• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 2 TRATTAMENTI DI DECONTAMINAZIONE DEI SEDIMENTI MARINI

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 2 TRATTAMENTI DI DECONTAMINAZIONE DEI SEDIMENTI MARINI"

Copied!
22
0
0

Testo completo

(1)

31

CAPITOLO 2

TRATTAMENTI DI DECONTAMINAZIONE DEI

SEDIMENTI MARINI

Negli interventi di dragaggio portuale, la gestione dei sedimenti dragati rappresenta spesso l’aspetto più critico. In particolare la gestione di questi materiali è particolarmente complessa quando i sedimenti dragati presentano livelli di contaminazione che non consentono di poterli reimpiegare o refluire in strutture di contenimento così come sono. In alcuni casi poi, le difficoltà sono rese ancora maggiori dal fatto che la quantità di materiale sedimentario di cui si prevede la movimentazione e la successiva gestione sono enormi (dai dati riportati al paragrafo 1.2 si nota che nei dragaggi portuali di un certo rilievo un singolo intervento può prevedere la movimentazione di volumi di sedimenti anche nell’ordine di 105 -106 m3).

L’individuazione delle migliori opzioni di gestione da adottare è controversa, anche perché ogni caso è caratterizzato da condizioni e vincoli specifici e quindi indicare dei criteri generali risulta particolarmente complesso.

L’obiettivo principale dovrebbe essere la sostenibilità della strategia di gestione perseguita, anche se spesso la scelta è guidata soprattutto da criteri economici. In tal senso, il conferimento in discarica dei sedimenti contaminati, benché ancora vi si faccia ricorso diffusamente, è una soluzione che dovrebbe essere intrapresa solo come extrema ratio. Infatti sono relativamente poche le discariche attualmente in funzione in grado di recepire volumi di materiale così elevati e, una volta saturate le discariche attive, individuare siti idonei a realizzarne di nuove sarà sempre più difficile; inoltre i costi specifici associati allo smaltimento dei sedimenti secondo questa modalità sono molto elevati, ad esempio in seguito al dragaggio recentemente eseguito nel SIN di Pitelli (La Spezia) la frazione di materiale dragato che presentava livelli di contaminazione superiori a quelli riportati nella tabella 1, allegato 5 della parte IV del D.Lgs. 152 è stata smaltita in una discarica in Germania a fronte di un costo di gestione di 165€/m3 così ripartiti (dati ISPRA):

(2)

32

1 escavo con draga a benna €/m3 6.5

2 insacchettamento in big bags €/m3 39.5

3 trasporto via nave in Germania €/m3 68.5

4 smaltimento in discarica €/m3 51

TOTALE €/m3 165.5

2.1: Panoramica sulle tecniche di bonifica impiegabili sui sedimenti

Per risolvere il problema della gestione dei sedimenti marini contaminati a lungo termine, l’unica possibile via di azione concreta è rappresentata dal trattamento dei sedimenti per poterli poi gestire secondo una delle possibilità di reimpiego indicate al paragrafo 1.1.2. La ricerca e lo sviluppo di tecniche di decontaminazione innovative è quindi cruciale per risolvere i problemi evidenziati, da un punto di vista sia ambientale che economico.

Si tratta però di un campo dell’ingegneria ambientale ancora piuttosto recente e non esistono tecniche di bonifica efficaci e consolidate applicabili per tutti i possibili stati di contaminazione riscontrabili. Ad oggi sono disponibili diverse tecnologie per la bonifica dei sedimenti marini contaminati, la maggior parte delle quali derivanti dalle tecniche di decontaminazione dei terreni, ma l’impiego di queste tecniche risente di alcune specifiche caratteristiche dei sedimenti che ne minano l’efficienza operativa e i rendimenti di rimozione conseguibili, prime fra tutte l’elevato grado di saturazione del materiale da trattare e la bassa permeabilità idraulica che mediamente caratterizza i sedimenti delle nostre coste.

Le diverse possibili tecniche di bonifica esistenti possono essere raggruppate secondo la schematizzazione indicata in figura 2.1.

La scelta del trattamento più appropriato da applicare dipende fortemente anche dal tipo di contaminazione presente nei sedimenti, dato che in genere le diverse tecniche hanno come target tipologie di inquinanti diversi a seconda della loro capacità di degradarli, rimuoverli o immobilizzarli. La contemporanea presenza di molti inquinanti differenti porta infatti talvolta alla necessità di applicare diversi trattamenti in serie.

(3)

33

Figura 2.1: schema delle tecniche di bonifica impiegabili sui sedimenti marini (Tratto da: Fratini, 2008)

La tabella 2.1 di seguito riportata mostra l’efficacia delle principali tecniche di decontaminazione utilizzate nei riguardi dei contaminanti più comuni, dalla quale si può notare come non esistano tecniche ugualmente efficaci su tutte le diverse tipologie di contaminanti:

(4)

34

Contaminanti organici Contaminanti inorganici

Tecnologie di

trattamento PCB PAH Pesticidi

Idrocarburi del petrolio

Composti

fenolici Cianuro Mercurio

Altri metalli pesanti Incenerimento convenzionale D D D D D D xR pR Incenerimento innovativo D D D D D D xR I Pirolisi D D D D D D xR I Vetrificazione D D D D D D xR I Ossidazione in acqua supercritica D D D D D D U U Ossidazione in aria umida pD D U D D D U U Desorbimento termico R R R R U U xR N Immobilizzazione pI pI pI pI pI pI U I Estrazione con solventi R R R R R pR N N Soil washing pR pR pR pR pR pR pR pR Declorinazione D N pD N N N N N Ossidazione N/D N/D N/D N/D N/D N/D U xN Bioremediation N/pD N/D N/D D D N/D N N

D=effettivamente distrutto; R=effettivamente rimosso; I=effettivamente immobilizzato; N=no effetti significativi; U=effetti sconosciuti; N/D=dipende dal contaminante specifico

x=può causare il rilascio di altri contaminanti; p=parziale

Tabella 2.1: efficacia delle varie tecniche di bonifica sui diversi tipi di inquinanti (Tratto da: Roma M., 2004)

Nei prossimi paragrafi si cercherà di fornire una breve panoramica sull’attuale stato dell’arte delle tecniche di bonifica applicabili ai sedimenti marini, indicando i principali vantaggi e svantaggi di ognuna di esse e suddividendo l’analisi nelle tre macro-categorie indicate in figura 2.1: Monitored natural recovery (MNR); interventi in situ; interventi ex situ.

(5)

35

2.1.1: Monitoraggio del recupero naturale (MNR)

Il Monitored Natural Recovery è un approccio di bonifica molto impiegato negli USA, anche se principalmente per i siti lacuali contaminati. In effetti non si tratta di un vero e proprio trattamento decontaminante, ma piuttosto di limitarsi a rimuovere le fonti di inquinamento per evitare che nuovi apporti di contaminanti possano raggiungere il sito e lasciare poi che si sviluppino quei processi naturali che hanno la capacità di contenere, ridurre o eliminare la tossicità e biodisponibilità dei contaminanti nei sedimenti.

Negli ecosistemi acquatici infatti si svolgono alcuni fenomeni naturali che possiedono un potere di assimilazione di alcuni tipi di sostanze contaminanti, o che possono mitigare la concentrazione con cui queste sostanze si ritrovano nei sedimenti o, ancora, che comportano l’immobilizzazione dei contaminanti in modo che anche se in effetti l’inquinamento permane nell’ambiente, il suo effetto dannoso è limitato e non desta più preoccupazione.

Tra questi meccanismi “auto-depurativi” ci sono ad esempio l’advezione delle masse idriche, la diffusione e la diluizione dei contaminanti che abbassano la concentrazione dei contaminanti distribuendone la presenza su un volume idrico maggiore; l’adsorbimento, la sedimentazione e altri processi che hanno l’effetto di stabilizzare e rendere meno biodisponibili i contaminanti; processi chimici abiotici quali l’ossido-riduzione e processi biologici di alcuni microrganismi e piante che sono in grado di sintetizzare alcuni tipi di contaminanti organici per il loro metabolismo il cui effetto e degradare i contaminanti a composti meno pericolosi (Fratini, 2008).

L’approccio MNR si basa quindi sull’isolare un sito contaminato e sottoporlo poi a controlli periodici per monitorare se i naturali meccanismi di bonifica riescono nel tempo a smaltire da soli lo stato di contaminazione.

L’approccio MNR ha il vantaggio di essere decisamente poco invasivo sull’ecosistema naturale e di richiedere costi molto ridotti dato che non è richiesta la realizzazione di impianti o infrastrutture. Tuttavia non è privo di svantaggi: anzitutto se lo stato di contaminazione è troppo avanzato l’approccio MNR da solo non basta ad ottenere la decontaminazione del sito e comunque il processo di riduzione del rischio potrebbe essere molto lento e, dato che i contaminanti sono lasciati sul posto, esiste sempre il pericolo di una ri-esposizione a seguito di eventi ad alta energia di origine naturale o antropica.

(6)

36

2.1.2: Trattamenti in situ

I trattamenti di bonifica in situ sono quelli che avvengono senza la necessità di movimentare i sedimenti contaminati, il che li rende adatti in quei casi in cui si voglia solo bonificare l’area portuale ma non si abbia la necessità di dragare i sedimenti per aumentare la profondità dei fondali.

In generale, i trattamenti in situ hanno alcuni vantaggi rispetto a quelli condotti ex situ: necessitano di una scarsa realizzazione di infrastrutture per gestire il materiale e quindi hanno costi mediamente più contenuti e, inoltre, l’assenza di operazioni di dragaggio rende minimo il rischio di diffusione involontaria nell’ambiente dei sedimenti e del loro carico inquinante come anche i rischi di perdite associati alla movimentazione dei sedimenti a bordo delle draghe e nelle aree portuali a terra. D’altro canto, rispetto ai trattamenti ex situ, non si possono condizionare i parametri che caratterizzano i sedimenti al fine di ottimizzare i processi di decontaminazione, per cui l’eterogeneità dei sedimenti, la difficoltà ad operare con sedimenti a bassa permeabilità e ad ottenere miscelazione e diffusione adeguate dei reagenti li rendono mediamente meno efficaci. A questi vantaggi si aggiungono anche la difficoltà o impossibilità di attuare queste tecniche quando la profondità del fondale sia elevata e il fatto che comunque i sedimenti contaminati permangono nell’ambiente acquatico.

Tra gli interventi in situ si ricordano: il capping; alcuni trattamenti biologici (bioaugmentation e bioventing), l’ossidazione chimica in situ.

Il capping è di gran lunga l’intervento in situ più adottato più di frequente. Essenzialmente consiste nel posizionare una copertura di materiale pulito al di sopra dei sedimenti contaminati in modo da isolarli rispetto all’ambiente acquatico sovrastante. La presenza della copertura infatti riduce la possibilità di risospensione e trasporto dei sedimenti contaminati e impedisce anche la possibilità di scambi fisici, chimici o biologici all’interfaccia sedimento contaminato/colonna idrica sovrastante. Con il tempo la copertura stessa viene poi seppellita da un nuovo strato naturale sedimentario di materiale solido non contaminato eliminando l’indesiderabile presenza di una perimetrazione antropica dell’ambiente. Il tipo più semplice di copertura con la quale realizzare il capping è l’impiego

(7)

37 di materiale granulare inerte e pulito come sabbie e ghiaie che possono essere disposte sul sito in strati uniformi riversandole lentamente in superficie e lasciandole sedimentare per gravità (limiti di profondità per evitare distribuzioni disomogenee sul fondale) oppure posarle in opera sul fondale in stato di fango mediante condotte idrauliche. In alternativa si possono utilizzare coperture complesse, costituite da strati multipli e alternati di geotessili, liners e riempimenti permeabili o impermeabili che possono fungere da semplice materiale inerte di riempimento o avere invece effetto utile alla bonifica se additivati di elementi reattivi (ad es. carboni attivi, materiale organico, argille idrofobiche adsorbenti, Aquablok).

Il capping consente di ridurre l’esposizione dell’ambiente ai contaminanti in modo efficace e in tempi brevissimi e comporta un rischio minimo di risospensione dei sedimenti e costi dei materiali di copertura e di messa in opera relativamente moderati. Tra gli svantaggi però, comporta la modifica dell’habitat naturale con possibili conseguenze negative sulle biocenosi marine, causa alcune modeste limitazioni di uso del sito (riduzione della profondità, limitazione alla navigazione e all’ancoraggio) e comunque non va a rimuovere i contaminanti che restano presenti nel sito seppure isolati e resi inoffensivi nei confronti dell’ambiente marino superficiale (Fratini, 2008). Recentemente state anche introdotte delle innovative coperture reattive, in grado di far penetrare i contaminanti al loro interno dove vengono degradati per effetto di reazioni chimiche con sostanze di varia natura coperte da brevetto contenute all’interno dello strato di copertura. Non si hanno ancora informazioni su applicazioni di queste coperture in scala reale.

In seguito agli interventi di capping è necessario monitorare il sito per essere sicuri che non avvengano erosioni o altri effetti fisici dannosi sulla copertura per scongiurare la possibile formazione di percorsi di infiltrazione dei contaminanti.

I trattamenti biologici in situ sfruttano i naturali processi di biodegradazione dei contaminanti organici ad opera dei microrganismi. La bioaugmentation consiste nell’inserire nel sito da bonificare alcune specie selezionate di microrganismi (batteri e funghi) per degradare le sostanze dannose presenti, dato che alcune sostanze che sono dannose per l’uomo costituiscono invece nutrimento per queste specie microbiche che le utilizzano nelle loro reazioni metaboliche per produrre l’energia necessaria al loro sostentamento. Il bioventing sfrutta lo stesso principio, ma si limita a fornire un’ossigenazione forzata dell’ambiente

(8)

38

acquatico per aumentare il metabolismo dei microrganismi naturalmente presenti nel sito. Il target di contaminanti rimuovibili con trattamenti biologici è però limitato a poche sostanze organiche.

Il trattamento in situ chemical oxidation (ISCO) è un trattamento chimico che consiste nell’iniezione nei sedimenti di agenti chimici fortemente ossidanti per degradare contaminanti organici quali solventi clorurati, solventi aromatici e idrocarburi che per effetto dei processi ossidativi che si instaurano vengono degradati, in maniera completa fino a CO2+H2O o parzialmente ad intermedi di reazione meno tossici.

I principali agenti chimici ossidanti immessi sono perossido di idrogeno eventualmente addizionato di sali ferrosi, permanganato di sodio o di potassio (KMnO4 o NaMnO4) e ozono. L’impiego di questa tecnica in situ è fortemente limitata dalla necessità di confinare l’area trattata e dalle difficoltà nell’ottenere una completa ed omogenea miscelazione fra reagenti e contaminanti, soprattutto in presenza di eterogeneità dei sedimenti; inoltre c’è il rischio che si formino composti più tossici di quelli di partenza, ad esempio quelli dovuti all’ossidazione di Cr, Hg e Pb, senza contare che l’immissione stessa dei reagenti rappresenta comunque una contaminazione antropica del sito (Fratini M., 2008).

2.1.3: Trattamenti ex situ

Nel caso dei trattamenti ex-situ, i sedimenti devono preventivamente essere estratti dai fondali portuali mediante dragaggio. Questo ha come vantaggio la rimozione dei contaminanti dal sito che risulta quindi efficacemente bonificato e l’approfondimento del bacino idrico dragato, che è spesso lo scopo principale dell’intervento. Inoltre una volta portati i sedimenti a terra è possibile condizionarli e, comunque, avere la possibilità di controllare più facilmente i parametri in cui avvengono i successivi trattamenti. D’altra parte, le operazioni di dragaggio comportano come già visto il rischio di diffondere i contaminanti presenti nei sedimenti e, inoltre, dopo la loro movimentazione il trattamento andrà eseguito in strutture attrezzate il cui allestimento costituisce una notevole voce di costo (insieme al costo necessario al dragaggio) che rende i trattamenti ex situ mediamente più costosi di quelli visti precedentemente.

(9)

39 Un problema cruciale dei trattamenti ex situ, risiede nel fatto che dopo il dragaggio, prima di potere effettuare il trattamento di bonifica vero e proprio, è necessario un pretrattamento atto a ridurre il contenuto d’acqua nei sedimenti (dewatering). Il dewatering rappresenta un grande ostacolo alla bonifica dei sedimenti marini con trattamenti ex-situ per varie ragioni. Innanzitutto durante la fase di dewatering sarebbe necessario destinare a quest’operazione un’apposita zona a terra nell’ambito portuale, ma molto spesso non si dispone di simili estensioni di aree libere. Si tenga anche conto che il dragaggio dei sedimenti è in genere un processo rapido che si desidera terminare nel più breve tempo possibile perché durante il dragaggio il porto deve inibire la percorrenza di alcune rotte navali e tutta l’attività portuale risulta di conseguenza parzializzata fino al completamento del dragaggio e, inoltre, le moderne draghe riescono a movimentare una quantità giornaliera di sedimenti molto elevata (migliaia di m3/d) ma hanno costi di affitto elevatissimi. Non esistono invece tecniche di dewatering in grado di ottenere questi ritmi: l’abbattimento del contenuto d’acqua nei sedimenti viene in genere ottenuto per disidratazione passiva disponendoli in casse di essicamento impermeabilizzate di modesta profondità e lasciandoli all’azione termica solare ma è un processo molto lungo, quindi man mano che i sedimenti vengono dragati verrebbero ad accumularsi nelle casse di essiccamento sulle banchine fino alla fine del dewatering, occupando aree di cui non si può realisticamente pensare di disporre se non per interventi di modestissima entità. In alternativa si potrebbe pensare di attuare tecniche di essiccamento più energiche, tramite disidratazione attiva che sfrutta il riscaldamento artificiale dei sedimenti o azioni meccaniche di ispessimento e centrifugazione, ma ciò richiede costi energetici probabilmente non sostenibili.

Il problema del dewatering resta ad oggi una questione non risolta che rende tendenzialmente poco applicabili i trattamenti di bonifica ex situ ai sedimenti portuali.

Ad ogni modo, tra i possibili trattamenti ex situ di bonifica di sedimenti marini si ricordano diversi trattamenti termici (incenerimento, pirolisi, vetrificazione, desorbimento

termico), i trattamenti chimici di soil/sediment washing e alcuni trattamenti biologici quali landfarming, phytoremediation e bio-pile (Geraldini S., 2005).

I trattamenti termici consistono nel riscaldare i sedimenti a centinaia o migliaia di gradi ottenendo un’efficace distruzione dei composti organici (PCB, IPA, diossine, furani,

(10)

40

idrocarburi e pesticidi). I metalli pesanti però non vengono distrutti e anzi quelli volatili, in particolare il mercurio, vengono rilasciati con i gas esausti che richiedono quindi un’ulteriore unità di trattamento.

L’incenerimento si realizza riscaldando i sedimenti in presenza di ossigeno, per bruciare od ossidare la sostanza organica e si può suddividere ulteriormente in incenerimento convenzionale (temperature di 650-1100°C) e innovativo (temperature più elevate e maggiori efficienze di distruzione ma costi molto più elevati).

Nella pirolisi, invece, i sedimenti vengono riscaldati in assenza di ossigeno a temperature di 400-800°C. In queste condizioni le molecole complesse si rompono e si formano composti leggeri, producendo tra l’altro un gas di pirolisi (syngas), una frazione liquida (olio pirolitico o tar) e un residuo solido ancora combustibile (char).

Il processo di vetrificazione è basato sul riscaldamento del sedimento a temperature generalmente comprese tra 1600-2000°C che comportano la fusione del materiale seguita da un rapido raffreddamento che porta alla formazione di un solido monolitico vetroso e non cristallino, in cui una gamma molto ampia di contaminanti, compresi diossine, PCB e VOC vengono efficacemente immobilizzati.

Nei processi di desorbimento termico, i sedimenti vengono scaldati a temperature comprese tra 90 e 540 °C. Ciò comporta la separazione fisica dei composti volatili e semivolatili dai sedimenti (tra cui composti organici e alcuni metalli volatili) che vengono vaporizzati e fuoriescono quindi dal sedimento trattato e vengono successivamente fatti condensare e raccolti in forma liquida attraverso adsorbimento su carboni attivi e/o distrutti in camere di postcombustione.

I trattamenti chimici di soil/sediment washing si basano sul trasferimento dei contaminanti dai sedimenti ad un fluido di lavaggio, basandosi sull’azione estraente chimica e meccanica che l’acqua additivata di idonei reagenti chimici svolge sulla matrice solida contaminata. Generalmente deve essere preceduto da un pretrattamento di separazione delle diverse frazioni granulometriche, ma in presenza di frazione pelitica elevata diventa poco utilizzabile a causa della bassissima permeabilità idraulica

Tra i processi di decontaminazione biologica ex situ, il landfarming consiste nell’attrezzare delle aree con apposite impermeabilizzazioni e sistemi di raccolta dei fluidi di percolazione e collocare i sedimenti contaminati in queste aree, in strati di circa 15-20 cm di spessore e

(11)

41 miscelandoli con opportuni ammendanti per facilitare il metabolismo dei microrganismi che opereranno la biodegradazione.

La bioremediation e la phytoremediation sono analoghe alla bioaugmentation già vista fra i trattamenti in situ e sono applicabili anche alle vasche di colmata, dove al loro interno vengono aggiunti ossigeno, nutrienti e altri additivi per incrementare il metabolismo dei microrganismi che operano la biodegradazione. La grandezza delle vasche può, però,

recare dei problemi al controllo dei parametri per permettere una ottimizzazione del processo.

Nel trattamento in bio–pile i suoli sono scavati e messi a dimora in luoghi chiusi e generalmente impermeabilizzati sul fondo. Il trattamento sfrutta la capacità di numerosi ceppi batterici e fungini di attaccare, in un ambiente controllato, un largo spettro di molecole trasformandole in energia e nutrimento. Nelle varie “pile”, le strutture unitarie di trattamento, viene inserito il terreno contaminato e vengono ottimizzati al suo interno tutti i parametri fisici (temperatura, pH, potenziale redox) e nutrizionali (macro e micronutrienti, ossigeno, umidità e fattori di crescita) in modo da favorire la biodegradazione dei contaminanti (Fratini M., 2008).

2.2: Decontaminazione Elettrocinetica (EKR)

L’inquinamento dei sedimenti sui fondali dei porti è causato principalmente dalla navigazione a motore, dalle attività portuali, dall’industria, dai cantieri navali e dalle acque reflue. La contaminazione inorganica più frequentemente osservata è costituita da alcuni metalli pesanti (Al, As, Cd, Cr, Hg, Ni, Pb, Cu, Zn, V), mentre la contaminazione da composti organici è per lo più dovuta alla presenza di idrocarburi pesanti alifatici ed aromatici, policlorobifenili (PCB) e composti organoclorurati (Rulkens, 2005). Quando i livelli di contaminazione sono elevati, l’unica alternativa al conferimento in discarica dei sedimenti dragati consiste nel sottoporre i sedimenti a trattamenti di bonifica che permettano di ridurre le concentrazioni dei contaminanti a livelli tali da consentirne il loro reflusso in vasca di colmata o altra struttura di contenimento o il loro il reimpiego utile.

Sfortunatamente, la maggior parte delle tecniche di bonifica esistenti e brevemente descritte nei precedenti paragrafi risultano difficilmente applicabili sui sedimenti marini

(12)

42

caratterizzati da bassa permeabilità e in particolare nessuna di esse risulta efficace nel rimuovere i metalli pesanti. In questo contesto, negli ultimi anni sono state studiate diverse nuove soluzioni per il trattamento dei sedimenti marini e tra queste la depurazione elettrocinetica (ElectroKinetic Remediation, EKR) ha attirato molto interesse, mostrando ottime potenzialità di applicazione sui sedimenti marini dato che non richiede un pre-trattamento di essiccazione del campione, può essere impiegata sia in-situ che ex-situ, è efficace su un ampio range di inquinanti organici e inorganici (primariamente sui metalli pesanti) e le matrici a struttura fine con bassa permeabilità ed elevato grado di saturazione ricadono nel suo range ottimale di funzionamento. In virtù di queste caratteristiche la decontaminazione elettrocinetica si qualifica come soluzione ottimale per la bonifica dei sedimenti marini, in particolare per quelli contaminati da metalli pesanti (Masi M., 2016). Nella letteratura scientifica è ormai presente una grande quantità di studi teorici ed applicazioni sperimentali in scala di laboratorio condotti sulla EKR, per la quale si dispone ormai di una solida conoscenza teorica dei meccanismi fisico-chimici di funzionamento; nonostante si sia dimostrata molto promettente, le applicazioni in scala reale di trattamenti EKR per la decontaminazione di suoli e sedimenti contaminati sono però ancora poche. Il principale ostacolo alla diffusione delle applicazioni in scala reale risiede nella complessità del processo: la decontaminazione elettrocinetica sfrutta la sinergia di diversi meccanismi che avvengono contemporaneamente, caratterizzati da una forte non-linearità e che sono fortemente dipendenti dalle caratteristiche caso-specifiche del materiale da trattare (la combinazione di contaminanti presenti, l’eterogeneità e il potere tampone della matrice di sedimenti costituiscono fattori complicanti) cosa che rende molto difficile sviluppare modelli di previsione generali dell’evoluzione cinetica e delle prestazioni che potrebbero essere conseguite. La carenza di modelli numerici o software dedicati per simulare le prestazioni del sistema in funzione dei vari parametri coinvolti rende inoltre difficile l’individuazione dei parametri ottimali da impiegare per ottimizzare il processo e renderlo competitivo da un punto di vista tecnico-economico (Masi, 2016).

In questo paragrafo sono descritte le caratteristiche principali e gli aspetti teorici generali alla base della tecnica di decontaminazione elettrocinetica, mentre nel prossimo capitolo verrà descritta l’esperienza sperimentale svolta nell’ambito del progetto Life+ SEKRET consistita nella realizzazione di un impianto pilota presso il porto di Livorno per trattare 150 metri cubi

(13)

43 di sedimenti marini contaminati da metalli pesanti dragati dai fondali del porto allo scopo di dimostrare l’efficacia e fattibilità nell’impiegare questa tecnica per la loro bonifica.

La Electrokinetric Remediation è una tecnologia innovativa che utilizza correnti elettriche a bassa intensità per generare un campo elettrico in cui il materiale da trattare si trova immerso e indurre così la mobilizzazione di molti contaminanti inorganici ed organici (Lageman, 1993; Reddy e Cameselle, 2009). In figura 2.2 viene presentato lo schema generico di un sistema di decontaminazione elettrocinetica:

Figura 2.2: schema di un sistema di decontaminazione elettrocinetica in-situ (tratto da: Reddy e Cameselle,

2009, modificato da Masi, 2016)

L’esecuzione della tecnica EKR prevede di applicare un campo elettrico sul volume di sedimento da trattare. Ciò si ottiene collocando dei pozzetti porosi all’interno della matrice solida da trattare e alloggiando in questi pozzetti degli elettrodi che vengono alimentati da corrente elettrica generando così un gradiente di potenziale elettrico all’interno del volume di trattamento. Oltre a servire come alloggiamento per gli elettrodi i pozzetti porosi hanno anche lo scopo di permettere la circolazione al loro interno di soluzioni elettrolitiche che

(14)

44

consentono il condizionamento dei parametri operativi e della chimica del sistema e fanno da veicolo per l’estrazione dei contaminanti.

La presenza del campo elettrico indotto dagli elettrodi causa la mobilitazione dei contaminanti, che vengono trasportati attraverso il fluido interstiziale verso gli elettrodi da forze di natura elettrochimica e si trasferiscono agli elettroliti circolanti nei pozzetti portaelettrodi, dai quali possono poi essere separati in un secondo momento mediante trattamenti della fase liquida. I meccanismi di trasporto dei contaminanti sono essenzialmente quattro:

Elettromigrazione: ioni e altri complessi polari disciolti nella soluzione interstiziale

vengono trasportati per effetto del potenziale elettrico applicato;

Elettrosmosi: gli ioni e i complessi disciolti vengono trasportati per effetto del

movimento dello stesso fluido interstiziale in cui sono disciolti. A sua volta, il movimento della soluzione interstiziale è generato dalla presenza del doppio strato elettrico sulle superfici cariche dei grani che costituiscono la matrice solida;

Elettroforesi: le particelle colloidali presenti vengono movimentate nel fluido

interstiziale per effetto della carica superficiale causata dal potenziale elettrico applicato di cui sono dotate;

Diffusione: consiste nel trasferimento delle specie chimiche in soluzione per

effetto dei gradienti di concentrazione presenti tra le varie parti del sistema. Dei quattro meccanismi di trasporto elencati, i primi tre dipendono dal campo elettrico applicato, mentre il quarto dipende esclusivamente da equilibri di natura chimica. Tra i meccanismi di trasporto elettrocinetici, il contributo dovuto all’elettroforesi può essere ritenuto trascurabile rispetto agli altri due, quanto meno nelle condizioni operative in cui avviene la decontaminazione elettrocinetica di suoli e sedimenti, e per questo nelle valutazioni delle applicazioni pratiche è quindi lecito ignorarlo sistematicamente (Acar e Alshawabkeh, 1993).

I contaminanti possono esistere in diverse forme all’interno dei sedimenti contaminati: specie adsorbite sulle superfici delle particelle solide, specie adsorbite su particelle colloidali in sospensione nel fluido interstiziale, specie disciolte nel liquido interstiziale o specie solide sotto forma di precipitati. La tecnica di decontaminazione

(15)

45 elettrocinetica però può estrarre dai sedimenti solo i contaminanti che si trovano in forma mobile nel fluido interstiziale. Per questo motivo, al fine di ottimizzare il processo si cercherà di adottare strategie operative finalizzate a causare il desorbimento dei metalli e dei complessi polari per portarli in soluzione. Ciò si ottiene sostanzialmente con le variazioni dei valori del pH all’interno del sistema (l’acidificazione favorisce il desorbimento e i contaminanti passano in soluzione, mentre l’aumento di pH provoca la riprecipitazione delle sostanze disciolte).

A tal proposito, si evidenzia che l’applicazione del campo elettrico causa reazioni di elettrolisi delle molecole d’acqua secondo le reazioni:

Anodo: 2H2O → O2 + 4H+ + 4e -Catodo: 2H2O + 2e- → H2 + 2OH-

Per effetto delle quali vengono quindi generati idrogenioni H+ all’anodo e ossidrilioni OH- al catodo che condizionano il pH del sistema, generando un fronte acido che avanza progressivamente dall’anodo verso il catodo e un fronte basico che procede in senso inverso. Durante il funzionamento del processo il pH è quindi un parametro continuamente variabile in funzione del tempo e dello spazio.

L’acidificazione in prossimità dell’anodo facilita il desorbimento di metalli e dei complessi polari, mentre l’alcalinizzazione generata al catodo ostacola la mobilità dei contaminanti poiché ne causa la precipitazione. Le condizioni operative possono comunque essere influenzate con relativa facilità in vari modi, il più efficace dei quali è il dosaggio di acidi o basi tramite le soluzioni elettrolitiche che circolano nei pozzetti: introducendo un agente acido nel catodo si contrasta la basificazione dovuta all’elettrolisi, mentre all’anodo può rendersi opportuno dosare un agente alcalino per limitare l’acidificazione a valori di pH non troppo bassi che finirebbero per causare delle controindicazioni di carattere operativo.

In letteratura sono disponibili trattazioni che forniscono una panoramica completa sulle tecniche utilizzabili per migliorare l’efficienza di estrazione elettrocinetica dei contaminanti (Yeung and Gu, 2011).

Rispetto alle altre tecniche di bonifica dunque, la decontaminazione elettrocinetica offre i seguenti vantaggi (Reddy e Cameselle, 2009):

- Applicabilità a sedimenti parzialmente o completamente saturi; - Flessibilità nell’utilizzo in situ o ex situ;

(16)

46

- Applicabilità a materiale a bassa permeabilità; - Possibile integrazione con altre tecniche di bonifica;

- Efficace nella rimozione di metalli pesanti, inquinanti organici, radionuclidi e miscele di queste sostanze.

La decontaminazione elettrocinetica presenta comunque anche diversi aspetti limitanti: - Alcune caratteristiche della matrice da trattare (la resistività elettrica, la capacità

tampone, l’eterogeneità, le interazioni suolo-contaminante, etc.) possono condizionare la fattibilità del processo;

- I tempi necessari alla decontaminazione possono essere lunghi;

- È necessario che gli inquinanti siano solubilizzati affinché possano venire mobilitati e questo richiede il ricorso ad agenti chimici esterni;

- Necessità di un fluido di processo, il quale a suo volta deve periodicamente essere estratto dal sistema e trattato;

- Viste le difficoltà nel prevedere le prestazioni che il trattamento potrà avere, prima di realizzare un’unità di trattamento in scala reale è necessario, caso per caso, svolgere indagini e sperimentazioni con la specifica matrice solida da trattare al fine di modellare ed ottimizzare l’intero processo.

Le applicazione della EKR a scala completa e a scala pilota sono ancora poche, tutte relativamente recenti (la prima risale al 1987) e principalmente relative a suoli contaminati, mentre limitatissime sono le applicazioni sui sedimenti marini. Nella tabella 2.2 vengono riportati i dati di alcune di esse:

(17)

47 Luogo e anno Dimensioni della area trattata Schema di trattamento Parametri usati Tipo di suolo e contaminanti Durata Rimozione ottenuta Riferimenti bibliografici Groningen, Olanda. Ex fabbrica di vernici, 1987 70 x 3 x 1 m un catodo orizzontale a -0,5 m p.c. e una fila di anodi verticali profondi 1m, 1 m di interspazio corrente fornita 10h/d torba, pH 4. Cu 500-1000 mg/kg; Pb 300-5000 mg/kg 43 days Cu 80% (max); Pb 70% max. Cons.energetico 65 kWH/m3 Lageman (1993) Stadskanaal, Olanda. Ex impianto di trattamento legname (1990-1992) 70 x 40 x 2.6 m catodi disposti orizzontalmente e anodi verticalmenmte N / A suolo argilloso. 1a sezione: Cd 2-74 mg/kg; 2a sezione: CD 20-3400 mg/kg 300 days Cd 1-40 mg/Kg Lageman (1993) Point Mugu, California. Naval Air Weapon Station. 1998 N / A file alternate di anodi e catodi. Distanza anodo-anodo: 2 m; distanza anodo-catodo=4,3 m Densità di corrente 1-10A/m2. Voltaggio variabile con massimo 45V. Dosaggio di acido citrico Cr 180-1100 mg/kg; Cd 5-20 mg/kg

180 days Cr 78%; Cd 70% Gent et al. (2004) Oostburg, Olanda. Sito di una ex gaswork, 2001 120 m3 N / A N / A suolo argillo-sabbioso. Cn 930 mg/kg

90 giorni Cn 83%-97% Lageman e Pool (2009) Corea del Sud. Poligono di tiro abbandonato. 2010 5.3 m3 due celle esagonali attrezzate con 1 catodo centrale e 6 anodi ai vertici Voltaggio 110 V per 30 days, poi 50V. Corrente totale 2-4A. Dosaggio di HNO3 Pb 1400-1790 mg/kg; Cu 120-200 mg/kg 100 days Pb 10-70%; Cu 50-75% Lee et al. (2012)

Tabella 2.2: dati su alcune delle implementazioni di decontaminazione elettrocinetica a scala reale

(Tratto da Masi, 2016, modificato)

2.2.1: Smaltimento degli elettroliti esausti da impianto EKR

Un aspetto significativo da tenere in considerazione nelle applicazioni di decontaminazione elettrocinetica riguarda la necessità di gestire i fluidi di processo sfruttati nell’impianto, ovvero le soluzioni elettrolitiche. Infatti, la gestione ed il trattamento degli elettroliti derivanti da trattamento di matrici contaminate con tecnica EKR è un aspetto raramente analizzato in letteratura ma di fondamentale importanza sia dal punto di vista dell’efficienza del processo sia dal punto di vista dei costi di gestione e smaltimento dei rifiuti liquidi.

Con il tempo a causa delle reazioni di elettrolisi, del dosaggio di agenti condizionanti e dei fenomeni di trasporto dovuti al campo elettrico, la composizione chimica degli elettroliti

(18)

48

cambia profondamente. In particolare, essi si arricchiscono degli ioni di metalli pesanti trasferiti dai sedimenti, di particolato colloidale dovuto all’occasionale precipitazione di ioni presenti in soluzione e, soprattutto, aumenta moltissimo il contenuto di salinità negli elettroliti dovuto sia al dosaggio degli agenti di condizionamento del pH che al trasferimento dalla matrice trattata di macro-elementi (principalmente cloruri, sodio e solfati).

Gradualmente la concentrazione di questi componenti nelle soluzioni elettrolitiche aumenta fino a quando le loro caratteristiche chimiche diventano poco adatte al loro impiego nel trattamento EKR per vari motivi (Iannelli et al., 2016):

- il materiale particolato presente può causare ostruzioni;

- l’aumento della concentrazione di contaminanti negli elettroliti ha conseguenze negative sul meccanismo di diffusione chimica tra matrice trattata e elettroliti: la sfavorevole differenza di concentrazione dei contaminanti tra la parte liquida e la matrice solida infatti potrebbe comportare la loro diffusione dagli elettroliti nuovamente verso i sedimenti da cui erano stati rimossi invece che il trasferimento nel senso opposto. I meccanismi elettrochimici di trasporto dei contaminanti non risentono del gradiente di concentrazione, quindi il bilancio netto di trasferimento dei contaminanti può ancora procedere a favore della decontaminazione, ma in maniera meno efficace;

- l’incremento di salinità negli elettroliti diminuisce l’efficacia dell’EKR perché riduce il gradiente di potenziale elettrico applicabile alla matrice a parità di corrente applicata ma la corrente massima applicabile è limitata perché aumentandola troppo si causerebbe il surriscaldamento degli elettroliti per effetto Joule. Inoltre un’eccessiva salinità può creare problemi altrove nel sistema, ad esempio possono formarsi incrostazioni e depositi dannosi soprattutto per alcune componenti delicate del sistema quali le pompe.

Per via di questi aspetti si rende necessaria il periodico trattamento delle soluzioni elettrolitiche esauste.

Integrare la gestione degli elettroliti con dei trattamenti in linea a cui sottoporli lungo il loro circuito di ricircolo prima di re-immetterli nell’impianto appare difficilmente fattibile, soprattutto perché le condizioni di pH idonee al trattamento degli elettroliti sono diverse da

(19)

49 quelle necessarie nell’unità di trattamento EKR quindi si renderebbe necessario modificare il pH ad ogni ciclo.

La soluzione più pratica è quindi quella di estrarre periodicamente gli elettroliti dall’impianto elettrocinetico non appena la concentrazione dei componenti chimici di cui si sono arricchiti raggiunge i valori prefissati di intervento e procedere al loro trattamento fuori linea. Contemporaneamente il volume di liquidi estratti dall’impianto di decontaminazione elettrocinetica viene reintegrato con nuovi elettroliti in modo da non dovere interrompere il trattamento dei sedimenti.

Non esiste un unico trattamento o un’unica combinazione di trattamenti ideale in tutti i casi per la gestione degli elettroliti esausti in uscita da un impianto di decontaminazione elettrocinetica, perché la strategia di trattamento più adeguata dipende dalla specifica caratterizzazione chimica presente negli elettroliti esausti che può variare notevolmente in funzione delle caratteristiche dei sedimenti trattati e del tipo di reagenti impiegati per il condizionamento del pH.

In genere risulta vantaggioso eseguire come primo intervento un condizionamento del pH seguito da sedimentazione dei precipitati. Infatti, le soluzioni elettrolitiche in uscita dagli impianti elettrocinetici presentano valori di pH molto bassi, in genere compresi fra 1,5 e 3, volutamente indotti come già visto precedentemente per ottimizzare la mobilità dei contaminanti e la loro estrazione dalla matrice contaminata. Aumentando il pH nell’elettrolita esausto fino a valori di circa 6 tramite il dosaggio di un agente alcalinizzante (ad esempio NaOH o calce), si ottiene la formazione e precipitazione di un certo quantitativo di particelle colloidali (in gran parte costituite da ferro trivalente) che possono poi essere facilmente allontanate dall’elettrolita esausto per sedimentazione. In questo modo si ottiene l’eliminazione efficace del particolato presente negli elettroliti e si ottiene anche una riduzione del carico a cui sottoporre i trattamenti successivi, che potrebbero anche essere incompatibili con la presenza di particolato solido.

Per abbattere il contenuto salino, si può ricorrere a vari possibili trattamenti comunemente impiegati per ottenere acqua dolce a partire da acqua marina o salmastra. Tra di essi i processi più indicati per il trattamento degli elettroliti in esame sembrerebbero essere i processi a membrana o i processi termici.

(20)

50

Nei processi a membrana la dissalazione viene operata attraverso membrane sintetiche semipermeabili, tra di esse le più adatte al caso in esame sono l’osmosi inversa e, in minor misura, l’elettrodialisi.

L’osmosi inversa è un processo in cui si forza il passaggio delle molecole di solvente dalla soluzione più concentrata alla soluzione meno concentrata applicando una differenza di pressione maggiore della pressione osmotica all’interfaccia di separazione fra le due soluzioni. In pratica, l'osmosi inversa viene realizzata con una membrana che trattiene il soluto da una parte impedendone il passaggio mentre consente il transito dell’acqua che risulta così depurata. L’osmosi richiede l’applicazione di pressioni che dipendono dal grado di salinità dell’acqua da dissalare, ma che sono comunque nell’ordine di diverse decine di atmosfere. A fronte di una buona efficacia nella rimozione del contenuto salino sono però trattamenti che richiedono periodici manutenzioni delle pompe e possono essere necessari pretrattamenti sugli elettroliti per rimuovere componenti che rischierebbero di causare il fouling della membrana.

L’elettrodialisi invece è un processo che sfrutta l’impiego di membrane che permettono selettivamente il passaggio ad anioni e cationi. Il processo consiste a grandi linee nella creazione di un campo elettrico tra due membrane, una cationica e una anionica, che genera un movimento elettrocinetico degli ioni negativi oltre una membrana e di quelli positivi oltre l’altra, lasciando scorrere tra le due l’acqua dissalata. Presenta il vantaggio di potere rimuovere contemporaneamente dagli elettroliti sia gli ioni metallici disciolti che i sali, ma richiede valori operativi di sali disciolti modesti, fattore che la rende di difficile applicazione al trattamento degli elettroliti esausti.

I processi termici impiegabili per la desalinizzazione possono essere di vario tipo (monostadio, multiflash, evaporazione ad effetti multipli) ma sostanzialmente consistono tutti nel fornire calore al fluido in modo da ottenere l’evaporazione del solvente lasciando i contaminanti come residuo del processo di evaporazione. I trattamenti termici possono risultare competitivi su grandi impianti ma presentano diversi inconvenienti, tra cui i costi energetici per la somministrazione di energia e la maggiore complessità dovuta alla necessità di ulteriori unità per il trattamento dei fumi prodotti.

Per quanto riguarda la rimozione dei metalli pesanti disciolti negli elettroliti, se essi sono presenti in concentrazioni molto piccole rispetto al contenuto di salinità (come è stato riscontrato ad esempio nell’impianto pilota del progetto SEKRET), si può anche fare a meno

(21)

51 di utilizzare una specifica unità di trattamento dato che l’unità di desalinizzazione è in grado di agire anche sul trattenimento dei metalli. Concentrazioni elevate di metalli possono però provocare l’intasamento prematuro delle membrane o provocarne il fouling, quindi rendono necessario rimuoverli preventivamente con una unità di trattamento dedicata. Il modo migliore per ottenere la rimozione dei metalli disciolti negli elettroliti è l’utilizzo di resine a scambio ionico selettive.

Si tratta di speciali resine generalmente prodotte in forma di microsfere di diametro submillimetrico che vengono disposte all’interno di un contenitore per il trattamento e trattenute in sede da un filtro sul fondo. L’elettrolita da trattare viene fatto percolare lentamente attraverso le resine, le quali presentano un’elevata densità specifica di siti chimicamente attivi di scambio che rilasciano specie ioniche inoffensive in soluzione (nella maggior parte dei casi Na+ o H+) e ai quali invece si legano gli ioni metallici disciolti negli elettroliti che quindi non saranno più presenti nell’effluente. L’impiego di opportune resine chelanti selettive permette di bloccare in maniera mirata i metalli pesanti lasciando invece praticamente inalterato il contenuto di cationi di cui non interessa ottenere la rimozione, quali Na, Mg e K. La dimostrazione dell’applicabilità nell’utilizzo di resine a scambio ionico per il trattamento degli elettroliti esausti da decontaminazione elettrocinetica costituisce lo scopo dell’attività sperimentale di questo lavoro di tesi e sarà approfondito nei capitoli 4 e 5.

Mentre il ricorso al preventivo condizionamento alcalinizzante di pH per deacidificare gli elettroliti e rimuovere il particolato per sedimentazione è impiegabile in tutti i casi, successivamente a questo pre-trattamento la migliore strategia di gestione degli elettroliti esausti va valutata caso per caso e dipende principalmente dalle proporzioni tra il contenuto di metalli pesanti e la salinità presenti, nonché dalla riduzione di salinità che si vuole conseguire a seconda del modo in cui si intendono smaltire gli elettroliti trattati.

Infatti, data la natura delle applicazioni elettrocinetiche sui sedimenti marini, molto spesso gli impianti di trattamento sorgono nelle immediate vicinanze del mare (ciò è palese nel caso delle applicazioni di EKR in situ, ma accade anche quando i sedimenti vengano dragati e poi riversati in vasche di colmata attrezzate o in impianti di trattamento elettrocinetici realizzati all’interno dell’area portuale). In questi casi può essere conveniente sversare a mare gli elettroliti trattati e allora la salinità in essi presente non desta preoccupazione dato che la

(22)

52

normativa italiana non prevede limiti di emissione su cloruri e solfati quando lo scarico avviene a mare (Tabella 3 dell’allegato 5 alla parte III del T.U. 152/2006). In questo caso può quindi essere conveniente limitarsi alla rimozione dei metalli pesanti disciolti nell’elettrolita utilizzando un’unità di resine a scambio ionico su colonna.

Quando invece lo smaltimento a mare degli elettroliti esausti sia tecnicamente impossibile o economicamente non conveniente, occorre fare riferimento anche ai severi limiti di emissioni imposti dalla normativa sul contenuto di cloruri e solfati. In questi casi la desalinizzazione risulta essere obbligatoria e può essere l’unica forma di trattamento se la concentrazione di metalli presente risulta sostenibile per il trattamento di desalinizzazione prescelto o da eseguire in serie ad un trattamento preliminare per la rimozione selettiva dei soli metalli pesanti.

Riferimenti

Documenti correlati

Nel nostro studio i livelli plasmatici di galactina-3 sono risultati più alti, pur con un valore non significativo dal punto di vista statistico, nei pazienti con patologia limitata

Da un lato, quindi, le altmetrics vengono invocate per superare i limiti delle metri- che tradizionali; dall’altro sembrano legittimarsi solo se, e quando, messe in rela- zione alle

I linked data sono così una delle strategie tecnologiche più avanzate in favo- re della gestione, catalogazione, valorizzazione e comunicazione di tutte le tipolo- gie di beni

Il culto rivolto alla dea Cerere in Sardegna in epoca romana è strettamente connesso ai riti della fertilità della terra in una regione destinata, già dal periodo della

Apparent numerosity was decreased by adaptation to large numbers of dots and increased by adaptation to small num- bers, the effect depending entirely on the numerosity of the

trattamenti. In particolare su 38 casi clinici abbiamo avuto solo 3 pazienti che non hanno risposto al trattamento né in termini di riduzione del numero delle crisi né in termini

Per questa esperienza è inevitabile la differenziazione, non solo per il singolo allievo, ma per i due gruppi (nel mio caso terza e quinta). Inizialmente è stato complesso

In occasione della sorveglianza sanitaria obbligatoria per legge, ad un gruppo di 500 anestesisti ed ad un gruppo di 300 amministrativi scelti casualmente tra i dipendenti di