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Sul piano conoscitivo, d’altra parte, le conseguenze d’una siffatta impostazione sono, com’è ovvio, disastrose: chi, per esempio, è abituato a considerare Lutero come l’iniziatore della moderna riforma

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La monografia che ho qui il piacere di presentare conclude un lungo itinerario di ricerca che Adelaide Ricci ha dedicato, con passione e determinazione, a uno fra i temi di maggior rilievo della storia sociale, istituzionale e culturale degli antichi stati italiani al cadere del medioevo e lungo l’intera età moderna e contemporanea: la nascita di quegli ospedali cittadini che, a Cremona come in molte altre città italiane, diverranno elemento connotativo dell’identità urbana medesima suscitando, durante il secolo XVI, la meraviglia dei viaggiatori stranieri.

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Per fare ciò, Adelaide Ricci ha dovuto addentrarsi giusto al centro del secolo XV — a proprio rischio e pericolo, occorre aggiungere, dato che, almeno fino a poco tempo fa, e in parte oggi ancora, il Quattrocento è un secolo poco frequentato dalla ricerca; non perché, ovviamente, rappresenti un periodo meno importante di altri (non ci sono disparità di rilevanza fra i diversi periodi della storia), ma per ragioni, diciamo così, di cucina, di poco commendevole economia: la maggior parte delle ricerche si fanno, com’è noto, per fini accademico-concorsuali e, sotto questo profilo, i periodi di confine non fra diverse epoche, ma fra diversi dei settori in cui oggi viene suddivisa, per mere ragioni di comodo, l’organizzazione della didattica e della ricerca, possono presentare inconvenienti. Il Quattrocento, nella fattispecie, è considerato troppo tardo per rientrare in pieno nella giurisdizione dei medievisti e del tutto eccentrico rispetto a quella dei modernisti: di conseguenza, chi dedicasse i propri sforzi a produrre ricerche centrate su di esso si esporrebbe al rischio di trovarsi, per dir così, fuori da Pisa e fuori da Livorno.

Sul piano conoscitivo, d’altra parte, le conseguenze d’una siffatta impostazione sono, com’è ovvio, disastrose: chi, per esempio, è abituato a considerare Lutero come l’iniziatore della moderna riforma

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A partire da un testimone insospettabile, Martin Lutero, che aveva fatto esperienza diretta degli

ospedali italiani durante il suo celebre viaggio a Roma nel 1510, e che ancora nel 1538 così ne

riferiva ai propri commensali: “Poi Lutero parlò della ospitalità degli Italiani, raccontando

come erano predisposti i loro ospedali: «Sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e

bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i

letti ed i vestiti sono pulitissimi e i letti dipinti. Appena vien portato un malato, lo si

spoglia di tutte le sue vesti che alla presenza di un notaio vengono onestamente

messe in deposito; gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto,

lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici. Arrivano poi dei

servitori portando da mangiare e da bere in calici di vetro pulitissimi che non toccano

neppure con un mignolo, ma li offrono su di un piatto. Accorrono qui delle spose

onestissime, tutte velate; per alcuni giorni, quasi sconosciute, servono i poveri e poi

tornano a casa. L’ho visto a Firenze con quanta cura sono tenuti gli ospedali. Così anche

le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti ed istruiti in modo

eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati

molto paternamente»” (Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1975, p. 272).

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religiosa europea non tiene conto del fatto che, giusto un secolo prima, un certo Giovanni Hus aveva proclamato principi non molto dissimili; chi tratta della cosiddetta “guerra contadina” tedesca non ricorda, o non sa, che settant’anni prima v’era stata una “guerra urbana” non priva di rilevanza in ordine al significato e ai destini dell’altra; chi ignori le modalità attraverso cui, in un breve volger d’anni, una nuova potenza, la Spagna, era giunta a occupare il centro della storia europea, avrà qualche difficoltà a comprenderne il successivo collasso.

Per chiunque, come me, si sia occupato a lungo di Cremona in età moderna, l’Ospedal grande rappresenta un dato, un protagonista ovvio e centrale della vita e dell’identità cittadina, al punto che risulta impossibile pensare la Fedelissima senza di esso. Ma non era stato sempre così: ora Adelaide Ricci ci porta alle origini di tutto ciò, grazie a un’indagine in merito a cui, sul piano tecnico, v’è ben poco da dire:

lo spoglio delle fonti, sia primarie che secondarie, appare assolutamente esaustivo; la contestualizzazione ineccepibile; la massa del materiale utilizzato imponente. D’ora in avanti chiunque potrà disporre, con questo lavoro, d’uno strumento imprescindibile per ricostruire la storia della città lungo il corso di oltre quattro secoli;

quella che qui s’indaga rappresenta infatti l’innovazione più profonda all’interno del sistema caritativo urbano prima del grande intervento riformatore teresiano-giuseppino nella seconda metà del secolo XVIII.

Adelaide Ricci ha preso in esame tutti gli aspetti che concorrono a identificare il nuovo istituto: le forze che ne promuovono la costituzione — i ceti dirigenti urbani e i poteri ducali, mentre poco presente appare la Chiesa, ancora troppo intenta a rimarginare le ferite del grande scisma d’Occidente e afflitta da un ritardo complessivo rispetto alla società laica destinato a protrarsi ancora molto a lungo, fino alla conclusione del Tridentino e, per quanto riguarda Milano, all’età borromaica; il novero e l’identità degli ospedalini (urbani e rurali, si badi bene) fusi nel nuovo istituto, quasi a voler riaffermare la preminenza cittadina rispetto al contado

“obbediente”; i beni risultanti dall’unione — e qui, con una certa sorpresa, si scopre un patrimonio terriero in apparenza modesto, almeno per estensione; nemmeno tredicimila pertiche, sparse in piccoli e medi appezzamenti a poca distanza dalla città e allocati soprattutto nel basso Cremonese, la parte meno fertile del territorio.

La pochezza delle nostre conoscenze attuali su quale fosse allora

l’assetto della proprietà fondiaria, va però aggiunto, c’impedisce di

affrettare conclusioni sulla effettiva portata economica di questo

patrimonio, posto che, ai tempi, i parametri necessari a determinare il

pregio della terra erano numerosi e molto complessi (oltre alla qualità

intrinseca del terreno, lo status cetuale d’esso rispetto al fisco, la

disponibilità o meno d’acque, la distanza dal centro urbano o

comunque dai mercati di riferimento, ecc.)

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Sul piano della ricostruzione évenementielle, dunque, credo che ben poco si possa aggiungere rispetto a quanto ci mette qui a disposizione l’Autrice. Accertata allora, per quanto le fonti lo consentono, la nascita dell’Ospedal grande com’essa realmente ebbe luogo, risulta possibile spinger lo sguardo più in là, oltre i limiti spaziali e temporali di questa stessa ricerca, nel tentativo di cogliere il significato di tale iniziativa, cosa cioè la nascita d’essa sia in grado di dirci rispetto alle correnti evolutive profonde della società, non solo cremonese, dell’epoca.

Benché ormai lontano da questi studi, che hanno occupato a lungo i miei anni giovanili, e quindi non più a giorno dei risultati più recenti delle ricerche nel campo del pauperismo e della carità, la nitidezza dei risultati qui offertici m’incoraggia ad azzardare, sia pure in via d’ipotesi, alcune considerazioni di fondo.

Come ho scritto poco sopra, chi guardi all’Ospedal grande con il senno del poi, vale a dire dall’angolo visuale dei secoli successivi, è inevitabilmente portato a considerarlo come una presenza “naturale”, ovvia, scontata, così come è portato ad appiattirne la fisionomia su quella che avrebbe acquisito solo nel corso del tempo, di ricovero, se non di assistenza e cura, dei malati poveri; se ci poniamo invece nell’ottica di coloro che lo istituirono, le cose non stanno affatto così

— ed è proprio in queste differenze che si nasconde, credo, il significato profondo della nascita di questo istituto.

Poniamo mente al documento chiave di questa vicenda, la delibera del Consiglio generale cittadino in data 2 febbraio 1451 che dà vita al nuovo luogo pio. Chiunque si sia occupato di storia del pauperismo agl’inizi dell’età moderna viene immediatamente colpito, alla prima lettura del testo, da due passi: innanzitutto quello ove si dispone — i corsivi sono miei — che “unum pulcrum et decens hospitale ...

construi et edificari debere in hac civitate ... in quo hospitari possint et debeant peregrinantes et infirmi quicumque et undecumque qui ad illud venerint”; grazie a ciò (si afferma poco più oltre) “placabitur omnipotens Deus et conservabitur hec civitas cum suo districtu illesa, monda et nittida ab omni labe pestifera et incursu ac pravitate guerrarum et temporum”.

Perché ritengo questi due brevi passi tanto importanti? Ho imparato in prima persona quando, trentacinque anni fa, mi sono cimentato nel riordino degli archivi lasciati dagli antichi luoghi pii cremonesi, che le carte di questi istituti, dediti in gran parte all’assistenza ai poveri, di tutto ci parlano tranne che dei poveri stessi; dare un volto concreto ai destinatari della carità, nei suoi diversi secoli d’esistenza, è il compito più difficile per chi ne faccia la storia.

L’Ospedal grande non fa eccezione: oggi non siamo in grado, e forse

non lo saremo mai, di capire chi siano poi stati i reali destinatari della

grande riforma cittadina: la delibera del Consiglio generale, però, ci fa

capire molto bene chi ne fossero i destinatari ideologici — in altre

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parole, quale immagine del “povero” avessero, o volessero utilizzare, i fondatori: qualsiasi pellegrino e malato, da qualunque parte provenga, la cui intercessione farà in modo che il Signore plachi le sua ira e storni ogni sciagura dalla città. Il povero dei decurioni cremonesi è dunque ancora, in tutto e per tutto, il povero di Cristo, la Sua immagine medesima, il mediatore privilegiato fra cielo e terra: siamo lontani le mille miglia dalla temperie che, appena settant’anni dopo, farà scrivere a Carlostadio, riformatore radicale e iconoclasta, un pamphlet in elogio della riforma della carità pubblica attuato dalla città dei Wittemberg che, fin dal titolo, si colloca agli antipodi di questa concezione tradizionale, accomunando in un’unica condanna gl’idoli di marmo e di tela delle chiese e gl’idoli in carne ed ossa che affollavano le strade — L’abolizione delle immagini e che fra i cristiani non dev’esserci nemmeno un mendicante.

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Un istituto nel solco della più venerabile tradizione, dunque?

Nemmeno per sogno. Perché i nostri gentiluomini non danno poi vita a un ricovero parrocchiale, legato alla fabbriceria di qualche chiesa, e men che meno familiare o di clan, ma a un ospedale grande, la cui giurisdizione copre non solo l’intera città, ma perfino il contado, e che in virtù della concentrazione di numerosi di quegli antichi ospedalini si realizza; colpisce dunque il crudo contrasto fra un’architettura istituzionale assolutamente d’avanguardia e una legittimazione ideologica altrettanto retrograda.

In realtà, paradossi del genere sono ben noti anche alla storia del pauperismo, come ebbe modo di mostrare, oltre trent’anni or sono, il compianto Piero Camporesi con una sua celebre opera.

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I poveri pullulano soprattutto in epoche di trasformazioni veloci e profonde delle strutture economiche e sociali e simili epoche pongono sempre gravi problemi ai contemporanei, che faticano a decodificarle, specie agl’inizi. In periodi del genere il precetto secondo cui non è buona cosa mettere il vino nuovo in otri vecchi viene regolarmente disatteso e si tenta invece di leggere le novità ricorrendo a schemi familiari.

Ecco che, allora, il testo del nostro documento, la data in cui si colloca, l’istituzione degli ospedali cittadini in numerose realtà urbane, ci suggeriscono l’ipotesi — da sottoporre a verifica, beninteso

— secondo cui i contemporanei, posti di fronte a un primo acuirsi dell’indigenza e del vagabondaggio a seguito delle dinamiche economiche proprie d’una società italiana ed europea avviata ormai a uscire dalla depressione rinascimentale e ad imboccare la strada d’un trend espansivo destinato a prolungarsi fino alla fine del secolo seguente, abbiano reagito ricorrendo a criteri di lettura tradizionali, applicati però a un’attrezzatura istituzionale nuova, posta l’evidente

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Andreas K ARLSTADT , Von Abtuhung del Bilder und das keyn Bedtler unther den Chri- sten seyn sollen, 1522, und die wittemberger Beutelordnung, hg. Von H. Lietzmann, Bonn, A. Marcus und e Weber’s Verlag, 1911.

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P. C AMPORESI (a c. di), Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973.

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impossibilità di controllare le nuove ondate di pauperismo mediante strumenti parcellizzati e deboli.

A questo si aggiunge però, sempre leggendo la delibera istitutiva, un ulteriore elemento di profonda riflessione ed è l’unanimità dei consensi grazie a cui decolla quello che si presenta inequivocabilmente come l’ospedale della città; siamo dunque in presenza d’un ceto dirigente che, attraverso questo istituto, si riconosce come ceto dirigente urbano tout court. Considero questo come il segnale più chiaro dell’apertura di un’epoca, quella della Cremona rinascimentale, caratterizzata dalla formazione d’un ceto dirigente che, nonostante le proprie divisioni interne, giungerà a identificarsi totalmente, appunto, con la città.

Detto in altri termini, mi pare che, con la nascita dell’Ospedal grande, si stia consumando il definitivo tramonto di quel mondo fazionario medievale che, ancora pochi anni prima, aveva dato un’ultima prova di sé. Certo, di guelfi, ghibellini e maltraversi sentiremo ancora parlare, nei decenni successivi, ma vale anche per queste etichette quanto abbiamo osservato sopra in merito agli otri vecchi in cui viene messo vino nuovo: queste “fazioni” appaiono ormai non più strutturate come corpi o come clan, gruppi umani socialmente e istituzionalmente dotati di vita propria, quanto piuttosto modalità atte a distribuire benefici entro i membri di quella che ormai viene sentita some un’unica aristocrazia. Se così non fosse, non potremmo spiegarci il ruolo modestissimo che queste cosiddette

“fazioni” giocano durante gli anni delle guerre d’Italia, un periodo che ovunque sembrò ridare a tali ormai vetuste strutture un effimero fiato in tutta Italia; né ci spiegheremmo come mai, già con l’ultimo Sforza, neppure il nome ne ricompaia nel corso d’eventi pur fortemente traumatici come i tumulti della macina nel 1531-32 — per non parlare degli anni successivi, nei quali mai più se ne fa menzione.

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La celebre pianta di Antonio Campo, del resto, e il non meno celebre censimento annonario del 1575 (una fra le poche fonti cremonesi che l’immagine della povertà reale ce la restituisce sul serio), ci mettono di fronte a una città dal tessuto sociale straordinariamente “moderno”, ove a un centro ormai caratterizzato dalle residenze dei ceti dominanti si contrappone una periferia definibile già nel senso contemporaneo del termine.

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Si veda, in proposito, G. C HITTOLINI (a c. di), Storia di Cremona. Il Quattrocento.

Cremona nel Ducato di Milano (1395-1535), specie per i saggi di A. G AMBERINI e L.

A RCANGELI , nonché il mio Un tumulto e una città. Cremona “al tempo di la macina”

(1531-32), ora in La società cremonese nella prima età spagnola, Milano, Unicopli 2002, pp. 315 sgg.

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F. R AMBALDINI , I poveri di Cremona. Carità domiciliare laica e tessuto sociale urbano

nel secondo Cinquecento, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di lettere e

filosofia dell’Università di Venezia-Ca’ Foscari (rel. G. Politi) nell’a. a. 1983-84.

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Milano-Venezia, ferragosto 2010

Giorgio Politi

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