borsetta, sul comodino, e che le rendono possibile una via di scampo, una fuga eventuale, un “miracolo”: “il nulla che basta a chi vuole / forzare la porta stretta”. I cani ctonii dell‟Arca e il cane talismano di
Bal-lata scritta in una clinica sono di una violenza e di un‟intensità quasi accecante148.
Cercherò di approfondire i concetti ora esposti addentrandomi nel testo della famosa lirica, Ballata scritta in una clinica149:
Nel solco dell‟emergenza:
quando si sciolse oltremonte la folle cometa agostana nell‟aria ancora serena
147 Interessante a questo proposito lo studio di Franco Fortini, I latrati di fedeltà, in Saggi italiani, Mi-lano, Garzanti, 1987, pp. 125-133: 129. Il critico, analizzando la poesia Il giorno dei morti (Quaderno di quattro anni), si esprime in questi termini a proposito del rapporto tra gli intellettuali e i ceti servili: “ […] La nozione gobettiana di aristocrazia si stinge in aspirazione piccolo e medio borghese verso l‟alta borghesia. Fra i vociani e rondisti, Rebora, Cecchi, Soffici e Slataper ebbero in comune simpatia per i mondo contadino. Le „vecchie serve‟, insieme ai „cani fidati‟, componevano l‟ossario memoriale di La bufera e la „serva zoppa / di Monghidoro‟ (o meglio il „ticchettio‟ dei suoi zoccoli) è uno dei
memento che si insinuano, a intermittenze, nella età fascista (Botta e risposta II) insieme alle
immagi-ni delle donne passate. La „fedeltà‟ dei caimmagi-ni, ancora in Xeimmagi-nia, 5, è attributo anche della cameriera Hedia (Xenia, II, 3). È sempre una medesima certezza che […] in questo caso ai viventi si possono annettere, per il viaggio di oltretomba, alcuni rappresentanti dei ceti servili”.
148 Cfr. Antonella Mantovani, art. cit., p. 186.
149 Cfr. Eugenio Montale, Ballata scritta in una clinica, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 217.
-ma buio, per noi, e terrore e crolli di altane e di ponti su noi come Giona sepolti nel ventre della balena –
ed io mi volsi e lo specchio di me più non era lo stesso perché la gola ed il petto t‟avevano chiuso di colpo in un manchino di gesso.
Nel cavo delle tue orbite brillavano lenti di lacrime più spesse di questi tuoi grossi occhiali di tartaruga
che a notte ti tolgo e avvicino alle fiale della morfina.
L‟iddio taurino non era il nostro, ma il Dio che colora di fuoco i gigli del fosso: Ariete invocai e la fuga del mostro cornuto travolse
con l‟ultimo orgoglio anche il cuore schiantato dalla tua tosse150.
La ballata è stata pubblicata sulla rivista il “Il Ponte”151 di Calamandrei (a. I, n. 5, Fi-renze, agosto 1945), con la data “gennaio 1945”, ed è presente in tutte le edizioni di
La bufera e altro.
Nella lettera a Gianfranco Contini del 29 maggio 1945, Montale racconta all‟amico152
:
Lunga emergenza, guai d'ogni genere, salto dei ponti, bombardamenti d'ogni calibro, fuga di Gadda, fame, inopia (direbbe Macrì) di H2O, freddo, la Mosca ammalata in ot-tobre e tuttora ingessata a letto; due mesi li abbiamo passati in una clinica dove lei era censée di esalar l'ultimo respiro; invece una notte (suppergiù quella del trapasso) s'è al-zata, ha ridacchiato, ha mangiato fichi secchi, bevuto port winee il giorno dopo la cata-strofe era conclusa [...]. Se tu sentissi che ci fosse qualcosa da fare per me in Svizzera (cosa assai improbabile) non dimenticarti di Eusebio. Anche la Mosca avrebbe assai bi-sogno di venirci per ragioni di cura. Ha il morbo di Pott, cosa guaribile ma lunga e gra-ve. L'inverno che ha passato e m'ha fatto passare è stato veramente indescrivibile.
150 Per un analisi metrica e stilistica vedi Dante Isella, Commento a “Ballata scritta in una clinica”, in
Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni. A cura degli allievi padovani,
Fi-renze, SISMEL – Edizioni del Galluzzo 2007, pp. 1219-1224: 1219 – 1220. Isella rileva che l‟ etichet-ta di “ballaetichet-ta” va liberamente intesa e si giustifica, secondo lo stesso Monetichet-tale, per il ritmo, di anda-mento ottonario – novenario (ma senari i vv. 32 e 37, decasillabo il v. 42), e per l‟impianto strofico: un verso isolato, all‟ inizio e alla fine, che funge da ripresa “minima”; quindi le nove strofe disposte all‟interno in ordine speculare, prima in crescendo da tre a sei versi ciascuna, fino alla strofa centrale di sette, poi in calando, da sei a tre. La singolare struttura chiastica sembra voler suggerire un duplice movimento antagonista, di sprofondamento e risalita, dall‟una all‟altra emergenza. Al tono “popolare” della ballata, concorrono le rime facili, disseminate un po‟ovunque: “I 3I emergenza;, Emergenza : 44
presenza, 4 serena : 8 balena, 5 terrore…etc.”
151 Rivista particolarmente impegnata, nel primo dopoguerra, a riproporre all‟Italia travolta e deturpata dal nazi- fascismo i valori politici e culturali della tradizione laica.
152 Cfr. Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di Dante Isel-la, Milano, Adelphi 1997.
Mentre in quella dell‟8 ottobre (anche se erroneamente datata 8 settembre), insieme all'invio della lirica, si sofferma sulla scelta del titolo153:
Qui ti unisco anche la „ballata scritta in una clinica, per scaramanzia‟. Il Ponte modificò il titolo trovandolo poco serio. Forse una ballata non è; noterai la struttura.
Nella lettera a Silvio Guarnieri del 29 novembre 1965 il poeta chiarisce:
Nel solco... Durante e dopo l'emergenza. Era d'agosto. Mosca era in clinica. Il toro rap-presenta la forza bruta, la guerra, Ariete il coraggio e la salvezza. Almeno secondo le mie opinioni astrologiche di allora. Il cane di legno era sul comodino della stanza. L'Al-tra Emergenza, l'al di là154.
La pubblicazione sul “Ponte” chiarisce l‟avantesto storico della lirica, come confer-mato da Guglielminetti.155 La Ballata è, infatti, collocata in quinta sede in una serie di interventi sulla battaglia di Firenze e il ritiro delle truppe che avevano occupato la città in seguito all‟ armistizio dell‟8 settembre 1943; all‟avanzata degli anglo- ameri-cani dal sud della penisola i tedeschi risposero proclamando, il pomeriggio del 3 ago-sto 1944, lo stato di emergenza, che imponeva agli abitanti di restare in casa con le finestre chiuse. La notte tra il 3 e il 4 agosto varie zone di Firenze furono bombarda-te, con sette esplosioni mirate alla distruzione dei ponti: si salvò solo Ponte Vecchio, di cui furono bloccati gli accessi. La conseguente insurrezione partigiana, appoggiata dall‟esterno dagli alleati, si risolse l‟11 agosto, con la liberazione della città.
153
Lettera riportata nel commento di Marica Romolini, op. cit., p. 129.
154 Cfr. Eugenio Montale Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1519.
155 Marziano Guglielminetti, La “Ballata scritta in una clinica” in Letture Montaliana in occasione
glielminetti si sofferma in particolar modo sull‟incipit della Ballata e sulla nozione di emergenza, che secondo il critico va riferita allo stato di emergenza dichiarato dagli occupanti o al successivo periodo di lotta, designato ufficialmente con il termine in-glese emergency. È possibile, continua Guglielminetti, “che le fiamme degli incendi della notte fra il 3 e il 4 abbiano suggerito al poeta la metafora della „cometa agosta-na‟; e non è da escludere che l‟impressione del „buio‟ e del „terrore‟, conseguente ai „crolli di altane e di ponti‟, abbia favorito la similitudine biblica di Giona („su noi come Giona sepolti / nel ventre della balena‟)”. Il critico, inoltre, si lancia in un‟altra interpretazione, accostando la “cometa agostana” all‟emergence di un corpo celeste dopo l‟eclissi, legato all‟annuncio di sconvolgimenti politici ed eventi luttuosi, a cui concorre quel “folle” memore della pascoliana Cometa di Halley (“folle” è l‟ “anda-re” di essa). Su questa traccia Lonardi156
rimanda, per l‟“aria ancora serena”, all‟“aria tranquilla” del X Agosto, con la notte agostana delle stelle cadenti sull‟“atomo opaco del male”. Accettando questa interpretazione, si può dire che il senso metaforico del-la “cometa agostana” ne recupera il senso letterale, poiché del-la cometa è tradizional-mente indizio di sventura, e quindi di conseguenza si può ricollegare all‟ emergency bellica del verso iniziale. Ma anche in questa poesia, come spesso accade in Montale, i grandi movimenti bellici e il ricordo privato si intrecciano, aprendo il discorso all‟“altra Emergenza”, quella della morte. Il passaggio è segnato dalla coordinata “ed io mi volsi” che avvia la quarta strofa. Drusilla Tanzi, la “Mosca”, era stata ricovera-ta nell‟autunno di quell‟anno nella clinica fiorentina di via Venezia colpiricovera-ta dal morbo di Pott o spondilite vertebrale. In questo caso Mosca non rappresenta semplicemente l‟alter ego del poeta, ma diventa l‟immagine oggettiva delle forze avverse che
156 Cfr. Gilberto Lonardi, Il ratto di Europa: su alcune modalità costruttive della “Ballata”
montalia-na, in Winston Churchill e il bulldog. La “ballata e altri saggi montaliani, Venezia, Marsilio, 2011,
nagliano l‟uomo nelle ineludibili declinazioni della malattia e della morte157
. Se-guendo l‟analisi di Lonardi, all‟interno della strofa centrale troviamo il toro diviniz-zato, che ha di sicuro a che fare con la guerra, anzi ne è insieme l‟emanazione e il barbaro signore. Le possibili suggestioni provengono, oltre che dal dantesco Mino-tauro di Inferno XII, almeno dal quadro Guernica (1937) di Pablo Picasso158. Inoltre il critico sostiene che nella continua intersezione tra sfera storica, privata e cosmica, l‟incombere dell‟Apocalisse possa ricadere sulla stessa civiltà occidentale, e il toro possa quindi rappresentare il mitologico Toro rapitore d‟Europa, insinuando il rischio di una finis Europae159. Ed è proprio nella strofa centrale che s‟infittisce il tessuto metaforico, con la comparsa appunto degli emblematici “iddio taurino” e “Ariete”, in mezzo ai quali si inserisce “il Dio che colora / di fuoco i gigli del fosso”. Abbiamo già visto come l‟“iddio taurino” sia in relazione con la guerra. E a conferma di ciò è lo stesso Montale a fornirne un interpretazione inequivoca: nelle note per il lettori francesi lo identifica con “les allemands” e nella lettera a Silvio Guarnieri spiega che il “toro rappresenta la forza bruta, la guerra”. Su di esso la critica è sostanzialmente unanime, spostando ora l‟attenzione sulla tellurica violenza, ora sull‟allegoria di Hit-ler e dei nazisti, ora sul prototipo della forza; o ancora vi si riconosce Mitra, mito ariano del sol invictus che uccide il toro, ripreso dai nazisti insieme al simbolo della svastica160. Più complessa è la questione relativa ad “Ariete”, che Montale mette in relazione con “il coraggio e la salvezza”, con la significativa aggiunta di “secondo le mie opinioni astrologiche di allora”. E sarà proprio Ariete, animale simbolo, ma an-che segno della primavera e della rinascita, simbolicamente legato a Cristo, a caccia-re il Toro dell‟incubo nazista. Lonardi suggerisce invece un dantesco gioco
157 Cfr. Marica Romolini, op. cit., p. 130.
158 Cfr. Gilberto Lonardi, Winston Churchill, cit., p. 74. 159 Cfr. Ivi., p. 84.
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d‟anticipo sostenendo che, sebbene datata in rivista “gennaio 1945”, la lirica sia scritta o almeno rimaneggiata dopo aprile, mese in cui terminò la guerra. Rinascita primaverile e pasquale (quell‟anno Pasqua cadde il 1° aprile) s‟intreccerebbe quindi all‟effettiva liberazione dall‟incubo bellico sotto l‟insegna dell‟Ariete profeticamente invocato.161 Ad Ariete, comunque, si affianca “il Dio che colora / di fuoco i gigli del fosso”, ossia il Dio sacrificale della Passione, che tinge di rosso la propria croce162
come la croce rossa della clinica dove è ricoverata la Mosca. Quindi l‟allontanarsi dell‟“emergenza” storica, cacciata dall‟Ariete, non elimina il pericolo, lasciando anzi il campo all‟“altra emergenza”, quella appunto della malattia e della morte, assai più radicata, dove si affacciano gli amuleti del “bulldog di legno” e della “sveglia / col fosforo sulle lancette”, il cui “tenue lucore” resiste all‟annichilimento delle tenebre, fino a divenire la luce-guida del “tenue bagliore” di Piccolo testamento.
Giunti a questo punto entriamo nel vivo del nostro discorso, ovvero la presenza della statuetta del “bulldog di legno” sul comodino di Mosca.
Riassumendo, si succedono, nella medesima sezione della Bufera (“Dopo”), diverse figure canine: un Bedlington vivo e reale, un Piquillo fantasmatico e immaginario (benché trasposizione del biografico Galiffa, come abbiamo visto) e infine il “bull-dog di legno”, esito estremo di un processo di stilizzazione che denuda il simbolo in-sito nella figura. Anche questa volta ad illuminarci è Lonardi, che riflette sul nome inglese bulldog, letteralmente, cane-da-toro. Infatti, sarà proprio il nome a svelarne la funzione, ovvero la missione di contrapposizione all‟“iddio taurino” di sempre, che spetta per supremo paradosso non a Clizia né a Cristo né a superni influssi zodiacali,
161
Cfr. Gilberto Lonardi, Winston Churchill, cit., p. 81.
162 Rimando per un approfondimento simbolico a Matilde Battistini, Simboli e allegorie, Milano, Elec-ta, 2002, p. 144: “La croce rappresenta l‟asse del mondo, l‟agente di mediazione tra il principio ma-schile uranico (cielo) e il principio femminile ctonio (terra). È nel centro mistico del cosmo e costitui-sce il ponte o la scala attraverso cui le anime risalgono a Dio.
ma “alla potenza tutta e solo privata di un oggetto familiare”. Lonardi lo definisce “un quasi- niente che però lega una lei malata a un lui che veglia e perciò può aprire sull‟impossibile, può „forzare la porta stretta‟, quella evangelica che apre sul Regno dei cieli, ma anche quella, qui, di una magica salvazione”163. Inoltre il bulldog di le-gno viene ricordato nella lirica i Nascondigli (Diario del ‟71 e del ‟72) come il “ca-gnuccio / di legno di mia moglie” a rappresentare l‟ultimo baluardo che risiede nella “potenza del minimo- privato”, che non garantisce alcuna salvezza ma che non ri-nuncia alla resistenza. Quest‟amuleto della quotidianità è uno tra i tanti oggetti cari e consueti che popolano la poesia di Montale, si oppone al male ontologico, connatura-to all‟ineliminabile destino di malattia e morte che vede l‟uomo sconfitconnatura-to in partenza. Vi si oppone proprio perché caricato di quella quotidianità che esiste se riesce a car-pire un significato, pur effimero, nello stesso svolgersi della vita, nel sostanziale
non-sense del “formicolìo” umano. Forte della sfera memoriale e affettiva che evoca, il
“bulldog di legno” poggiato sul comodino giunge allora a simboleggiare la dignità del continuo sforzo dell‟uomo alla ricerca di un senso. Lonardi ne ha proposto un al-tro livello di lettura, che questa volta vira totalmente verso il senso storico, arrivando ad ipotizzare che sotto la figura del bulldog di legno si nasconda in realtà la figura di un politico di quegli anni: “se sotto la maschera del dio cornuto c‟è Hitler, sotto la maschera del bulldog dal muso appiattito e guerriero non ci sarà allora, a fronte e in lotta alla fine vincente con la maschera del toro, l‟alfiere in quegli anni dell‟amata Inghilterra, amata per i suoi scrittori e poeti, per i suoi Shakespeare e Wilde ecc., e qui soprattutto per la sua tradizione liberale-borghese: insomma, non ci sarà Winston Churchill?”164.
163 Cfr. Gilberto Lonardi, Winston Churchill, cit., p. 84. 164
A favore della sua tesi, Lonardi sostiene che Churchill diventò presto agli occhi dei connazionali e dei simpatizzanti extra britannici un esemplare eletto e, anzi, per ec-cellenza l‟incarnazione di questa virtù o di questo mito della non ostentata ma infles-sibile tenacia del popolo inglese; senza tralasciare la grande somiglianza fisica con il bull-dog: taglia massiccia e testa rincagnata.
In conclusione, la ballata si chiude con l‟“ululo […] muto”, ululo che ripropone in
extremis l‟impotenza dell‟uomo di fronte alla sofferenza.
Guglielminetti a questo proposito ricorda che “„l‟ululo / del cane di legno‟, nella sua mera icasticità (rimane „muto‟), esprime il terrore e la disperazione che la ricomparsa del segno politicamente funesto della cometa ha provocato in chi non ha mai avuto un messaggio di salvezza da proporre”165. Anticipando in qualche modo il grande tema dell‟afasia presente nell‟ultimo Montale.
Tuttavia Montale sembra suggerirci che l‟ineliminabilità del male non può comunque implicare la rassegnazione, la rinuncia alla lotta, ma indurre a una stoica resistenza che diventa valore in sé, valore rintracciabile in quella quotidianità, in quel minimo - privato rappresentato dal “bulldog di legno” .
In tale direzione si evolve dunque il “latrato / di fedeltà” dell‟Arca a cui viene ine-quivocabilmente riportato l‟ “ululo / del cane di legno” della ballata.
Continuando il nostro excursus è giusto costatare che è proprio all‟interno di questa valenza salvifica dell‟immagine del cane che, nel periodo “satirico”, si aprono due importanti vie, come suggerisce la critica Antonella Mantovani:
165
“Una è quella che vede i cani al seguito di Mosca e parte del suo quotidianissimo corteggio: „Non ho mai capito se io fossi / il tuo cane fedele e incimurrito / o tu lo fossi per me‟ (Satura, “Xenia” I, 5); „anche i tuoi cani erano morti‟ (Satura, “Xenia” II, 1). L‟altra è invece quella che inasprisce la dimensione „tragica‟ e misteriosa di questi animali, e parla dei cani semi selvatici degli zingari, portatori muti del segreto fondamentale dell‟universo: „tutti e due storpi ispidi rognosi / come i cani bastardi dei gitani‟ (Corso Dogali in Diario del ’71: si sta parlando di due personaggi „perfet-ti nell‟anchilosi e nei suoni‟); „Ma c‟è un portento che mai fu voluto / da nessuno per sé, per altri sì. / Non è opera d‟uomo: lo dichiarano / i cani degli zingari, gli elisei / mostri che ancora ringhiano qua e là‟ (Il grande affare che sarebbe il „salvarsi l‟anima‟ in Diario del ’71). Questa seconda pista, quella dei cani bastardi custodi di un segreto fondamentale, si ritrova anche nelle prose di Fuori di casa: „Altri carri [di zingari] erano invece tirati da stenti cavallucci neri e difesi da ringhiosi cagnuoli ba-stardi d‟inverosimile pelo e colore‟ (Gli snob della camargue)”166
.
Concludendo, vorrei soffermarmi sulla poesia Al mare (o quasi)167:
L‟ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell‟eucalipto i bambini raccolgono pinòli indispensabili per la galantina un cane alano urla dall‟inferriata di una villa ormai disabitata
166Cfr. Antonella Mantovani, art. cit., pp. 186-187.
167 Cfr. Eugenio Montale, Al mare (o quasi), in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, pp. 620-621.
le ville furono costruite dai padri ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati di qui non si vede nemmeno la proda se può chiamarsi così quell‟ottanta per cento ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi una pace alcionica
il mare è d‟altronde infestato mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti E c‟ è anche qualche boccio di magnolia l‟etichetta di un pediatra ma qui i bambini volano in bicicletta e non hanno bisogno delle sue cure Chi vuole respirare a grandi zappate la musa del nostro tempo la precarietà può passare di qui senza affrettarsi è il colpo secco quello che fa orrore
non già l‟evanescenza il dolce afflato del nulla Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile alla morte (e questa piace solo ai giovani).
La poesia è contenuta nel Quaderno dei quattro anni, e rappresenta un notevole pun-to di svolta. Come suggerisce la Manpun-tovani: “La svolta è rappresentata dal collasso di quel minimum di vivibilità, la ricerca della quale è il motivo di base della poesia montaliana, in un contesto completamente oscurato e privo di possibilità di salvezza; il cane, in questo caso, proprio perché è sempre stato prima un simbolo salvifico, im-pazzisce e si rivolta fino ad assumere le forme del suo contrario, il negativo privo di senso. I cani precedenti, rispetto al “cane alano” di Al mare (o quasi), sono miti ed indifesi, mentre questo cane è aggressivo e pronto ad uccidere. I cani precedenti sono portatori di un messaggio, invece questo cane è privo di senso. I cani precedenti si trovano immersi nella situazione presente, ma non ne vengono sommersi; questo ca-ne invece è regredito allo stadio di relitto completamente fagocitato dall‟assurda in-sensatezza delle cose”168.
La Mantovani, a supporto di questa tesi, propone un‟interessante analisi linguistica della lirica:
“ - „cane alano‟: gli alani sono una razza feroce ed aggressiva, che si pone decisa-mente in contrasto con la resistenza sempre misurata, indomita talvolta fino al martirio ma sempre priva di violenza, di tutti i simboli salvifici montaliani.
- „urla‟: proprio i due cani più intensamente soterici del „primo‟ Montale ulula-no: questo ululare, connesso con la situazione tragica, da un lato umanizzava l‟animale accostando il suo lamento al lamento silenzioso dei personaggi
168
umani (i morti e le serve, Montale stesso), dall‟ altro indicava che ci si trova-va in una situazione di emergenza (la tempesta che scuote „l‟arca‟, l‟„enorme presenza dei morti‟). Qui invece il latrato non indica l‟aver avvertito il perico-lo e perico-lo scagliarsi contro di esso ma piuttosto l‟accettare la presenza di questo pericolo demoniaco al punto di esserne totalmente coinvolto e da trasformarsi in lui.
- „Dall‟inferriata‟: oltre alla pericolosità dell‟animale quest‟immagine suggeri-sce la sua prigionia (sbarre del carcere) e la sua follia (sbarre del manicomio). - „di una villa ormai disabitata‟: lo stesso tema della villa disabitata, luogo ba-belico (impossibilità di trovare il senso) e caotico (tutti gli elementi che ne fanno parte sono disposti a caso, in un disordine „spazzaturale‟ compare qui e in Sul lago d’Orta, qui il custode è rimasto a prendersi cura del cane; tuttavia questa incongruenza è importante, perché, oltre a provocare una sensazione di smarrimento, porta all‟idea che il cane, tutto solo nella villa, ne sia diventato il padrone. Ma chi è il vero padrone di questa villa, Babele e Caos a un tem-po? Chi è a fare sì che la vita sia „crudele‟ e „vana‟? […] il cane alano è di-ventato l‟incarnazione del „tritacarne‟.”169
.
Quindi, come emerge chiaramente dall‟analisi, si può dire che di fronte alla presenza violentissima ed ineliminabile di una realtà disgregatrice, di un minaccioso “tritacar-ne” nascosto nel nucleo stesso della vita, il cane ha ceduto completamente le armi e si è trasformato in emissario e alleato di questa terribile realtà. Infatti, la ferocia, la pericolosità e la mancanza di senso sono le caratteristiche fondamentali sia del cane alano sia della minacciosa realtà - tritacarne che, a partire da Satura, invade la poesia di Montale. L‟alano è emissario del male, famulo demoniaco, addirittura
169
ne del “tritacarne”. Potremmo anche, molto opportunamente, definirlo “angelo ribel-le”, se alla parola “angelo” lasciamo il significato originario di messaggero salvifico. È interessante che l‟ipotesi di un rapporto fra potenza del male e cane, qui espressa in realtà in maniera non molto esplicita, sembra suggerire che il “male” in questione non è ipotizzato come potenza personale e cosciente della sua azione ma come forza impersonale priva di fini. Questa feroce immagine animale può forse aver avuto ori-gine dalla suggestione dell‟infernale Cerbero dantesco che “con tre gole caninamente latra”, e all‟interno dell‟opera montaliana si può ricollegare al grande tema dell‟afasia che si svilupperà pienamente nelle opere “satiriche”170
.
Attraverso l‟immagine del cane si può assistere, come spesso accade in Montale, al riutilizzo di un simbolo, che con il trascorrere del tempo pian piano degrada ma sen-za mai raggiungere totalmente l‟incomunicabilità, anzi conservando un elevato mes-saggio di umanità.
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