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STORIA DI DISTRUZIONE E RINASCITA BOSCHI DELL’ALTOPIANO DI ASIAGO: UNA

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Academic year: 2021

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L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments       71 (5): 275‐280, 2016 

© 2016 Accademia Italiana di Scienze Forestali 

DANIELE ZOVI (*)

BOSCHI DELL’ALTOPIANO DI ASIAGO:

UNA STORIA DI DISTRUZIONE E RINASCITA

(*) Dirigente Superiore Corpo Forestale dello Stato.

Dal 1882 Germania, Austria e Regno d’Italia sono stretti da un patto: la Tri- plice Alleanza. Questo tuttavia non impedisce agli italiani ed agli austriaci di ini- ziare fin dai primi del ’900 a costruire sistemi difensivi ed offensivi lungo i con- fini, circostanza a dir poco insolita tra alleati. L’Altopiano occupa una posizione geografica che gli conferisce una importanza logistica e strategica molto rile- vante; il Comando supremo dà l’avvio ad un grandioso cantiere con fortificazioni permanenti che devono fronteggiare quelle in costruzione al di là del confine e impedire una eventuale avanzata delle truppe imperiali proveniente dal Trentino verso il Vicentino lungo le direttrici sia del Brenta che dell’Astico. Si realizzano postazioni di artiglieria, batterie in caverna e opere difensive sul Rasta, a Canove di Sotto, a Bocchetta Portule, in Manazzo e a Coldarco e a partire dal 1906, ben nove anni prima della guerra, si iniziano i lavori di costruzione dei forti Verena, Corbin, Campolongo e Lisser, un sistema che si doveva contrapporre allo sbar- ramento austriaco, che andava da Folgaria allo Spitz Verle passando per Sommo Alto, Luserna, Vezzena e Busa Verle. Per usare le parole di Vittorio Corà, “una poderosa cintura corazzata che doveva precludere agli italiani la via di Trento, ma anche assicurare agli austroungarici il trampolino di lancio per un attacco in profondità contro lo schieramento italiano.”

Sul bosco la prospettiva della guerra fa sentire il suo alito. I forti sono

posizionati sulle sommità dei monti mentre altre strutture sono per lo più ubicate

in versanti nascosti e riparati. In ogni caso la loro costruzione prevede pesanti

interventi in zone coperte da bosco. Bisogna tagliare a raso pezzi di foresta per

tracciare nuovi sentieri, nuove mulattiere e strade di accesso a luoghi fino a prima

raggiungibili solo a piedi, bisogna abbattere alberi per far spazio alle batterie e

liberare linee di tiro, bisogna recuperare legna e legname per baracche, ricoveri,

terrapieni, armature, teleferiche e ogni altro manufatto utile. Sono opere che

iniziano in tempo di pace e continuano per tutta la durata della guerra, con lo scavo

di decine e decine di chilometri di trincee e di gallerie, ferite lunghe e profonde in

una terra che fino ad allora aveva visto alternarsi solo pastori e boscaioli, in

silenziosa operosità. La rete stradale si sviluppa a tal punto che la somma delle

carrozzabili supera i 400 chilometri e viene considerata la più alta densità viabile

del mondo di allora. La scure dei militari si abbatte incessantemente: c’è da

procurare l’energia per cucinare e per riscaldare, per creare ripari, baracche, dor-

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mitori, strutture per alloggi e per uffici e i boschi più vicini al fronte sono quelli più tartassati. Alla fine della guerra saranno passati sull’Altopiano, là dove vivevano venti, trenta mila persone, un milione di uomini in armi e tutti avranno tratto beneficio dal calore della legna prodotta da questi boschi.

Dal maggio del 1915 al novembre del 1918 sono quarantun mesi di guerra, tre anni e mezzo di coinvolgimento in un conflitto che ha profondamente e in modo indelebile segnato il territorio e la vita di chi qui viveva. Qui si sono sca- tenate le battaglie sanguinose che portano nomi tristemente famosi: la Strafex- pedition del maggio-giugno del 1916, la battaglia dell’Ortigara del giugno del 1917, quella del Natale del 1917 e quella del Solstizio del giugno del 1918, estremo tentativo dell’esercito austroungarico di sfondare definitivamente le di- fese italiane e scendere nella pianura vicentina. Questi combattimenti hanno cau- sato decine di migliaia di morti, la distruzione di interi paesi, l’allontanamento coatto delle popolazioni dalle proprie case, che al ritorno non avrebbero più ri- trovato, la devastazione dei boschi.

Il bosco distrutto dalle bombe

Così Mario Rigoni Stern immagina lo scoramento dei primi altopianesi che tornavano a casa dopo la guerra. “Marco e suo padre guardavano con il cuore stretto, senza parlare: quelle per loro non erano solamente macerie ma la fine di un mondo […]. Forse queste cose i due non le sapevano per istruzione ma lo sentivano d’istinto perché erano parte di queste macerie di case, di questi boschi senza più alberi vivi, di questi pascoli senza erba.”

Prima della guerra i boschi coprivano oltre la metà della superficie censita dal catasto relativo ai comuni di Asiago, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Ro- tzo per una estensione di 22.860 ettari. Questi erano classificati ad alto fusto per 18.660 ettari, con abete rosso, abete bianco e larice, e a ceduo per 4.200 ettari, quasi tutti di faggio. La proprietà era per lo più comunale, 17.000 ettari di alto fusto, mentre solo 1.800 erano privati. Secondo una stima di Vittorio Vellar, seniore della Milizia Forestale nel 1933, si tagliavano prima della guerra non meno di 35.000 metri cubi di legname da commercio con rendite altissime per i comuni proprietari dei boschi, tanto da permettere loro di realizzare importanti opere pubbliche e di rinunciare a qualsiasi imposta comunale. Situazione assai diversa da quella attuale; ora si tagliano circa 21.000 metri cubi e le tasse comunali sono del tutto analoghe a quelle degli altri comuni italiani.

I danni al bosco ceduo furono riparati abbastanza rapidamente con tagli di riceppatura e di rimonda, che permisero alle ceppaie di far nascere una nuova generazione di polloni. I danni sulle fustaie furono invece ingentissimi e le perizie dei danni da guerra eseguite nel 1919 così li riassumono:

 4.680 ettari di ottimi boschi di abete completamente rasi al suolo;

 3.781 ettari quasi distrutti;

 5.399 ettari danneggiati;

 2.860 ettari rimasti indenni.

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Le percentuali rappresentano ancora meglio l’impatto degli eventi bellici: il 35% dei boschi è sparito, inghiottito dalla guerra, il 49% più o meno fortemente danneggiato, solo il 15% è rimasto indenne.

Queste cifre parlano da sole e testimoniano di un profondo sconvolgimento degli ecosistemi forestali di proporzioni uniche rispetto a tutto il fronte di guerra, uniche perché su altre montagne il conflitto è stato altrettanto intenso, ma a quote più alte e quindi lontano dai boschi.

I Comuni si trovano violentemente depauperati di una fonte di reddito impor- tantissima: Asiago perde 1.200 ettari di foresta, Roana 1.000, Gallio 440, l’ex Con- sorzio Sette Comuni 700. I boschi che rimangono riescono a dare una quantità di legname pari appena al 12% della quantità che si ricavava prima del conflitto.

Ma anche per i proprietari di boschi privati le cose vanno malissimo. Questi sono posizionati in prossimità dei paesi, vicino alle strade e sono i primi ad essere distrutti. Si è stimato il completo abbattimento in 827 ettari e il forte danneggia- mento in altri 800. Si calcola che la loro produzione sia ridotta al 5%.

Il paesaggio forestale è desolante: alberi abbattuti, tronchi spezzati, piante an- cora in piedi ma ferite. Non si riesce a recuperare tutta questa massa di legname in poco tempo e gli alberi indeboliti attirano inevitabilmente gli insetti parassiti della corteccia e del legno. Questi sono sempre presenti in tutte le foreste, ma il loro numero, in situazioni normali, è tenuto sotto controllo da altri parassiti e dagli uccelli. Ma in questa situazione nascono ovunque focolai di infestazione di coleotteri scolitidi e di altri insetti che si nutrono di legno, chiamati con un nome generico “bostrico”, ormai sinonimo di disgrazia biblica. Alcuni insetti si infilano sotto le cortecce per nutrirsi della linfa, altri scavano gallerie nei tronchi di piante ormai morenti o fortemente debilitate e ne decretano la fine. Poi, a partire dalla primavera del 1921, i parassiti si moltiplicano a milioni e si riversano anche su alberi sani o leggermente in difficoltà che stanno tentando un recupero e li por- tano a morte. Al danno delle bombe si somma quello degli insetti, che si espan- dono su 14.000 ettari di bosco. Gli interventi di risanamento sono immediati e comportano il taglio di quasi 300.000 abeti rossi, la specie più colpita dall’Ips typo- graphus, e di altri 90.000 impiegati come alberi esca per catturare il parassita. Il suc- cesso dell’operazione, che si conclude già alla fine del 1922, è reso possibile da un intervento statale straordinario che prevede un investimento di due milioni di lire.

La più grande ricostruzione di boschi nella storia d’Italia (e forse d’Europa)

Il 1921 è anche l’anno in cui inizia la ricostruzione del patrimonio forestale.

È l’anno in cui viene realizzato in località Mosca di Asiago, su una superficie di

un ettaro e mezzo, un vivaio, dove si mettono a dimora i semi di piante prove-

nienti per lo più dal Trentino, soprattutto dalla Val di Fiemme. Quasi non si

pone la questione della specie; dovendosi ricostituire le belle abetine distrutte, in

prevalenza di abete rosso, la scelta è fatta. Inoltre questa specie è facile a prodursi

in vivaio, si adatta anche a terreni difficili e ha un’alta percentuale di successo,

mentre, al contrario, l’abete bianco e il faggio presentano difficoltà sia nell’alle-

vamento in vivaio, sia nell’attecchimento quando impiegati in semine dirette.

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Negli ambienti più aridi e dove i terreni alle quote più elevate si presentano più sassosi, si impiega il larice, che tuttavia non supera il 5% del totale. Il larice è anche la specie più richiesta per rimboschire i terreni privati, perché nel primo decennio di vita la crescita è più rapida e quindi più soddisfacente, ma il vantag- gio verso la maturità va scemando e anzi questa specie si rivela più fragile dell’abete.

Bisogna aspettare due anni per avere una plantula e questa va poi trapiantata in uno spazio più ampio e rimane in vivaio ancora uno o due anni. Contempo- raneamente si provvede a creare, distribuiti sul territorio, quattordici piccoli orti comunali, dove le piantine trapiantate attendono di essere messe a dimora. Si arriva a produrre con questo tipo di organizzazione quasi un milione di piante all’anno. Intanto anche la natura fa la sua parte: le piante sopravvissute dissemi- nano e i semi trovano terreno smosso e grande quantità di luce, due fattori fa- vorevoli al loro attecchimento.

I rimboschimenti iniziano su grande scala solo nel 1925, quando il materiale vivaistico è pronto all’impiego e il terreno su cui è destinato è bonificato dal materiale bellico, le trincee sono chiuse e i residui di legname e ramaglie asportati.

Nel terreno si scavano buche quadrate di quaranta centimetri di lato con una densità di 2.500 per ettaro, scegliendo i punti dove il terreno è più profondo o, per meglio dire, meno roccioso, ma si cerca di disporre le piantine lungo tratti rettilinei, secondo i dettami dell’epoca. Il risultato è che molti degli attuali boschi conservano l’impianto geometrico di allora, piuttosto diverso da quello delle for- mazioni forestali di origine naturale. Nei vivai lavorano solo donne, mentre nei lavori di rimboschimento vengono impiegati sia uomini che donne, attenuando in parte l’enorme disoccupazione, che si era creata sulle macerie della guerra.

Quasi tutti questi rimboschimenti vengono recintati. Si tratta di una misura necessaria per ben distinguerli dai pascoli, per tener fuori i bovini e gli ovini, che altrimenti entrerebbero a mordicchiare o a calpestare le plantule e a costipare il terreno. Si arriva a disporre una cinquantina di chilometri di filo spinato in due

Vivaio forestale “Mosca” in comune di Asiago. I lavori vengono effettuati dalle donne.

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o tre ordini, retti da pali di abete o di recupero da manufatti bellici. Il paesaggio, che d’estate si tinge del rosa purpureo dell’epilobio, una pianta erbacea pioniera che si espande ai margini del bosco e su terreni smossi, ora comincia ad acqui- stare i toni più scuri del verde.

Il ponte di Roana sulla Val d’Assa nel 1917 e nel 2016. Lungo i versanti il bosco riconquista i suoi spazi.

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Quello di piantare o ripiantare un bosco con piantine prodotte in vivaio è senza dubbio una operazione artificiosa, discretamente lontana dalle dinamiche che la natura mette in campo; e se ci si allontana dalla natura bisogna aspettarsi che prima o poi arrivi un conto da pagare. Nei primi anni dopo l’impianto in molte aree la quantità di piantine non attecchite e quindi da sostituire raggiunge il 40%. Poi nel 1928 e nel ’30 lunghe siccità estive mettono in crisi intere pianta- gioni, che devono essere ricostituite. Tuttavia la costanza con cui si persegue l’obiettivo di restituire all’Altopiano i suoi boschi dà i frutti sperati, se già nel 1933 si può ritenere ricostituita l’intera superficie forestale esistente prima della guerra: si sono messi a dimora dieci milioni di alberi, uno sforzo di ricostruzione fore- stale unico nella storia d’Italia.

Un bosco con molte fragilità

Siamo dunque di fronte a sterminate superfici disseminate da piccoli alberelli, che nei primi quattro - cinque anni crescono molto lentamente, sembrano quasi fermi nello sviluppo. Poi, quando l’apparato radicale consolida il suo sviluppo nel suolo, quando le radichette e i peli radicali si infilano nelle zolle più morbide e umide, ecco che la pianta si scuote, percorsa da una urgenza di crescita, da una insopprimibile spinta alla ricerca della luce verso l’alto con la cima e verso l’esterno con i rami. Ogni anno il getto apicale si allunga anche di settanta – ottanta centimetri. Questo significa che dopo dieci anni il bosco è più alto di sette metri, dopo venti anni di quattordici metri. In altri termini l’intero paesaggio si trasforma radicalmente e chi prima vedeva dalle strade o dai prati vaste distese di terreni nudi ora ha davanti a sé un muro di abeti.

Sono strutture forestali costituite da un’unica specie, l’abete rosso, di un’unica età. Sono popolamenti di alberi molto affollati, molto vicini uno all’altro, piutto- sto sottili e quindi facilmente spezzati dal vento o dalla neve; e quando ne cade uno, questo trascina con sé anche quelli vicini, come fossero birilli. Ogni anno in primavera i forestali e le guardie comunali fanno il conto degli “schianti”, gi- rano per i boschi per calcolare il numero degli alberi caduti o spezzati dagli eventi atmosferici e ne programmano il recupero. Questo è nell’ordine delle cose, un piccolo numero di caduti nella costante guerra per la sopravvivenza.

Ma più passa il tempo più il bosco monotono di abete si arricchisce di nuovi

arrivi. Compaiono aceri, sorbi, pioppi, frassini e betulle e nella fascia arbustiva

salici, lonicere, noccioli e ontani. La complessità piano piano dispiega le sue ali.

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