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SPECIALE UCRAINA In trincea

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Academic year: 2022

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SPECIALE UCRAINA

In trincea

SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA N. 9 ANNO LXVIII 27 FEBBRAIO 2022 DOMENICA 3 EURO L’ESPRESSO + LA REPUBBLICA IN ITALIA ABBINAMENTO OBBLIGATORIO ALLA DOMENICA GLI ALTRI GIORNI SOLO L’ESPRESSO 4 EURO

La morsa di Putin. La strategia di Biden. Le divisioni dell’Occidente.

E cosa dobbiamo aspettarci ora.

Analisi e reportage dalla frontiera della guerra alle porte d’Europa

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27 febbraio 2022 3

Altan

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Sommario

Rubriche

Altan 3

Makkox 8

Turco 55

Serra 98

Opinioni

86

44

48

Editoriale

La parola 7

Taglio alto 22

Bookmarks 81

Ho visto cose 94

L’incompetente 94

Scritti al buio 95

Noi e voi 96 Il passato di un’illusione Marco Damilano 10

Prima Pagina

La sottile linea russa Francesca Mannocchi 14

La neutralità di Kiev unica via per la pace Gastone Breccia 18

Il mito della grande Russia Wlodek Goldkorn 24

Se chiudiamo il gas Eugenio Occorsio 26

È rinata la Nato colloquio con Leon Panetta di M. Cavalieri e D. Mulvoni 30

L’amico scomodo Simone Pieranni 34

La guerra è servita Federica Bianchi 36

Sarajevo, quando partì l’assedio Gigi Riva 40

Gioventù in fuga Linda Caglioni 44

Referendum, delusi ma non vinti Carmine Fotia 48 Noi giovani inascoltati e respinti Costanza Savaia 51 Non spezzare l’elastico del dialogo con l’altro Diletta Bellotti 53

Formati e disoccupati Francesco Castagna 56

Nell’era dell’epistemocrazia la politica scompare Donatella Di Cesare 60

Vostro disonore Simone Alliva 62

Idee

Pier Paolo Pasolini, il corpo del secolo colloquio con Dacia Maraini di Marco Damilano 66 Un poeta ucciso dal Novecento colloquio con Ascanio Celestini 72

Omaggio al corsaro Emanuele Coen 74

Catfishing, così è (se vi pare) Giulia Caminito 76

Storie

Eckardt, il contadino resistente in lotta contro la miniera di carbone Anna Dotti 82 L’etno-rock dei Radiodervish che affascinò Franco Battiato Alessandro De Pascale 86 Nonne della Carnia: “Con il lavoro a maglia aiutiamo chi ha fame” Floriana Bulfon 90

COPERTINA Foto di

Wolfgang Schwan / Anadolu Agency / Getty Images

66

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numero 9 - 27 febbraio 2022

27 febbraio 2022 5

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La parola

ELVIRA SEMINARA

come stai

La pronunciavi tutta unita, affermativa:

comestai. Così, senza punto di domanda, perché non voleva risposta: una formula convenzionale di saluto, finto-affettiva e easy, comoda per cene in gruppo, per convenevoli fuggenti. Ciao comestai, da pronunciare con volto amabile, stretta di mano svelta, in stile intimo-mondano.

Raffiche di comestai, indifferenti e elastiche, sino a due anni fa.

Poi è successo.

«Come stai?».

«Come vuoi che stia, appeso. Come le foglie in bilico sul ramo, e tu?».

Ce lo chiediamo tutto il giorno, è una domanda vera.

«Come stai?».

«Io bene, ma ho visto mio fratello, era asintomatico e ho fatto due tamponi».

Al telefono o in chat, per strada e su Zoom o in fila al supermercato, la domanda si ripete ovunque, gira e s’infiltra nelle pareti, rimbalza e si rinnova uguale. Come stai? È solo il timore del contagio (se tu stai male, rischio anch’io) o c’è qualcosa di nuovo, un sentimento in questo fremito, di comunanza di destino?

«Come stai? Vedo solo i tuoi occhi, come sei?».

«Vivo in allerta, ma resisto, vivo. Conosco gente barricata in casa. E tu?».

(È importante, adesso, che ce lo chieda qualcuno. Come sto. Rintanata. Tentazioni ascetiche, derive solipstiche? O spostamento delle priorità?)

«Come stai oggi, va un po’ meglio?».

«Ho freddo e male alle ossa, ma è normale».

Gli anziani tremano, pregano, hanno paura di dimenticare il mondo, specie le pillole e i compleanni dei nipoti. I neonati nascono col Covid, nel deserto in Arabia saudita i cammelli saltano sulla neve. I bimbi a scuola hanno il terrore di perdere la mascherina e dunque non corrono a ricreazione.

Come stai. Lo dici aspettando una risposta, ma ne arrivano tante, una dentro l’altra, perché c’è il fratello, la moglie il figlio e la collega, il padre, che l’hanno preso – non dici cosa, è sottinteso. Dimmi come stai. Se hai paura, o combatti, sogni la vita su Marte.

Chissà se quando sarà finita torneremo quelli di prima, a chiederlo per finta, di fretta, per patto condiviso. E se ogni tanto, per sbaglio o per innocenza, qualcuno risponderà.

© RIPRODUZIONERISERVATA

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Cronache da fuori

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27 febbraio 2022 9

Makkox

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Soldati ucraini sulla linea del fronte a Kryakivka, nella zona di Luhansk

Il passato

di un’illusione

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27 febbraio 2022 11

Foto: T. Hicks - The New York Times / Contrasto

Editoriale

L’AGGRESSIONE

DI PUTIN ALL’UCRAINA FA TRAMONTARE L’IDEA DI UN MONDO  PACIFICATO DAL MERCATO.

E CONDIZIONA L’EUROPA IN BILICO TRA SOVRANISMI E DEMOCRAZIA

DI MARCO DAMILANO

n Occidente, in Europa, sul fronte orientale dell’U- craina e delle repubbliche separatiste del Donbass Donetsk e Luhansk, le piccole nazioni del nostro tempo, si scontrano non solo la Russia di Vladimir Putin e la Nato sopravvissuta alla guerra fredda e alla «morte cerebrale» di cui parlò il presidente francese Emmanuel Macron nel 2019. Il conflitto arriva da prima, dal 1991, dalla dissoluzione dell’U- nione Sovietica, o forse dal 1989. O ancora da più lontano.

Ci sono le frontiere, i nazionalismi, lo spostamento di trup- pe, le leggi del sangue e del suolo che la caduta del muro di Berlino e la globalizzazione di inizio millennio sembravano aver cancellato. Il trionfo della democrazia sotto specie di economia di mercato: perenne, permanente, cristallizzata.

Un’illusione smentita nella polvere delle Twin Towers dal terrorismo islamico, con la sua ideologia totalitaria e nichi- lista. Ma cancellata già prima in Europa, a pochi chilometri dall’Italia.

Il 7 febbraio 1992 fu firmato il trattato dell’Unione econo- mica e monetaria, in una località olandese fino a quel mo- mento poco conosciuta. «Ogni tanto un oratore pronuncia quel nome strano, invocando l’unione dell’Europa senza ulteriori ragguagli. Se qualcuno consulta l’annuario più ag- giornato, raccoglie informazioni elementari: “Maastricht.

Città dei Paesi Bassi, 115.272 abitanti, sulla Mosa, capitale del Limburgo. Metallurgia, chimica, porcellane, vetro.

Chiesa di S. Servazio, secolo XI”. Gli oratori evitano di tur- bare o annoiare l’uditorio illustrando le regole stabilite a Maastricht, pochi mesi fa, per l’ingresso nella comunità monetaria europea...», scriveva in quei giorni Alberto Ron- chey su Repubblica (26 marzo 1992). Per l’Italia che «vive al di sopra dei propri mezzi e che dovrebbe ridurre il disavan- zo di bilancio annuale dal 10 al 3 per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico da oltre il 100 per cento al 60 in cinque anni» la firma di quel trattato segnò la fine della Prima Repubblica, ben più delle inchieste di Mani Pu- lite, iniziate negli stessi giorni: il venir meno della spesa pubblica e della svalutazione della lira come leve del con- senso. Ma assomigliava al futuro: la moneta unica nell’Eu- ropa senza più guerre.

Invece, il futuro assomigliava al passato. Negli stessi gior- ni del 1992 il Novecento europeo si chiuse laddove era co- minciato, nel luogo da cui era partita la tragedia del primo conflitto mondiale. Il primo marzo 1992 partì l’assedio di Sarajevo, lo racconta Gigi Riva, che visse da straordinario cronista quelle ore di disperazione e raccolse in conferenza stampa lo sconforto del presidente bosniaco Alija Izetbego- viü (pagina 40). Sarajevo, la città dove perfino gli orologi nella notte non battono le stesse ore, come scriveva Ivo An- driü: «Chi passa la notte sveglio a Sarajevo può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l’ora sulla cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Pas- sa più di un minuto - esattamente, ho contato, 75 secondi - e solo allora si annuncia con un suono più debole, ma acuto, l’orologio della chiesa ortodossa che batte anch’esso le

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12 27 febbraio 2022

Marco Damilano

“sue” due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la torre dell’orologio della Moschea del Bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo di mondi lontani e stranieri. Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore... il loro Dio è l’unico a sapere che ore sono in quel momento da loro...».

La città divisa, nella Bosnia, «il paese della paura e dell’o- dio», consegnata alla necessità della convivenza tra i popo- li e i loro credi politici e le loro fedi religiose, o alla loro di- struzione. Le radici della storia si risvegliavano e smentiva- no drammaticamente i parametri economici con cui le classi dirigenti dell’epoca immaginavano di averle recise.

Sarajevo cancellava Maastricht dalle cronache con i fanta- smi del passato: la guerra combattuta a colpi di mortaio, l’assedio medievale, la fame, i poveri corpi smembrati, la pulizia etnica.

Trent’anni dopo Putin ha giustificato l’intervento in ter- ritorio ucraino richiamando lo spirito imperiale della Rus- sia. Bisogna ripercorrere a ritroso il fiume dei millenni, co- me fa Wlodek Goldkorn (pagina 24), la Nazione Impero, i miti fondativi. Nella sfida all’Occidente ritornano le due dimensioni costitutive che la globalizzazione virtuale pre- sumeva di aver superato. Lo spazio, con le frontiere presi- diate, militarizzate, attaccate o difese, conquistate palmo a palmo, con gli stivali sul terreno. E il tempo, con le rivendi- cazioni secolari richiamate dalla propaganda putiniana per giustificare lo sferragliare dei mezzi corazzati verso i territori ucraini che per Putin fanno parte della Russia da sempre. «La nostra unità spirituale cominciò con il battesi- mo della Santa Rus’ 1025 anni fa. Da allora sono accadute molte cose nella vita dei nostri popoli, ma la nostra unità spirituale è così salda da non risentire di alcuna iniziativa da parte di alcuna autorità. Infatti, qualunque autorità gui- di il popolo, nessuna può essere più forte di quella del Si- gnore. Nulla può esserlo», disse nel luglio del 2013 cele- brando a Kiev la ricorrenza del battesimo di Vladimir I, principe e santo della Chiesa cattolica e ortodossa. Un mito conteso, tra i nazionalisti russi e i nazionalisti ucraini. «Nei mille anni trascorsi dal battesimo di Volodomir/Valdmarr I di Kiev è possibile vedere una storia, anziché un racconto di eternità. Ragionare storicamente non significa barattare un mito nazionale con un altro, dire che l’erede della Rus’ è l’Ucraina invece della Russia, che Volodomir/Valdmarr era ucraino e non russo. Fare una simile affermazione equivale soltanto a sostituire una politica russa dell’eternità con una politica ucraina dell’eternità. Ragionare storica- mente significa scorgere i limiti delle strutture, gli spazi di indeterminatezza, le possibilità di libertà», ha scritto lo storico Timothy Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli, 2018).

È questo il vero scontro, dunque. Tra il tempo nuovo, il XXI secolo deterritorializzato e privo di passato, e l’eternità di chi considera la sto- ria un campo senza movimento e senza cambiamento. In cui restano schiacciate «le

possibilità di libertà» che sono il campo largo della politi- ca. Negli ultimi decenni la politica è stata ridotta ad ancella dell’economia liberista, con l’intangibilità dei suoi parame- tri e dei dogmi, o è stata colonizzata dal nazionalismi di ri- torno di stampo ottocentesco, con relativi, pesanti arma- mentari ideologici. In entrambi i casi a uscire sconfitta è la possibilità del cambiamento, perché le due visioni del mondo, opposte in tutto, sono unite nell’immaginare l’es- sere umano come immutabile e nel considerare la storia come un eterno presente senza evoluzione. Per questo, in entrambi i casi, la democrazia è una pietra di inciampo.

Perché la democrazia è tensione, non appagamento, non è una meta raggiunta una volta per sempre, ma è un cammi- no continuo nella storia, con le sue cadute, le tentazioni di tornare indietro, i tradimenti, le svolte, le grandezze.

La visione putiniana della storia ha condizionato i sovra- nismi degli ultimi anni in Europa occidentale, tutti a caccia di un mito fondativo. All’ampolla del dio Po della Lega Nord di Umberto Bossi, tipico dell’avventura secessionista di stampo balcanico in cui potevamo precipitare negli anni Novanta delle guerre nella ex Jugoslavia alle porte di casa, Matteo Salvini ha sostituito il rosario brandito in piazza, nei comizi, e perfino nell’aula del Senato. Nelle sue mani, uno strumento identitario, divisivo, pagano, arcaico, mai un esponente democristiano si sarebbe sognato di sventolarlo in un incontro politico, a testimonia- re la diretta discendenza di Salvini e della sua Lega dalle sacre radici cristiane.

Sulla politica dell’eternità, e su ben più concrete trattative, il Capitano della Lega ha incontrato la cerchia di Putin fin dall’inizio della sua lea-

dership. Nel 2013, al congresso che lo elesse segretario, c’era l’oligarca russo Konstantin

La copertina dell’Espresso che nel febbraio 2019 rivelava la trattativa moscovita per finanziare la Lega. A destra: il presidente russo Vladimir Putin.

Nell’altra pagina: Matteo Salvini a Mosca nell’ottobre del 2018

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27 febbraio 2022 13

Foto: L. Nikolsky / Sputnik / AFP via Getty Images, M. Antonov / AFP via Getty Image

Editoriale

Malofeev, sostenitore del movimento Novorossija, la Nuova Russia, con cui forniva sostegno ai separatisti russi in Ucraina Orientale. Nell’ottobre 2018 Salvini volò a Mosca, per un convegno di Confindustria Russa, e si lanciò in affer- mazioni che oggi suonano temerarie: «Io qui a Mosca mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no. Più europea della Federazione russa ce ne sono poche in questo mon- do». Era vicepremier e ministro dell’Interno del governo di Giuseppe Conte, a fianco del collega Luigi Di Maio, che oggi da ministro degli Esteri ripete a ogni passo la sua fedeltà atlantica. Il giorno dopo quell’incontro, l’uomo di fiducia della Lega Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia-Russia, incontrò a un tavolo dell’hotel Metro- pol tre esponenti del mondo putiniano per trattare un ap- poggio economico in vista delle elezioni europee del 2019, con un curioso preambolo politico: «La nuova Italia co- struirà la nuova Europa a fianco della Russia» insieme a Marine Le Pen, Viktor Orban e Jaroslaw Kaczynski. I lettori dell’Espresso conoscono bene questa storia, perché fu il

nostro settimanale a rivelarla, esattamente tre anni fa (Espresso n.9, 24 febbraio 2019). E quelle rivelazioni furono determinanti per segnare la fine del governo Conte uno e l’autoesclusione della Lega dalla maggioranza che nel lu- glio 2019 nel Parlamento europeo elesse presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. La maggioranza Ursula, con il Pd e Forza Italia e il Movimento 5 Stelle ma senza la Lega, che spesso viene evocata come possibile maggioranza politica per la prossima legislatura.

Era il Salvini sovranista raccontato da Anna Bonalume, collaboratrice dell’Espresso, al pubblico francese (“Un mois avec un populiste”, Pauvert). Oggi il capo della Lega è molto più prudente. E la prudenza segna i passi del governo Dra- ghi in questa crisi internazionale. Ma il virus del sovranismo ha avvelenato le democrazie europee ben prima che arrivas- se la pandemia del covid a sconvolgere i progetti e le ambi- zioni. Ora parlano le armi ed è un’altra sconfitta della politi- ca. Le leadership europee sono considerate deboli e inerti dalla propaganda dei falchi atlantici, speculare a quella del presidente russo, demonizzato dall’Occidente adesso alme- no quanto blandito in passato, quando faceva imprigionare i dissidenti politici e tollerava gli omicidi degli oppositori e dei giornalisti. Ma quelle leadership europee non sono de- boli per caso, dopo decenni di spinte alla rottura apprezzate da Washington (la Brexit del 2016) o fomentate da Mosca.

Eppure, l’Europa debole e divisa resta il punto da cui ripar- tire, per tenere insieme la fermezza contro tutte le autocra- zie e la resistenza all’esibizione muscolare delle armi, la ri- cerca del dialogo e della diplomazia, nonostante tutto. Co- me ha sempre ricordato David Sassoli, l’entità che chiamia- mo Europa è lo spazio della politica e della democrazia.

Sarà per questo, infatti, che ancora non c’è. Q

© RIPRODUZIONERISERVATA

CHI OGGI DEMONIZZA

IL LEADER DEL CREMLINO FINO A IERI LO BLANDIVA NONOSTANTE GLI OMICIDI DI OPPOSITORI

E GIORNALISTI

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Speciale Ucraina / Reportage dal fronte

LA SOTTILE

LINEA RUSSA

“NON È UNA GUERRA CIVILE PERCHÉ DALL’ALTRA

PARTE NON CI SONO UCRAINI COME NOI, MA UN ALTRO POPOLO”. LE VOCI DA KRAMATORSK, AL CONFINE

DEI TERRITORI CONTESI. TRA IDEOLOGIA E PAURA

DI FRANCESCA MANNOCCHI  DAL DONBASS 

14 27 febbraio 2022

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Prima Pagina

Un soldato ucraino di stanza a Pisky, vicino al territorio controllato dai separatisti

27 febbraio 2022 15

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Nelle pagine precedenti foto di T. Hicks - The New York Times / Getty Images

iù pericolosa dell’oblio, nel- le guerre, è la riscrittura della storia. Perché riscrive- re la storia significa model- lare la memoria degli even- ti. Non solo il passato, dun- que, ma il futuro.

Con 190 mila soldati rus- si intorno ai confini dell’Ucraina, il presi- dente Vladimir Putin ha riconosciuto l’in- dipendenza delle due regioni separatiste nell’est del Paese, autoproclamate nel 2014 Repubblica popolare di Donetsk e Repub- blica popolare di Luhansk, territori che si consideravano e si considerano Novoros- siya (Nuova Russia), il territorio dell’Ucrai- na del sud conquistato dall’impero russo nel XVIII secolo. È in questa idea che affon- dano le radici del tono del lungo discorso di Putin, è lì che ne germogliano gli effetti.

Alle 9 del 21 febbraio Putin, in un conti- nuo oscillare tra tragedia e farsa, ha firma- to il decreto, gli accordi di «amicizia, coo- perazione e mutuo soccorso» con i leader degli aspiranti Stati. Una firma teatrale, messa in scena della messa in scena, pre- ceduta da una riunione del suo Consiglio di sicurezza nazionale, naturalmente favo- revole all’operazione. Le due istantanee per il mondo che osservava sono il corpo del capo di fronte all’anello di fedeli, asser- tivi e complici, e la firma di fronte ai leader dei due Stati vassalli, così legittimati, al- meno dal Cremlino.

«L’Ucraina non ha mai avuto uno Stato, è una colonia guidata da un regime fan- toccio».

Putin ha parlato al mondo per parlare ai suoi, ha parlato la lingua nostalgica ammi- rata di Novorossiya, la lingua del grande impero, perché è intorno a questo che rico- nosce il suo potere e il suo consenso.

L’Ucraina ascolta prudente, e si compat- ta. L’Ucraina che nelle parole di Putin non è uno Stato ma una colonia, una regione

«storicamente parte della Russia».

È questo che fa la guerra, distorce gli eventi con la presunzione di riscrivere la storia.

Putin è al centro del tavolo bianco e sa di essere al centro del mondo. Riconoscendo le due Repubbliche separatiste, evocando la Grande Russia, vuole recuperare l’imma- gine statica di un passato incontaminato, vuole legittimare le sue decisioni investen-

dole di una verità morale che si impone, perché deve, sui capricci delle circostanze, e oggi, per Putin, il capriccio delle circo- stanze è il percorso democratico ucraino.

C’è nelle sue parole quella che gli antro- pologi definiscono «nostalgia strutturale», la rappresentazione collettiva di un ordine che ha i tratti della divinità, l’immagine di un tempo in cui la struttura sociale, le rela- zioni tra gli uomini non erano ancora state corrotte, non stavano ancora scontando gli effetti del decadimento del progresso.

Oggi quella nostalgia strutturale si gioca sulla pelle di una delle regioni più povere, socialmente fragili, dell’Ucraina. La zona del Donbass, teatro di otto anni di guerra.

La tensione militare sull’Ucraina risa-

P

IL REPORTAGE FOTOGRAFICO

Nel servizio "How to survive a war” di Jean- Marc Caimi e Valentina Piccinni, civili si addestrano nel distretto di Desnyans'kyi a Kiev durante i corsi di Difesa territoriale.

Molti hanno acquistato equipaggiamento militare o si addestrano con sagome di legno al posto delle armi. A destra, due donne a un corso di guerra 

PUTIN HA PARLATO AL MONDO PER PARLARE AI SUOI, HA USATO LA LINGUA DEL GRANDE IMPERO, PERCHÉ INTORNO A QUESTO

AFFERMA POTERE E CONSENSO Speciale Ucraina / Reportage dal fronte

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Speciale Ucraina / Reportage dal fronte

le al 2014, alla rivoluzione Maidan, quando l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich fuggì dal Paese dopo mesi di proteste di piazza. La risposta russa fu oc- cupare la Crimea, a distanza di pochi mesi scoppiarono nuove proteste a est, gruppi di milizie separatiste cominciarono a occupa- re i palazzi governativi a Donetsk e Luhan- sk, fino a dichiarare l’indipendenza nel maggio 2014 come Repubblica popolare di Donetsk e Repubblica popolare di Luhansk.

Si consideravano Novorossiya, appunto: è l’eco dell’impero. L’esercito ucraino reagì riconquistando territori detenuti dai sepa- ratisti. Ma con l’arrivo del sostegno militare russo alle repubbliche l’assalto venne fer- mato da un frettoloso accordo di pace tra Ucraina, Russia e separatisti, Minsk I, che fallì presto. A gennaio 2015, quando ripre- sero gli scontri, Merkel e Holland, allora cancelliera tedesca e presidente francese, invocarono un cessate il fuoco mediando gli accordi di Minsk II. Da allora parte dei territori del Donbass sono sotto il controllo dei separatisti, da una settimana ricono- sciuti come legittimi da Mosca. Le prime vittime di questo riconoscimento sono sta- ti proprio gli accordi di Minsk. L’ha detto Zelensky poche notti fa, parlando alla na- zione, allertando i riservisti in vista della guerra. Gli accordi di Minsk sono un ricor- do del passato, sono morti. Erano partiti male, d’altronde. Poco chiari, sbilanciati, opachi su tempi e modi. soprattutto mai davvero rispettati, nonostante la presenza di osservatori stranieri per monitorare il cessate il fuoco, l’Osce ha registrato 200 violazioni tra il 2016 e il 2020 e oltre mille dal 2021, secondo Novaya Gazeta.

Più di 14mila persone sono state uccise lì dal 2014.

Questo prima dell’escalation degli ultimi mesi. Ma il problema vero degli accordi di Minsk è la diversa interpretazione che Rus- sia e Ucraina danno al trattato. La divergen- za riguardava soprattutto la cronologia de- gli impegni, piuttosto vaga nei documenti.

Per il Cremlino vanno attuate le disposizio- ni politiche prima di quelle militari. Equi- vale a dire elezioni e quindi possibilità di avere parlamentari filorussi nel parlamen- to di Kiev. Kiev voleva che le forze occupan- ti si ritirassero dall’Est per riprendere il controllo dei confini e solo allora sbloccare i processi elettorali e garantire la possibilità

Un soldato della 25°

Brigata aviotrasportata dell'esercito

ucraino nella città di Avdiyivka, nella regione di Donetsk, nel Donbass. A destra, i carri armati dell'esercito russo tornano dalle esercitazioni al fronte ucraino 

di svolgere elezioni nel rispetto della legge.

Ma quella ucraina, ovviamente.

Negli anni successivi alla firma di Min- sk II la diplomazia non ha fatto passi deci- sivi. E così, dopo anni di guerra prolunga- ta, minacce quotidiane, e richieste di aiuto di Zelensky rimaste inascoltate, l’Ucraina nel giro di poche settimane si è trovata ac- cerchiata e vive oggi rischiando un’inva- sione su larga scala da parte dell’esercito russo. Stretto a sua volta in un vicolo cie- co, quello di chi, Putin, ha alzato troppo il tiro, usando le due Repubbliche separati- ste come pretesto. La Russia non vuole il Donbass per sé, perché il Donbass non è la Crimea. Mosca ha destinato miliardi di dollari alle infrastrutture della Crimea, dopo l’annessione, integrandola fisica- mente ed economicamente col resto della Russia, ha migliorato le condizioni di vita in modo significativo. E non esiste og- gi  uno scenario per cui la Crimea possa tornare sotto l’Ucraina. Diversa è la crisi del Donbass, che Mosca non vuole suppor- tare economicamente. Motivo per cui

LA NEUTRALITÀ DI KIEV UNICA VIA PER LA PACE

DI GASTONE BRECCIA

La guerra è conseguenza di un fallimento: la si combatte quando non si è riusciti in altro modo a costringere un avversario a piegarsi alle proprie richieste. I russi, in Ucraina, stanno combattendo da quasi otto anni al fianco dei separatisti delle regioni (oblast’) di Luhansk e Donetsk, nel bacino dell’omonimo affluente di destra del Don. Il motivo è chiaro: non hanno ottenuto dal governo di Kiev, indipendente dal 1991, alcuna garanzia di neutralità, e intendono quindi mantenerlo sotto pressione per sventare la minaccia del suo ingresso nella Nato; ovvero, in una prospettiva che attraversa i millenni, per impedire che la terra riconosciuta come culla della civiltà russa - perché fu il principe rus’ Vladimir di Kiev, nel 988, a convertirsi al Cristianesimo - possa diventare parte di un’alleanza

Foto: G. Girbes - Getty Images, Russian Defence Ministry - TASS via Getty Images

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Prima Pagina

concepita per contrastare Mosca e i suoi «satelliti».

Alla fine del secolo scorso si delineò la concreta prospettiva di una stretta collaborazione tra la Nato e la Federazione Russa, caldeggiata dal presidente francese Mitterrand e dal cancelliere tedesco Kohl. Tramontata questa possibilità - che avrebbe rivoluzionato a danno degli Stati Uniti l’assetto dello heartland, il «cuore continentale» del nostro pianeta tra Asia ed Europa - Mosca è tornata a sentirsi minacciata dall’Occidente. Non senza ragione: difficile non considerare aggressivo il ruolo militare di un’alleanza che tendeva ad ampliarsi fino alle sue frontiere, venendo meno alle assicurazioni offerte all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica.

Nel 1999 vennero accolte nella Nato Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria; nel 2004 Slovacchia, Romania, Bulgaria e le tre Repubbliche baltiche. La Russia non ebbe la capacità di opporsi: persino Estonia e Lettonia, confinanti, erano Paesi a lei storicamente ostili, la cui scelta atlantista aveva una logica difficile da rovesciare. Da quel momento, però, la strategia di Putin si è basata sul presupposto fondamentale di non permettere alla Nato alcun ulteriore passo avanti: il primo banco di prova fu la breve e vittoriosa guerra contro la Georgia per difendere la regione separatista filorussa dell’Ossezia del Sud (agosto 2008); ma era chiaro che la partita cruciale si sarebbe giocata in Ucraina.

La crisi scoppiò all’inizio del 2014, quando il governo del presidente Viktor Yanukovich, che si era riavvicinato a Mosca, venne rovesciato dalla protesta popolare di Maidan («la Piazza» per antonomasia, ovvero piazza Indipendenza a Kiev). Tra i primi atti del nuovo presidente Petro Poroshenko vi fu quello di firmare un accordo economico con l’Unione Europea e di ribadire l’intenzione di entrare nella Nato; per tutta risposta i russi diedero inizio alla guerra che dura tuttora.

Una guerra strana. Vinta senza spargimento di sangue in Crimea grazie all’appoggio della popolazione e al fulmineo impiego di contingenti di truppe privi di insegne - i cosiddetti «omini verdi» - che presero il controllo della penisola nel giro di pochi giorni, alla fine di febbraio del 2014; persa, in una prima fase, nelle altre due regioni ucraine a maggioranza russofona di Luhansk (26.684 km2, tremila più della Lombardia, con oltre due milioni di abitanti) e Donetsk (26.517 km2, circa quattro milioni di abitanti). Qui nel Donbass, infatti, alla rivolta separatista organizzata da Mosca seguì la decisa controffensiva delle forze di sicurezza di Kiev, affiancate da formazioni paramilitari (tra le quali il famigerato Pravyi Sektor,

«settore destro», filonazista), che tra maggio e luglio del 2014 progredì con successo. La svolta si ebbe quando gli ucraini tentarono di riprendere il controllo della

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frontiera con la Russia, in modo da isolare le milizie ribelli dalla possibilità di ricevere aiuti: prima l’artiglieria federale intervenne da oltre confine; pochi giorni dopo, alla fine di agosto, entrarono in campo contingenti regolari dell’esercito di Mosca, che il primo settembre riconquistarono l’aeroporto di Lugansk e appoggiarono l’avanzata dei separatisti fino alla periferia di Mariupol, rovesciando le sorti del conflitto. L’intervento della comunità internazionale impose un primo cessate il fuoco il 5 settembre, subito violato; dopo altri duri scontri, culminati nella battaglia di Debaltsevo (dove vennero circondati e annientati vari reparti ucraini), si giunse a una nuova tregua e alla stabilizzazione del fronte.

Da allora la guerra non è mai cessata del tutto: per sette anni è stato mantenuto un fragile equilibrio, spezzato soltanto il 22 febbraio scorso con l’ingresso (ora ufficiale) delle truppe russe nel territorio delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, che controllano poco più di un terzo dei due oblast’ ucraini.

La decisione di Putin di riconoscere i ribelli del Donbass è una scelta che ha un prezzo molto alto: la Russia, violando i patti conclusi a Minsk nel 2014 e 2015 - che avrebbero dovuto portare a una soluzione graduale e pacifica del conflitto - si è esposta alla condanna politica e alle ritorsioni economiche della comunità internazionale. Una mossa

imprudente, che ha stupito molti: ma Putin, in realtà, continua a mantenere l’iniziativa, e a fare la guerra a suo modo, senza farla davvero. Mandando le truppe a presidiare le Repubbliche «amiche», infatti, può presentarsi ai propri concittadini e al mondo come uno strenuo difensore degli interessi della Russia, ma non rischia un intervento armato occidentale. Tiene militarmente in apprensione la Nato - e mette in difficoltà l’Europa con il prezzo dell’energia - sapendo di dover affrontare soltanto sanzioni economiche il cui effetto potrebbe rivelarsi marginale. In sostanza, dopo aver ribadito la propria posizione, si prepara a rispondere alle mosse degli avversari da una posizione di forza:

l’obiettivo resta quello della neutralizzazione dell’Ucraina, per la quale potrebbe usare come moneta di scambio, un domani, persino lo status di Donetsk e Luhansk.

Questo, ovviamente, nell’eventualità che le truppe russe non facciano un passo oltre la «linea di contatto» tra i ribelli del Donbass e le forze ucraine. È la scelta più logica;

anzi è la sola scelta che abbia un senso. Come ho già scritto, un attacco su vasta scala verso il cuore dell’Ucraina sarebbe da parte di Putin un azzardo non giustificabile da alcun vantaggio immediato o futuro: anche nella migliore delle ipotesi - un rapido successo sul campo - i vincitori russi resterebbero esposti a una logorante guerra di guerriglia, che i paesi della Nato potrebbero alimentare

Speciale Ucraina / Reportage dal fronte

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Prima Pagina

ha interesse a usare il conflitto sulle due Repubbliche come leva diplomatica ma non vuole farsene carico. La Russia non vuole il Donbass per sé ma è qui, oggi, che si gioca il destino delle sue ambizioni nostalgiche. Novorossiya non riguarda so- lo la realpolitik, richiama la storia e l’orgo- glio e la guerra ibrida che Putin sta espor- tando. La Russia era già intervenuta con modalità simili in Georgia per sostenere le Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia e in Moldova per stabilire la Repubblica Moldava di Pridnestrovia, no-

senza troppa difficoltà e senza limiti di tempo.

Ma purtroppo il pericolo che la situazione sfugga di mano esiste. Ci sono gruppi di estremisti armati, nei due schieramenti, che non fanno mistero di essere favorevoli a un inasprimento del conflitto. I russi dovranno vigilare sul comportamento dei miliziani del Donbass, perché la presenza delle truppe federali (e delle loro armi pesanti) potrebbe incoraggiarli a intraprendere puntate offensive per ampliare il territorio sotto il proprio controllo; ma preoccupano soprattutto gli ultranazionalisti ucraini di estrema destra, che schierano alcune migliaia di combattenti non sempre disposti a seguire le direttive del governo di Kiev. Sarà fondamentale, nelle prossime settimane, scoraggiare qualsiasi iniziativa di questi miliziani; contemporaneamente l’Europa dovrebbe parlare con una sola voce e proporre una politica che sappia coniugare i propri interessi economici e strategici con la difesa di un Paese amico, anche se non formalmente membro dell’Alleanza Atlantica. Mostrare fermezza - ovvero chiarire a Putin che un’avanzata oltre la «linea di contatto» nel Donbass verrebbe contrastata fornendo sostegno militare all’Ucraina - accompagnata però dalla comprensione delle ragioni strategiche di Mosca, che non possono essere ignorate. In questa fase la neutralità di Kiev, garantita e riconosciuta da entrambe le parti, è la sola strada aperta verso la pace. Q

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ta come Transnistria, regioni europee ta- gliate fuori da tre diversi Stati sovrani da quando Putin ha assunto per la prima vol- ta una carica nazionale. In altre ex Repub- bliche sovietiche come gli Stati baltici, la Russia porta avanti un’implacabile guerra informatica nel tentativo di indebolire e screditare i governi. Per i sostenitori della Novorossiya, l’indipendenza di questi Sta- ti non esiste, ed è improprio definirli Stati autonomi, perché non esistono culture o tradizioni distinte. Non c’è l’Ucraina, per dirla da qui. C’è solo la Russia. La guerra dunque, nella sua forma tradizionale e in quella ibrida, definisce intenzioni e raffor- za le ideologie e le motivazioni.

Olixey vive a Kramatorsk, una delle città contese. Oggi sotto il controllo dell’Ucraina fa parte però della provincia di Donesk.

Sull’interpretazione del confine, quello at- tuale delle Repubbliche autoproclamate o quello originario, si gioca oggi la possibilità che la guerra sia combattuta oppure evitata.

Olixey vuole parlare del suo gruppo musicale quando lo incontriamo nella piazza princi- pale della città, perché è giovane, perché pri- ma di parlare di guerra vuole parlare di come alla guerra si resista. Le sue armi di resisten- za sono il giornale per cui lavora e il suo grup- po musicale. Tre volte a settimana, nono- stante la guerra si ritrova con il suo gruppo e suona. Lo scantinato, dice sorridendo ama- ro, a loro serve a questo. A fare arte, i nascon- digli sono altri. Il quartiere in cui vive a Kra- matorsk non ha rifugi sotterranei antiaerei, sono stati ottimisti quando l’hanno pensato.

Eppure essere un giovane in una città come questa significa non poter fare a meno di pensare alla guerra ogni giorno. Impossibile evitarne la tensione, impossibile schivarne gli effetti. E lui gli effetti li vede in casa. Nel- le memorie di sua figlia che ha dodici anni, gli ultimi otto vissuti con la guerra intorno. Nel 2014 era una bambina. I morti di quella guer- ra li ha visti in strada e non li dimentica.

Quando vede la televisione in questi giorni, chiede al padre: «Cosa farai? Combatterai anche tu?».  Olexey non ha un’arma, non si addestra. Ma è pronto a mettersi a disposi- zione del paese se Zelensky chiamerà a rac- colta gli uomini per difendere i confini. Non vuole mostrarsi più coraggioso di quello che è. Ha paura, prima di tutto. E non si vergogna, dicendolo. Il primo sentimento, il primo istinto la sera cercando di dormire, non è

GLI ACCORDI DI MINSK SONO

UN RICORDO DEL PASSATO, SONO MORTI. ERANO PARTITI MALE.

POCO CHIARI, SBILANCIATI, E MAI RISPETTATI DAVVERO

In altre foto dal servizio "How to survive a war”

di Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, militari ucraini in prima linea vicino alla città di Schastia, presso Lugansk, nell'Ucraina orientale

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Prima Pagina Speciale Ucraina / Reportage dal fronte

Foto di: A. Stepanov - AFP via Getty Images

l’eroismo di chi si vede al fronte, ma la paura di un padre che non sa come protegge- re sua figlia.

Lo scorso anno la storica Margaret Mac- Millan ha pubblicato un libro dal titolo:

“War, come la guerra ha plasmato gli uomi- ni”. Scrive: «Capendo la guerra, capiamo la storia dell’essere umano». MacMillan non

guarda le guerre sotto l’ottica morale ma descrive il conflitto armato come intrinse- co all’umanità, perché, dice, «solo se par- tiamo da questo presupposto capiremo che, nella comprensione della guerra, ca- piamo qualcosa degli esseri umani, perché la guerra non è solo il comportamento ata- vico che pensiamo che sia»; è, purtroppo, altamente sofisticata, «la più organizzata di tutte le attività umane». Ben più  e ben oltre il controllo dei territori, equivale al controllo delle idee e di conseguenza, delle identità. «Combattiamo perché possia- mo», scrive MacMillan, perché ne abbiamo i mezzi certo, ma leggendo più in profondi- tà queste parole, significa anche: combat- tiamo finché la guerra sostiene il consenso, modella le parole, la verità che esprimono e anche il loro inganno. Ecco perché il modo in cui raccontiamo la guerra e la pace in- fluenza intrinsecamente il modo in cui concepiamo le altre popolazioni e noi stes- si; ci incoraggia a esprimere giudizi morali sulla natura umana e legittima le valutazio- ni su come gli altri hanno agito e se avevano o meno il diritto di farlo. Quando chiedo a Olixey se questa sia una guerra civile, non ha un’esitazione. «Non lo è», mi dice. «Gli altri, i nemici, i separatisti, non parlano la nostra lingua. Non sono ucraini come noi, se lo fossero sarebbe una guerra civile», mi dice. «Dall’altra parte ci sono i russi, questa

è un’aggressione». Q

©RIPRODUZIONERISERVATA

Mariya, stilista, ha trascorso il suo compleanno in un poligono di tiro a Kiev.

A sinistra, Leonid, titolare di una pizzeria, va regolarmente a esercitarsi con le armi

TAGLIO ALTO MAURO BIANI

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Speciale Ucraina / Le radici

IL MITO DELLA

Autocrazia e ortodossia. L’Impero e Kiev, madre di tutte le città.

L’ideologia di Putin trova origine in un altro spazio. E in un altro tempo

DI WLODEK GOLDKORN

ice Andrej Belyj nel prologo di “Pietro- burgo”, uno dei più importanti ro- manzi russi, scritto fra il 1911 e il 1914: «L’Impero russo comprende: in primo luogo la Grande, la Piccola, la Bianca e la Rossa Russia (…) Il nostro Impero Russo consiste in una molti- tudine di città: capitali provinciali, distrettuali, autonome. E inoltre: nella metropoli e nella madre delle città russe. La metropoli è Mosca  e la madre delle città russe è Kiev». Queste parole, che nelle intenzioni dell’autore non sono apologetiche ma anzi critiche nei con- fronti dello stato di cose esistenti in Russia alla vigilia della prima guerra mondiale, e qui riportate nella traduzione di Angelo Maria  Ripellino, potrebbero servire oggi  da com- mento al discorso di Vladimir Putin la sera del 21 febbraio, tenuto nella Sala di Santa Caterina, al Cremlino di Mosca.

Dove l’Ucraina veniva rappresentata come una specie di in- venzione bolscevica, una ferita nel corpo e nella memoria di quello che possiamo definire lo spazio russo.

Una delle caratteristiche del lungo regno di Putin era ed è il tentativo di ripristinare lo status imperiale del Paese.

Niente di strano. La Russia nasce come Nazione Impero - nella sua memoria è viva l’idea di Mosca come Terza Roma.

Questa apparente dicotomia fra Nazione e Impero appunto, è stata a partire dall’Ottocento, epoca del romanticismo e delle rivendicazioni etniche, foriera di tensioni, rivolte (nel Caucaso), insurrezioni (i polacchi ne hanno inscenate ben due) e via elencando. E infatti, l’accusa mossa da Putin a Le- nin ha una sua logica. Fu il capo dei bolscevichi a propugna- re l’idea dell’autodeterminazione dei popoli: un po’ perché i rivoluzionari all’epoca discutevano animatamente della questione nazionale, un po’ perché quell’idea serviva a di- struggere l’Impero. Logico quindi che dopo la presa di pote- re, i seguaci di Lenin avessero pensato di trasformare quel che era rimasto della Russia dopo la prima guerra mondia- le  in uno Stato in apparenza federativo. Ma se Putin fin dall’inizio del suo potere voleva ricostruire l’Impero, l’ico-

nografia di quell’Impero era una specie di patchwork sin- cretico fra i simboli dell’epoca staliniana e bolscevica e quelli dell’età imperiale di fine Ottocento. Le tombe degli zar a San Pietroburgo non sono lontane dall’incrociatore

“Aurora”, che secondo la narrazione comunista avrebbe sparato il colpo a salve che diede il la all’assalto del Palazzo d’Inverno. Con il discorso del 21 febbraio, Putin ha sciolto le ambiguità. Il suo Impero deve riprendere una sola delle due tradizioni, quella zarista.

Si tratta quindi dello spazio, dei luoghi e del tempo. Il luo- go per eccellenza, la Gerusalemme dei russi, è Kiev. È qui che nasce la Rus’, è qui che ha origine il mito. E del resto, è ucraino Nikolaj Gogol e senza Kiev non è immaginabile l’o- pera letteraria di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrit- tori del Novecento, nato proprio nella capitale ucraina, an- che se il suo capolavoro “Il Maestro e Margherita” è ambien- tato in un’allucinata Mosca alle prese con l’Anticristo. Fra le opere di Gogol c’è “Taras Bulba”, storia di un atamano co-

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27 febbraio 2022 25 Abbiamo detto tempo. Ecco, l’impressione è quella di un uomo di potere, Putin, che ha l’urgenza di imporre il tempo della sua vita al tempo del Paese, per passare alla storia come colui che ricreò la Grande Russia, come se non si fi- dasse delle capacità dei suoi futuri successori. Infatti, il tempo della Russia non è necessariamente uguale al tempo dell’Occidente.

Nel 1881  lo zar Alessandro II, che cercò di riformare il Paese in un pe- riodo caratterizzato dalla fede nel progresso, nella scienza, nell’inge- gneria, venne assassinato da terro- risti dell’organizzazione Narodnaja Volja (Volontà del popolo). Seguì la reazione. Alla lettera. Il successore, Alessandro III propugnava il ritor- no a una Russia dove il potere pog- giava su due fondamenti: autocra- zia e ortodossia. Cominciava l’epo- ca dei pogrom - secondo la dottri- na, gli ebrei (ma anche i liberali) non erano compatibili con l’Impe- ro - soprattutto nei territori dell’U- craina, perché è lì che risiedeva la maggior parte della popolazione ebraica del Paese. Ma poi, buttato fuori dalla porta, l’Occidente rien- trava dalla finestra. Un po’ perché i russi, quelli che se lo potevano permettere, viaggiavano. Ma soprattutto perché scrivevano meravigliosi romanzi. È im- maginabile l’Occidente, anzi l’esistenzialismo, pensiero per eccellenza occidentale perché mette al centro l’individuo e le sue scelte e il corpo a corpo con il Male, senza Fedor Do- stoevskij (per altro autore che non amava l’Occidente)? Il regno dello zar Nicola, successore di Alessandro III, vede lo sviluppo accelerato di una borghesia che guarda all’Occi- dente e un fermento nell’ambito della cultura, delle arti, del- la filosofia. La Russia, alla vigilia della Rivoluzione di feb- braio 1917 che depose lo zar, è un Paese bifronte. Da un lato lo zar con la sua corte un po’ arcaica, dall’altro la volontà di fissare le lancette dell’orologio sul fuso orario dell’Europa.

Del tempo e spazio di Putin, abbiamo già detto. Ecco, capita nella storia, come oggi con gli ucraini, che un popolo che non si considerava nazione, lo diventi. Ed entri in collisione

con il tempo di qualcun altro.   Q

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Foto: Fine Art Images, Heritage Images / GettyImages, Imagno - GettyIma-

GRANDE RUSSIA

sacco nelle terre ucraine che si ribella contro i polacchi, al- lora padroni del Paese. Ma soffermiamoci sulla questione dello spazio e della memoria. Ecco, non esiste la letteratura russa senza i sapori, i paesaggi, i profumi del Caucaso. Quel- la regione è teatro dell’immaginario di Michail Lermontov:

ne citeremo una sola opera, in prosa, “Un eroe del nostro tempo”, storia di un ufficiale russo che si innamora di una principessa cecena. Potremmo continuare con Aleksandr Puskin e Lev Tolstoj, fino al fascino che la Georgia esercita- va su Osip Mandelstam e l’elenco sarebbe lunghissimo. Per non parlare del fatto che Stalin era georgiano. E la Georgia è un altro Paese con cui la Russia entrò in conflitto, nel 2008. La Georgia fu annessa alla Russia ai primi dell’Otto- cento, la vicina Armenia nel corso dello stesso secolo e le varie terre del Caucaso fra Cecenia e Daghestan, mai fino in fondo pacificate, sono sempre state fonti di miti romantici di eroismo e lealtà, e di viltà e tradimento. Miti costitutivi della cultura russa.

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Feodor Dostoyevsky.

Sopra, Leo Nikolaiewitch Tolstoy. A sinistra, Alessandro II proclama l'emancipazione dei servi

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Speciale Ucraina / L’economia

LE SANZIONI ALLA RUSSIA RISCHIANO DI RENDERE

PERMANENTE L’EMERGENZA ENERGETICA. MA ANCHE TUTTO L’EXPORT ITALIANO VIENE

FORTEMENTE DANNEGGIATO

DI EUGENIO OCCORSIO

i dispiace per loro ma per i russi è finita l’epoca dello shopping a Milano e delle feste a St.Tropez». Con questo fine lessico diplo- matico parlò su Twitter l’alto rappresentante europeo per la politica estera Josep Borrell, forse con qualche sug- gestione alcolica dopo lo stress della dram- matica riunione in cui la commissione Ue ha deliberato martedì 22 febbraio le prime san- zioni contro Mosca. I gioiellieri di via Monte- napoleone e i ristoratori della Costa Azzurra non hanno avuto il tempo di mettere mano alla tastiera per replicare perché il tweet è stato ritirato per motivi di opportunità. Ma soprattutto perché ben altre saranno le con-

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SE CHIUDIAMO

IL GAS

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Foto: Peter Kovalev \ TASS via Getty Images

Prima Pagina

seguenze delle sanzioni, se non si troverà una soluzione, per l’economia europea e ita- liana in particolare. Altro che battute di spi- rito. In gioco ci sono le forniture di gas russe da cui dipende il 37,8% del fabbisogno ener- getico italiano (il secondo fornitore è l’Alge- ria con il 28,4%). Più esposta di noi è la Ger- mania (oltre il 50% viene dalla Russia) ma Berlino ha a disposizione un nutrito parco di centrali nucleari e a carbone che sta spe- gnendo ma può riattivare se scoppia l’emer- genza. Proprio per questo il cancelliere Olaf Scholz ha potuto giocare la carta più rischio- sa, il rinvio sine die dell’apertura del gasdotto Nord Stream 2, destinato a raddoppiare la capacità di 50 miliardi di metri cubi di gas l’anno del Nord Stream 1 che corre parallelo

(per avere un ordine di grandezza, l’Italia ha consumato l’anno scorso 71,34 miliardi di metri cubi). Intanto, i prezzi vanno alle stelle e con essi le bollette: «Siamo inchiodati da settimane sul livello di 80 euro a megawatto- ra, meno dei 180 toccati il 21 dicembre ma quattro volte il prezzo di un anno e mezzo fa», conferma Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Se non si dovesse uscire dallo stallo o la situazione in Ucraina doves- se ulteriormente peggiorare, i prezzi saliran- no ancora e il ritmo delle aziende italiane costrette a chiudere i battenti si impennerà, per non parlare delle conseguenze per le fa- miglie». Bisogna affrettare la diversificazio- ne delle fonti, ma non è semplice: il gasdotto Libia-Sicilia ha ovvi problemi di gestione, le forniture di gas liquefatto via mare incontra- no un ostacolo nella carenza di rigassificato- ri («ne abbiamo solo tre in servizio, a La Spe- zia, Livorno e Rovigo, quando negli anni ’70 ne avevamo 11», rimpiange Tabarelli), i col- loqui con l’Azerbajian per potenziare il Tap (che sbocca in Puglia) sono a “caro amico”.

La speranza paradossalmente risiede nel pragmatismo del Cremlino e anche della controparte occidentale: il gas è l’ultima spiaggia delle sanzioni e una valvola vitale per l’Europa nonché una miniera d’oro per Putin, che si spera non vorrà rischiare di per- derla. Ma il gioco delle sanzioni e contro-san- zioni è appena cominciato. Per ora gli uffici occidentali prendono nota dei primi nomi:

Rossiya, Is Bank, General Bank, Prom- svyazbank, Black Sea Bank. E poi Genna- dj Timchenko, Boris Rotenberg, Igor Roten- berg. Le prime cinque sono le banche russe più attive nella regione del Donbass, i tre uo- mini sono invece alcuni degli oligarchi che si arricchiscono mercanteggiando grano e ri- sorse minerarie dell’area. Per tutti è scattato nella settimana dell’invasione il bando occi- dentale. Non possono più effettuare alcuna operazione fuori del territorio russo (e ucrai- no). Si sta valutando - il principio resta quello della proporzionalità rispetto alle mosse di Mosca - se far scattare l’embargo sulle grandi banche nazionali: Sberbank (un gigante fi- nanziario fondato nel 1841 con 300mila di- pendenti e 440 miliardi di dollari di asset), e poi Vneshtorgbank, Gazprombank, Otkritie (l’unica privata). Colpirle significherebbe però esporsi alle sicure ritorsioni di Mosca.

«È successo così nel luglio 2014, quando do- po l’invasione della Crimea e la ridda di

Leningrado. La stazione di partenza del gasdotto Nord Stream 2. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha deciso di sospendere la sua apertura 

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Prima Pagina Speciale Ucraina / L’economia

Foto: Yegor Aleyev \ TASS via Getty Images

reazioni e controreazioni fu bersagliato proprio il nostro settore, l’agroalimentare», nota Luigi Scordamaglia, a capo di Filiera Ita- lia che riunisce i nomi più splendenti del Ma- de in Italy gastronomico. «Da allora il merca- to russo è rimasto irrimediabilmente com- promesso, anche perché le sanzioni relative alle Crimea restano in vigore, e le aziende alimentari hanno perso almeno un miliardo e mezzo in questi anni. Ora l’export agroali- mentare non supera i 500 milioni e rischiamo di perdere ancora posizioni vista la concor- renza dell’italian sounding, i prodotti locali che evocano il nostro Paese e che vanno a ruba a testimonianza della nostra popolarità e quindi dell’opportunità che perdiamo». Il settore alimentare è bersagliato anche per un altro motivo: Russia e Ucraina insieme rap- presentano un terzo della produzione mon- diale di grano e cereali, e la tensione nell’area con i conseguenti ribassi nelle produzioni fa schizzare i prezzi dei future: alla Borsa merci di Chicago i rialzi sono anche del 20% in un giorno. E l’Italia è uno dei più forti importato- ri al mondo di queste materie prime.

Ma il malessere va ben al di là dell’agroali- mentare: anche l’export nel suo complesso non si è più ripreso dopo la Crimea e ora sta perdendo ulteriori posizioni. Le esportazio- ni italiane in Russia erano pari a 10,77 mi- liardi di euro nel 2013, sono scese via via fino a 6,69 miliardi nel 2016. Dopodiché avevano iniziato una lenta risalita ma si sono fermate a 7,70 miliardi nel 2021, il 34% in meno del livello originario. E molto meno delle impor- tazioni (quasi tutte costituite dal gas e da al- tre materie prime) che hanno raggiunto i 12,6 miliardi di euro. Va invece bene l’export verso l’Ucraina: anche qui alimentari e be- vande contano molto (il 18%) su un totale che ha superato i 2 miliardi l’anno scorso con un rialzo del 16,4% sul 2020, l’anno della grande crisi Covid quando il ribasso era sta-

to però contenuto nel -3%.

In questo gioco al massacro economico aleggia tra le tante una minaccia pronuncia- ta dalla presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, sempre nella notte dell’invasione di Donetsk e Lugansk: blocca- re l’accesso dello Stato e del governo russi ai mercati finanziari europei. «Sarebbe una ca- tastrofe per uno Stato fortemente indebitato, ma la Russia come ogni Paese petrolifero è ridondante di cash e il suo debito pubblico non supera il 18% del Pil», obietta Brunello Rosa, docente alla London School of Econo- mics. Altrettanto perigliosa, oltre che proba- bilmente controproducente per l’occidente, sarebbe l’altra “arma-fine-di-mondo”, l’espul- sione di Mosca dallo Swift, il sistema banca- rio dei pagamenti globali al quale sono asso- ciati 11mila istituti di 200 Paesi. «Senza un

“socio” del peso della Russia il sistema mon- diale sarebbe irreparabilmente indebolito al punto di perdere efficacia», dice Rosa. Anco- ra una volta, come sempre quando viene me- no un caposaldo globale, le peggiori conse- guenze cadrebbero sui Paesi più deboli come l’Italia. L’America può fare benissimo a meno di Swift: prima di giocarsi questa carta «oc- corre pensarci due e più volte», ha ammonito dalle colonne del Financial Times l’olandese Klaas Knot, presidente del Financial Stability Board. La partita è delicatissima perché c’è il rischio, oltre alla guerra, «di innescare una recessione mondiale proprio mentre si cerca di dimenticare quella da Covid», ricorda l’e- conomista Lorenzo Bini Smaghi. «È questa preoccupazione a guidare le posizioni dell’I- talia, che sicuramente nella partita è iscritta al partito delle colombe insieme con Francia e Germania, mentre i Paesi baltici, gli ameri- cani, i polacchi, volevano impugnare subito il bazooka», spiega l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, oggi presidente dell’Istituto Affa- ri Internazionali. «Poi fortunatamente è sta- to trovato un compromesso». A questo pro- posito, Riccardo Perissich, una vita nelle isti- tuzioni internazionali (tra l’altro capo di Ga- binetto di tre commissari a Bruxelles e direttore generale per l’Industria), commen- ta: «Se non altro portiamo a casa un risultato positivo: l’Europa ha ritrovato in questa tra- gica vicenda la sua unità. Serviva la torva aria di Putin  per  farci riscoprire un continente coeso e unito nel rifiutare la violenza e le vio-

lazioni del diritto». Q

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Gennadj Timchenko, uno degli oligarchi russi che si arricchiscono con il grano e le risorse minerarie del Donbass

LE ESPORTAZIONI ITALIANE IN RUSSIA SONO CALATE DEL 34%

DAL 2013 AL 2021. A SOFFRIRE È SOPRATTUTTO IL SETTORE AGROALIMENTARE

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Speciale Ucraina / La strategia di Washington

“PUTIN HA PRODOTTO L’ESATTO CONTRARIO DI QUANTO VOLEVA. RAFFORZARE L’ALLEANZA”, DICE L’EX CAPO DELLA

CIA. ”NON SI ESERCITA LA DIPLOMAZIA SENZA LA FORZA”

«Unità. Gli Usa e i nostri alleati della Nato sono uniti contro le azioni di Putin in Ucraina. Penso che il modo più efficace per affrontare le autocrazie, che si tratti della Russia, della Cina, della Corea del Nord o dell’Iran, sia la capacità di svilup- pare una forte alleanza di Paesi che pos- sano rendere chiaro l’intento di lavorare insieme per garantire la protezione di va- lori che riteniamo importanti per la de- mocrazia. Il presidente Biden sta facendo la cosa giusta mostrando la forza degli Stati Uniti e dei nostri alleati. Questo è ciò che dobbiamo tenere a mente: se fal- liamo, Putin sarà una minaccia non solo per l’Europa, ma per le democrazie di tut- to il mondo. Il messaggio non è solo per Putin, è lo stesso che deve essere inviato agli altri autocrati!».

Il modo in cui Biden ha condotto il braccio di ferro con Putin è riuscito a ricompattare una Nato in difficoltà ere- ditata dalla precedente amministra- zione Trump?

«Questa crisi è stata un campanello d’al- larme, ci ha fatto capire quanto fosse no scontro tra due sistemi

politici: da una parte l’au- tocrazia illiberale di Vla- dimir Putin, dall’altra la democrazia che Stati Uni- ti e alleati sono chiamati a difendere. È così che Leon Panetta - ex capo della Cia e successivamente ministro della Difesa durante l’amministrazione di Barack Obama - legge la crisi tra Russia e Ucraina.

«Si tratta di un momento cruciale della storia che determinerà il Ventunesimo se- colo, proprio come la prima guerra mon- diale definì per molti versi il corso del Ven- tesimo», ci dice dal suo ufficio del “Panetta Institute for Public Policy” di Monterey, in California. A lungo raggio, «la questione fondamentale è capire se riusciremo a proteggere o meno una democrazia sovra- na e se essa sarà in grado di reggere contro l’offensiva della Russia».

Panetta, qual è il messaggio che le mos- se del presidente americano Joe Biden stanno comunicando in questo mo- mento?

È RINATA

LA NATO

COLLOQUIO CON LEON PANETTA DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI

U

DIFESA

Leon Panetta è stato Direttore della Cia dal 2009 al 2011 e Segretario alla Difesa dal 2011 al 2013 durante la presidenza di Barack Obama. Dal 1994 al 1997 era stato Capo di gabinetto alla Casa Bianca con Bill Clinton

Foto: Prensa Internacional - Zumapr4ss / GettyImages, C. Somodevilla - GettyImages

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Prima Pagina

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden

27 febbraio 2022 31

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